L'Africa agli africani!
Certo ma anche l'Europa agli europei.L'Africa agli africani - Nev
Roma (NEV), 25 maggio 2020
https://www.nev.it/nev/2020/05/25/lafri ... -africani/ “Il nuovo ordine economico internazionale non può che affiancarsi a tutti gli altri diritti dei popoli, – diritto all’indipendenza, all’autodeterminazione nelle forme e strutture di governo – come il diritto allo sviluppo. Come tutti gli altri diritti dei popoli può essere conquistato solo nella lotta e attraverso la lotta dei popoli. Non sarà mai il risultato di un atto di generosità di qualche grande potenza”. Così parlava un grande leader africano, il burkinabè Thomas Sankara, a New York, il 4 ottobre 1984, alla 39ª sessione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.
Oggi, a distanza di anni, nella Giornata mondiale dell’Africa, le sue parole, e quel monito “L’Africa agli africani”, sembrano ancora attuali.
La ricorrenza odierna nasce per ricordare l’anniversario della fondazione dell’Organizzazione dell’unità africana, quando i leader di 30 dei 32 Stati indipendenti del continente firmarono lo statuto ad Addis Abeba, in Etiopia.
“La lungimirante decisione che, 57 anni orsono, portò alla nascita dell’Organizzazione per l’Unità Africana – ha commentato il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella – ha trovato da sempre nell’Italia un partner convinto e affidabile. Il nostro Paese sostiene con determinazione il progetto di una sempre maggiore integrazione del continente africano – sia a livello regionale sia sub regionale – e guarda con la massima attenzione alle relazioni con l’Africa nel suo insieme e con ciascuno dei Paesi che ne fanno parte: solo così, infatti, il Mediterraneo potrà essere fedele alla sua vocazione, storica e geografica, di ponte fra i due continenti”.
Tantissime le iniziative per celebrare la giornata di oggi, sia istituzionali che promosse da Ong e terzo settore impegnato nella cooperazione. A proposito di progetti di cooperazione, l’Otto per mille delle chiese valdesi e metodiste ha da sempre un grande numero di attività finanziate nel continente africano. Nel 2019, in particolare – dunque ultimo dato a disposizione – l’OPM ha finanziato ben 236 progetti in Africa, per una somma pari a quasi 7milioni.
L'Africa, agli africaniMaddalena Negri
Martedì, 11 Luglio 2017
https://www.sullastradadiemmaus.it/sezi ... africani-230Giorni | «L’Africa va lasciata agli africaniGianpaolo Romanato, L’Africa nera fra cristianesimo e islam. L’esperienza di Daniele Comboni, Corbaccio, Milano 2003, 454 pp., 24,50
http://www.30giorni.it/articoli_id_2277_l1.htm«Quanti scrivono le vite dei santi di solito scrivono una grande bugia. Bisognerebbe che scrivessero tutto di loro: le ripugnanze, le difficoltà, le lotte sostenute per mantenersi virtuosi; anche le cadute, i difetti». Il saggio che Gianpaolo Romanato, docente di Storia della Chiesa all’Università di Padova, dedica a Daniele Comboni (G. Romanato, L’Africa nera fra cristianesimo e islam. L’esperienza di Daniele Comboni, 1831-1881, Corbaccio, Milano 2003), sembra aver rispettato alla lettera questa osservazione di san Leopoldo Mandic. E proprio perché la sua è opera storica a tutti gli effetti e non agiografica, le sue pagine riescono a evitare gli stereotipi di questo genere di letteratura e restituiscono al lettore una figura viva e complessa, immersa com’era in tutte le contraddizioni del difficile momento storico in cui agì, nelle immense difficoltà che dovette affrontare in una regione del mondo che, a metà Ottocento, era ancora, a tutti gli effetti, terra incognita.
La canonizzazione di Daniele Comboni, il 5 ottobre scorso, ha permesso di riscoprire questo pioniere della missione in Africa. Una figura che, nell’introduzione al volume, lei definisce ancora in gran parte “sconosciuta”. Perché?
GIANPAOLO ROMANATO: Comboni fino a oggi è stato conosciuto e studiato praticamente solo all’interno della sua congregazione. Questi studi, peraltro pregevoli, hanno posto l’accento più che altro sugli aspetti spirituali e ascetici del personaggio. Il mio lavoro ha voluto collocare Comboni nella storia, ricostruendo il più fedelmente possibile l’ambiente in cui visse e raccogliendo testimonianze attraverso tutte le fonti dell’epoca: missionari, esploratori, militari, avventurieri che ebbero modo di conoscerlo o di fare esperienza del mondo in cui dispiegò la sua azione missionaria.
La Santa Sede, nei riguardi della missione in Africa, dimostrò all’inizio un grande interesse, ma poi si tirò indietro, raffreddando ben presto gli entusiasmi iniziali. Perché avvenne questo?
ROMANATO: Nel 1846 la decisione di fondare il vicariato dell’Africa centrale e avviare la missione fu presa in tempi molto brevi. Giungevano allora notizie di una lenta ma costante espansione dell’islam verso l’Africa nera e la Santa Sede ebbe la sensazione che occorreva far presto. Fu una scelta indubbiamente avventata. La giurisdizione del vicariato comprendeva, almeno teoricamente, tutta l’Africa interna a sud del Sahara, fino all’equatore, e anche oltre, ma di quella immensa regione non si sapeva assolutamente nulla. Le grandi esplorazioni dell’Africa saranno tutte successive, e la colonizzazione europea avverrà cinquant’anni dopo, alla fine del secolo. Perciò, ignorandone tutto, e ignorando soprattutto i rischi e le difficoltà che avrebbe comportato l’Africa, i primi cinque missionari inviati a Khartoum, la sede prescelta, furono mandati sostanzialmente allo sbaraglio. Vi giunsero inoltre nel 1848, mentre in Europa scoppiavano i moti rivoluzionari, con la crisi conseguente. Le vicende del 1848 contribuirono così ad allentare, per non dire a porre fine, all’interesse di Roma nei riguardi della missione. A tal punto che, poco tempo dopo, arriva ai missionari il suggerimento di tornare indietro e abbandonare tutto.
Come reagirono i missionari?
ROMANATO: Lo sloveno Ignaz Knoblecher, responsabile della missione, si rifiutò di porvi fine, anche perché era stato già pagato un prezzo di vite elevato, con la morte del primo superiore, Maximilian Ryllo. Non potendo più aspettarsi sostegno da Roma, andò a cercarlo altrove. E a Vienna, presso il suo governo – la Slovenia era allora parte dell’Impero austroungarico – riuscì a trovare tutti gli appoggi politico-diplomatici e i finanziamenti necessari a mandare avanti la missione, che ebbe sempre costi altissimi, ponendola sotto il patronato degli Asburgo.
Quale fu l’esito dell’operato di Knoblecher?
ROMANATO: Knoblecher giunse nella missione a Khartoum nel 1848 e morì nel 1858. Il risultato fu quasi nullo dal punto di vista dell’evangelizzazione. Le conversioni furono pochissime e non ressero alle prove successive. Però, a pensarci bene, era un risultato inevitabile. Knoblecher e i suoi compagni erano arrivati in una delle zone più primitive e arretrate del continente africano, sotto il profilo della civilizzazione materiale, cioè nell’attuale sud Sudan, l’alto Nilo. Una regione dell’Africa che non aveva mai avuto rapporti né con il cristianesimo né con l’Europa. Le tribù che avvicinò non avevano mai conosciuto l’uomo bianco prima di incontrare i missionari. Per cui si pose a Knoblecher il problema prioritario dell’esplorazione del territorio, quello di farsi accettare dai locali, che non capivano perché questa gente fosse venuta da tanto lontano a sconvolgere il loro sistema di vita. Knoblecher cercò di comunicare nelle lingue locali, ma le lingue locali bisognava impararle dalla gente. E così fu necessaria una drammatica e lunghissima fase di adattamento e di accettazione reciproca, assolutamente non sufficiente ad avviare un’opera di evangelizzazione. Il merito di Knoblecher, una delle maggiori figure del risorgimento sloveno ottocentesco, fu quello di aprire una strada, nonostante le morti, le difficoltà, il clima spaventoso: la strada che poi seguirà Comboni. E Comboni gli ha sempre riconosciuto questo grande merito.
Come nasce la vocazione di Comboni per l’Africa?
ROMANATO: Negli anni della formazione di Comboni, che nacque nel 1831, cominciavano ad arrivare in Europa le prime notizie da esploratori e viaggiatori. Notizie nebulose, favolistiche, spesso irreali, che però creavano attorno all’Africa un clima di attesa e di speranza. La passione di Comboni per l’Africa nasce così, e anche la sua decisione, presa ben prima dell’ordinazione sacerdotale, di dedicarsi alla cristianizzazione dell’Africa. Poi, il contatto concreto con il vicariato di Khartoum avvenne tramite don Angelo Vinco, uno dei primi missionari partiti con Ryllo e Knoblecher. Vinco incontrò Comboni a Verona, dove era tornato per recuperare la salute e per cercare appoggi. Questo incontro rappresentò per Comboni la conferma della sua vocazione “africana”, alla quale poi non venne mai meno.
Lei scrive che «vale la pena di conoscere Comboni, perché fu un uomo di frontiera, un personaggio che sfugge a tutti i nostri criteri di normalità e di buon senso». Che cosa intende?
ROMANATO: Intendo dire che a quel tempo ci voleva molto poco buon senso per andare in Africa. In Africa si moriva. Le condizioni climatiche e sanitarie in cui si svolgeva la missione erano drammatiche. Nel libro ho documentato che dei circa cento missionari, tra sacerdoti e laici, che affluirono nella missione nell’arco di tempo in cui rimase aperta prima dell’arrivo di Comboni, e cioè tra il 1848 e il 1863, morirono i tre quarti. Morirono di malaria, di febbri tropicali o di malattie intestinali. Un’ecatombe senza paragoni. E ai missionari possiamo aggiungere gli esploratori e i mercanti, morti quasi tutti sul
campo. Ecco perché la passione di Comboni per l’Africa lo colloca fuori dai nostri criteri di normalità e di buon senso. Fu veramente una vocazione che ha qualcosa di misterioso per lo sguardo dello storico: una scelta spiritualmente straordinaria, quasi inspiegabile razionalmente.
In che cosa si differenziò la missione di Comboni rispetto a quella dei suoi predecessori?
ROMANATO: Comboni andò una prima volta in Sudan nel 1857, poté conoscere Knoblecher e fare tesoro della sua drammatica esperienza. E capì chiaramente che occorreva cambiare metodo, anche dal punto di vista dell’approccio materiale con l’Africa. Attraverso un lento ripensamento, arrivò nel 1864 a stendere il suo Piano per la rigenerazione dell’Africa, che sarà alla base del metodo missionario in Africa anche di altre congregazioni negli anni successivi. Comboni comprese anzitutto che non era possibile a nessuno passare di colpo dall’Europa all’Africa, sia dal punto di vista sanitario che culturale. Occorreva soggiornare a lungo in un luogo “intermedio”, che egli individuò nell’Egitto, dove ci si abituava fisicamente al clima africano, e si cominciava ad apprendere, anche culturalmente, l’inimmaginabile diversità dell’Africa. L’errore, inevitabile, dei primi missionari era stato anche quello d’aver sottovalutato questi aspetti, cosa che portò qualcuno a dare segni di squilibrio. In secondo luogo, Comboni capovolse l’illusione nella quale egli stesso si era adagiato all’inizio: e cioè l’idea che gli africani dovessero essere portati in Europa, rieducati all’europea e poi trasferiti, per diventare essi stessi fattori di civilizzazione per i loro connazionali. Al contrario, essi andavano, senza forzature, con molta gradualità e cautela, portati a livelli superiori di civilizzazione, ma senza strapparli al loro ambiente, creando in Africa scuole, centri artigianali, università (Comboni ipotizza addirittura università in Africa!). Questo, secondo Comboni – ed è la terza novità del suo piano –, fa sì che la missione debba essere concepita come un’impresa estremamente lunga. Comboni aveva previsto benissimo che nell’arco della sua vita non ci sarebbero stati risultati tangibili. I risultati sarebbero arrivati dopo.
Don Angelo Vinco, uno dei primi missionari inviati a Khartoum nel 1848 insieme a Maximilian Ryllo e Knoblecher
Nel suo libro afferma che la Chiesa «non smise mai di diffidare di Comboni». In che senso?
ROMANATO: Comboni aveva una grande capacità di relazionarsi con chiunque e in primis con gli ambienti della Curia romana; ma, di suo, non aveva né protezioni né garanzie. Non aveva certo la forza che ebbe dietro le spalle, ad esempio, il futuro cardinal Lavigerie, una figura quasi coeva e che ha operato nel campo delle missioni in Africa. In più, era un uomo dall’entusiasmo prorompente e contagioso e probabilmente, per una lunga fase della sua vita, dette la sensazione di essere uno che poteva facilmente “bluffare”, o puntare troppo in alto, e rispetto al quale era meglio prendere le distanze. Inoltre, nonostante fosse un sacerdote veneto di formazione intransigente, antiliberale, illimitatamente devoto alla Chiesa e alla Santa Sede, fu anche un uomo straordinariamente libero, nelle scelte, nelle decisioni, nei giudizi, nelle valutazioni che diede durante la vita. E l’Africa, quest’ambiente così selvaggio e sconosciuto, infinitamente lontano da Roma, acuì e rafforzò questa sua libertà interiore. Credo che anche questo abbia contribuito, almeno all’inizio, a rendere un po’ diffidente la Santa Sede nei suoi confronti.
Come si esprimeva questa libertà?
ROMANATO: I giudizi che dà, per esempio, nelle lettere, sulla politica ecclesiastica, espressioni anche molto dure sui prelati della Curia romana che «hanno visto solo i saloni dorati di Roma, Parigi e Lisbona e non sanno che cosa vuol dire soffrire e morire per la causa di Cristo». Parole e giudizi che Comboni non risparmia alla Santa Sede o ai prefetti della Congregazione di Propaganda Fide, quando ritiene che stiano commettendo errori, per esempio nell’eccessiva fiducia che, a suo giudizio, Roma stava dando al cardinal Lavigerie e alla sua congregazione, a danno della giurisdizione di Comboni sul vicariato dell’Africa centrale.
Chi era Lavigerie?
ROMANATO: Lavigerie, arcivescovo di Algeri e poi cardinale, fu il fondatore dei Padri Bianchi, una delle più importanti congregazioni missionarie dedite all’evangelizzazione dell’Africa. Era un personaggio di straordinaria influenza politica. Godeva di un largo credito presso il governo francese, e a un certo punto ottenne da Roma lo scorporo dell’attuale Uganda dal vicariato di Comboni, per farlo attribuire alla sua giurisdizione. Comboni lo interpretò come un grave errore, e non ebbe nessuno scrupolo a scrivere al prefetto di Propaganda Fide che stava prendendo, come dice egli stesso, «un solenne granchio».
Una stampa raffigurante gli Istituti fondati al Cairo da monsignor Daniele Comboni nel 1868 per la preparazione dei missionari destinati all’Africa centrale
Una stampa raffigurante gli Istituti fondati al Cairo da monsignor Daniele Comboni nel 1868 per la preparazione dei missionari destinati all’Africa centrale
Propaganda Fide avrà avuto le sue ragioni…
ROMANATO: Il problema è che, dopo il 1870, quando inizia l’avventura coloniale delle potenze europee, Roma tentò di adeguarsi alla mappa delle sfere d’influenza che si andavano allora delineando. Poiché la Francia in quegli anni aveva di mira la zona dei Grandi Laghi, la Santa Sede preferì affidarne la cura pastorale a un vescovo francese piuttosto che a un italiano, qual era Comboni, con protezione austriaca. Comboni era nettamente contrario, non solo perché meditava di portare la sua azione fino alle sorgenti del Nilo, all’attuale Uganda, ma anche e soprattutto perché sapeva che, da Algeri, Lavigerie non poteva avere idea delle spaventose difficoltà che l’Africa nera presentava. Infatti la prima spedizione dei padri bianchi verso l’Africa interna, partita nonostante i moniti di Comboni, con destinazione Tombouctou, finì per essere massacrata dai beduini del deserto. Alla fine dell’Ottocento, molti anni dopo la morte di Comboni, Roma tornò sulla propria decisione e riattribuì ai comboniani la competenza sull’attuale Uganda, dove tuttora operano.
Che rapporto c’è tra l’esperienza di Comboni e il colonialismo nascente?
ROMANATO: Comboni non fece in tempo a vedere l’impresa coloniale europea. Fu invece in qualche modo “debitore” verso il colonialismo egiziano. La prima potenza che realizzò un’impresa coloniale in Africa fu infatti l’Egitto, che conquistò il Sudan agli inizi dell’Ottocento con il viceré Mohammed Ali, ansioso di espandere il suo giovane regno ormai praticamente autonomo dall’Impero ottomano, di cui era ancora formalmente parte. Senza la conquista egiziana e senza il consenso egiziano, né Comboni né Knoblecher sarebbero entrati in Sudan. Naturalmente i missionari, secondo gli accordi presi con le autorità, non potevano fare proseliti tra i musulmani, ma solo tra i neri non ancora islamizzati. Gli egiziani, da parte loro, ritenevano che un’opera di civilizzazione dei neri sarebbe risultata utile ai loro propositi di dominio. Ma quando la classe dirigente egiziana, sempre più subordinata a modelli europei, chiamerà una schiera di inglesi, americani, italiani e austriaci a coprire tutti i ruoli di controllo delle province sudanesi, quasi ingovernabili, e Charles Gordon diventerà governatore generale del Sudan, allora venne piantato il seme della Mahadia, la grande rivolta islamica che nel 1885 portò alla cacciata di egiziani ed europei dal Sudan, ma che travolse anche la missione cattolica. I mahdisti, infatti, percepirono l’invasiva presenza di questi europei al soldo degli egiziani come una minaccia troppo grave, e non fecero distinzione tra militari, avventurieri, governatori e missionari.
Qual era il giudizio di Comboni sul mondo islamico?
ROMANATO: Per vent’anni, sia in Egitto che Sudan, Comboni visse in un contesto islamico. Ebbe a che fare con un’islam decadente, secolarizzato, in crisi, ma percepì ugualmente tutta la forza, la saldezza, l’impenetrabilità di questo mondo. E il giudizio di Comboni sull’islam, maturato attraverso una lunga esperienza a contatto con il governo e con il mondo islamico ufficiale, ma anche con l’islam “di base” in Sudan, è drasticamente negativo, senza sfumature. Comboni, questo va detto chiaramente, è molto lontano dall’ecumenismo di oggi. Comunque il cuore dell’esperienza di Comboni non è nel rapporto con i musulmani. È nell’incontro sconvolgente di un uomo, europeo, civilizzato, con la diversità assoluta e totale dell’Africa primitiva. Questa è la chiave di volta della straordinaria esperienza umana di Comboni.
Il giardino della missione di Khartoum; sull’estrema sinistra, le tombe di Comboni e Ryllo, prima della profanazione avvenuta al tempo dell’insurrezione mahdista
Il giardino della missione di Khartoum; sull’estrema sinistra, le tombe di Comboni e Ryllo, prima della profanazione avvenuta al tempo dell’insurrezione mahdista
10 Ottobre. Daniele Comboni: l'Africa agli africanihttps://www.culturacattolica.it/cultura ... i-africanisabato 10 ottobre 2020
Oggi nel 1881 moriva Daniele Comboni.
Mentre l’Italia cercava ancora una sua identità politica e culturale e gli Stati europei si dedicavano all’esplorazione dei territori africani, dando inizio a quello che sarà poi conosciuto come Imperialismo, un contadino veneto in forza della sua vocazione cristiana, dà vita alla più originale azione a favore dell’Africa, quella dell’ordine che da lui prende il nome.
Ecco le parole usate per ricordarlo.
Daniele Comboni: un figlio di poveri giardinieri-contadini che diventò il primo Vescovo cattolico dell'Africa Centrale e uno dei più grandi missionari nella storia della Chiesa.
È proprio vero: quando il Signore decide di intervenire e trova una persona generosa e disponibile, si vedono cose nuove e grandi.
Figlio «unico» - genitori santi
Daniele Comboni nasce a Limone sul Garda (Brescia - Italia) il 15 marzo 1831, in una famiglia di contadini al servizio di un ricco signore della zona. Papà Luigi e mamma Domenica sono legatissimi a Daniele, il quarto di otto figli, morti quasi tutti in tenera età. Essi formano una famiglia unita, ricca di fede e valori umani, ma povera di mezzi economici. Ed è appunto la povertà della famiglia Comboni che spinge Daniele a lasciare il paese per andare a frequentare la scuola a Verona, presso l'Istituto fondato dal Sacerdote don Nicola Mazza.
In questi anni passati a Verona, Daniele scopre la sua vocazione al sacerdozio, completa gli studi di filosofia e teologia e soprattutto si apre alla missione dell'Africa Centrale, attratto dalle testimonianze dei primi missionari mazziani reduci dal continente africano. Nel 1854 Daniele Comboni viene ordinato sacerdote e tre anni dopo parte per l'Africa assieme ad altri 5 missionari mazziani, con la benedizione di mamma Domenica che arriva a dire: «Va', Daniele, e che il Signore ti benedica».
Nel cuore dell'Africa - con l'Africa nel cuore
Dopo 4 mesi di viaggio, la spedizione missionaria di cui il Comboni fa parte arriva a Khartoum, la capitale del Sudan. L'impatto con la realtà africana è enorme. Daniele si rende subito conto delle difficoltà che la sua nuova missione comporta. Fatiche, clima insopportabile, malattie, morte di numerosi e giovani compagni missionari, povertà e abbandono della gente, lo spingono sempre più ad andare avanti e a non desistere da ciò che ha iniziato con tanto entusiasmo. Dalla missione di Santa Croce scrive ai suoi genitori: «Dovremo faticare, sudare, morire, ma il pensiero che si suda e si muore per amore di Gesù Cristo e della salute delle anime più abbandonate del mondo è troppo dolce per farci desistere dalla grande impresa».
Assistendo alla morte in Africa di un suo giovane compagno missionario, Comboni invece di scoraggiarsi si sente interiormente confermato nella decisione di continuare la sua missione: «O Nigrizia o morte», o l'Africa o la morte.
Ed è sempre l'Africa e la sua gente ciò che spinge il Comboni, una volta ritornato in Italia, a mettere a punto una nuova strategia missionaria. Nel 1864, raccolto in preghiera sulla tomba di San Pietro a Roma, Daniele ha una folgorante illuminazione che lo porta ad elaborare il suo famoso Piano per la rigenerazione dell'Africa, un progetto missionario sintetizzabile nella frase «Salvare l'Africa con l'Africa», frutto della sua illimitata fiducia nelle capacità umane e religiose dei popoli Africani.
Un originale Vescovo missionario
In mezzo a non poche difficoltà e incomprensioni, Daniele Comboni intuisce che la società europea e la Chiesa cattolica sono chiamate a prendere in maggior considerazione la missione dell'Africa Centrale. A tale scopo, si dedica ad una instancabile animazione missionaria in ogni angolo d'Europa, chiedendo aiuti spirituali e materiali per le missioni africane tanto a Re, Vescovi e signori, quanto a gente povera e semplice. E come strumento di animazione missionaria crea una rivista missionaria, la prima in Italia.
La sua fede incrollabile nel Signore e nell'Africa lo porta a far nascere, rispettivamente nel 1867 e nel 1872, l'Istituto maschile e l'Istituto femminile dei suoi missionari, più tardi meglio conosciuti come Missionari Comboniani e Suore Missionarie Comboniane.
Come teologo del Vescovo di Verona, partecipa al Concilio Vaticano I facendo sottoscrivere a 70 Vescovi una petizione a favore dell'evangelizzazione dell'Africa Centrale (Postulatum pro Nigris Africæ Centralis).
Il 2 luglio 1877 Comboni viene nominato Vicario Apostolico dell'Africa Centrale e consacrato Vescovo un mese dopo: è la conferma che le sue idee e le sue azioni, da molti considerate troppo coraggiose se non addirittura pazze, sono quanto mai efficaci per l'annuncio del Vangelo e la liberazione del continente africano.
Negli anni 1877-78, insieme ai suoi missionari e missionarie, soffre nel corpo e nello spirito la tragedia di una siccità e carestia senza precedenti, che dimezza la popolazione locale e sfinisce il personale e l'attività missionaria.
La croce per amica e sposa
Nel 1880, con la grinta di sempre, il Vescovo Comboni ritorna, per l'ottava e ultima volta, in Africa, a fianco dei suoi missionari e missionarie, deciso a continuare la lotta contro la piaga dello schiavismo e a consolidare l'attività missionaria con gli stessi africani. Un anno dopo, provato dalla fatica, dalle frequenti e recenti morti dei suoi collaboratori e dall'amarezza di accuse e calunnie, il grande missionario si ammala. Il 10 ottobre 1881, a soli cinquant'anni, segnato dalla croce che mai lo ha abbandonato come fedele e amata sposa, muore a Khartoum, tra la sua gente, cosciente che la sua opera missionaria non morirà. «Io muoio, dice, ma la mia opera non morirà».
Daniele Comboni ha visto giusto. La sua opera non è morta; anzi, come tutte le grandi cose che «nascono ai piedi della croce», continua a vivere grazie al dono che della propria vita fanno tanti uomini e donne che hanno scelto di seguire il Comboni sulla via dell'ardua ed entusiasmante missione tra i popoli più bisognosi di fede e di solidarietà umana.
Mario Balotelli: "Lasciate l'Africa agli africani..."
Riccardo Palleschi - Gio, 16/05/2019
https://www.ilgiornale.it/news/spettaco ... 95904.html Mario Balotelli non ha mai fatto mistero di tenere molto alle sue origini africane. E in un recente post su Instagram ha fatto delle riflessioni sul problema dell'immigrazione
Mario Balotelli fa sempre discutere, nel bene e nel male, qualunque iniziativa prenda. Recentemente, l'attaccante dell'Olimpique Marsiglia e della Nazionale italiana ha espresso le sue personali riflessioni sul delicato problema dell'immigrazione pubblicando un lungo post su Instagram.
Mario Balotelli: "Lasciate l'Africa agli africani..."
Balotelli si è rivolto, metaforicamente, ai politici di tutto il mondo. E ha iniziato la sua riflessione con una domanda: "Non pensate che se non aveste messo prima e tutt'ora le mani sulle ricchezze in Africa non ci sarebbe mai stata nessuna immigrazione dal Continente?". Senza attendere o, quanto meno, aspettarsi una risposta, Super Mario prosegue il suo ragionamento: "L'Africa è il continente più ricco e potente del pianeta... perché lo lasciano? Guerre? Malattie? Ignoranza?". La risposta di Balotelli è un maiuscolo "NO!!".
Per Mario Balotelli il motivo fondamentale alla base dell'emigrazione dal continente africano non è nemmeno la povertà. Infatti, continua: "E come fa l'Africa ad essere povera essendo il continente più ricco del pianeta???". E, in maniera un po' provocatoria afferma: "Esatto! La risposta la sanno tutti ma conviene tacere e far finta di niente vero?" E conclude: "Nel mio paese nativo, l'Italia, si sente dire: 'l'Italia agli italiani'. Sarebbe giusto se anche l'Africa fosse degli africani...". Per far arrivare il messaggio a quante più persone possibile Balotelli ha taggato altri suoi colleghi come Kevin-Prince Boateng, Didier Drogba e Pierre-Emerick Aubameyang.
Leadership. «Adesso l'Africa agli africani». La nuova Unione alla provaMario Giro* giovedì 16 febbraio 2017
https://www.avvenire.it/opinioni/pagine ... alla-prova Moussa Faki, ex ministro degli esteri ciadiano, è il nuovo presidente della Commissione dell'Unione africana.
Moussa Faki, ex ministro degli esteri ciadiano, è il nuovo presidente della Commissione dell'Unione africana.
Il nuovo presidente della Commissione dell’Unione Africana, eletto pochi giorni fa ad Addis Abeba, è il ciadiano Moussa Faki, ex ministro degli Esteri ciadiano. È una conferma dell’accresciuto ruolo del Ciad in questi anni, come fattore di stabilizzazione in particolare nella lotta al terrorismo jihadista. La tradizione militare ciadiana è nota da tempo. Moussa Faki ne rappresenta la parte politica, anch’essa capace di influenza crescente. La prima sfida che si troverà ad affrontare il neopresidente è la riforma dell’organizzazione.
Unione Africana da riformare? Il documento del presidente ruandese Paul Kagame – a cui i suoi pari hanno affidato la responsabilità di dare indicazioni – risponde affermativamente, pena la perdita di influenza. Si raccomanda che l’Ua si occupi di meno cose, ma in maniera più approfondita, che si raccordi meglio con le organizzazioni regionali (Ecowas, Cemac, Sadeec, ecc.), che spenda meno e bene; che diventi autonoma finanziariamente (oggi oltre il 60% del suo bilancio è finanziato dai donatori come la Ue); che sia più efficace nelle crisi. Si tratta di un auspicio che hanno in molti: liberarsi da tutti i condizionamenti esterni per dare l’«Africa agli africani» e «soluzioni africane ai problemi africani». Nel documento infatti si sottolinea che gli inviti a Paesi e organizzazioni terze ai vertici debbono essere eccezionali. Già la presidente della Commissione uscente, la sudafricana Dlamini Zuma, aveva fatto suoi tali argomenti, restringendo – ad esempio – la possibilità degli europei di essere presenti ad Addis Abeba durante le riunioni. Ma poi era a loro che ci si rivolgeva per il finanziamento delle attività. Per Kagame ciò è contraddittorio e umiliante.
Certamente la nuova assertività africana si fa sentire: l’uscita di tre Paesi – Gambia, Burundi e Sudafrica – dalla Corte penale internazionale (Cpi) è un segnale forte. All’ultimo vertice, la Ua ha deciso l’interruzione di qualunque dialogo con il Consiglio di sicurezza dell’Onu su tale argomento, adottando una 'strategia del ritiro', anche se alcuni Paesi ancora frenano (Nigeria, Senegal, Malawi, Tanzania e Tunisia, per esempio). Questo anche se la procuratrice generale della Cpi è un’africana, la gambiana Fatou Bensouda. Gli africani accusano la Corte di occuparsi solo dei casi di violazioni nel continente, e non di altri. Di essere in qualche modo «razzialmente orientata», ma c’è chi pensa che si tratta di una scusa per interrompere le indagini in corso.
Parallelamente la Ua di Dlamini Zuma si è interposta in alcune crisi, come quella del Burundi, proteggendo il presidente Nkurunziza dalle critiche della comunità internazionale per violazioni dei diritti umani e dispotismo. L’affermarsi delle 'democrature' e dei regimi forti (come in Turchia e Russia) diviene un modello che rafforza quanti nel continente, dove pure si vota quasi ovunque ormai, preferiscono una 'forte' gestione del potere. Ancora non è sorta in Africa una reale forma di bilanciamento dell’esecutivo, né in campo legislativo né giudiziario né mediatico. E, salvo eccezioni, l’Unione Africana non è divenuta quella cassa di risonanza dei popoli che si sperava, un modo cioè per supervisionare i regimi. Rimane per ora un 'sindacato dei capi di Stato' come dicono gli africani stessi.
Certo una maggior 'africanizzazione' della Ua dovrà fare i conti con le crisi in atto nel continente: sono sette le operazioni di peacekeeping a guida Onu contro solo una della Ua, a parte le iniziative regionali (in particolare in Africa Occidentale e centrale). Ciò nonostante, il continente ha ancora bisogno dell’Onu e dei suoi partner internazionali. Tra questi ultimi la parte del leone la fa ovviamente la Cina, sempre molto presente soprattutto per ragioni geopolitiche. La sua recente minor crescita ha avuto effetti anche in Africa, dove in cinesi hanno ridotto le loro importazioni del 30% nel 2016. Accanto ai cinesi, si è di nuovo rafforzata in questi anni la presenza europea, sul piano sia economico sia politico. In Mali, il Ciad è stato protagonista della cooperazione anti-terrorismo tra Francia, altri Paesi europei e africani. Nella regione del lago Ciad, alla frontiera tra Nigeria, Niger e Camerun, le truppe di N’Djamena hanno svolto una gran parte del lavoro in funzione anti-Boko Haram.
Gli europei si sono risvegliati grazie alla corsa all’Africa iniziata da Pechino. Molte sono state le viste di capi di Stato e di governo, assieme a quelle dei ministri degli Esteri. Oltre a Hollande, anche Merkel, l’allora premier Renzi e lo stesso presidente Mattarella ed altri leader europei sono stati per la prima volta sul continente, complice anche la crisi dei migranti. La Ue ha stanziato fondi. Nuovi programmi vedono la luce, come quelli per l’elettrificazione (sono ancora 600 milioni gli africani senza corrente). L’Africa è rimasta al centro degli interessi di altre potenze grandi o medie, come l’India, la Corea del Sud, il Giappone, la Turchia, Israele... Ma soprattutto in questi ultimi anni abbiamo assistito all’arrivo in massa del settore privato, incoraggiato dai governi. Oltre alla tradizionale presenza delle imprese francesi e inglesi, sono tornate quelle italiane e sono giunte per la prima volte quelle tedesche, spagnole, turche ecc.
Per fare un esempio: a parte l’Eni (da anni primo operatore 'oil & gas' in Africa), l’Enel sta inserendosi molto bene attraverso la politica delle rinnovabili, vincendo gare in Sudafrica, Kenya o Zambia. L’idea di successo delle mini-grid (cioè reti autosostenibili localmente, in contrasto con quella delle grandi centrali ritenute costose e inefficienti), sta prendendo piede proprio grazie a Enel. Il neo presidente di turno dell’assemblea dell’Unione Africana, il Presidente guineano Alpha Condé, è interessato all’iniziativa che lui stesso sponsorizza e per la quale l’Ue si è impegnata. Altri settori di grande interesse per le imprese europee sono l’agro-industria e le infrastrutture, ove gli italiani sono ben inseriti, ad iniziare da Salini. L’idea dei partner africani è di poter dare impulso alla nascita di un settore manifatturiero sul continente, per uscire dalla servitù delle mere esportazioni di materie prime. Resta il fatto tuttavia, che l’Africa è l’ultimo continente dove esiste terreno fertile non utilizzato. Si tratta di milioni di ettari da mettere in produzione ma il problema che si pone è quale modello sarà utilizzato: latifondismo stile landgrabbing o la nascita di un settore agro-industriale endogeno?
Un punto interrogativo riguarda gli Stati Uniti. Con il presidente Obama è venuta meno la politica africana molto aggressiva di Clinton e Bush junior. Sono stati chiusi grandi programmi e la politica commerciale si è infiacchita. La presenza americana c’è da sempre e rimane, ma non si è rafforzata. Ora occorrerà vedere che cosa farà il presidente Trump, del quale sono note solo le intemerate contro «l’Africa corrotta e gli africani da mandar via» della campagna elettorale. L’unico segnale è che nella sua squadra c’è un miliardario nigeriano come consulente.
Infine, la nuova leadership della Ua dovrà occuparsi delle crisi politico-etniche. Accanto a quelle di vecchia data – Somalia, Repubblica democratica del Congo, conflitto Etiopia-Eritrea a cui si aggiunge ora il malessere Oromo... – occorre vigilare su crisi rinascenti, come quella costituzionale della Costa d’Avorio che ha provocato un ammutinamento, o il default del Mozambico che ha trascinato alla crisi armata. Una buona notizia viene dal successo dell’Ecowas (e quindi anche di Alpha Condé) nella gestione della crisi elettorale gambiana. Altro segnale positivo è in Africa centrale dove la Chiesa cattolica ha dato inizio ad una mediazione accettata dalle parti nella Repubblica democratica del Congo. Evitare una nuova grande guerra in Congo è assolutamente necessario. In Africa dell’est rimane aperta la guerra in Sud Sudan, dove sembra che nessuna mediazione sia possibile, e che sta assumendo aspetti da genocidio. L’Unione Africana di domani si prepara dunque a grandi mutamenti, e ne ha bisogno.
Ecco il Papa cristiano cattolico romano che chiede scusa per il male fatto dai cristiani in Africa, beh quand'è che vedremo il grande Grande Imam di Al-Azhar Ahmad Al-Tayyeb fare altrettanto?IL PAPA NELL' ISOLA DEL DOLORE
DOMENICO DEL RIO
23 febbraio 1992
https://ricerca.repubblica.it/repubblic ... olore.html DAKAR - "Da questo santuario africano del dolore nero imploriamo il perdono del cielo". Nella "Casa degli schiavi" dell' isola di Gorée, di fronte all' Oceano, dove gli africani in catene venivano caricati sulle navi per un viaggio senza ritorno verso il nuovo mondo, Giovanni Paolo II ha chiesto perdono a Dio e agli uomini per i cristiani che, nei secoli passati, si sono macchiati del "crimine enorme" della tratta dei negri. Anche per il papa, c' è stato un tormento insistente, che lo ha accompagnato in questa visita: il pensiero, quasi insopportabile, che a compiere tale ignominia siano stati dei cristiani, degli uomini che dicevano di avere fede in Cristo. "Sono venuto qui per rendere omaggio a tutte queste vittime, vittime senza nome", ha detto Wojtyla, in piedi, nella polvere del cortiletto della "Casa degli schiavi". "E' l' ingiustizia, è il dramma, di una società che si diceva e che si dice cristiana". Ha commentato desolatamente il papa, "la stessa che, nel nostro secolo, ha ricreato la medesima situazione di schiavi anonimi nei campi di concentramento. La nostra è una civiltà piena di debolezze, piena di peccati". Ma la schiavitù non è finita, ha gridato ancora il pontefice. Anche oggi si sfrutta l' Africa, si sfrutta il mondo del poveri. Ci sono "nuove forme di schiavitù", come "la prostituzione organizzata, che sfrutta vergognosamente la povertà delle popolazioni del Terzo Mondo". Gorée, splendida, formata di roccia di basalto nero, con le sue vecchie case coloniani, le grandi piante di ficus che attorcigliano le radici dentro i muri, l' antico forte militare nascosto dagli enormi baobab, ha tutta l' aria di un' isoletta deliziosa in mezzo a un mare caldo. QUI, il cinema americano ha girato il famoso film "I cannoni di Navarrone". E, invece, Gorée mantiene tra le sue rocce questa casa del dolore, la "Casa degli schiavi", questa incredibile processione di stanze buie, a pianterreno, dove erano ammassati uomini, donne e bambini, portati qui dai mercanti schiavisti da ogni terra e da ogni foresta africana, in attesa di essere caricati sulle navi per attraversare l' oceano. Al primo piano si aprono ancora le sale dove i padroni negrieri vivevano nel lusso e nei piaceri, senza curarsi di ciò che accadeva sotto di loro. C' è una porta, che dà sull' oceano, a livello dell' acqua, sulla cui soglia di basalto ora batte lentamente l' onda, ma che allora immetteva su un ponte di legno che portava alle stive delle navi ferme al largo. Il grido dei secoli Da quella porta e su quel ponte venivano incamminati gli schiavi. Era l' addio all' Africa. Chi avesse voluto scappare, gettandosi in acqua, non avrebbe avuto scampo: questo tratto di mare brulicava di pescecani. Quanti milioni di africani in catene siano passati da quel varco nero senza ritorno, nessuno lo sa con precisione. Su quella porta, ieri, il papa è andato a fermarsi. Ha guardato l' oceano, in silenzio, per sette minuti. Ha detto di aver sentito "il grido dei secoli, il grido di generazioni di neri fatti schiavi". E' , dunque, in questo luogo che papa Wojtyla ha implorato il perdono di Dio e degli uomini. Questa piccola isola è stata indicata da lui come "il simbolo dell' orribile aberrazione di coloro che hanno ridotto in schiavitù i fratelli e le sorelle", "teatro di una eterna lotta tra la luce e le tenebre, tra il bene e il male, tra la grazia e il peccato". "Uomini, donne e bambini", ha ricordato il pontefice, "sono stati condotti in questo piccolo luogo, strappati dalla loro terra, separati dai loro congiunti, per esservi venduti come mercanzia. Essi venivano da tutti i paesi e, in catene, partivano verso altri cieli, conservando come ultima immagine dell' Africa natia la massa della roccia basaltica di Gorée. Si può dire che quest' isola rimane nella memoria e nel cuore di tutta la diaspora nera". "Quegli uomini, quelle donne, quei bambini", ha spiegato ancora il papa, "sono stati vittime di un vergognoso commercio, cui hanno preso parte persone battezzate, ma che non hanno vissuto la loro fede. Occorre che si confessi in tutta verità e umiltà questo peccato dell' uomo contro l' uomo, questo peccato dell' uomo contro Dio. Da questo santuario africano del dolore nero, imploriamo il perdono del Cielo". Tornato da Gorée a Dakar, Giovanni Paolo II ha avuto un incontro di grande cordialità con i capi islamici. Al papa hanno donato un' ampia tunica bianca, decorata in oro, come quelle che portano abitualmente i musulmani. Wojtyla l' ha indossata e l' ha tenuta per tutto l' incontro. Dentro questo singolare vestito da capo islamico, il papa ha pronunciato un discorso tutto incentrato sul dialogo tra cristiani e musulmani. Appello per la pace "Vivere in pace, nella fratellanza e nella collaborazione", è la formula illustrata da Wojtyla. Ai credenti in Allah, il papa ha parlato di un Dio in comune. "Il nostro Dio", ha detto, "E' un Dio di pace. E' un Dio di dialogo. Noi non crediamo in un Dio corrucciato che sparge il terrore nel cuore degli uomini né in un Dio assente dai problemi di questo mondo". Per questo ha chiesto "collaborazione" in favore della giustizia e della pace e anche "rispetto reciproco della libertà di coscienza e di culto". Su questo ultimo punto, però, il papa ha detto di voler parlare con "onestà". "In certe regioni del mondo", ha detto, senza nominarle, ma si sa che il riferimento è soprattutto agli Stati islamici del Medio Oriente, "vi sono ancora tensioni tra le nostre due comunità, e i cristiani sono vittime di discriminazioni in molti paese". Oggi, il papa termina la sua visita in Senegal. Passerà la domenica in Gambia e, domani, si porterà a Conakry, capitale della Guinea.