Russia, Europa, USA e Cina

Re: Russia, Europa, USA e Cina

Messaggioda Berto » sab dic 26, 2020 10:32 pm

La Cina si scontra con la realtà: la questione dei Bond Cinesi e la loro inaffidabilità
27 novembre 2020

https://osservatorerepubblicano.com/202 ... idabilita/

Dopo aver aumentato per anni il proprio debito pubblico, ora ha annunciato maggiori controlli sul cosiddetto “Shadow Banking”, ovvero operazioni finanziarie poco chiare che si basavano su bilanci falsificati e trasferimenti di asset strategici in modo tale da ottenere maggiori fondi.

La Cina si sta scontrando con la realtà: dopo aver aumentato per anni il proprio debito pubblico, ora ha annunciato, tramite il vice premier Liu He, maggiori controlli sul cosiddetto “Shadow Banking“, ovvero operazioni finanziarie poco chiare che si basano su bilanci falsificati e trasferimenti di asset strategici in modo tale da ottenere maggiori fondi.

Il default di obbligazioni ha toccato l’apice nel biennio 2018-2019. Con l’inizio della pandemia i numeri sono migliorati, perché il Politburo ha elargito aiuti a praticamente tutte le imprese, ma il numero di aziende statali che ha peggiorato la propria situazione finanziaria è aumentato, nonostante un miglioramento (ovviamente fittizio) dell’economia cinese. Nel 2018 il default di Bond aveva un valore di 122 miliardi di Yuan, il quadruplo rispetto al 2017, nel 2019 si toccarono i 141.9 miliardi.

Money Morning
Il Default dei Bond Cinesi (Fonte: Bloomberg)

Quanto è Grande questo Problema?

Come già sottolineato nei primi tre trimestri del 2020 il “bond defaut rate” si è ridotto del 20% secondo i dati di Bloomberg, ma questa riduzione è dovuta a misure legate alla pandemia, di conseguenza si tratta di misure a breve termine come, ad esempio, il posticipo dei pagamenti o addirittura la cancellazione dei debiti di breve termine. Questo serve generalmente a prendere tempo, ma la il dissesto (o pre-dissesto) finanziario resta. La differenza rispetto agli altri anni è dovuta al fatto che quest’anno lo scetticismo degli investitori riguarda alcune aziende statali considerate “intoccabili” per il costante supporto che hanno ricevuto dal PCC.

Che cosa c’è dietro?

Diversi fattori hanno causato questo andamento dei Bond. Il primo tra tutti è che gli investitori (soprattutto quelli internazionali) non vogliono investire in società che non siano partecipate statali; un secondo fattore è legato ad una vicenda dello scorso anno della prima banca cinese, la Baoshang Bank Co.. Dopo un’improvvisa acquisizione da parte del governo cinese nel maggio del 2019, dovuta ad una “seria situazione creditizia”, il 23 Novembre 2020 è ufficialmente iniziata la procedura di bancarotta. Per gli “spettatori” internazionali è un ulteriore segnale che non ci si può fidare dell’opacità delle informazioni che escono da Pechino. A questo bisogna aggiungere una situazione economica in declino già prima del Covid (come tutte le grandi economie a fine 2019).

Chi stanno colpendo questi Default?

Nel 2016 vennero colpite inizialmente aziende con eccesso di capacità (sovrapproduzione) come ad esempio quelle del carbone e dell’acciaio, ma quest’anno i settori in crisi sono anche quello del turismo, dei consumi di massa e dei trasporti, che sono stati fortemente colpiti. Tra i fallimenti “degni di nota” nel 2020 abbiamo:

Yongcheng Coal and Electricity Group, che ha individuato nella mancanza di liquidità la causa principale del default;
Tsinghua Unigroup Co, una società manifatturiera di chip;
Brilliance Auto Group Holdings Co, una casa automobilistica legata alla BMW.

Lo scorso anno Tewoo Group, una società che commerciava un elevato numero di commodities (ad esempio, minerali e metalli) ha ristrutturato il suo debito da 1,25 miliardi di dollari, causando molte perdite agli investitori. Secondo Bloomberg, il “Caso Tewoo” è un segnale che il governo cinese stia lasciando fallire alcune delle sue società partecipate.
Quali sono state le azioni intraprese dal governo cinese?

Avendo lasciato fallire qualche sua controllata, il governo cinese vuole dimostrare che sono disposti ad un’effettiva apertura al libero mercato, ma in una maniera ordinata. Partendo da questo concetto è stata annunciata la “tolleranza zero” ed una maggiore protezione degli investitori. Durante la crisi del Covid, però, sono stati garantiti prestiti a tassi bassissimi a chiunque. Inoltre, la Banca Centrale cinese ha abbassato il tasso interbancario per incoraggiare maggiori prestiti. L’obiettivo (dichiarato) rimane comunque evitare a tutti costi una nuova “crisi del 2008” e quindi una nuova crisi del debito.
Come siamo arrivati fino a questo punto?

Il debito è stata la fonte principale della crescita cinese, soprattutto dopo il 2008, quando le obbligazioni non governative (c.d. corporate bonds) sono passati dal 101% del PIL al 160% del 2017, il tutto condito con 10 trilioni di “Shadow Banking“.

L’impatto per ora sembra limitato all’interno della Cina continentale, ma il PCC si sta muovendo per aver regole più chiare e per aprirsi alle agenzie di rating internazionali: questo, però, può portare un’ulteriore ondata di fallimenti, in quanto molte aziende dovranno aprirsi alle regole internazionali del mercato.

Gli Stati Uniti sono ora ad un bivio: possono dare la “spallata finale” alla fragile economia cinese (dipendente dal Dollaro) oppure possono ignorare il problema, come fatto in precedenza, per poi trovarsi intere isole nel Mar Cinese meridionale militarizzate, il tutto finanziato grazie all’acquisto di investitori internazionali di Bond.

L’Amministrazione di Donald Trump farà di tutto per impedire a Sleepy Joe Biden di cambiare linea politica contro il “Dragone”: il problema, però, è che ora ci toccheranno forse, quattro lunghi anni di amministrazione democratica.

In Italia, invece, siamo totalmente piegati a Pechino, a tal punto che “La Repubblica” consiglia l’acquisto di Bond cinesi, nonostante tutte le agenzie internazionali, inclusa la “filo cinese” Bloomberg, consiglino l’esatto contrario!




Non solo dazi, sulla Cina incombe l'ombra del maxi debito
Filippo Santelli
9 dicembre 2020

https://www.repubblica.it/economia/2019 ... 242802542/

PECHINO - Più che i "cigni neri", eventi rari e imprevedibili, il Partito comunista teme i "rinoceronti grigi", pericoli noti ed evidenti, come i grandi mammiferi cornuti, ma che rischiano di essere ignorati fin quando non è troppo tardi. La montagna di debito complessivo della Cina, che ha superato il 300% del Pil, è uno di questi bestioni, e nonostante le autorità comuniste stiano già da anni cercando di contenerla il pericolo è tutt'altro che scongiurato. Anzi, nelle ultime settimane i segnali di allarme si moltiplicano: banche locali che fanno crack, l'indebitamento delle famiglie a livelli record, quasi il 100% del reddito disponibile, un aumento dei default delle imprese, perfino quelle di Stato un tempo considerate al sicuro da ogni tempesta.

Per il momento non si tratta ancora di un'emergenza. Un'asta di titoli di Stato per 6 miliardi di dollari conclusa con successo dalla Banca centrale lo conferma. Eppure lo stress finanziario rende molto più stretta la strada del governo, nel momento in cui l'economia cinese sta rallentando in maniera brusca. Un tempo a frenate di questo tipo la leadership rispondeva varando mega stimoli, ora né la Banca del popolo né il governo sembrano intenzionati a rovesciare soldi dall'elicottero: sciogliere le briglie della politica monetaria o di quella fiscale rischierebbe di far crescere ancora l'indebitamento, incentiverebbe bolle speculative e spingerebbe aziende e famiglie a spendere oltre le loro possibilità.

I rischi finanziari in questo momento non si concentrano tanto a livello centrale, di debito pubblico, quanto alla periferia dell'Impero. Secondo un recente rapporto della Banca del popolo, dei 4.400 prestatori attivi in Cina, 586 sono classificati ad "alto rischio". Si tratta soprattutto di piccoli operatori locali, distributori di contanti che alimentano i sogni di espansione delle aziende e le ambizioni di carriera dei funzionari provinciali. Negli ultimi mesi il governo è dovuto intervenire per nazionalizzare Baoshang bank, semi sconosciuto istituto della Mongolia Interna, poi ha coordinato un salvataggio di altri due operatori, Jinzhou e Hengfeng. A inizio novembre i correntisti di due banche, una dello Henan e una del Liaoning, si sono precipitati agli sportelli per prelevare i loro risparmi, dopo aver sentito di indagini che riguardavano i manager. Solo l'intervento delle autorità ha impedito il collasso, ma in un Paese privo di trasparenza e revisori indipendenti i dubbi sulle reali condizioni delle banchette di provincia restano enormi.

La autorità hanno annunciato che costringeranno gli istituti in difficoltà a puntellarsi, ricapitalizzando, fondendosi e tagliando i crediti deteriorati. È un intervento coerente con l'imperativo della stabilità, in questo caso finanziaria, messo in primo piano da Xi Jinping. Solo che la stretta sul credito voluta dal presidente cinese è anche uno dei fattori, se non il principale, alla base del rallentamento dell'economia. Molte aziende, soprattutto quelle private, senza sponde politiche, faticano a finanziarsi o rifinanziarsi (il loro debito complessivo è al 165% del Pil), proprio mentre i profitti si riducono. Il numero dei default cresce: a inizio dicembre hanno raggiunto i 17 miliardi di dollari, superando il totale del 2018. E tra le imprese che non riescono più a onorare i debiti alcune sono di Stato: mercoledì scorso il gruppo Tewoo, specializzato nel trading delle commodities, ha annunciato che non potrà ripagare un bond da 300 milioni di dollari, proponendo ai sottoscrittori una conversione in perdita, quello che in termini tecnici si chiama "haircut".

È una clamorosa prima volta per un'azienda di Stato, status che fino a oggi offriva la garanzia, implicita ma non per questo meno reale, di un salvagente anti crisi. Ora il messaggio del governo sembra essere diverso: non tutti potranno essere sostenuti. In teoria è un segno di maturità del sistema, in pratica rischia di trasformarsi in un terremoto, considerato che nell'economia cinese il rischio creditizio non è mai stato davvero prezzato dal mercato.

Per Xi e i suoi consiglieri economici dunque i prossimi mesi si annunciano un complicato gioco di equilibrismo tra contenimento del debito e stimolo alla crescita. Da condurre con aggiustamenti quotidiani e cercando di evitare contraddizioni, per quanto possibile. Nei giorni scorsi il governo ha ordinato alle province di procedere all'emissione di bond per finanziare le infrastrutture, anticipando le quote previste per i primi mesi del prossimo anno. Nuovo debito per evitare una frenata troppo brusca, ma nuovo debito che sarà sempre più difficile onorare in un'economia dalla produttività stagnante. Con il rinoceronte grigio prima o poi Pechino dovrà fare i conti.



La Cina ha un GDP che e' la meta' degli USA con spese interne enormi.
Detiene circa 1.200 miliardi di debiti USA.
Inoltre hanno investimenti in USA per circa 4.000 miliardi.
Tra il Vairus mandato e le ingerenze che ha causato alle elezioni USA oltre ai morti ai costi ed al casino relativo se DJT domani dice che il debito se lo stoppano ed il resto lo sequestra hanno chiuso.
Andassero pure in tribunale al WTO che DJT sfancula pure loro.
Fine dei giochi.
Jaime Andrea Jaime
13 dicembre 2020

https://www.facebook.com/jaime.mancagra ... 5206286350


Paolo Ortenzi
Non solo, hanno il GDP che è la metà di quello USA. Se vanno in perdita, come per esempio nel caso da te elencato, FALLISCONO nel giro di pochi mesi. Per questo gli serve Bidet dove è.

Tiberio Cancelli
Inoltre le banche e i fondi usa hanno nel portafoglio titoli cinesi per 1600 miliardi di dollari
Il debito pubblico cinese presto potrebbe diventare insostenibile, soprattutto se dovesse scoppiare la bolla speculativa ,che molti economisti prevedono

Paolo Ortenzi
Vanda Lo Iacono Croasdale
siamo tutti disposti a pagare DI PIÙ molti prodotti, pur di non produrre in Cina? Perchè il successo della Cina si spiega con due fattori, principalmente: 1) È una dittatura e non deve rendere conto alla sua opinione pubblica. E per questo si può permettere di pianificare a venti o trent'anni senza problemi; 2) Visto il punto 1) Pechino ha schiavizzato un miliardo di Cinesi ed è diventata la fabbrica a basso costo del pianeta. NESSUNO fino ad ora ha messo in discussione il suo status al WTO di "paese in via di sviluppo". Non mi risulta che l'Uganda o il Burkina-Faso mandino satelliti sulla Luna. La Cina l'ha fatto... e continua a prendere per il culo l'Occidente.

Vanda Lo Iacono Croasdale
Paolo Ortenzi
Io non solo sono disposta a pagare di piu' ma, lo faccio. Il problema e' che accertarsi che quello che acquisti non e' fatto in Cina e' molto complicato e richiede tempo per fare ricerche . Molti prodotti spacciano di essere made in USA ma non e' vero....le leggi sono subdole , e' sufficiente che un piccolo particolare dell'articolo che acquisti sia fatto in USA o che il prodotto sia fatto in Cina ma assemblato in USA etc...etc...per classificarlo " Made in USA " Pochi prodotti sono made in USA ed anche, costano di piu'. Io, essendo da sola, non me ne faccio un problema perche' acquisto solo per me ma capisco potrebbe essere un problema per una famiglia. Comunque di certo so' che , you get what you pay for...ed i prodotti cinesi sono molto scadenti e, quindi, durano poco. Meglio spendere qualcosa extra cosicche' da sostenere gli USA ed avere prodotti migliori. Consiglio vivamente di stare lontani specialmente da prodotti alimentari cinesi.

Paolo Ortenzi
Vanda Lo Iacono Croasdale
perchè devo permettere a Apple di produrre in Cina? I suoi prodotti li pago una barcata di soldi (sono i migliori, per quello che mi riguarda, e li uso anche per LAVORO, dove non ho tempo di masturbarmi con le configurazioni, come accade con Winzozz o Linux... vabbé sarebbe lungo da spiegare!) ma sono fatti in CINA. Il che significa che i loro profitti sono stratosferici. Ora... se io pago un laptop professionale Apple 1.700 euro ed uno Winzozz di marca poco più della metà... e io SO che i profitti sui laptop Winzozz sono ancora più alti in percentuale di quelli di Apple, qualcosa non torna. Quanto poco posso pagare un prodotto? La qualità, infatti, è bassissima ed è solo l'imposizione da parte del QA Apple sulle aziende cinesi che mi permette di avere, ad esempio, degli smartphone che durano di più di quelli Xiaomi o Huawei. Ho colleghi che compravano queste due marche perchè "fanno le stesse cose di un iPhone ma costano la metà". Poi però, dopo un mese o due, la PRIMA COSA che andava a signorine francesi era la batteria. IO ho un iPhone 6 da tre anni e la batteria va ancora tutta la giornata. Ora... riportando la produzione negli USA... a quanto profitto Apple può rinunciare? Il prezzo di vendita NON si può spostare verso l'alto (1000 USD per un cellulare lo reputo una follia!). Ma sono strasicuro che ci sia ampio margine, anche con un innalzamento dei costi di produzione in USA.
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Re: Russia, Europa, USA e Cina

Messaggioda Berto » sab dic 26, 2020 10:33 pm

Quanto è grave l’attacco informatico agli USA?
Franco Londei
19 Dicembre 2020

https://www.francolondei.it/quanto-e-gr ... -agli-usa/

Nelle ultime ore gli Stati Uniti sono stati sottoposti ad un attacco informatico che per vastità e metodologia non ha precedenti.

Secondo il Segretario di Stato uscente, Mike Pompeo, “è stato un attacco devastante che ha colpito obiettivi in tutto il mondo” e, sempre secondo Pompeo, dietro all’attacco ci sarebbe la Russia.

Giovedì sera Microsoft ha rilasciato una dichiarazione dove spiegava che il malware ha colpito più di 40 clienti importanti e che ora gli attaccanti potrebbero avere accesso illimitato alla rete easistemi governativi chiave quali quelli riguardanti l’energia elettrica, il sistema idrico e persino i sistemi che governano gli afflussi del gas.

Circa l’80% dei colpiti dall’attacco informatico si trova negli Stati Uniti, ha affermato il presidente di Microsoft Brad Smith in un post sul blog, ma le vittime si trovano anche in Belgio, Gran Bretagna, Canada, Israele, Messico, Spagna ed Emirati Arabi Uniti. E le vittime cresceranno nei prossimi giorni.
Non è il solito attacco informatico

“Questo non è il solito attacco informatico dell’era digitale” ha detto Smith. “Qui ci troviamo di fronte ad un gravissimo atto di incoscienza volto a procurare danni gravissimi ai sistemi vitali, un attacco studiato per durare nel tempo”.

John Dickson della società di sicurezza Denim Group ha detto che molte aziende del settore privato che potrebbero essere vulnerabili si stanno affrettando per aumentare la sicurezza, fino al punto di considerare la ricostruzione da zero di server e altre apparecchiature.

Secondo Dickson “è un duro colpo per la fiducia sia nel governo che nelle infrastrutture critiche”.

Il malware sarebbe stato iniettato attraverso un software gestionale molto usato e sviluppato dalla azienda texana SolarWinds.

James Lewis, vicepresidente del Center for Strategic and International Studies, ha affermato che l’attacco potrebbe finire per essere il peggiore che abbia mai colpito gli Stati Uniti visto che non si sa nemmeno cosa hanno preso gli attaccanti, anche se sono in corso verifiche in tutto il mondo.

I tecnici non sono riusciti a scoprire nemmeno se gli attaccanti si siano lasciati indietro alcune backdoor per poter eventualmente “rientrare” in un secondo momento.
NSA “molto preoccupata”

L’Agenzia per la sicurezza nazionale (NSA) ha fatto trapelare ieri tutta la sua preoccupazione per questo massivo attacco informatico.

Gli analisti della NSA hanno affermato che l’attacco rappresenta una gravissima minaccia alla sicurezza nazionale dato che gli attaccanti si sono introdotti in sistemi infrastrutturali chiave come le centrali elettriche, telefoniche e altri servizi.

La Cybersecurity and Infrastructure Security Agency (CISA) degli Stati Uniti ha affermato che le agenzie governative, le entità infrastrutturali critiche e le organizzazioni del settore privato sono state prese di mira da quello che ha definito un “attore di minacce persistenti molto avanzato”.

E mentre Mike Pompeo accusa apertamente la Russia per questo attacco, NSA e CISA sembrano più propense a guardare dalle parti di Pechino.

Un fatto è certo, non è un attacco convenzionale e questo lo rende davvero molto ma molto pericoloso.

Politicamente non schierato. Voto chi mi convince di più e questo mi permette di essere critico con chiunque senza alcun condizionamento ideologico. Sionista, amo Israele almeno quanto amo l'Italia
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Re: Russia, Europa, USA e Cina

Messaggioda Berto » sab dic 26, 2020 10:33 pm

Cosa (non) abbiamo capito della dittatura cinese.
Lo spiega Castellani
26 dicembre 2020

https://formiche.net/2020/12/cosa-non-a ... astellani/

Pubblichiamo un estratto del saggio “L’ingranaggio del potere” (LiberiLibri) di Lorenzo Castellani (Luiss). Sacrificando la democrazia sull’altare dell’efficienza amministrativa, i nuovi pensatori tecnocratici occidentali esaltano il modello burocratico cinese come esempio da seguire. Ma è davvero così?

Così come negli anni Trenta la pianificazione sovietica esercitava grande influenza sui pensieri degli intellettuali e dei politici americani ed europei, tale da forgiare il nucleo fondamentale delle teorie tecnocratiche contemporanee, così oggi è il modello politico cinese a fornire allucinogeni al pensiero occidentale.

All’inizio degli anni Novanta, un realista come Danilo Zolo fu forse il primo tra i pensatori politici di quel periodo a farsi sedurre dalla formula tecnocratica. Per lo scienziato politico italiano la fine delle ideologie e l’aumento della complessità per l’eccesso di informazione avevano reso la politica un mero esercizio di “regolazione selettiva dei rischi”.

Al tramonto del ventesimo secolo, le decisioni politiche servivano esclusivamente a scegliere quale livello di protezione accordare alle varie categorie sociali. Un’oligarchia, autorizzata dal voto popolare, era chiamata a prendere queste scelte e a farlo sulla base delle proprie conoscenze specifiche. In questo scenario, Zolo concludeva che il “principato democratico” era destinato al modello Singapore: un’efficiente tecnocrazia diventava il nuovo Principe, capace di mediare, negli specifici settori di competenza, tra i vari interessi della società. Essa, inoltre, riduceva l’incertezza della conoscenza e stabilizzava i rischi in una società sempre più complessa, dunque rischiosa e imprevedibile.

Le tecnostrutture erano chiamate a gestire e regolare l’azione del potere, scegliendo a seconda della situazione quali categorie sociali esporre più o meno ai rischi economici. La politica postmoderna vista con gli occhi di Zolo perdeva di profondità teleologica, si faceva più pragmatica e meno pretenziosa che in passato, e si trasformava in mera tecnica gestionale dei rischi, depurata da ogni conflitto ideologico.

In questo solco, uno tra i più influenti pensatori del presente sul tema è senza dubbio Parag Khanna, che nei suoi testi sottolinea come la politica moderna non debba ispirarsi a ideologie o valori superiori, ma essere orientata sulla base della razionalità strumentale alla risoluzione dei problemi, allo sviluppo economico, all’efficienza dei servizi pubblici. La politica per Khanna è, sostanzialmente, buona amministrazione nel contesto dell’economia globale. La governance è d’importanza superiore alla democrazia per la soddisfazione dei cittadini, che pretenderebbero soluzioni prima che partecipazione.

La critica del pensatore asiatico alla rappresentanza è spietata: essa non riesce a perseguire gli obiettivi con efficienza, la politica è divisiva, demagogica e corrotta. L’unica possibilità di sterilizzare le deviazioni irrazionali della democrazia è, secondo Khanna, la combinazione tra tecnocrazia e democrazia diretta consultiva.

Quest’ultima si avvale delle nuove tecnologie per assumere il parere dei cittadini sulle questioni amministrative, i dati raccolti vengono poi elaborati dai tecnocrati che attuano le politiche pubbliche mescolando quegli impulsi popolari con tecniche gestionali e ingegneristiche. Questa combinazione per Khanna dà luogo a un regime di “tecnocrazia partecipata”, unica formula adatta per governare efficacemente la complessità sociale. Per i cultori di tale pensiero, di fatto, la politica non conta nulla, è mera tecnica. È un modo di ragionare manageriale che ricerca soluzioni puramente pratiche e calcolabili.

Come nel pensiero dei positivisti e del primo socialismo, così la visione dei nuovi pensatori tecnocratici è tutta volta a valorizzare l’amministrazione delle cose, senza preoccuparsi troppo dei principi politici. Questa tecno-democrazia è il sistema verso cui dovrebbero tendere tutti i sistemi: gli Stati Uniti, l’Unione Europea, la Cina. Paradossalmente, però, l’ideale di Khanna non sono le grandi potenze, bensì la città-Stato di Singapore, il regime tecnocratico più maturo e di successo al mondo. E forse anche l’unico possibile, proprio per la sua taglia territoriale e demografica ridotta.

Se il pensiero di Khanna può essere giustificato dalla sua formazione orientale, meno attenta alla tradizione democratica e liberale, non lo sono altrettanto le visioni asiatiche di alcuni autori americani. In un libro di un certo successo, Daniel Bell Jr ha magnificato la competenza e l’efficienza della tecnocrazia cinese, aspirando alla convergenza tra sistemi politici orientali e occidentali.

Secondo questo scienziato politico, la Cina dovrebbe rafforzare il livello di partecipazione democratica e di accountability, seppur soltanto a livello locale e nel monopartitismo, mentre i Paesi occidentali potrebbero importare il modello cinese sul piano politico e amministrativo. Ciò significherebbe edificare delle tecno-democrazie, in cui la parte tecnocratica venga ulteriormente rafforzata. Il principio di competenza sottrarrebbe ancora funzioni a quello democratico. Una nuova aristocrazia artificiale gestirebbe gran parte delle decisioni politiche, ora poste quasi integralmente nelle mani degli esperti.

[…]

In conclusione, ciò che sorprende di questa corrente intellettuale è come i suoi esponenti dimentichino il volto dittatoriale del governo cinese, un regime forse più efficiente delle democrazie nell’attuare scelte politiche, ma di sicuro non meno corrotto delle democrazie liberali e, soprattutto, autoritario. Formula dispotica che può calpestare le libertà fondamentali e distribuire a piacimento la proprietà. Con efficienza ed efficacia certamente, ma anche con efferatezza e stringente controllo sociale.

Al tempo stesso sorprende la facilità con cui viene dismessa la tradizione occidentale, il suo percorso lungo, accidentato, ma capace di produrre una civiltà fiorente e superiore alle altre. È come se, di fronte alla crisi del politico e della rappresentanza, si dovesse correre subito verso un regime ancor più tecnocratico, capace di immobilizzare la politica, di espropriare il dialogo tra le parti per affidarlo a delle istituzioni tecniche, di allontanare i decisori dai livelli più bassi di governo, e di reprimere le possibilità di risolvere i problemi uscendo dalle soluzioni più probabili, preconfezionate e standardizzate che, come spesso la storia ha dimostrato, non sono quasi mai quelle giuste per risolvere la crisi. Il pilota automatico è utile per far volare in tranquillità l’aereo su lunghe rotte, ma quando un motore si rompe è l’essere umano che deve farlo atterrare in emergenza.

Per questo, dunque, l’allucinazione cinese non con- vince: vale davvero la pena liberarsi di Aristotele, Montesquieu, Locke, Jefferson, Madison, o dei più recenti Berlin e Hayek, per andare verso formule di governo, forse più efficienti, ma importate da sistemi illiberali? Non v’è forse il rischio di scivolare verso dispotismi tecnocratici anche in Occidente più di quanto non sia già avvenuto? Quasi nessuno, nella foga dell’azione per il progresso, sembra più porsi queste domande. Ma quando tutti agiscono, nessuno pensa.
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Re: Russia, Europa, USA e Cina

Messaggioda Berto » dom gen 03, 2021 9:31 am

L'accordo Ue-Cina inaugura il dopo-Trump: la normalizzazione con Pechino galoppa, nonostante tutto...
Federico Punzi
31 Dic 2020

https://www.atlanticoquotidiano.it/quot ... nte-tutto/

Non una prova di maturità dell’Ue, una prova di stupidità. Il frettoloso riavvicinamento Ue-Cina snobba Biden e spiazza coloro che sperano in un fronte transatlantico comune contro Pechino. Ma il nuovo approccio annunciato dal presidente eletto Usa e dai suoi consiglieri – nessuna rappresaglia contro gli alleati per le loro decisioni e inclusione della Cina nell’ordine globale – ha rassicurato gli europei

C’è da augurarsi, per questo capodanno 2021, che la rimozione della statua del presidente Lincoln, ieri a Boston, non sia il segno premonitore del nuovo ordine mondiale che ci aspetta in questi nuovi Anni Venti.

Quest’anno maledetto si chiude per l’Unione europea con due importanti accordi. Un accordo commerciale, finalizzato e firmato, con il Regno Unito; e un accordo di principio con la Cina, quindi per ora una dichiarazione politica, sugli investimenti reciproci. L’Ue pretendeva di mantenere Londra allineata, anche in futuro, ai propri regolamenti e standard, e invece decide di “allinearsi” politicamente a Pechino. È innegabile infatti il valore strategico del legame Ue-Cina che questo accordo delinea, considerando il salto di qualità che determinerebbe, se entrasse in vigore, nell’interdipendenza economica tra i due partner.

Un accordo che arriva, paradossalmente, sul finire dell’anno che avrebbe dovuto far aprire definitivamente gli occhi, in Occidente, sulla inaffidabilità del regime cinese: l’anno dell’insabbiamento, delle bugie, delle gravi responsabilità nella catastrofe globale causata dal “China Virus”, tema che ormai non si osa più nemmeno sollevare; della palese violazione dell’autonomia di Hong Kong da parte di Pechino – condannata come tale, a parole, anche da Bruxelles; e di un livello di aggressività senza precedenti nella postura della Repubblica Popolare, che ha bullizzato grandi Paesi come l’India e l’Australia ma anche stati membri e parlamenti dell’Ue.

Dopo quest’anno, in cui la Cina ha rivelato il suo volto totalitario al proprio interno, e sempre più aggressivo all’esterno, ci si sarebbe aspettati una contrapposizione, non l’appeasement. Invece, l’Ue ha scelto il secondo.

Donald Trump non è ancora uscito dalla Casa Bianca e, come in pochi avevamo previsto, la normalizzazione con Pechino già galoppa, nonostante tutto…

Il tempo ci dirà se l’accordo Ue-Cina è il relitto di una stagione ormai alle spalle, quella della fiducia incondizionata nell’apertura della Cina e nelle magnifiche sorti e progressive della globalizzazione, oppure se è la calma dopo la “tempesta Trump”, quella stagione che riprende il suo corso, bruscamente interrotto nel 2016.

In ogni caso, come su Brexit, anche sull’accordo Ue-Cina qui su Atlantico Quotidiano avevamo visto giusto.
Il raffreddamento di fine estate da parte di Bruxelles e Berlino era solo tatticismo, non il primo effetto di un processo di ripensamento avviato sui rapporti con Pechino. La determinazione della cancelliera Merkel a concluderlo restava intatta.

E non è casuale che sia la Merkel sia il presidente cinese Xi Jinping, i veri artefici dell’accordo, non abbiano atteso l’insediamento di Joe Biden alla Casa Bianca, ma abbiano invece atteso l’esito delle elezioni del 3 novembre, prima di imprimere l’accelerazione decisiva al negoziato – segnalata lo scorso 18 dicembre da fonti sia europee che cinesi al South China Morning Post e al Financial Times.

La conclusione del semestre di presidenza tedesca dell’Ue era l’ultima chance per la cancelliera, arrivata al termine della sua lunga carriera politica, per dare il suo volto a questo accordo, nel quale vede il coronamento della sua politica europea e del suo approccio con Pechino (“è positivo e importante cercare di avere rapporti strategici con la Cina”), il suo lascito più importante all’Ue e al suo Paese: un saldo ancoraggio dell’Europa “tra le grandi potenze, Cina e Stati Uniti”.

E questo ci porta al secondo motivo. Raggiungendo un accordo di principio con Pechino prima dell’insediamento di Biden, la presidenza di turno tedesca e la Commissione europea, tedesca anch’essa, hanno voluto mandare un messaggio preciso: l’Ue esiste come attore globale, può giocare allo stesso livello di superpotenze quali Stati Uniti e Cina, e ormai si muove in completa autonomia rispetto a Washington.

E qui siamo al terzo motivo. Come avevamo anticipato su Atlantico Quotidiano sia a metà settembre che a inizio luglio, ad entrambe le parti conveniva aspettare di vedere chi fosse il vincitore delle presidenziali Usa e muoversi di conseguenza. E ad entrambi conveniva che a vincere fosse Biden, il quale prometteva di superare l’approccio duro di Trump con gli alleati europei, Germania in primis. Berlino avrebbe potuto puntare ad un accordo senza temere di incorrere nell’ira e nelle rappresaglie di Washington. Viceversa, con Trump confermato alla Casa Bianca sarebbe stato difficile, se non impossibile, e comunque molto rischioso per l’Ue e per la Germania, chiudere anche solo in linea di principio un simile accordo con la Cina.

Certo, gli europei avrebbero potuto aspettare l’insediamento di Biden, che aveva annunciato di voler coinvolgere gli alleati nel nuovo approccio verso Pechino. Il presidente eletto e i suoi consiglieri hanno spiegato molto chiaramente di volersi coordinare con i Paesi alleati degli Stati Uniti in Europa e nell’Indo-Pacifico per affrontare la questione cinese. Tornare dunque ad un approccio multilaterale, dopo i quattro anni di approccio bilaterale trumpiano.

Ma la prospettiva di un fronte comune Usa-Ue ha indotto Xi Jinping a giocare d’anticipo e, come avevamo ipotizzato mesi fa, a calare lo zuccherino al momento giusto per chiudere l’accordo e provare a inserire un cuneo tra Stati Uniti ed Europa. In ogni caso, per complicare i piani della nuova amministrazione Usa. Come suggerito da Andrew A. Michta sul Wall Street Journal, quella di Xi Jinping è una mano interessante: ha l’occasione di incunearsi nelle divisioni tra Usa e Ue – come fece Nixon negli anni ’70 allontanando la Cina dall’Urss, in modo che le due potenze comuniste non si saldassero contro l’Occidente – giocando la carta dell’accesso al mercato cinese, ritenuto essenziale per la ripresa economica europea. I leader europei, osservava, “sono sempre più preoccupati del bullismo cinese, ma non vogliono essere tirati dentro un’alleanza con Washington contro Pechino”.

A Berlino, Bruxelles e Parigi si sono resi conto, ovviamente, dell’interesse convergente a concludere l’accordo prima dell’insediamento di Biden e hanno quindi ritenuto che fosse questo il momento più propizio per strappare qualche concessione a Xi Jinping. Concessioni che però, sia chiaro, sono tutte da verificare. Dalla promessa di garantire alle compagnie europee l’accesso al mercato cinese in importanti settori all’impegno a fare “continui e duraturi sforzi” per ratificare le convenzioni ILO sul lavoro forzato (che è ben diverso dall’impegno a ratificarle!). Sentir parlare di “level playing field” con la Cina, poi, dovrebbe far sorridere, dal momento che Pechino non si priverebbe mai di sussidi e imprese di stato.

È molto probabile che Xi Jinping sia interessato solo ad avvicinarsi all’Europa prima che la nuova amministrazione Usa possa tessere una posizione occidentale comune, pronto a rimangiarsi questi impegni all’occorrenza, com’è abitudine della diplomazia cinese.

In tal caso, con il loro opportunismo i leader europei avrebbero minato gli sforzi per creare un fronte occidentale comune in grado di costringere la Cina ad accettare finalmente le regole del gioco dell’ordine economico liberale.

Oltre a snobbare l’amministrazione Usa entrante, il frettoloso riavvicinamento tra Unione europea e Cina spiazza tutti coloro che si illudono che la presidenza Biden possa dare inizio ad un fronte transatlantico comune contro la Cina. Per due motivi. Primo, perché come abbiamo visto, la strada intrapresa dall’Ue è divergente. Secondo, anche perché, nonostante le intenzioni dichiarate, la strategia nei confronti di Pechino della nuova amministrazione Usa si basa su presupposti che già hanno dato prova di essere fallaci e promette quindi di essere inefficace.

È proprio il nuovo approccio annunciato da Biden e dai suoi consiglieri, infatti, ad aver convinto gli europei di poter concludere l’accordo con Pechino senza rischiare rappresaglie o conseguenze – al massimo una passeggera “insoddisfazione” del presidente eletto. Alleati rassicurati che non sarebbero più stati minacciati o puniti unilateralmente da Washington per le loro decisioni, come faceva l’amministrazione Trump; e chiarito che l’obiettivo di Biden non è una nuova Guerra Fredda con Pechino, ma il ritorno alla politica dell’engagement, un ordine globale che includa, non escluda la Cina, sebbene cercando di far evolvere le sue posizioni verso le richieste occidentali.

Chi sperava in un cambio di rotta a Berlino ha quindi peccato di ottimismo. Innanzitutto, perché l’industria tedesca è troppo esposta alla Cina, è il frutto avvelenato di una economia che punta tutto sull’export. Ma è difficile non vedere come per l’Ue a guida tedesca questo accordo non sia dettato solo da logiche commerciali ed economiche, ma anche geopolitiche. È impensabile che tali implicazioni non siano state prese in considerazione.

È vero che a Berlino il concetto di “autonomia strategica” viene declinato in termini meno ingenui rispetto a Parigi: i tedeschi sanno bene di non poter fare a meno della sicurezza garantita dai contribuenti americani, e quindi di dover fare qualche sforzo per tenere in piedi l’alleanza con gli Usa. Ma nell’uscita di Trump dalla Casa Bianca – un presidente che non ha avuto scrupoli a ridurre il contingente Usa in Germania – vedono uno scampato pericolo, proprio quello di dover scegliere tra l’ombrello di sicurezza Usa e i loro interessi economici con la Cina.

Quindi, a Berlino sono convinti di poter trattare con Biden, offrendo lealtà a Washington a dispetto delle velleità macroniane (gli europei sanno che “devono assumersi maggiori responsabilità”, “fare sforzi più grandi sul fronte della sicurezza”, difesa Ue “complementare” alla Nato) e ottenendo in cambio spazi di manovra per continuare a perseguire indisturbati e senza rischi la propria vocazione eurasiatica.

Solo che questa ricercata vocazione non può non avere un effetto sulla collocazione geopolitica dell’Europa, che rischia – come hanno avvertito sia Kissinger che il già citato Michta – di diventare una penisola dell’Eurasia, la coda di una catena di approvvigionamento eurasiatica controllata dalla Cina, permettendo alla fine a Pechino di dominare l’Europa e puntare all’egemonia globale.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Russia, Europa, USA e Cina

Messaggioda Berto » lun gen 04, 2021 8:07 am

Trump e Brexit lo dimostrano: il vero pericolo per la libertà economica è la centralizzazione
Atlantico Quotidiano
Marco Faraci
4 gennaio 2021

https://www.atlanticoquotidiano.it/quot ... izzazione/

Il “pericolo dazi” viene usato come spauracchio contro i “sovranismi”, per sostenere politiche di centralizzazione, ma è questa il vero pericolo per la libertà economica. Con Trump gli Usa non si sono certo ritirati dal commercio mondiale. E tra Regno Unito e Ue si continueranno a intrattenere relazioni economiche win-win, senza che siano più in campo totem ideologici, dall’ineluttabile prospettiva di una “ever closer union” all’idea dell’inscindibilità tra mercati aperti e immigrazione incontrollata

C’è un attacco frequente che viene portato dagli europeisti “liberal-democratici” al liberalismo euro-scettico. Secondo i cosiddetti “liberal-democratici”, il libero mercato è possibile solamente se sostenuto da un quadro politico unitario, mentre i “sovranismi” sfocerebbero inevitabilmente in politiche protezioniste ed autarchiche.

In altre parole, senza l’Unione europea e, più in generale, senza istituzioni sovranazionali con poteri sempre crescenti, il mondo andrebbe alla deriva verso dazi e chiusure di stampo nazionalista.

Questa teoria appare poco convincente, nel momento in cui è evidente che, quasi sempre, sono gli Stati piccoli e sovrani – si pensi alla Svizzera o a Singapore – ad essere i più “globalizzati”.

Ma anche le moderne politiche cosiddette “unilateraliste” o “sovraniste” non sembrano rappresentare il pericolo per il libero mercato che sovente viene attribuito loro.

Pensiamo all’America. Siamo davvero convinti che, dopo quattro anni di ricette trumpiane, l’America commerci meno di quanto avvenisse in passato? La verità è che, durante l’amministrazione Trump, il commercio estero americano ha continuato a crescere ad un ritmo sostenuto, sia per quanto riguarda l’export che per quanto riguarda l’import. Il NAFTA è stato rimpiazzato dall’USMCA, la Trans Pacific Partnership sostituita da accordi bilaterali con Giappone e Corea del Sud, ed un primo accordo con il Regno Unito post-Brexit comincia a profilarsi.

E i famosi dazi, contro cui i nostri media hanno gridato “Al lupo! Al lupo!”? Com’era prevedibile, il loro effettivo impatto sul complesso delle relazioni commerciali è stato ridotto. L’America non si è certo ritirata dal commercio mondiale.

E pensiamo alla Brexit. L’accordo che alla fine è stato trovato tra Londra e Bruxelles salvaguarda la sostanza delle relazioni di libero scambio ed evita l’introduzione di dazi e quote.

Per quanto, in molti casi, fossero proprio molti europeisti nominalmente “pro-mercato” a tifare per dazi e altre “punizioni esemplari” per i britannici, alla fine relazioni internazionali efficaci non si intrattengono con dispetti e risentimenti – e il “deal” firmato è la dimostrazione che si può commerciare liberamente anche senza avvinghiarsi in smisurate unioni politiche.

Tra Regno Unito ed Europa continentale si continueranno a intrattenere relazioni economiche win-win, senza che siano più in campo totem ideologici, dall’ineluttabile prospettiva di una “ever closer union” all’idea dell’inscindibilità tra mercati aperti e immigrazione incontrollata.

Nella pratica, quindi, il “pericolo dazi” che viene usato come spauracchio per sostenere politiche di centralizzazione si sta rivelando di parecchio sopravvaluto. Esiste, naturalmente, un “rischio dazi”, ma è fortunatamente molto limitato e non per ragioni di generalizzata adesione ideologica ai princìpi dell’economia liberale, quanto ben più prosaicamente perché i dazi non funzionano; sono inefficienti e controproducenti e danneggiano non solo chi li subisce, ma anche chi li impone.

Chi chiude (o socchiude) le frontiere al commercio sa che ci perde. Per questa ragione è improbabile che, tra moderni stati occidentali, le politiche protezioniste possano andare oltre il livello puramente simbolico che può essere necessario a conquistare il consenso elettorale di qualche constituency. Come nel caso delle politiche di Trump verso la Cina, è qualcosa che si può fare in casi particolari e circoscritti, come “sfida” a Paesi che abbiano un record inaccettabile nel campo dei diritti umani o rappresentino un reale pericolo geo-strategico – ma comunque mettendo in conto che ci si sta rimettendo. In nessun caso è possibile fare dei dazi la chiave di una strategia economica di successo.

In definitiva, la decentralizzazione politica non rappresenta un pericolo per il libero mercato e la globalizzazione, in quanto, tra Stati indipendenti, tutti gli incentivi sono, comunque, nella direzione della cooperazione economica e del libero commercio.

È, invece, proprio la centralizzazione a rappresentare il vero pericolo per la libertà economica perché in quel tipo di contesto la tendenza va nella direzione della deresponsabilizzazione, del parassitismo territoriale e di scelte economiche di breve periodo.

Il problema è che in un ambito quale quello dell’Ue, ad esempio, il “comportamento razionale” di ogni politico è proprio quello di ottenere il massimo ritorno per il proprio territorio ed il proprio elettorato di riferimento, a spese di tutti gli altri. Questo ritorno può assumere tante forme, dall’orientamento delle scelte politiche e burocratiche, al sistematico “azzardo morale” nelle decisioni di spesa pubblica. In altre parole, massimizzare la spesa per acquisire il consenso, appoggiandosi poi alla copertura offerta dalla Bce, risulterà sempre preferibile rispetto al fare digerire al proprio elettorato politiche di disciplina fiscale. Ceteris paribus, qualunque politica più oculata avrebbe meno successo.

La verità è che, mentre i rischi potenziali legati alla decentralizzazione politica sono disinnescati dagli evidenti incentivi di mercato offerti dal libero commercio, non esiste nessuna forma di ribilanciamento che possa tenere sotto controllo i rischi della centralizzazione.

Anzi, in un quadro istituzionale centralizzato, tutti gli incentivi vanno nella direzione dell’adozione di policy deteriori: offuscare il rapporto tra spesa pubblica e suo finanziamento, localizzare i vantaggi, centralizzare e ri-distribuire i costi. È da sempre la cifra del rapporto tra regioni e Stato centrale in Italia, lo è e lo sarà sempre più quella del rapporto tra Stati membri e Unione europea. In definitiva, chi crede nell’economia liberale, non ha ragione di guardare con riverenza alle entità sovranazionali e di temere la Brexit e gli altri movimenti politici che vanno nella direzione di una maggiore pluralità istituzionale. Al contrario, deve sempre più realizzare come il pericolo per i sani principi economici venga proprio da quelle gigantesche entità istituzionali in grado di sospendere i più basilari concetti di accountability, incoraggiando dinamiche malsane e disfunzionali.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Russia, Europa, USA e Cina

Messaggioda Berto » sab gen 30, 2021 8:25 pm

Bravo Musk
Contrasto al mostro cinese e delocalizzazione multinazionale in India per rafforzare questo paese come baluardo anticinese, aiutandolo ad uscire dalla sua povertà.

The first Tesla model available in India will be the Model 3. The company may also start manufacturing cars directly in the country. This was confirmed by Tesla CEO Elon Musk on Twitter, who specified that Tesla won’t be launched on the Indian market in January.
Tesla, a US company that manufactures electric cars, will start operations in India this year.

https://www.digitalnomadslifestyle.com/ ... elon-musk/

This was revealed by Indian Transport Minister Nitin Gadkari in an interview published by The Indian Express. Musk had previously hinted at the opportunity over the past few months… In October, the government of the Indian state of Maharashtra – in the western part of the nation – had invited Tesla to the state, as reported by Reuters.
Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è colton-kresser-U_9dLUAs1Q-unsplash.jpg

The first Tesla model to be available in India will be the Model 3, the cheapest among the vehicles produced by the company. According to The Economic Times, the starting price will be 5.5 million rupees (nearly $75,000).
Minister Gadkari told Indian Express that, in addition to selling them, Tesla may be interested in assembling and manufacturing its cars directly in the country.

In fact, the Indian government wants to reduce the country’s dependence on fossil fuels and to cut down air pollution levels. A study conducted this year by Niti Aayog, a think tank chaired by Prime Minister Narendra Modi, claims that India could save $40 billion over the next decade if electric vehicles were widely adopted.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è India_Smog_pollution_Delhi.0-1024x683.jpg

The local government has also pushed the ridesharing companies Uber and local competitor Ola Cabs to convert their fleet of cars to electric, with a plan to convert 40% of vehicles by 2026. However, efforts to promote electric cars have been complicated by a lack of investment and a shortage of necessary infrastructure, such as charging stations.

Not only Tesla to the conquest of India

Tesla will thus become yet another American giant to set its sights on India. In recent months Google and Facebook, both of which identify India as their biggest market by users, have signed multibillion-dollar agreements with Jio Platforms, the largest telecom platform in the country. Apple has also ramped up its production, with the aim of conquering a larger slice of the smartphone market, dominated today by Chinese manufacturers.


Il primo modello Tesla disponibile in India sarà il Modello 3. L'azienda potrà anche iniziare a produrre automobili direttamente nel paese. Ciò è stato confermato dall'amministratore delegato di Tesla Elon Musk su Twitter, che ha specificato che Tesla non sarà lanciata sul mercato indiano a gennaio.
Tesla, una società statunitense che produce auto elettriche, inizierà a operare in India quest'anno.

Lo ha rivelato il Ministro dei Trasporti indiano Nitin Gadkari in un'intervista pubblicata da The Indian Express. Musk aveva già accennato a questa opportunità nei mesi scorsi... In ottobre, il governo dello stato indiano del Maharashtra - nella parte occidentale della nazione - aveva invitato Tesla nello stato, come riportato da Reuters.

Il primo modello Tesla disponibile in India sarà il Modello 3, il più economico tra i veicoli prodotti dall'azienda. Secondo l'Economic Times, il prezzo di partenza sarà di 5,5 milioni e mezzo di rupie (quasi 75.000 dollari).
Il ministro Gadkari ha detto all'Indian Express che, oltre a venderli, la Tesla potrebbe essere interessata ad assemblare e produrre le sue auto direttamente nel Paese.

Infatti, il governo indiano vuole ridurre la dipendenza del Paese dai combustibili fossili e abbattere i livelli di inquinamento atmosferico. Uno studio condotto quest'anno da Niti Aayog, un think tank presieduto dal primo ministro Narendra Modi, sostiene che l'India potrebbe risparmiare 40 miliardi di dollari nel prossimo decennio se i veicoli elettrici fossero ampiamente adottati.

Il governo locale ha anche spinto le società di ridesharing Uber e la concorrente locale Ola Cabs a convertire il loro parco macchine in elettrico, con un piano di conversione del 40% dei veicoli entro il 2026. Tuttavia, gli sforzi per promuovere le auto elettriche sono stati complicati dalla mancanza di investimenti e dalla carenza di infrastrutture necessarie, come le stazioni di ricarica.

Non solo Tesla alla conquista dell'India

Tesla diventerà così l'ennesimo gigante americano a puntare sull'India. Negli ultimi mesi Google e Facebook, entrambi identificano l'India come il loro più grande mercato per gli utenti, hanno firmato accordi multimiliardari con Jio Platforms, la più grande piattaforma di telecomunicazioni del Paese. Anche Apple ha incrementato la sua produzione, con l'obiettivo di conquistare una fetta più ampia del mercato degli smartphone, dominato oggi dai produttori cinesi.





La Cina avverte gli Usa: "L'indipendenza di Taiwan significa guerra"
Federico Giuliani
30 gennaio 2021

https://it.insideover.com/politica/la-c ... uerra.html

“Chi gioca con il fuoco prima o poi brucerà solo se stesso”. Considerando che il mittente di questo avvertimento è il portavoce del Ministero della Difesa cinese, Wu Qian, e che il destinatario è Taiwan, è importante inquadrare il tema della discussione. L’indipendenza taiwanese è improvvisamente tornata al centro dell’agenda internazionale. L’entrata in carica della nuova amministrazione statunitense guidata da Joe Biden ha riacceso i riflettori sulla provincia ribelle, rivendicata da Pechino come parte integrante del proprio territorio.

Non a caso, Taiwan è uno dei nervi scoperti della Cina sul quale tanto ha battuto Donald Trump. Fino a qualche mese fa, sembrava che Washington volesse utilizzare – non solo a parole – la leva taiwanese per limitare la presenza di Pechino nel Mar Cinese Meridionale e, al tempo stesso, espandere la propria influenza nella regione. Dopo la sconfitta elettorale di Trump, alcuni esperti ritenevano che Biden potesse approcciarsi alla issue cinese in maniera molto più soft del proprio predecessore. In realtà, sta accadendo l’esatto contrario di quanto ipotizzato dagli analisti. Gli Stati Uniti, come ha confermato il neo segretario di Stato usa, il falco Antony Blinken, continueranno a considerare la Cina il loro nemico principale.


Clima incandescente

In che modo, dunque, il governo americano cercherà di ridimensionare l’ascesa cinese? In due modi. Il primo: giocando di sponda con gli alleati sparsi in Asia, anche se sarà difficile trovare una quadratura del cerchio, dato che adesso, a differenza del passato, c’è in ballo il maxi accordo economico Rcep. Il secondo: aumentando la pressione sui grandi problemi irrisolti, tra cui il tema dei diritti umani e l’indipendenza di Taiwan. Quest’ultimo, in particolare, è un nodo spinosissimo perché affonda le sue radici nella storia della Repubblica Popolare cinese.

Evitando di ripercorrere gli anni della Guerra civile, e senza etichettare le parti in causa in termini di “buoni” e “cattivi”, ci limitiamo ad analizzare la situazione attuale. E la situazione attuale non lascia presagire niente di buono. Sia chiaro: sono anni che la Cina lancia avvertimenti più o meno espliciti alla controparte taiwanese, senza che sia mai accaduto niente di eclatante. Negli ultimi mesi, abbiamo tuttavia assistito a una pericolosa escalation. Pechino ha più volte inviato i suoi aerei militari in missioni borderline, con ripetute violazioni territoriali segnalate dall’allarmato governo taiwanese; Taipei, approfittando dell’ombrello americano, ha invece approfondito le relazioni con Washington. Ne è uscito un cocktail esplosivo.


La risposta cinese

Nel mirino della Cina ci sono le forze separatiste che sostengono l’indipendenza di Taiwan. E qui entrano in gioco i messaggi espliciti lanciati dal portavoce del ministero della Difesa Wu. L’Esercito popolare di liberazione cinese (PLA) prenderà tutte le misure necessarie per reprimere qualsiasi tentativo di dividere Taiwan dalla Cina, avvertendo che “indipendenza di Taiwan” significa guerra. Le recenti attività militari del PLA nello Stretto di Taiwan sono state una “risposta solenne” alle interferenze delle forze esterne e alle provocazioni delle forze di “indipendenza di Taiwan”, ha detto Wu, aggiungendo che erano azioni necessarie nell’attuale situazione di sicurezza attraverso lo Stretto per salvaguardare la sovranità e la sicurezza nazionale.

Taiwan ha riferito che più caccia e bombardieri cinesi sono entrati nella Zona di identificazione della difesa aerea sud-occidentale durante il fine settimana, suscitando preoccupazione a Washington. Pechino sostiene che il governo democraticamente eletto di Taipei stia spingendo l’isola verso una dichiarazione di indipendenza ufficiale, anche se la presidente taiwanese Tsai Ing-wen ha ripetutamente affermato che si tratta già di un Paese indipendente chiamato Repubblica di Cina, il suo nome formale. Nel frattempo, gli Stati Uniti hanno inviato la portaerei Roosevelt nei pressi dell’isola. Il mezzo è transitato attraverso il Canale di Bashi, tra Taiwan e le Filippine, potenzialmente alla portata dei missili anti-nave cinesi Yj-12, di cui alcuni degli aerei che hanno sorvolato lo spazio aereo di Taiwan sono dotati.
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Re: Russia, Europa, USA e Cina

Messaggioda Berto » sab gen 30, 2021 8:26 pm

Più armi e infrastrutture: così la Cina rinforza la sua frontiera meridionale
Paolo Mauri
12 gennaio 2021

https://it.insideover.com/guerra/piu-ar ... onale.html


Il 2020 ha visto, tra i suoi fronti caldi, il risorgere delle tensioni tra Cina e India per il controllo sul Kashmir, regione della catena himalayana contesa, in una partita a tre, tra Pechino, Islamabad e Nuova Delhi.

Il parossismo di questa nuova stagione di confronto tra i due giganti asiatici è avvenuto a giugno, quando nella regione del Ladakh, ed in particolare nella valle di Galwan, soldati indiani e cinesi sono giunti, letteralmente, a scontrarsi a colpi di mazze e sassi, provocando qualche decina di morti da ambo le parti.

A seguito di quell’episodio entrambi i contendenti hanno intrapreso un’accelerazione del processo di rinforzo della proprie Forze Armate, ma la Cina ha anche aumentato la velocità dei lavori infrastrutturali nella sua regione meridionale confinante con l’India: il Tibet occupato militarmente tra il 1949 ed il 1950.

Le ultime immagini satellitari che ci provengono da fonti aperte di intelligence hanno evidenziato come in prossimità della cittadina di Shigatse (nel Tibet sudorientale), il locale aeroporto stia per essere connesso alla rete ferroviaria, costruita a tempo di record. Le riprese mostrano, oltre ai progressi nella costruzione della linea, anche una nuova base per missili Sam (Surface-to-Air Missile), una serie di edifici che si ritiene siano degli acquartieramenti militari di supporto, ma soprattutto una qualche attività sotterranea, evidenziata da cumuli di terra di riporto e dall’individuazione di due ingressi nella montagna.

La costruzione di infrastrutture viabilistiche nel Tibet, soprattutto ferroviarie, non è affatto una novità: lo scorso anno lo stesso presidente Xi Jinping aveva posto l’accento sulla necessità di aumentare gli sforzi per l’ultimazione della linea ferroviaria Chengdu-Lhasa, facente parte del progetto Sichuan-Tibet Railway, che andrà a collegare l’esistente rete della Cina orientale con la capitale del Tibet passando per Ya’an e Nyingchi. La linea, formalmente, è per scopi civili: secondo i progetti sarà ad alta velocità, ovvero in grado di sostenere il traffico di treni che viaggiano sino a 200 Km/h, ma, come quasi sempre accade quando si tratta di un certo tipo di infrastrutture costruite dalla Cina, avrà un utilizzo duale.

La ferrovia, di cui si prevede il completamento entro il 2030, metterà in comunicazione gli snodi aeroportuali della zona e fornirà un importante aiuto alla logistica in campo militare, permettendo il rapido dispiegamento di mezzi pesanti. Guardando ad una carta geografica si capisce bene come l’infrastruttura sarà strategica per l’Esercito Cinese: collegherà località situate a poche decine di chilometri dal confine con l’India e dai territori contesi come il Dokalam, dove si ebbero scontri nel 2017.

Pechino lavora alacremente alla costruzione del suo reticolo stradale e ferroviario in tutta la regione di confine: proprio a ridosso del confine, presso il lago Spanggur Tso, uomini del genio hanno costruito a tempo di record una nuova strada più al riparo dallo sguardo dei militari indiani, arroccati sulla montagna in posizione dominante, e lo stesso tipo di lavori è stato effettuato anche in altri settori della Lac (Line of Actual Control), la linea di controllo effettivo che separa il Kashmir indiano da quello cinese.

Parallelamente la Cina ha fatto affluire nella regione, lentamente ma con costanza, sempre più uomini e armamenti: oltre ad aver costruito nuovi acquartieramenti proprio nella zona contesa, le basi aeree circostanti hanno visto aumentare la presenza di velivoli e altri mezzi. A ottobre dell’anno scorso, ad esempio, sulla base di Hotan, situata circa a soli 300 chilometri di distanza dal confine indiano, sempre la ricognizione satellitare ha individuato, oltre a un numero consistente di cacciabombardieri J-20, alcuni Uav (Unmanned Air Vehicle) da ricognizione di grosse dimensioni, capaci di voli di lunghissima durata anche di 30 ore, in grado quindi di garantire attività di ricognizione persistente e senza preavviso (al contrario dei satelliti la cui orbita è nota e perciò sono ampiamente prevedibili i tempi dei loro passaggi).

Sempre per quanto riguarda il dispiegamento di armamenti e altri sistemi, la Cina ha anche rinforzato il suo fronte meridionale dislocando nuove postazioni di radar a medio/lungo raggio, in modo da avere una qualche forma di allarme precoce in caso di attacco indiano.

Va anche ricordato come, nei passati mesi estivi, lungo tutta la regione che va dall’Aksai Chin sino al confine con l’Arunachal Pradesh, siano spuntati eliporti a macchia di leopardo: un altro segnale dell’importanza data da Pechino alla regione ed indice della non sottovalutazione, da parte del Politburo, della diatriba di confine che la contrappone a Nuova Delhi.

La rigida stagione invernale sul “tetto del mondo” sembra quindi avere solo rallentato questo processo di rinforzo dei confini meridionali della Cina, e la costruzione di nuove infrastrutture, che sta avvenendo a tempo di record, dimostra, ancora una volta, come Pechino guardi oltre il loro esclusivo scopo civile. La stessa filosofia viene utilizzata, infatti, anche nel quadro più ampio della Nuova Via della Seta (Belt and Road Initiative): i porti che le società cinesi stanno costruendo per conto degli Stati ospitanti tra il Pacifico Occidentale e l’Oceano Indiano sono concepiti non solo come scali commerciali, ma potenzialmente anche come basi logistiche per il naviglio militare.

Un Natale di pace per i Cristiani che soffrono




La Cina avverte gli Usa: "L'indipendenza di Taiwan significa guerra"
Federico Giuliani
30 gennaio 2021

https://it.insideover.com/politica/la-c ... uerra.html

“Chi gioca con il fuoco prima o poi brucerà solo se stesso”. Considerando che il mittente di questo avvertimento è il portavoce del Ministero della Difesa cinese, Wu Qian, e che il destinatario è Taiwan, è importante inquadrare il tema della discussione. L’indipendenza taiwanese è improvvisamente tornata al centro dell’agenda internazionale. L’entrata in carica della nuova amministrazione statunitense guidata da Joe Biden ha riacceso i riflettori sulla provincia ribelle, rivendicata da Pechino come parte integrante del proprio territorio.

Non a caso, Taiwan è uno dei nervi scoperti della Cina sul quale tanto ha battuto Donald Trump. Fino a qualche mese fa, sembrava che Washington volesse utilizzare – non solo a parole – la leva taiwanese per limitare la presenza di Pechino nel Mar Cinese Meridionale e, al tempo stesso, espandere la propria influenza nella regione. Dopo la sconfitta elettorale di Trump, alcuni esperti ritenevano che Biden potesse approcciarsi alla issue cinese in maniera molto più soft del proprio predecessore. In realtà, sta accadendo l’esatto contrario di quanto ipotizzato dagli analisti. Gli Stati Uniti, come ha confermato il neo segretario di Stato usa, il falco Antony Blinken, continueranno a considerare la Cina il loro nemico principale.


Clima incandescente

In che modo, dunque, il governo americano cercherà di ridimensionare l’ascesa cinese? In due modi. Il primo: giocando di sponda con gli alleati sparsi in Asia, anche se sarà difficile trovare una quadratura del cerchio, dato che adesso, a differenza del passato, c’è in ballo il maxi accordo economico Rcep. Il secondo: aumentando la pressione sui grandi problemi irrisolti, tra cui il tema dei diritti umani e l’indipendenza di Taiwan. Quest’ultimo, in particolare, è un nodo spinosissimo perché affonda le sue radici nella storia della Repubblica Popolare cinese.

Evitando di ripercorrere gli anni della Guerra civile, e senza etichettare le parti in causa in termini di “buoni” e “cattivi”, ci limitiamo ad analizzare la situazione attuale. E la situazione attuale non lascia presagire niente di buono. Sia chiaro: sono anni che la Cina lancia avvertimenti più o meno espliciti alla controparte taiwanese, senza che sia mai accaduto niente di eclatante. Negli ultimi mesi, abbiamo tuttavia assistito a una pericolosa escalation. Pechino ha più volte inviato i suoi aerei militari in missioni borderline, con ripetute violazioni territoriali segnalate dall’allarmato governo taiwanese; Taipei, approfittando dell’ombrello americano, ha invece approfondito le relazioni con Washington. Ne è uscito un cocktail esplosivo.


La risposta cinese

Nel mirino della Cina ci sono le forze separatiste che sostengono l’indipendenza di Taiwan. E qui entrano in gioco i messaggi espliciti lanciati dal portavoce del ministero della Difesa Wu. L’Esercito popolare di liberazione cinese (PLA) prenderà tutte le misure necessarie per reprimere qualsiasi tentativo di dividere Taiwan dalla Cina, avvertendo che “indipendenza di Taiwan” significa guerra. Le recenti attività militari del PLA nello Stretto di Taiwan sono state una “risposta solenne” alle interferenze delle forze esterne e alle provocazioni delle forze di “indipendenza di Taiwan”, ha detto Wu, aggiungendo che erano azioni necessarie nell’attuale situazione di sicurezza attraverso lo Stretto per salvaguardare la sovranità e la sicurezza nazionale.

Taiwan ha riferito che più caccia e bombardieri cinesi sono entrati nella Zona di identificazione della difesa aerea sud-occidentale durante il fine settimana, suscitando preoccupazione a Washington. Pechino sostiene che il governo democraticamente eletto di Taipei stia spingendo l’isola verso una dichiarazione di indipendenza ufficiale, anche se la presidente taiwanese Tsai Ing-wen ha ripetutamente affermato che si tratta già di un Paese indipendente chiamato Repubblica di Cina, il suo nome formale. Nel frattempo, gli Stati Uniti hanno inviato la portaerei Roosevelt nei pressi dell’isola. Il mezzo è transitato attraverso il Canale di Bashi, tra Taiwan e le Filippine, potenzialmente alla portata dei missili anti-nave cinesi Yj-12, di cui alcuni degli aerei che hanno sorvolato lo spazio aereo di Taiwan sono dotati.


Ecco perché da Pechino, e non da Mosca, giunge il vero pericolo per la liberal-democrazia occidentale
Atlantico Quotidiano
Michele Marsonet
1 febbraio 2021

https://www.atlanticoquotidiano.it/quot ... cidentale/

In molti ambienti desta sconcerto il fatto che Vladimir Putin intrattenga rapporti preferenziali con numerosi partiti europei che si definiscono tradizionalmente di “destra”, e tenda invece a snobbare – per usare un eufemismo – quelli di sinistra (o presunti tali). Lo stesso vale per la stampa. Per leggere commenti equilibrati, per esempio, ai tempi del caso ucraino era meglio lasciar perdere Repubblica o Fatto quotidiano e verificare quanto veniva scritto in giornali conservatori o addirittura reazionari.

Com’è possibile? Putin non è forse l’erede diretto dei vecchi leader della defunta Unione Sovietica? E pure un funzionario di alto rango dell’ex KGB? Per chi è rimasto fermo a contemplare un mondo che non c’è più lo sconcerto è ovviamente giustificato. Ragionando secondo categorie tradizionali, l’Urss era il Paese che si contrapponeva in modo diretto al cosiddetto imperialismo americano e sosteneva le lotte di liberazione dei popoli in tutto il mondo. Naturale quindi considerare l’attuale Federazione Russa come continuatrice – per quanto con mezzi più limitati – di tale politica.

La realtà e la storia, tuttavia, cambiano con ritmi spesso così rapidi da causare disorientamento, e in tal senso il caso in questione è emblematico. A mio avviso occorre tener conto di due fatti di rilevanza estrema.

In primo luogo, e nonostante l’opinione contraria dell’ex presidente Usa Barack Obama, la Russia è tuttora una grande potenza. Lo è dal punto di vista militare, visto che può permettersi di inviare i propri aerei da guerra a rasentare (e pare, talvolta, sconfinando) lo spazio dei Paesi che appartengono alla Nato. Mosca non ha insomma paura di sfiorare lo scontro aperto, lasciando nel caso agli altri l’onere di provocarlo.

Lo è anche sul piano economico grazie alle immense risorse energetiche naturali e a un apparato industriale tuttora notevole. Siamo ben lontani dalla caratterizzazione – per la verità un po’ sciocca – che le diede l’ex presidente Barack Obama, secondo il quale la Russia stessa sarebbe “un Paese che non fa niente”. E infine lo è a livello culturale, campo in cui esercita una notevole attrazione anche perché la sua lingua continua a essere veicolare in molte altre nazioni.

In secondo luogo ho l’impressione che i russi abbiano rispetto all’Occidente una maggiore consapevolezza del pericolo estremo posto dal radicalismo islamico, tendendo quindi ad appoggiare coloro che a Ovest la pensano nello stesso modo.

Last but not least, la Russia ha alle spalle una tradizione imperiale che non è mai morta, nemmeno nel periodo sovietico quando venne travestita con elementi ideologici. E neppure è disposta a tollerare che le minoranze russofone, in alcuni casi assai consistenti, vengano vessate quando si trovano al di fuori dei confini della Federazione.

Ebbene, si dà il caso che, in Europa, i partiti politici in sintonia con Mosca siano per la maggior parte di destra, e che proprio per questo vengano spesso appoggiati. È così per il Front National di Marine Le Pen in Francia e per l’Unione Civica di Viktor Orban in Ungheria. E pare sia stato così, in termini diversi, anche per Lega di Matteo Salvini in Italia. Si tratta di formazioni politiche anti-Ue, ed è noto quanta irritazione avesse suscitato a Mosca l’appiattimento europeo sulla politica estera Usa nella vicenda ucraina.

Tutto questo può destare scandalo, ma diventa ragionevole se si comprende che i russi stanno soltanto difendendo i loro interessi nazionali. E in certi casi – faccio l’esempio della lotta al terrorismo islamista – basta poco per capire che i loro interessi in fondo dovrebbero coincidere con i nostri.

Tuttavia, ci sono altri elementi importanti di cui tenere conto. Come molti si attendevano, l’avvento a Washington dell’amministrazione “arcobaleno” di Joe Biden ha subito causato un peggioramento dei rapporti con Mosca. Anche i generali del Pentagono, infatti, sono rimasti alla vecchia Guerra Fredda, individuando nella Russia il pericolo maggiore che l’Occidente deve fronteggiare.

Nel frattempo la Repubblica Popolare Cinese ha assunto atteggiamenti sempre più aggressivi, tanto sul piano economico-commerciale quanto su quello militare. E, mette conto ribadirlo con forza, la coppia Barack Obama-Hillary Clinton ben poco aveva fatto per frenare l’espansionismo cinese, probabilmente non rendendosi conto della sua forza e pericolosità. Biden ha lasciato intenere che la politica anti-cinese di Donald Trump non verrà del tutto abbandonata. Ma ha pure fatto capire di essere intenzionato a cercare spazi di mediazione, suscitando reazioni soddisfatte da parte di Xi Jinping e del suo gruppo dirigente, ormai diventati campioni della globalizzazione e del multilateralismo, mentre schiacciano senza remore le istanze democratiche a Hong Kong e minacciano concretamente l’indipendenza di Taiwan.

L’Unione europea, come sempre, prende posizioni ambigue. Ad Angela Merkel interessa vendere Mercedes e BMW nel mercato cinese. Tutto il resto, dai diritti umani in giù, conta molto meno e può essere relegato nell’ambito delle dichiarazioni di principio, tanto belle quanto inutili.

Eppure la Repubblica Popolare sta diffondendo con successo nel mondo intero un modello politico e sociale estremamente autoritario, nel quale vige il controllo capillare e pressoché totale della popolazione, anche grazie all’uso distorto e pervasivo dell’Intelligenza Artificiale.

Da Pechino, quindi, e non da Mosca, giunge il vero pericolo per la liberal-democrazia occidentale. Anche perché i cinesi, a differenza dei russi, possono investire capitali enormi per acquisire industrie e infrastrutture. Con la presidenza Trump si era finalmente capito tutto questo e gli americani erano riusciti a creare difficoltà notevoli al regime di Pechino. Ora si rischia invece di tornare indietro. Biden è un presidente debole, prigioniero della succitata coalizione “arcobaleno” che l’ha fatto vincere (per quanto con notevole fatica). E si trova a capo di una nazione profondamente divisa la quale, piuttosto che combattere i nemici della democrazia, preferisce censurare i classici della Disney – “Dumbo”, “Peter Pan”, “Gli Aristogatti” – e abbattere a più non posso statue e monumenti di personaggi che appartengono alla storia degli Stati Uniti. Sarà quindi difficile contenere la minaccia cinese, dal momento che la stessa popolazione della Repubblica Popolare è rinchiusa dietro una cortina di bambù eretta con i più sofisticati strumenti della tecnologia contemporanea.
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Re: Russia, Europa, USA e Cina

Messaggioda Berto » gio mar 11, 2021 9:00 pm

Il Partito dello Stato di Diritto, il Congresso dei Radicali
Giulio Terzi
Articolo di Domenico Letizia per Avantionline.it del 9 luglio 2019

https://www.giulioterzi.org/rs/il-parti ... -radicali/

Dal 5 al 7 luglio si è tenuto a Roma il 41° Congresso del Partito Radicale Nonviolento Transnazionale Transpartito che ha deciso di rilanciare vertenze politiche transnazionali per la promozione e l’affermazione dello Stato di Diritto e dei diritti umani fondamentali. Il Congresso ha anche eletto Maurizio Turco alla Segreteria e Irene Testa alla Tesoreria. Alla Presidenza d’Onore: l’Ambasciatore Giulio Terzi di Sant’Agata, già Ministro degli Esteri e presidente del Global Committee for the Rule of Law “Marco Pannella”; la militante storica radicale Laura Arconti; Abdelbasset Ben Hassan, presidente tunisino dell’Istituto Arabo per i Diritti Umani e Sam Rainsy, capo della opposizione democratica in esilio della Cambogia. Toccante e politicamente forte è stata la relazione del tesoriere del Partito, eletto Segretario dal Congresso, Maurizio Turco che ha posto al centro dell’attenzione dell’azione del Partito il Manifesto-Appello dei Premi Nobel contro lo sterminio per fame nel mondo, nel tentativo di promuovere e coordinare un’azione capace di coinvolgere, quali interlocutori, soggetti istituzionali, politici, sociali, religiosi, in una lotta per lo sviluppo impedito dalle speculazioni finanziarie nel mercato dei beni alimentari, dalla concentrazione delle imprese nel settore agroalimentare, dall’accaparramento delle terre. Centrale resta la campagna per il riconoscimento del diritto umano e civile alla conoscenza da parte dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, per l’affermazione dello Stato di diritto democratico federalista laico, con la promozione di tutte le iniziative necessarie a tutti i livelli a partire dall’adozione di risoluzioni da parte del Parlamento europeo e dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa. Un lavoro intenso promosso da Matteo Angioli e con l’interminabile lavoro dell’ambasciatore Giulio Terzi e del deputato Roberto Rampi. Gli altri punti programmatici che il partito ha deciso di rilanciare riguardano la lotta per gli Stati Uniti d’Europa, unica alternativa sia all’assetto intergovernativo dell’Unione europea che ai nazionalismi politici ed ai protezionismi economici e l’elaborazione un documento di analisi e proposte di riforma per ripristinare valori e regole da Stato di Diritto in Italia, in settori cruciali per la vita democratica, come quelli dell’informazione e dei sistemi elettorali, della amministrazione della giustizia e del carcere, e della lotta alla criminalità, che verrà sottoposta alla discussione del Congresso degli iscritti italiani del Partito Radicale.

Il Congresso del Partito Radicale ha permesso di approfondire la nostra realtà internazionale soffermando l’attenzione sul pericolo di Putin che ha dichiarato di voler il superamento del liberalismo anche nelle democrazie occidentali e l’analisi del nuovo protagonista mondiale emergente: il colosso cinese.
A tal proposito, seguitissimo e atteso è stato l’intervento relazione dell’ambasciatore Giulio Terzi, già ministro degli Esteri, che ha sviscerato l’attualità della Cina. “La Cina di Xi Jinping è il punto di arrivo di un sistema di potere centralizzato, assoluto, imperniato sul PCC. Quel sistema aveva origine nella Lunga Marcia della Rivoluzione Maoista di settanta anni or sono. Lo stesso sistema evolveva negli anni Sessanta in senso ancor più repressivo attraverso la Rivoluzione Culturale. Ed era ancora lo stesso sistema a, per così dire, rigenerarsi nell’89, alimentandosi ancora una volta nel sangue; nella repressione di un movimento giovanile che invocava libertà e riforme, ma che veniva massacrato a piazza Tienanmen. Bieco paradosso della storia, nel momento in cui le tirannidi comuniste erano spazzate via da altre parti del mondo”, ha affermato Giulio Terzi, aggiungendo che la Cina “si dichiara tenace sostenitrice della libertà degli scambi, intendendola come libertà di invadere i mercati estesi, ma tenendo rigidamente controllato, protetto e – quando ritenuto utile – isolato il proprio mercato. La Cina pretende di investire e acquisire il pieno controllo nelle reti strategiche dell’energia, dei trasporti, della economia digitale in Europa e in America, ma vieta investimenti stranieri nelle stesse reti in Cina; Pechino esige che Huawei entri nel nostro 5G, una dimensione che aumenta di mille volte il potere di internet, per dominare gestione e flusso dei nostri dati, mentre blinda rigorosamente tutto il cyberspazio cinese alle società e negli operativi delle telecomunicazioni europei e americani”.

Durante i lavori congressuali, il Partito ha visto la partecipazione di compagni cambogiani, venezuelani, tibetani, inglesi, catalani, kosovari, di San Marino, che hanno richiamato all’importanza e alla centralità della lotta lanciata da Marco Pannella per la riaffermazione dei principi dello Stato di Diritto democratico, federalista e laico, contro ogni ragion di stato che cerca di sovrapporsi alla piena affermazione dei diritti fondamentali e universali di ogni singolo individuo e ricordando la scelta transnazionale del Partito Radicale compiuta trent’anni fa, in significativa coincidenza con la caduta del Muro di Berlino.
Seguitissimo è stato l’intervento di Rita Bernardini sull’emergenza carcere e giustizia giusta. Atteso da tutti i congressisti anche la relazione del direttore di Radio Radicale, Alessio Falconio che ha ringraziato le oltre 177.000 persone, le istituzioni pubbliche e private, e i gruppi parlamentari che si sono mobilitati per scongiurare la chiusura di Radio Radicale, unico e vero servizio pubblico di informazione in Italia come riconosciuto da un’esemplare segnalazione al Governo dall’Autorità per le Garanzie nelle Telecomunicazioni, evidenziando la necessità della prosecuzione della lotta per la salvezza di Radio Radicale e ribadendo quanto affermato del compianto direttore Massimo Bordin. L’obiettivo è quello di creare una piattaforma di promozione di diritti non negoziabile in quanto tesa a garantire ad ogni persona, di qualsiasi nazionalità, sesso, religione, il minimo di diritti volti a riconoscere la stessa dignità umana. Dignità umana che oggi, secondo l’ultimo rapporto sulla povertà della Banca Mondiale del 2018 non è garantita a 736 milioni di persone nel mondo che vivono in condizioni di povertà estrema, cioè con meno di 1,90 dollari al giorno. Il congresso del Partito Radicale ha visto l’affermarsi del dialogo politico e dell’azione per la promozione autentica dei diritti umani, differenziandosi anche da altre scelte di “altri radicali” che hanno deciso di inserirsi all’interno del sistema partitocratico, generando nuove visioni che non riguardano quelle lanciate dal Partito Radicale e che a pochi mesi dalle elezioni europee hanno già segnato il passo e rincorso il fallimento. Tali scelte non hanno intaccato la storia del Partito Radicale che torna a vivere con forza grazie alle nuove linee lanciate dall’azione del Partito Radicale Nonviolento. Un Partito a cui tocca iscriversi se si hanno a cuore i diritti fondamentali. Ringraziamenti infiniti vanno a Maurizio Turco che nonostante gli attacchi esteri ed interni ha svolto un meraviglioso lavoro.
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Re: Russia, Europa, USA e Cina

Messaggioda Berto » gio mar 11, 2021 9:01 pm

Cina, Xi Jinping annuncia: 'Sconfitta la povertà estrema”
25 febbraio 2021

https://tg24.sky.it/mondo/2021/02/25/xi ... verta-cina

La Cina ha ufficializzato "la vittoria totale" nell'eliminazione della povertà estrema. Durante la cerimonia tenuta nella Grande sala del popolo, il presidente Xi Jinping, chiudendo la campagna iniziata 8 anni fa con la sua salita al potere, ha marcato il ruolo centrale avuto dal Partito comunista cinese battutosi "per migliorare il benessere delle persone" e avendo la lotta alla povertà come "la sua missione originaria".

I numeri del piano contro la povertà

La Cina ha speso 1.600 miliardi di yuan (246 miliardi di dollari) nella campagna ad hoc dal 18esimo congresso del Pcc, portando fuori dalla povertà oltre 10 milioni di persone all'anno, fino a totali 98,99 milioni. I 128.000 villaggi e le 832 contee, ufficialmente censiti come in estrema difficoltà, sono stati tutti rimossi dalla lista dell'indigenza. Nel complesso, in 40 anni, a partire dalle riforme e dall'apertura del Paese verso l'esterno, "oltre 770 milioni di persone sono state portate fuori dalla povertà", contribuendo per più del 70% alla riduzione del fenomeno su scala globale, sempre nello stesso periodo, anticipando anche di 10 anni il target del 2030 del piano dell'Onu.

Xi: la Cina ha creato un miracolo

Con tali obiettivi raggiunti, la Cina ha creato un altro "miracolo" che "passerà alla storia", ha aggiunto con enfasi Xi, rimarcando vantaggi politici ed efficacia del modello socialista che consentono di mettere insieme le risorse necessarie per centrare un obiettivo ambizioso: solo formando "una comune volontà e un'azione congiunta" si creano i requisiti indispensabili per battere la povertà. La sua eliminazione "nelle aree rurali è un contributo fondamentale per raggiungere l'obiettivo di costruire una società moderatamente prospera sotto tutti gli aspetti", ha detto il presidente. Il Paese, ha osservato, ha creato un "esempio cinese" e ha dato un enorme contributo agli sforzi globali sulla complessa materia.
Le reazioni dei media locali

I media statali di Pechino hanno inquadrato il risultato come un regalo anticipato per il prossimo centesimo anniversario della fondazione del Pcc, che si festeggia quest'anno. Il Quotidiano del Popolo, la sua voce ufficiale, ha pubblicato un commento di due pagine in cui ha lodato il "salto storico" per piegare l'indigenza estrema sotto la guida di Xi. La Cina definisce la povertà rurale estrema un reddito pro capite inferiore a 4.000 yuan (620 dollari) all'anno, pari a 1,52 dollari al giorno, a fronte della soglia globale definita dalla Banca Mondiale di 1,90 dollari al giorno.



CINA Anp: la sfida di Xi Jinping all’Occidente
AsiaNews.it
10 marzo 2021

http://www.asianews.it/notizie-it/Anp:- ... 52579.html

Il presidente cinese vuole l’autosufficienza economica e quella tecnologica. Allargare la cooperazione con i Paesi che si mostrano disponibili. Creare un esercito che sappia “vincere guerre”. La riforma elettorale a Hong Kong. La divinizzazione del leader supremo.

Hong Kong (AsiaNews) – Autosufficienza tecnologica; rafforzamento militare e diplomatico; e repressione del dissenso: sono le armi di Xi Jinping per combattere le minacce interne ed esterne alla Cina. Il presidente cinese vuole arrivare a una “crescita di alta qualità” in una situazione internazionale “incerta”. Egli intende mettere in campo tutti gli strumenti necessari per resistere a quelle che considera le interferenze degli Usa e degli altri Paesi occidentali. Preparato il campo per mantenere Xi al potere fino al 2032 e anche oltre. L’analisi del giornalista e politologo Willy Lam. Per gentile concessione della Jamestown Foundation (traduzione a cura di AsiaNews).

Introduzione

Promuovendo l'autosufficienza tecnologica e reprimendo le libertà concesse in precedenza a Hong Kong, il presidente Xi Jinping ha accresciuto la capacità della Cina di sfidare le minacce straniere. Le strategie interne e diplomatiche fino al 2035 sono state fatte approvate durante le sessioni annuali della legislatura cinese, l'Assemblea nazionale del popolo (Anp), e della Conferenza consultiva politica del popolo cinese (Cpcpc), che si sono aperte a inizio mese.

La Cina è l'unico grande Paese al mondo ad aver registrato una crescita positiva nel 2020, funestato dalla pandemia da Covid-19. Approfittando di ciò, il Partito comunista cinese (Pcc) ha alimentato le fiamme del nazionalismo. Grazie a messaggi ottimistici su questioni economiche e di politica estera, esso ha anche rafforzato l’autorità di Xi, che è anche segretario generale del Partito e presidente della Commissione militare centrale (Cmc).

Il 5 marzo, nel suo rapporto annuale all’Anp sulle attività del governo, il premier Li Keqiang ha segnalato la sua fiducia sul futuro dell'economia cinese, fissando per il 2021 un parametro minimo del 6% di crescita del prodotto interno lordo. Li ha anche promesso di aggiungere 11 milioni di nuovi posti di lavoro nelle aree urbane, tagliando il tasso di disoccupazione cittadino al 5,5%. Nonostante che l'espansione economica in Cina si basi in questo momento sugli investimenti statali, Li ha indicato che il deficit di bilancio sarà ridotto dal 3,6% del Pil nel 2020 al 3,2% di quest'anno.

Il premier ha anche presentato il 14° piano quinquennale (2021-2025) e gli obiettivi a lungo termine fino al 2035. Entro i prossimi 15 anni, Pechino si aspetta di raddoppiare il suo Pil. Ciò richiede un tasso di crescita annuale tra il 4,7 e il 5%. L'economia, che si sta riprendendo dalla pandemia ad un ritmo piuttosto veloce, dovrebbe seguire un percorso di “sviluppo guidato dall'innovazione in modo da accelerare la realizzazione di un sistema produttivo moderno" (Gov.cn, 5 marzo). Li, che è il numero 2 nella gerarchia del Pcc, ha attribuito i risultati della Cina alla stretta osservanza del “Pensiero di Xi Jinping sul socialismo con caratteristiche cinesi per una nuova era" (China News Service, 5 marzo; Global Times, 5 marzo).

Cercare l'autosufficienza tecnologica

Una delle principali spinte del nuovo piano quinquennale è quella che il presidente Xi chiama "crescita di alta qualità", che dà la priorità all'autosufficienza tecnologica "in una situazione internazionale incerta". La leadership cinese sta ancora soffrendo per gli sforzi della vecchia e della nuova amministrazione Usa. Come Donald Trump, Joe Biden vuole ridurre la capacità delle aziende hi-tech cinesi di procurarsi componenti fondamentali come i microchip, prodotti in larga parte dagli Stati Uniti e dai suoi alleati. Biden ha lanciato una nuova iniziativa per stabilire una strategia comune di approvvigionamento con gli alleati: i principali Paesi dell’Unione europea, Giappone, Taiwan, India e Australia. L’intenzione è di contenere l'avanzata della tecnologia cinese (Asia Nikkei, 24 febbraio).

La spesa cinese per la ricerca scientifica e lo sviluppo è destinata a crescere del 7% all'anno. “La ricerca di base è la sorgente dell'innovazione scientifica e tecnologica”, ha detto Li nel suo intervento all’Anp. “Quindi assicureremo il funzionamento stabile dei meccanismi di finanziamento per la ricerca di base e aumenteremo la spesa in questo settore di una somma considerevole”. Il premier ha aggiunto che sarà migliorata “la capacità delle imprese di fare innovazione tecnologica”, liberata la “creatività dei talenti” e perfezionati i sistemi e i meccanismi “per fare innovazione scientifica e tecnologica”.

Miao Wei, membro anziano del Cpcpc ed ex ministro dell'Industria e della Tecnologia dell'informazione, ha delineato il contesto, notando che la Cina aveva bisogno di 30 anni per diventare un “forte Paese industrializzato”. Miao ha detto che anche se la sua base manifatturiera è enorme, la Cina è in ritardo rispetto alle nazioni avanzate in aree che includono “la capacità innovativa e gli standard innovativi, nonché la qualità del prodotto” (China News Service, 7 marzo).

Secondo una bozza del 14° piano quinquennale, sette aree tecnologiche, tra cui intelligenza artificiale (AI), calcolo quantistico, circuiti integrati, scienze del cervello, biotecnologie, assistenza sanitaria ed esplorazioni profonde della terra, del mare, dello spazio e polari, riceveranno finanziamenti prioritari per la ricerca e lo sviluppo. Li e altri alti dirigenti hanno ribadito che l'autosufficienza tecnologica è al centro della strategia della Cina per “sviluppare nuovi vantaggi” di fronte alla crescente ostilità e alle pressioni per separarsi dai principali Paesi occidentali (SCMP, 6 marzo; HK01.com, 5 marzo). Le scoperte in molte delle suddette aree, come intelligenza artificiale, circuiti integrati ed esplorazione spaziale, avranno anche conseguenze di vasta portata per la modernizzazione militare (Sohu.com, 31 dicembre 2019).

Politica estera e militare

Come negli anni precedenti, i temi principali dell'Anp sono stati gli sviluppi economici e sociali interni. Tuttavia, le preoccupazioni economiche e quelle estere e di difesa sono diventate sempre più intrecciate sotto Xi. Nel suo discorso, Li ha detto che la Cina è ansiosa di migliorare la cooperazione economica multilaterale, bilaterale e regionale con altre nazioni e che avrebbe continuato a sostenere il regime commerciale internazionale multilaterale. “La Cina è pronta a lavorare con altri Paesi per ottenere benefici reciproci sulla base di una maggiore apertura reciproca", ha detto il premier, senza fare alcun riferimento esplicito agli Stati Uniti.

Altri leader hanno sottolineato però che la Cina non ha paura di sfidare gli Stati Uniti o una coalizione guidata da Washington. In una conferenza stampa sponsorizzata dall’Anp, il ministro degli Esteri Wang Yi ha affermato che Pechino si atterrà al “pensiero di Xi Jinping sugli affari esteri” nel trattare con i Paesi rivali. Wang, che è anche consigliere di Stato, ha avvertito gli Usa di non intromettersi nelle politiche di Pechino su Hong Kong, Xinjiang e Taiwan. Egli ha criticato gli statunitensi per “interferire intenzionalmente negli affari interni di altri Paesi in nome della democrazia e dei diritti umani”. Le politiche americane, ha aggiunto Wang, creano “molti problemi nel mondo e, in alcuni casi, turbolenze e conflitti” (Xinhua, 7 marzo; Straits Times, 7 marzo).

Il premier Li ha preso una posizione aggressiva sulla necessità che l'Esercito popolare di liberazione (Pla) cerchi “nuovi, grandi risultati”. Il budget militare per quest'anno è stato fissato a 1.400 miliardi di yuan (206,1 miliardi di dollari), un aumento del 6,8% rispetto all’anno scorso. La cifra è di poco superiore all’aumento del 6,6% avuto nel 2020, ma è noto che il bilancio pubblicato non copre i costi per lo sviluppo di nuove armi (Deutsche Welle Chinese, 5 marzo). Li ha sottolineato che la costruzione dell'esercito deve seguire il "pensiero di Xi Jinping sul rafforzamento delle Forze armate”.

Sottolineando che l'esercito nel nuovo secolo deve rimanere sotto la responsabilità del presidente della Cmc, Li ha evidenziato l’imperativo di “costruire l'esercito attraverso la politica, e accrescere le forze attraverso la riforma, la tecnologia e i talenti". Secondo Li, la Cina deve “rafforzare l’addestramento e la preparazione alla guerra, e coordinare la capacità strategica di [gestire] i rischi per la sicurezza [nazionale] in tutte le direzioni e in tutte le arene” (China News Service, 5 marzo). Li ha ripetuto i recenti punti di discussione fatti da Xi. Per esempio, il presidente della Cmc ha indicato in un discorso ai capi militari a gennaio che il Pla deve “aumentare la sua capacità di combattere e vincere guerre” (Xinhua, 4 gennaio).

Nuove dure politiche verso Hong Kong

Le sessioni dell’Anp e della Cpcpc hanno anche assunto un atteggiamento di sfida in mezzo alle crescenti critiche dei Paesi occidentali sulle violazioni dei diritti umani da parte di Pechino nello Xinjiang e a Hong Kong. Uno dei punti salienti dell'Anp è stata l'introduzione di un nuovo sistema elettorale per scegliere il capo dell'esecutivo e i membri del Parlamento cittadino (Legco).

La logica dei cambiamenti deriva dalle precedenti istruzioni di Xi che solo i “patrioti” in buona fede possono guidare i poteri esecutivo, legislativo e giudiziario di Hong Kong. Di conseguenza, nel progetto di revisione elettorale è scritto che “le lacune e le carenze esistenti” devono essere affrontate per evitare che “elementi anti-Cina e destabilizzanti”, spesso in collusione con l'Occidente, ottengano posti negli organi di potere della città (Global Times, 5 marzo; Hong Kong Free Press, 5 marzo).

Ad esempio, prendiamo il Collegio elettorale che seleziona il capo dell’esecutivo di Hong Kong (che è poi nominato dal governo centrale). Il Collegio di 1.200 membri include una piccola percentuale di consiglieri distrettuali, la maggior parte dei quali eletti a suffragio universale diretto. Nel 2019 i politici pro-democratici hanno dominato in modo schiacciante l'ultima tornata di elezioni per i consiglieri distrettuali. I 117 posti nel Collegio elettorale riservati in precedenza ai consiglieri distrettuali saranno ora eliminati e dati ai membri del Cpcpc scelti da Pechino.

Il collegio elettorale sarà anche ampliato a 1.500 elementi, con l'obiettivo di dare a più “patrioti” – compresi gli abitanti della Cina continentale emigrati a Hong Kong dopo il 1997 – la possibilità di selezionare il capo dell’esecutivo. Come ha notato il vicepresidente dell’Anp Wang Chen, il sistema elettorale di Hong Kong deve “riflettere i principi e i criteri politici del popolo che amministra Hong Kong, con i patrioti come corpo principale" (Xinhua, 5 marzo; NPC.gov.cn, 5 marzo).

I membri del Legco saranno ampliati da 70 a 90. Tuttavia, la proporzione di legislatori che saranno scelti da “circoscrizioni geografiche” con un voto per persona, sarà ridotta. Un maggior numero di seggi sarà dato ai membri dell’Anp e della Cpcpc con sede a Hong Kong e ai rappresentanti delle imprese e delle associazioni professionali favoriti dal Pcc. Almeno un terzo dei seggi del Legco sarà nominato dal Collegio elettorale.

Altrettanto importante è che quest’organo funzionerà anche come organizzazione di controllo per garantire che politici e attivisti che vogliono candidarsi al Legco siano cittadini "patriottici", fedeli al governo centrale e a quello cittadino (Ming Pao, 6 marzo; SCMP, 6 marzo).

Le reazioni dei Paesi occidentali all'apparente tentativo di Pechino di minare la formula “un Paese, due sistemi” per gestire Hong Kong sono state rapide e di condanna. Il portavoce del dipartimento di Stato Usa Ned Price ha detto che la mossa era “un attacco diretto all'autonomia di Hong Kong, alle sue libertà e ai processi democratici”.

Price ha aggiunto che Washington sta lavorando con gli alleati “per incitare l’azione collettiva” contro le presunte violazioni cinesi dei diritti umani nello Xinjiang e la “repressione” a Hong Kong. Dichiarazioni simili sono state fatte dalle autorità del Regno Unito e della Ue (Takungpao.com, 7 marzo; Rthk.hk, 6 marzo). Chris Patten, l'ultimo governatore britannico di Hong Kong, ha detto che il Pcc ha “fatto il più grande passo finora per cancellare le libertà di Hong Kong e le aspirazioni di una maggiore democrazia sotto lo Stato di diritto” (Radio France International, 6 marzo).

Conclusione: Lo status di Xi è stato rafforzato

In un recente discorso al Politburo sulle prossime celebrazioni del centenario del Partito a giugno, Xi ha detto: “Mentre dobbiamo essere pieni di fiducia, dobbiamo allo stesso tempo essere consapevoli dei pericoli per la stabilità" (Ming Pao, 8 gennaio). In un intervento in gennaio alla Scuola centrale del Pcc, Xi ha notato che mentre la Cina e il mondo stavano affrontando tempi turbolenti, “il tempo e lo slancio sono dalla nostra parte”. Egli ha aggiunto che “le opportunità e le sfide sono senza precedenti, ma nel complesso le opportunità sono più grandi delle sfide” (Xinhua, 11 gennaio). La relazione di Li all’Anp ha rispecchiato in pieno le priorità di Xi, soprattutto il suo appello a tutti i cinesi a lavorare con dedizione e patriottismo per sviare le sfide dell'Occidente.

Le sessioni annuali dell’Anp e del Cpcpc sono dominate di solito dal premier e dai presidenti delle due assemblee: Li Keqiang, Li Zhanshu e Wang Yang. È evidente però che il leader supremo Xi ha tracciato le nuove direzioni del Paese fino al 2035. Nei rapporti presentati alle due sessioni, così come nelle discussioni pubblicizzate tra i delegati dell’Anp e della Cpcpc, le istruzioni di Xi su varie questioni vitali sono presentate come una guida preziosa per il Partito, il governo e i militari.

I media sono andati in fibrillazione elogiando il "Pensiero di Xi Jinping”. Al segretario generale del Pcc viene attribuito il merito di aver elaborato idee su economia, affari esteri, rafforzamento dell'esercito e su altri argomenti come la costruzione del Partito, quella sociale e quella ecologica (Ming Pao, 18 novembre 2020). Data l’ipotesi sempre più evidente che il 68enne Xi voglia servire oltre il consueto mandato di 10 anni, l’Anp e il Cpcpc di quest’anno hanno gettato una solida base per permettere al presidente cinese di mantenere il potere fino al 22° Congresso del Partito nel 2032 e anche oltre.
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Re: Russia, Europa, USA e Cina

Messaggioda Berto » ven apr 02, 2021 7:55 am

Cina, il Partito comunista e la “feroce guerra ideologica contro l’Occidente”. Così Pechino punta all’egemonia mondiale
Davide Turrini
24 marzo 2021

https://www.ilfattoquotidiano.it/2021/0 ... 1616570341

In "La mano invisibile - come il partito comunista cinese sta rimodellando il mondo" (Fazi Editore), i giornalisti australiani Clive Hamilton e Mareike Ohlberg descrivono come Pechino punti al “sabotaggio” dei sistemi democratici occidentali. Una compenetrazione che agisce parallelamente su più piani: diplomatico e politico, ma soprattutto economico, finanziario, culturale e perfino accademico

“Il Partito Comunista Cinese è determinato a rimodellare il mondo a sua immagine e somiglianza. Il partito non è interessato alla democrazia. Esso ha un solo obiettivo: vincere quella che considera una feroce guerra ideologica contro l’Occidente”. Farà molto discutere La mano invisibile – come il partito comunista cinese sta rimodellando il mondo scritto dai giornalisti australiani Clive Hamilton e Mareike Ohlberg (Fazi Editore), di cui ilfatto.it pubblica in anteprima uno stralcio. Un ricchissimo e profondo scandaglio storico-culturale sulla più grande contraddizione geopolitica del nuovo ordine mondiale: l’identificazione forzata di un intero popolo in un unico partito al potere senza contraddittorio alcuno oramai dal 1949, e il conseguente tentativo di imporsi di questo partito/stato con il proprio monumentale potere economico come nuovo paradigma politico egemonico in tutto il mondo.

Una strategia pianificata e montata da decenni che ha fatto andare gambe all’aria le profezie più à la page di un Huntington o di un Fukuyama. Già perché secondo Hamilton e Ohlberg si tratta di un vero e proprio “sabotaggio” dei sistemi democratici occidentali. Una compenetrazione che agisce parallelamente su più piani: diplomatico e politico, ma soprattutto economico, finanziario, culturale e perfino accademico. Una strategia totalizzante, orchestrata al millimetro, ripulita e censurata da ogni possibile contestazione o alternativa ideologica, ovvero l’incontestabile strategia del partito unico. Se ne parla poco, e quando sulle reti tv generaliste o sui grandi giornali lo si fa, si dà per assodato il grande “equivoco” del sapere che sta alla base di ogni errata informazione proveniente dalla Cina: “mescolare il partito, la nazione e il popolo”.

“La distinzione tra partito e popolo è indispensabile per capire il conflitto in corso tra la Cina e l’Occidente – spiegano gli autori – non è uno scontro di civiltà, non abbiamo di fronte un Altro di tipo confuciano ma un regime autoritario, un partito politico di orientamento leninista con tanto di comitato centrale, ufficio politico e segreteria generale sorretti da risorse economiche, tecnologiche e militari enormi”.

Hamilton e Ohlberg mostrano subito cosa significhi peraltro essere la seconda economia al mondo per dimensioni e sventolare possibili ritorsioni finanziarie. Oltretutto verso tre paesi industrialmente tra i più avanzati al mondo. Dopo l’arresto della dirigente Huawei, Meng Wanzhou in Canada nel 2018 vennero bloccati le esportazioni di soia, canola e maiale da oltreoceano. Ancora: nel 2017 la Corea del Sud comincia ad installare un sistema di missili antibalistici statunitensi e Pechino subito ordina “43 misure di ritorsione” contro Seoul tra cui il divieto di viaggi in Corea, il blocco di importazioni di elettrodomestici e cosmetici, perfino la censura su una band pop coreana in tour in Cina.

Anche se la più clamorosa ritorsione riguarda gli Stati Uniti. Nel 2019 il general manager della squadra di basket degli Houston Rockets twitta il suo appoggio ai manifestanti di Hong Kong. La Cina che fa? Non mostra più le partite dei Rockets in tv, gli sponsor si ritirano e il manager viene costretto a rimangiarsi ogni tweet perché “aveva ferito i sentimenti del popolo cinese”. Al centro di questa imponente e intramontabile macchina statale c’è (solo) il Partito Comunista Cinese che per via di un occidentale “analfabetismo politico” non se ne riconosce mai abbastanza l’allargamento ad ogni ambito della società cinese.

“Per capire anche quanto soltanto il Partito domini le altre istituzioni, basti pensare al fatto che l’Esercito Popolare di Liberazione non è l’esercito del paese, ma il braccio armato del partito; i dirigenti delle aziende statali sono nominati dal Dipartimento organizzativo del Partito; i mezzi di comunicazione non sono di proprietà dello Stato, ma del partito”. Gli autori non lesinano esempi di cooptazione cinese verso gli stati occidentali industrializzati (sui paesi del Sud del mondo, dicono, ci vorrebbe un altro volume) tra cui l’arrembante conquista, vero e proprio sharp power, dei paesi dell’Europa a partire dall’Italia, la prima e unica delle tre nazioni più economicamente avanzate d’Europa (con Francia e Germania) ad aver siglato nel maggio del 2019 ventinove accordi distinti ma chiamati Antica via della Seta (acronimo internazionale: BRI) imbeccati dal docente di finanza Michele Geraci, figura amata da Matteo Salvini, allora vicepremier nel governo Conte I.

Ne La mano invisibile si declina il potere persuasivo e ricattatorio del Partito Comunista Cinese verso il mondo in diverse forme attive tra cui il classico spionaggio che si dipana sia sul fronte militare, sia su quello industriale, ma soprattutto, e su questo Hamilton e Ohlberg abbattono uno dei tanti tabù occidentali spesso liquidati come razzismo anticinese, è sul sistema universitario internazionale che viene riversata una quantità di risorse e attenzioni che non ha eguali sul pianeta. Nel capitolo dodici viene illustrato quello che all’apparenza viene definito un soft power, ma che nel caso dell’onnipresenza degli Istituti Confucio negli atenei di mezzo mondo risulta una vera e propria attività di lobbying e pressione politica svolta dietro le quinte dove il ricatto economico del ritiro di masse di studenti (e relative rette universitarie, nonché finanziamenti cospicui) si incrocia alla censura sui classici argomenti scomodi al PCC come eventi culturali riguardanti la storia di Taiwan o la presenze negli atenei del Dalai Lama. Hamilton e Ohberg concludono la loro imponente indagine con una sorta di “che fare”, richiamando alla massima responsabilità civile le elite politiche e imprenditoriali, ma soprattutto quelle accademiche, e infine, ricordando che la difesa dalle “intimidazioni e dalle ingerenze del PCC travalica gli schieramenti politici tradizionali: persone di destra e di sinistra che hanno aperto gli occhi sulla minaccia rappresentata dal Partito, compresi coloro che hanno lasciato la Cina per sfuggirvi, stanno unendo le forze”.






La Cina contro H&M e Nike Scatta il boicottaggio per aver difeso gli uiguri
Gaia Cesare
26 marzo 2021

https://www.ilgiornale.it/news/politica ... 1616747598

Le aziende non acquistano più cotone dallo Xinjiang, dove la minoranza è perseguitata

Il capitalismo di Stato contro il capitalismo etico. E viceversa. La questione dei diritti umani violati in Cina approda sugli scaffali, quelli virtuali, delle aziende occidentali leader nel settore abbigliamento e scarpe, dalla svedese H&M all'americana Nike, dai colossi Adidas a Zara.

La Lega della Gioventù comunista, costola del Partito comunista cinese, ha lanciato una campagna di boicottaggio via Weibeo (il social network cinese alla Twitter) per punire la decisione del colosso svedese, che si rifiuta di acquistare il cotone della provincia dello Xinjiang, «preoccupata della tutela dei diritti umani» degli uiguri, minoranza musulmana perseguitata dal regime cinese.

La guerra diplomatica, la guerra dei valori e la guerra economica con l'Occidente si combattono, oltre che a dosi di vaccini anti-Covid, anche a colpi di tute da ginnastica e tailleur da ufficio. Per questo, mentre dagli Stati Uniti Joe Biden invita l'Europa e l'alleanza atlantica a un'alleanza contro la Cina, la gioventù comunista si è mobilitata, per additare ai social la scelta anti-cinese di molte aziende occidentali. A cominciare da H&M, numero due al mondo dell'abbigliamento retail. Nel 2020 - ecco l'accusa lanciata via web dalla Lega, che su Wiebo ha 15 milioni di follower - l'azienda svedese aveva annunciato che avrebbe smesso di comprare cotone dallo Xinjiang, l'area in cui si produce l'84% del cotone cinese, che è il 22% del totale mondiale. La ragione? La riduzione in schiavitù degli uiguri, costretti ai lavori forzati nei campi o nelle industrie tessili, la cui violazione dei diritti umani è stata condannata quattro giorni fa, con le sanzioni anti-cinesi decise da Unione europea, Stati Uniti, Regno Unito e Canada per la prima volta a trent'anni da piazza Tienanmen. «Il gruppo è profondamente preoccupato... per la discriminazione delle minoranze nello Xinjiang - recitava il post di H&M rilanciato con orrore dai giovani comunisti cinesi - Ciò significa che il cotone per la nostra produzione non verrà più acquistato da questa zona». Parole interpretate come una dichiarazione di guerra. Tanto che i prodotti H&M sono stati rimossi dalle principali piattaforme locali di e-commerce, da JD.com a Taobao passando per Pinduoduo. Stessa sorte toccata a Nike, primo marchio di abbigliamento sportivo al mondo, che si era fatta identici scrupoli. È la ritorsione per la politica di aziende che al business vogliono unire l'etica, fosse anche per questione di puro marketing, per inseguire la nuova sensibilità dei consumatori o per scelte geostrategiche. A giudicare dall'aria che tira su social e media cinesi, le prossime nella lista nera sono Adidas e Zara.

Che a Pechino non fosse andato giù il provvedimento concordato delle potenze occidentali Ue-Usa-Gb-Canada lo si era capito dalla ritorsione scattata subito dopo l'annuncio delle sanzioni il 22 marzo, con la Cina che ha ricambiato le misure ai danni di una dozzina fra deputati ed eurodeputati europei, ricercatori e istituzioni comunitarie come la Commissione per i diritti umani della Ue.

Non c'è mercato senza il controllo del partito, è la linea del capitalismo in salsa cinese. E Pechino si muove forte non solo del suo potere di produttore ma anche di consumatore. Per H&M, il «Dragone» è il quarto mercato più grande di riferimento, secondo solo agli Stati Uniti per punti vendita aperti, con 520 negozi contro i 593 degli Usa. È un potere che può essere sfruttato anche in funzione geopolitica e la Cina lo sta facendo, anche grazie ad alcuni vip, tra cui l'attore Huang Xuan e il collega e cantante Wang Yibo, che hanno risposto alla chiamata alle armi annunciando la fine dei contratti di sponsorizzazione con H&M e Nike. «Diffamare e boicottare il cotone dello Xinjiang mentre si spera di fare soldi con la Cina? Non lo si può nemmeno sognare!». Parola di Gioventù comunista.





La Cina invoca la guerra civilizzazionista contro l'America e l'Occidente
Gordon G. Chang
Gordon G. Chang è l'autore di "The Coming Collapse of China", è Distinguished Senior Fellow presso il Gatestone Institute e membro del suo comitato consultivo.
1 aprile 2021

https://it.gatestoneinstitute.org/17237 ... zazionista

C'era un "forte odore di polvere da sparo" quando i diplomatici americani e cinesi si sono incontrati ad Anchorage il 18 e il 19 marzo scorsi, secondo Zhao Lijian del Ministero degli Esteri cinese. "Polvere da sparo" è una di quelle parole che Pechino utilizza quando vuole che gli altri sappiano che ha in mente la guerra. Nella foto: diplomatici americani e cinesi riuniti al Captain Cook Hotel ad Anchorage, in Alaska, il 18 marzo 2021. (Foto di Frederic J. Brown/Pool/AFP via Getty Images)

C'era un "forte odore di polvere da sparo" quando i diplomatici americani e cinesi si sono incontrati ad Anchorage il 18 e il 19 marzo scorsi. È quanto dichiarato da Zhao Lijian funzionario del Ministero degli Esteri cinese poche ore dopo la conclusione del primo giorno dei colloqui tra Stati Uniti e Cina.

"Polvere da sparo" è una di quelle parole che Pechino utilizza quando vuole che gli altri sappiano che ha in mente la guerra.

Ma la cosa più preoccupante e anche particolarmente ricca di pathos è che il termine è una parola che i propagandisti cinesi usano quando vogliono infiammare le platee della Cina continentale, rammentando loro lo sfruttamento straniero – britannico e bianco – della Cina nel periodo della guerra dell'oppio nel XIX secolo. Pertanto, il Partito Comunista Cinese (PCC) sta cercando di suscitare sentimenti nazionalisti, radunando il popolo cinese, forse per prepararlo alla guerra.

In misura più sostanziale, Pechino, con il riferimento alla polvere da sparo e non solo, sta cercando di dividere il mondo secondo linee razziali e di formare una coalizione globale contro i bianchi.

In Alaska, c'era più di un semplice sentore di polvere da sparo. Zhao Lijian ha accusato gli Stati Uniti di aver superato il limite di tempo concordato per gli interventi di apertura del segretario di Stato Antony Blinken e del consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan. Blinken e Sullivan hanno superato i quattro minuti assegnati di ... 44 secondi.

Il Global Times, tabloid in lingua inglese vicino al Partito Comunista Cinese, ha definito i due interventi "davvero fuori tempo". Zhao Lijian ha affermato che lo sforamento del tempo prefissato ha indotto la parte cinese a lanciarsi nelle sue due presentazioni, che sono durate 20 minuti e 23 secondi, ben oltre i quattro minuti assegnati.

Yang Jiechi, un alto diplomatico cinese, e il ministro degli Esteri Wang Yi stavano per lo più leggendo testi preparati, e ciò indicava che gran parte dei contenuti dei loro interventi – in realtà una filippica – era stata pianificata con largo anticipo.

Oltre alle concertate espressioni di indignazione da parte dei diplomatici e ai commenti incendiari di Zhao, c'era un terzo elemento della campagna: una critica propagandistica nei confronti delle politiche che secondo Pechino erano razziste. L'obiettivo principale è l'America.

"Tutto ciò di cui parla Washington è incentrato sugli Stati Uniti e sulla supremazia bianca", ha dichiarato il Global Times, controllato dal PCC, in un editoriale del 19 marzo, riferendosi alle pelli più scure di "qualche alleato" dell'America nella regione.

Inoltre, la narrazione basata sulla razza appare in una serie di recenti articoli di propaganda del Partito Comunista Cinese che ritraggono indirettamente la Cina come protettrice degli asiatici negli Stati Uniti. Ad esempio, il 18 marzo, il Global Times ha pubblicato un pezzo titolato "I gruppi di élite americani complici dei crimini contro gli americani asiatici".

Pechino gioca da alcuni anni la carta della razza in Nord America. La Cina, ad esempio, ha cercato di dividere il Canada secondo linee razziali. Quando Lu Shaye era ambasciatore cinese in Canada si scagliò contro "l'egoismo occidentale e la supremazia bianca" in un tentativo infruttuoso, all'inizio del 2019, di ottenere l'immediato rilascio di Meng Wanzhou, il direttore finanziario di Huawei Technologies, detenuta dalle autorità canadesi in attesa di procedimento per estradizione avviato dal Dipartimento di Giustizia americano.

È significativo il fatto che ad Anchorage, il 18 marzo, Yang Jiechi abbia puntualmente menzionato nel suo discorso di apertura le proteste del movimento Black Lives Matter, seguitando l'attacco razziale della Cina all'America.

Il regime cinese continua a parlare dell'ascesa della Cina, ma ora la linea propagandistica di Pechino sta cambiando in modo sinistro. La nuova narrazione del governante Xi Jinping è che la Cina guida "l'Oriente". In un discorso fondamentale, pronunciato alla fine dello scorso anno, Xi ha affermato che "l'Oriente è in ascesa e l'Occidente è in declino".

Questo tema evoca ciò che il Giappone imperiale ha cercato di fare con la sua famigerata Grande Sfera di Co-Prosperità dell'Asia Orientale, a partire dagli anni Trenta, un tentativo di unire gli asiatici contro i bianchi.

Le divisioni razziali ci portano al libro di Samuel Huntington Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale. "Nel mondo post-Guerra fredda, le principali divisioni tra i vari popoli non sono di carattere ideologico, politico o economico, bensì culturale", ha scritto il compianto politologo di Harvard.

Analisti e accademici hanno duramente criticato il libro seminale di Huntington del 1996, eppure, indipendentemente dal fatto che questo lavoro sia sostanzialmente lacunoso, Xi Jinping sta cercando in realtà di creare l'ordine mondiale guidando "l'Oriente" in una lotta civilizzatrice con "l'Occidente".

Mao Zedong, l'eroe di Xi, vide la Cina guidare l'Africa e i popoli dell'Asia contro l'Occidente, pertanto, la teoria di Xi di divisione globale non è una novità, ma i successori di Mao hanno abbandonato in larga misura tali discorsi a sfondo razziale, cercando di potenziare il loro Stato comunista con contante e tecnologia occidentali.

Deng Xiaoping, il pragmatico successore di Mao, consigliò alla Cina di "nascondere le proprie capacità, e attendere pazientemente". Tuttavia, Xi crede che il tempo della Cina sia in parte arrivato, perché, a suo avviso, l'America è in declino terminale.

La concezione del mondo di Xi è ripugnante e sbagliata, ma gli americani non possono permettersi il lusso di ignorarla. Loro ed altri devono riconoscere che nella mente di Xi, la razza determina la civiltà e la civiltà è la nuova linea di demarcazione del mondo.

Xi è serio. A gennaio, ha detto al suo esercito in forte espansione che doveva essere pronto a combattere "da un momento all'altro". Sempre a gennaio, la Commissione Militare Centrale del Partito ha assunto dal Consiglio di Stato il potere di mobilitare tutta la società per la guerra.

Gli Stati bellicosi raramente si preparano al conflitto per poi tirarsi indietro. Per il Partito Comunista Cinese, c'è odore di polvere da sparo in tutto il mondo, visto che Xi sta innescando uno scontro di civiltà e razze.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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