Russia, Europa, USA e Cina

Re: Russia, Europa, USA e Cina

Messaggioda Berto » sab apr 10, 2021 7:56 am

Cina e islamici
Dragor Alphan
8 aprile 2021

https://www.facebook.com/dragor.alphan. ... 5345225077

i dispiace ma non riesco a compatire i mu-sul-m@ns Ouiguur perseguitati dai cinesi. Avendo subito l'oppressione di Tamerlan e visto appena al loro confine il Genocidio dell'Hindi Couch, 80 milioni di morti per isl@miser India, per non parlare dei 3 milioni di deceduti della secessione del Pakistan e il milione e mezzo di morti per la secessione del Bangladesh, sanno bene che l'isl@m è un cancro mortale che deve essere ucciso nell'uovo prima che si sviluppi e faccia tabula rasa di tutte le civiltà precedenti. Un esempio per l'Europa, che ha perso il Nord Africa e il Medio Oriente a favore dell'isl@m, contaminato all'interno dal c@ncer isl@mique.


Gino Quarelo
Considerazione più che sensata e condivisibile, peccato che Trump abbia criticato la Cina per questo.
Bisognerebbe trovare il modo di distinguere l'etnia uigura dalla ideologia politico religiosa nazi maomettana che l'ha infetta.
Bisognerebbe costringere la Cina a pronunciarsi in merito così da dare l'esempio al mondo, la Cina potrebbe cavarsela denunciando l'Islam come il nazismo maomettano che viola i diritti umani, civili e politici dei cinesi e l'integrità statuale della Cina con la secessione islamica.
L'Occidente euroamericano in questa vicenda della Cina e degli uiguri sta facendo lo stesso errore fatto in India dagli inglesi, in Afganistan dagli americani, come in Irak, in Libia, in Egitto e ovunque si sia alleato con i nazi maomettani per strategia geopolitica.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Russia, Europa, USA e Cina

Messaggioda Berto » sab apr 10, 2021 7:56 am

Allarme di Berlusconi. "La Cina un pericolo per la nostra sicurezza"
Pier Francesco Borgia
16 Giugno 2021

https://www.ilgiornale.it/news/politica ... 55021.html

Il leader interviene dopo l'affondo di Biden: "Regime comunista con mire espansionistiche"

La Cina non è più così vicina. L'ultimo G7 ospitato in Cornovaglia ha sancito il tramonto di un'immagine forte e schietta del Paese del Dragone. Sostituendola con una levantina maschera atta a coprire la politica economica decisamente aggressiva messa in campo negli ultimi anni. La spallata finale all'immagine di una Cina quale prodigo partner commerciale arriva dal vertice Nato di Bruxelles dove il «pericolo cinese» è stato ribadito dal segretario generale, il norvegese Jens Stoltenberg, facendo chiaro riferimento alla impressionante frequenza di cyber-attacchi ai sistemi digitali delle multinazionali occidentali.

E il cambio di passo nei rapporti con la Cina non può che vedere in Berlusconi un convinto sostenitore. «Finalmente tutti hanno capito quali rischi corriamo - spiega durante l'incontro del gruppo azzurro al Parlamento europeo - perché la Cina, che è un regime comunista, ha mire espansionistiche che non sono solo economiche, ma anche politiche».

«Il G7, il presidente degli Stati Uniti Joe Biden e il vertice dei 30 Paesi della Nato - conclude il leader azzurro - hanno riconosciuto che, come sostengo da anni, la Cina attenta alla nostra sicurezza. È ora che su questo tema si faccia fronte comune».

E in effetti sono anni che Forza Italia, e segnatamente il suo leader, mandano segnali d'allarme inequivocabili. Oggi istituzioni internazionali come la Nato o il presidente americano Joe Biden si trovano a concordare con quanto Berlusconi ripete da tempo. Già nel 2019, a esempio, ospite della trasmissione Agorà parlava dell'impero cinese come di un «pericolo per il mondo».

Era il periodo, inizio 2019 appunto, in cui sulle prime pagine dei giornali faceva bella mostra di sé il progetto della «nuova via della Seta». Sui cui pericoli, tuttavia, Berlusconi ha sempre puntato il dito. «Ci sono ovviamente molte opportunità grazie allo scambio commerciale che questa nuova via ci consegnerà - commentava - ma i rischi sono maggiori. Basti prendere a esempio la tecnologia digitale e la telefonia mobile. Ci invadono e non è nemmeno chiaro quali effetti potranno avere gli enormi investimenti nel nucleare e nel settore militare. Fermare l'egemonia commerciale cinese, va ripetendo da tempo Berlusconi, serve soprattutto a difendere i nostri valori democratici e liberali.

E anche Bruxelles, allora, suonò un campanello d'allarme documento che dice attenzione ai rapporti con la Cina visto come soggetto che sfrutta in maniera pericolosa i vantaggi di un «capitalismo statale» che permette mire espansioniste inimmaginabili agli altri soggetti internazionali.

La svolta internazionale fa il paio con la svolta italiana con Draghi che, sostituendo Conte, ha definitivamente abbandonato le miopi velleità della nuova Via della Seta. «Anche se cerca di invadere il continente europeo con le proprie merci - commenta il coordinatore nazionale di Forza Italia e parlamentare europeo, Antonio Tajani - la Cina non potrà mai essere padrona del mondo e regista della politica globale. Il governo Conte ha commesso un errore gravissimo a firmare l'accordo per la via della Seta, mi auguro che il governo Draghi faccia marcia indietro e revochi quell'accordo per noi veramente scellerato».



Draghi ferma i cinesi con il «golden power»: cos’è e perché l’italiana Lpe è stata protetta
Fabrizio Massaro
09 apr 2021

https://www.corriere.it/economia/aziend ... 3d06.shtml

Mario Draghi ha vietato a un gruppo cinese di rilevare il controllo di un’azienda italiana di semiconduttori: è il primo esercizio di veto nell’ambito del «golden power» da parte del nuovo esecutivo guidato dall’ex presidente della Bce. È a questo provvedimento che il premier si è riferito giovedì nel corso della conferenza stampa in cui ha parlato di vari argomenti a cominciare dai vaccini. «Sono d’accordo con Giorgetti, la golden power è uno strumento del governo per evitare la cessione di asset strategici a potenze straniere, va usato. Quello sui semi conduttori è stato un uso di buon senso in questa situazione. È un settore strategico, ce ne sono altri», ha detto Draghi.
Il riferimento era alle parole del ministro dello Sviluppo economico, Giancarlo Giorgetti, che poche ore prima aveva annunciato, fra l’altro, che al Mise si sta anche valutando la possibilità di «estendere l’ambito di applicazione della golden power» a filiere rilevanti e al momento escluse, come l’automotive e la siderurgia, dal carattere «strategico» e «particolarmente esposti alla concorrenza cinese». In particolare aziende che hanno anche rapporti di fornitura con gli organismi di sicurezza e le forze armate.


Nelle mani del cinese Xiang Wei

Il veto da «golden power» da parte del governo Draghi è stato posto pochi giorni fa, il 31 marzo scorso, per bloccare la vendita del 70% di una media azienda italiana, la Lpe di Baranzate, nel Milanese, alla cinese Shenzen Invenland Holdings, una società del gruppo Invenland riconducibile al Xiang Wei, finanziere cinese attivo nel settore dei semiconduttori a livello globale. Draghi ha sottolineato che «la carenza di semiconduttori ha costretto molti costruttori di auto a rallentare la produzione lo scorso anno quindi è diventato un settore strategico». La notifica dell’acquisizione era arrivata a Palazzo Chigi il 28 dicembre 2020 mentre il 26 marzo 2021 la società ha trasmesso la nota integrativa con l’estensione dei patti parasociali a tutela del socio italiano. Tuttavia gli accorgimenti non hanno soddisfatto le esigenze del governo.


Che cosa fa la lombarda Lpe

Lpe, guidata da Franco Giovanni Preti che ne è tra i principali azionisti, risulta essere l’unica azienda italiana e leader a livello mondiale nella tecnologia epitassiale anche con brevetti propri. È una media azienda, con 61 dipendenti a livello di gruppo e nel 2019 — ultimo dato pubblico — ha fatturato 27,9 milioni di euro con utili per 7,1 milioni (nel 2018 erano stati rispettivamente 49,3 milioni e 14,7 milioni) ma altamente specializzata. Quella epitassiale è la tecnologia che permette di realizzare le connessioni tra i vari dispositivi di un chip. È di fondamentale importanza nell’intero processo di produzione dei circuiti integrati: come spiegano fonti a conoscenza del dossier, i reattori epitassiali sono prodotti ad alto contenuto tecnologico, attraverso i quali viene effettuata una delle fasi del processo di fabbricazione di dispositivi elettronici a semiconduttore, per realizzare componenti presenti nella maggior parte degli apparati elettronici in commercio. Preti non è stato raggiungibile per un commento.


I rischi per la sicurezza nazionale

Nel corso della riunione del Consiglio dei ministri del 31 marzo — ricostruiscono fonti ministeriali citate dall’agenzia Agi — «il ministero dello Sviluppo economico, d’intesa con il Dis, il ministero della Difesa e il ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale ha proposto l’esercizio dei poteri speciali nella forma dell’opposizione all’acquisto ai sensi dell’art. 2, comma 6 del decreto-legge n. 21/2012, ovvero impedisce la vendita della società italiana Lpe ... all’acquirente società di diritto cinese Shenzhen Invenland holdings». Secondo il provvedimento — che non è pubblico — il passaggio del controllo (il 70%) di Lpe ai cinesi comporterebbe «un rischio eccezionale per gli interessi pubblici relativi alla continuità degli approvvigionamenti di dispositivi elettronici a semiconduttore per una pluralità di ambiti (tra cui infrastrutture energetiche, intelligenza artificiale, 5G, IoT, per menzionare quelli individuati come strategici dalla normativa nazionale ed europea)».
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Re: Russia, Europa, USA e Cina

Messaggioda Berto » ven lug 02, 2021 6:05 am

FILANTROPIA
Travestito da Mao Zedong, Xi Jinping ha voluto celebrare il centenario del Partito Comunista Cinese.

Niram Ferretti
1 liglio 2021

https://www.facebook.com/permalink.php? ... 4575318063

«Il popolo cinese non ha mai oppresso nessuno e ora non permetterà ad alcuna forza straniera di intimidirlo, prevaricarlo, soggiogarlo, renderlo schiavo. Chiunque volesse cercare di farlo si schiaccerebbe la testa e verserebbe il suo sangue contro una muraglia d’acciaio forgiata da un miliardo e quattrocento milioni di cinesi».
Chiaramente i tibetani, gli uiguri, non sono stati mai oppressi, si tratta di propaganda imperialista atta a dirottare l'attenzione dai magnifici risultati conseguiti dal partito, come l'avere liberato 800 milioni di esseri umani dalla povertà estrema, risultato recentemente elogiato da Massimo D'Alema.
Ovviamente viene passato sotto silenzio il fatto che l'abbattimento dell'estrema povertà nella Cina rurale è una conseguenza dell'essere passati dalle disastrose politiche rivoluzionarie di Mao alla logica del Weltmarket.
Ma il passaggio più inquietante è quello in cui Xi, il Nuovo Grande Timoniere, ha assicurato che il Partito Comunista ha a cuore il futuro e lo sviluppo dell'umanità.
Altri grandi leader illuminati lo hanno detto prima di lui, e non è andata del tutto bene, soprattutto per coloro i quali erano contrari alla loro concezione del futuro e dello sviluppo.
Il neo imperialismo cinese si declina soprattutto economicamente, non c'è bisogno di spargere del sangue, tranne là dove è strettamente necessario. Si comprano sudditi, ma, attenzione, il capitalismo, per i cinesi, è solo uno strumento per imporre il controllo, certo non per generare libertà.
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Re: Russia, Europa, USA e Cina

Messaggioda Berto » dom lug 11, 2021 8:16 pm

Hong Kong, sottomessa alla Cina, sta impazzendo
Stefano Magni
10 luglio 2021

https://lanuovabq.it/it/hong-kong-sotto ... impazzendo

Hong Kong, un anno dopo l’introduzione della nuova Legge per la Sicurezza Nazionale, imposta da Pechino, nella città ex britannica si respira un clima di oppressione totalitaria. E una parte della popolazione ci impazzisce. Sono sintomi di impazzimento l'attentato suicida a un poliziotto e un gruppo di ragazzi che preparava attentati

Hong Kong, un anno dopo l’introduzione della nuova Legge per la Sicurezza Nazionale, imposta da Pechino, nella città ex britannica si respira un clima di oppressione totalitaria, come nel resto della Cina. Con la chiusura del quotidiano Apple Daily, gli honkonghesi possono anche dire addio alla tradizionale libertà di stampa. In compenso, l’opposizione al comunismo di Pechino sta assumendo nuove forme, sempre più violente, che denotano un impazzimento generale.

La notizia che tuttora sta sconvolgendo la popolazione locale è quella di un omicidio-suicidio, in cui l’attentatore ha perso la vita e un poliziotto è rimasto gravemente ferito. È avvenuto il 1° luglio, anniversario della restituzione di Hong Kong alla Cina da parte del Regno Unito, ma le conseguenze si stanno vedendo soprattutto in questa settimana. È di mercoledì, invece, l’arresto di un gruppo di ragazzi di liceo che, assieme ad alcuni adulti, stavano preparando attentati dinamitardi a istituzioni, mezzi di trasporto e vie principali del centro di Hong Kong.

La città, di cultura britannica e cinese, non ha alcuna tradizione di terrorismo, tantomeno suicida. L’attentatore del 1° luglio ha pugnalato un poliziotto (senza riuscire ad ucciderlo in pieno centro e in mezzo alla folla, poi si è pugnalato al cuore prima che venisse arrestato. Il suo profilo è sconcertante: non era un uomo senza più nulla da perdere, non un monaco buddista che si dà fuoco per protesta (come in Tibet) e neppure un ragazzo con idee estremiste, bensì il responsabile acquisti di un’azienda di bibite, 50enne, con nessun precedente penale. Leung Kin-fai, questo il suo nome, si è tolto la vita senza lanciare proclami. Ha lasciato solo una nota personale, in casa sua, in cui contestava la nuova Legge per la Sicurezza Nazionale e la repressione poliziesca. Tuttora sta dividendo l’opinione pubblica honkonghese. Se quella ufficiale, a partire dalla governatrice Carrie Lam, stigmatizza il gesto e mette in guardia la popolazione dall’adottare idee estremiste, almeno una parte del dissenso omaggia l’omicida-suicida con fiori sul luogo dell'attentato e messaggi di elogio sui social network in cui lo si definisce un “martire”. Prossimamente si potrà assistere a gesti di emulazione? Può darsi, comunque la reazione della Cina non si è fatta attendere.

L’azienda per cui Leung lavorava, la Vitasoy, per aver espresso cordoglio e aver inviato le condoglianze alla famiglia del suo ex responsabile acquisti, è stata posta sotto embargo. Il boicottaggio, rilanciato da tutti i social media cinesi, sta costando all’azienda produttrice di bibite la sua più grave perdita in Borsa di sempre. Anche questa è una nuova forma di repressione: alla Cina non occorre chiudere d’autorità (sulle aziende di Hong Kong il controllo è ancora indiretto), ma basta un boicottaggio nazionale per ottenere praticamente lo stesso effetto.

L’arresto del gruppo di aspiranti terroristi dinamitardi, invece, fa intravvedere uno scenario molto peggiore. Se quegli attentati fossero andati in porto, infatti, anche molti civili avrebbero perso la vita. E a prepararli c’erano anche ragazzini di 15 anni. Questa scoperta non ha fatto altro che spingere ancor di più la tendenza securitaria del governo di Carrie Lam. Ora la governatrice preme perché anche gli insegnanti e i genitori siano molto più vigili sui loro allievi e figli. Aumentando ulteriormente lo spionaggio e il controllo reciproco.

Perché Hong Kong, che non ha alcuna tradizione di terrorismo, sta prendendo questa china? La prima spiegazione che si può abbozzare è la reazione alla mancanza di libertà. Nel momento in cui il dissenso, non solo non può più essere rappresentato in parlamento (nel Consiglio Legislativo), ma non può più essere espresso nelle manifestazioni e in un quotidiano dell’opposizione, la reazione “istintiva” resta quella della lotta armata. Ma il “come” di questa lotta armata è impressionante: l’azione suicida, la strage di civili, metodi che solitamente associamo al terrorismo jihadista.

Il problema va oltre alla mancanza di spazi di espressione del dissenso, va ricercato in un vero impazzimento collettivo, a questo punto. Motivato da cosa? Non solo da un prolungato e duro periodo di pandemia e relative restrizioni (più blande di quelle italiane, a dire il vero), ma dalla trasformazione in appena due anni di un Paese libero in una dittatura totalitaria. La metamorfosi, avvenuta soprattutto durante la pandemia, quando la gente non poteva neppure più protestare, non è ancora completa. Ma è molto visibile anche nei simboli: la scolaresca di un asilo che esegue la cerimonia dell’alzabandiera della Repubblica Popolare, la polizia locale che marcia col passo dell’oca, la scomparsa di tradizionali manifestazioni fra cui la veglia annuale per le vittime di Tienanmen. Questa è solo la superficie di quel che sta avvenendo, nei prossimi anni assisteremo sicuramente a molti più arresti di oppositori politici e culturali e probabilmente ad un’erosione della stessa libertà di religione. La storia verrà riscritta, così come le notizie cominceranno ad essere censurate e distorte per conformarsi alla visione del mondo di Pechino.

In questo incubo totalitario, gli honkonghesi stanno precipitando molto più in fretta del previsto. La Cina ha violato gli accordi internazionali, nella dichiarazione congiunta con il Regno Unito, secondo cui il sistema di Hong Kong avrebbe dovuto essere assorbito pienamente in quello cinese solo dopo 50 anni dalla restituzione, dunque dal 2047. Chi abita nell’enclave ex britannica pensava di aver almeno mezzo secolo di respiro. Invece non ha avuto a disposizione neppure la metà di quegli anni. Per di più, a Hong Kong tutti sanno cosa sia il sistema totalitario cinese, anche se lo hanno osservato solo dall’esterno, dai racconti dei fuggitivi, da un osservatorio solo apparentemente libero, privilegiato e protetto. Tutti, dunque, sanno cosa li aspetta quando questa metamorfosi sarà completata. E c’è veramente da impazzirci.
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Re: Russia, Europa, USA e Cina

Messaggioda Berto » mar lug 20, 2021 7:48 pm

Mike Pompeo: Il nostro impegno interrotto con la Cina
L’amministrazione Trump aveva bisogno di invertire le politiche fallimentari
20 luglio 2021

https://osservatorerepubblicano.com/202 ... n-la-cina/

A luglio il Partito Comunista Cinese ha celebrato il suo centesimo anniversario con un familiare sfarzo totalitario: esibizioni di armamenti militari, gioventù esultante e una repressione a livello nazionale dei dissidenti per garantire la “sicurezza politica”. Il culto della personalità che il segretario generale del PCC Xi Jinping ha assiduamente costruito per se stesso era anch’esso in piena mostra, poiché il non eletto leader supremo della Cina ha tenuto un discorso indossando una tunica scialba comunemente chiamata “abito di Mao”. Il simbolismo che Xi stava cercando di trasmettere al popolo cinese con il suo abito era ovvio: io sono uguale per importanza al presidente Mao come leader. Per il resto del mondo, il messaggio del discorso di Xi era altrettanto evidente: Qualsiasi forza straniera che tenta di “fare il prepotente, opprimere o sottomettere” la Cina “sarà certamente malconcia e insanguinata nello scontro con la Grande Muraglia d’Acciaio costituita da 1,4 miliardi di cinesi”.

Alcuni potrebbero liquidare queste parole come pura retorica, ma dobbiamo prenderle sul serio. Le azioni di Xi da quando ha preso il potere corrispondono al suo linguaggio – e anche di più. Un secolo dopo che il Comintern di Vladimir Lenin ha contribuito a fondare il PCC, esso continua a sposare la stessa filosofia marxista-leninista che è servita come giustificazione intellettuale distorta per brutalizzare il popolo cinese nel 20° secolo – milioni di persone sono state uccise sotto il dominio maoista – e nel 21° – testimonia il genocidio in corso contro i musulmani uiguri nella provincia cinese dello Xinjiang. Questa ideologia è anche il fondamento della continua spinta del PCC affinché la Cina sostituisca l’America come la vera grande potenza mondiale e stabilisca il modello di governo del PCC come la norma per tutte le nazioni.

Il colore ideologico della celebrazione del centenario del PCC ha quindi riaffermato un’altra verità: l’amministrazione Trump ha fatto bene a rompere con una politica di quasi 50 anni di impegno americano inqualificabile con la Cina. Sostituendo l’ottimismo puro con uno scetticismo acuto, l’amministrazione Trump ha iniziato un necessario, storico cambiamento per proteggere meglio la sicurezza americana, la prosperità e le libertà dalle predazioni di Pechino – un cambiamento che deve continuare.

È importante tracciare il contesto del perché il nostro radicale e potente cambiamento fosse così urgente. Dopo il completamento della presa di potere del PCC sulla Cina continentale nel 1949, gli Stati Uniti e la Cina hanno avuto pochi contatti bilaterali durante i primi anni della guerra fredda. Infatti, l’interazione più significativa dell’America con la Cina prima degli anni ’70 è stata la lotta nella Guerra di Corea. Come tutti i regimi comunisti, il regime cinese era profondamente sospettoso di qualsiasi influenza straniera all’interno dei suoi confini ed era altrettanto timoroso di mandare i suoi pensatori più talentuosi fuori dal paese. Alla base della segretezza maoista e del massacro della Cina di metà secolo c’era l’ideologia marxista-leninista del PCC, che cercava non solo di far divorare la Cina al comunismo, ma anche di abbattere gli Stati Uniti. Come scrisse Mao, “Popoli di tutto il mondo, unitevi ancora più strettamente e lanciate un’offensiva sostenuta e vigorosa contro il nostro nemico comune, l’imperialismo statunitense, e i suoi complici!”

Nel 1967, Richard Nixon, un esperto combattente della Guerra Fredda che presto si sarebbe candidato con successo alla presidenza, articolò la sua intenzione di promuovere l’impegno con il regime di Pechino come mezzo per indurlo a cambiare. Nel suo fondamentale articolo per Foreign Affairs di quell’anno, Nixon scrisse: “Il mondo non può essere sicuro finché la Cina non cambia. Quindi il nostro obiettivo… dovrebbe essere quello di indurre il cambiamento”.

Ma gli eventi che si verificarono durante l’amministrazione Nixon portarono il presidente, e il suo principale consigliere di politica estera Henry Kissinger, a cambiare le basi di quell’impegno. Piuttosto che costringere il leopardo del PCC a cambiare la pelliccia, l’obiettivo divenne quello di sfruttare l’aiuto cinese per raggiungere gli obiettivi politici e di politica di Nixon. Essendosi candidato nel 1968 per porre fine al coinvolgimento americano in Vietnam, Nixon voleva l’aiuto cinese per spingere i Viet Cong a sedersi al tavolo per un’uscita americana negoziata. Nixon vedeva la Cina anche come un mezzo utile per fare pressione sull’Unione Sovietica, all’epoca in contrasto con la Cina per questioni di confine, tra le altre cose. Infine, credeva che l’apertura della Cina sarebbe stato un momento clamoroso per aumentare il suo favore in vista delle elezioni presidenziali del 1972. Così la diplomazia Nixon-Kissinger dei primi anni ’70, culminata nello storico viaggio del presidente a Pechino nel 1972, era, nel suo nucleo, non ideologica ma transazionale.

Ma dopo le dimissioni di Nixon nel 1974, i leader americani non si sono chiesti seriamente se – o come – la politica “modello” di impegno con la Cina dovesse continuare. Avrebbero dovuto farlo. Mentre il PCC costruiva il suo potere, noi dormivamo. Anche se Deng Xiaoping ha permesso una limitata liberalizzazione economica a partire dalla fine degli anni ’70, non era meno determinato di Mao nello stabilire la Cina come una potenza internazionale in grado di sfidare il mondo libero e diffondere il modello di governo del PCC. Disse infamemente: “Nascondi la tua forza, aspetta la tua occasione”. In altre parole, accumulare potere in vista di scatenarlo al momento giusto.

Questo è esattamente quello che è successo nei successivi quattro decenni. Mentre l’Occidente si apriva alla Cina, e viceversa, il PCC si rafforzava silenziosamente sfruttando i suoi contatti con il mondo. Le imprese occidentali desiderose di accedere ai mercati cinesi firmavano allegramente accordi di joint-venture con aziende statali cinesi, mettendo così tecnologie sensibili nelle mani dell’Esercito Popolare di Liberazione. La Cina ha messo gli Istituti Confucio che servono la propaganda nei campus americani, e ha segretamente inserito gli ufficiali del PLA nei programmi di laurea STEM americani, permettendo loro di rubare facilmente le conoscenze lì depositate. Il PCC ha richiesto la censura delle rappresentazioni negative della Cina sul grande schermo come il prezzo per l’ammissione di Hollywood nei mercati cinesi – un compromesso comune tra le industrie che fanno affari con Pechino.

Se vi chiedete perché l’Occidente non abbia respinto più duramente queste manipolazioni, è perché gli abusi a breve termine sono stati tollerati in previsione di una trasformazione a lungo termine. Dopo la Guerra Fredda, molti pensatori occidentali hanno calcolato che il commercio globale e gli investimenti con la Cina avrebbero prodotto il tipo di liberalizzazione politica che le politiche di glasnost e perestroika di Mikhail Gorbaciov avevano innescato in Unione Sovietica e nel blocco orientale alla fine degli anni ’80. Come ha detto il presidente Clinton nel sostenere l’ammissione della Cina nell’Organizzazione Mondiale del Commercio: “L’adesione all’OMC… non creerà una società libera in Cina da un giorno all’altro, né garantirà che la Cina giochi secondo le regole globali. Ma nel tempo, credo che muoverà la Cina più velocemente e più lontano nella giusta direzione, e certamente lo farà più del rifiuto”.

È stato un cattivo calcolo. Lungi dal democratizzare, il PCC ha visto le rivoluzioni democratiche degli anni ’80 e ’90 come istruttive su come non esercitare il potere. I leader del partito pensavano che quando Gorbaciov cedeva di un centimetro sulle libertà politiche, il popolo russo avanzava di un chilometro. Il risultato è stato la fine dell’esperimento comunista in Russia nel 1991 e l’espulsione del regime sovietico dal potere – un risultato che i leader del PCC vogliono evitare a tutti i costi. Invece di essere trasformato dal capitalismo o da qualche magico arco della storia, il partito ha massacrato i manifestanti in piazza Tienanmen, ha sventrato la libertà in Tibet, ha tenuto in prigione dissidenti come Liu Xiaobo e oggi ha costruito uno stato di sorveglianza orwelliano. Hong Kong, una volta libera, è ora solo un’altra città comunista, con la libertà di stampa e le altre libertà cancellate. E l’adesione al WTO, nello specifico, è stato un enorme fallimento della politica americana, poiché il sogno del presidente Clinton di dare libertà al popolo cinese ha semplicemente distrutto posti di lavoro americani e ha dato potere al Politburo cinese.

Il PCC è anche diventato più aggressivo nello sfidare il potere americano. Dall’inizio del suo regno, nel 2012, Xi ha avviato una spinta per modernizzare il PLA e costruire le forze nucleari e missilistiche del paese. Nel 2015, il segretario generale Xi è stato accanto al presidente Obama nel Giardino delle Rose e ha fatto vuote promesse che la Cina avrebbe smesso di militarizzare le isole nel Mar Cinese Meridionale. Eppure i leader americani hanno fatto poco per scoraggiare l’aggressione e l’illegalità del PCC.

Diplomaticamente, la Cina ha lavorato per indebolire la leadership americana diffondendo il “socialismo con caratteristiche cinesi” all’estero. Il PCC ha sventolato tangenti e diritti di accesso ai suoi mercati di fronte ai leader stranieri, e ha svolto attività di propaganda segreta, nella speranza di ottenere influenza e costruire una rete di stati vassalli la cui lealtà si inclinava verso Pechino più che verso Washington e i suoi alleati del mondo libero. Il principale progetto della Cina in questo senso è l’iniziativa Belt and Road da molti miliardi di dollari, progettata per consolidare il controllo cinese sui progetti infrastrutturali e sulle arterie internazionali del commercio – porti, ferrovie, ecc. Allo stesso modo, il PCC ha sovvenzionato il gigante cinese delle telecomunicazioni Huawei per mettere l’infrastruttura 5G in qualsiasi paese che l’accetterà, attirando così le nazioni in un patto del diavolo di attrezzature a buon mercato in cambio del fatto che il PCC sia collegato ai loro sistemi tecnologici. Tali accordi mettono in pericolo gli interessi commerciali e di sicurezza nazionale americani.

Prima della sua morte nel 1994, il presidente Nixon commentò che temeva di aver “creato un Frankenstein” con la sua apertura alla Cina. Cinquant’anni da quando l’impegno senza riserve è diventato la stella polare strategica dell’America, è difficile non essere d’accordo con lui. Una politica lasciata in vigore troppo a lungo non è riuscita a cambiare il partito comunista cinese o a rafforzare la sicurezza americana.

Quasi paradossalmente, è stato un uomo d’affari americano che è diventato la voce più importante per affermare che l’impegno senza riserve dell’America con la Cina – che assomigliava molto ad una capitolazione – non ha consegnato ciò che aveva promesso. Quando Donald Trump ha corso per la presidenza nel 2016, ha chiesto la fine degli abusi commerciali cinesi – manipolazioni che hanno comportato la distruzione degli agricoltori americani con barriere commerciali, abusando dello status di “paese in via di sviluppo” presso l’OMC, e rubando grandi quantità di proprietà intellettuale alle aziende americane. Ha favorito l’iniezione di un po’ di necessaria reciprocità nella relazione: Era finito il tempo in cui Pechino poteva sfuggire alle conseguenze per fare danni economici all’America, imbrogliare gli accordi internazionali, e in generale cercare di soppiantare gli Stati Uniti come leader globale.

Quella stessa prospettiva alla fine ha plasmato l’intera politica cinese dell’amministrazione Trump. Il Dipartimento della Difesa ha intensificato le esercitazioni navali nel Mar Cinese Meridionale, ha iniziato una modernizzazione delle forze nucleari statunitensi e ha iniziato a parlare di far ospitare tali capacità agli alleati regionali in Asia. Il Dipartimento della Difesa ha anche preso provvedimenti per rafforzare la nostra presenza militare nell’Indo-Pacifico, mentre il Dipartimento di Giustizia ha iniziato a reprimere più duramente che mai il furto di proprietà intellettuale cinese e le attività di spionaggio.

Al Dipartimento di Stato, abbiamo imposto nuove misure reciproche sull’accesso dei diplomatici cinesi ai campus universitari e chiuso il covo di spie a Houston che fungeva da consolato cinese. Abbiamo fatto pressione con successo su più di 60 paesi per bandire dalle loro reti 5G i fornitori non affidabili come Huawei. Abbiamo approvato più vendite di armi che mai ai nostri amici di Taiwan. Sotto la mia direzione, gli Stati Uniti sono diventati il primo paese al mondo a dichiarare come genocidio il trattamento barbaro delle minoranze nello Xinjiang. E, per la prima volta dal 1949, un’amministrazione presidenziale statunitense ha detto coraggiosamente che il partito comunista cinese non rappresenta il popolo cinese – l’ultima cosa che il repressivo PCC vuole che il suo popolo ed il mondo sentano.

Per tutte le preoccupazioni sul ruolo dell’America nel mondo sotto il presidente Trump, la verità è che l’America ha affermato una leadership audace sulla questione di politica estera più urgente del nostro tempo. Il PCC sotto Xi e i suoi quadri rappresenta la più grande minaccia esterna al nostro stile di vita, e noi abbiamo iniziato l’arduo lavoro di rendere sicuro il nostro paese contro di esso. Il cambiamento bipartisan così iniziato, è, credo, qui per rimanere. Abbiamo dato all’amministrazione Biden un’enorme quantità di leva per continuare una politica dura, e la sua squadra di politica estera sarebbe sciocca ad ammorbidire varie linee di impegno in cambio di qualcosa come un “accordo Potemkin” sul cambiamento climatico che il PCC non onorerà mai.

Oggi i leader cinesi non credono più che il mondo trascurerà semplicemente la loro coercizione, l’aggressione e le bugie, specialmente con la copertura COVID del partito che ha gettato benzina sul fuoco della sua stessa credibilità. Ma il PCC crede ancora di essere in guerra. È in guerra con il resto del mondo per il potere e la supremazia, in guerra con l’Occidente per schiacciare la nostra ideologia di libertà, e in guerra con l’unica superpotenza che può contrastare le sue ambizioni. Cerca il dominio commerciale e militare nei regni connessi, dall’intelligenza artificiale ai semiconduttori alla genetica e altro ancora. E userà ogni strumento nel suo arsenale per eseguire il suo piano di battaglia, dalle campagne di disinformazione e le operazioni di influenza alle tradizionali capacità di potenza militare.

La leadership americana, e solo la leadership americana, può negare a Xi i suoi obiettivi. Praticare un impegno non qualificato, comprare gingilli fabbricati, gestire la ricchezza cinese e vendere giostre ai cittadini cinesi a Shanghai Disneyland non hanno funzionato e non funzioneranno nel far cambiare il PCC. L’America ha preso le armi in questa grande causa di proteggere il mondo libero dalla minaccia cinese. Se noi e i nostri alleati occidentali continuiamo su questa nuova strada – se non torniamo alle politiche fallimentari degli ultimi decenni – prevarremo.
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Re: Russia, Europa, USA e Cina

Messaggioda Berto » mar dic 28, 2021 8:18 am

Perché gli investimenti cinesi in Israele preoccupano gli Stati Uniti
Autore Federico Giuliani
21 Agosto 2021

https://it.insideover.com/politica/perc ... uniti.html

La vicinanza della Cina a Israele ha allarmato gli Stati Uniti. I vertici della Cia, come rivelato dal sito Axios, avrebbero manifestato al governo israeliano una certa preoccupazione per gli investimenti cinesi a Tel Aviv e dintorni. Tutto sarebbe avvenuto una settimana fa, durante la visita in loco del capo dell’intelligence statunitense, Bill Burns. Da anni, ormai, Washington guarda con sospetto le mosse di Pechino nella regione. Non a caso, nel recente passato, l’esecutivo di Benjamin Netanyahu e quello di Donald Trump arrivarono a scontrarsi proprio su questo nodo spinoso, nonostante la forte vicinanza tra i due.

La situazione è molto complicata, visto che ci sono in ballo interessi complementari ma anche contrapposti. Israele è ben lieto di fare affari con la Cina, così come il gigante asiatico vede di buon occhio stringere accordi con Tel Aviv. I motivi sono molteplici: non dobbiamo, infatti, considerare soltanto il lato economico (e quindi l’ambito commerciale) ma anche e soprattutto quello geopolitico. Più la Cina è presente in Israele con i suoi investimenti e più il Dragone alita sul collo degli Stati Uniti, storici alleati israeliani.

In mezzo a Tel Aviv e Pechino troviamo, appunto, Washington. Gli statunitensi faticano a tollerare ombre cinesi – anche piuttosto ingombranti – all’interno dei confini di uno dei partner storicamente più solidi. Tornando al presente, è la prima volta che il governo guidato da Joe Biden ha rinnovato le preoccupazioni di un’eccessiva vicinanza cinese a Israele.


La presenza cinese in Israele

In Israele, la Cina è impegnata nella costruzione della linea ferrata leggera di Tel Aviv e ha, inoltre, notevoli interessi nel porto di Haifa. Per il resto, ricordiamo che, proprio per venire incontro alle preoccupazioni americane, l’amministrazione Netanyahu aveva bloccato un investimento cinese in una centrale energetica. Non è chiaro se l’argomento sarà sul tavolo delle discussioni anche la settimana prossima quando il premier israeliano, Naftali Bennett sarà a Washington per incontrare Biden.

In ogni caso, secondo una fonte anonima israeliana interpellata da Axios, gli israeliani avrebbero risposto alle preoccupazioni del capo della Cia condividendo parte di questi timori e che avrebbero voluto aziende americane interessate a questi progetti e investimenti, ma nessuno di queste si è presentata. Insomma, lo scenario sembra alquanto paradossale, anche se ultimamente Israele ha scoperto un fatto non da poco, e cioè che un attacco informatico portato avanti due anni fa contro aziende israeliane sarebbe partito dalla Cina.

In una audizione al Senato americano la settimana scorsa, funzionari del dipartimento di Stato e del Pentagono hanno confermato che l’amministrazione Biden ha messo in guardia i partner mediorientali sulle intenzioni e gli interessi cinesi nell’area, cosa che può creare non solo problemi di sicurezza e di stabilità regionale, ma anche di sovranità e di relazioni di sicurezza con gli Usa.


Rischi e pericoli

Trump era stato chiaro: un ulteriore coinvolgimento cinese nei grandi progetti infrastrutturali avrebbe potuto danneggiare le relazioni di sicurezza tra Stati Uniti e Israele. Al netto di avvertimenti simili, l’allora governo Netanyahu decise comunque di approfondire i legami con Pechino. In generale, Tel Aviv rischia di commettere un errore piuttosto grossolano. Quale? Come ha sottolineato il Jerusalem Post, il tentativo di bilanciare Washington e Pechino senza avere una chiara strategia potrebbe portare a un serio errore di calcolo, che a sua volta potrebbe mettere a repentaglio gli interessi di Israele e limitarne lo spazio di manovra, soprattutto nelle relazioni con gli Stati Uniti.

Il Washington Post, ad esempio, ha definito Israele un “osservatore spensierato” nella competizione tra Stati Uniti e Cina, mentre Al Jazeera sostiene che Tel Aviv “sottovaluta i rischi per la propria sicurezza consentendo alle aziende cinesi di realizzare progetti infrastrutturali nel proprio territorio”. Più il tempo passa e più la situazione potrebbe complicarsi, trascinando a fondo le relazioni tra Israele e Stati Uniti.
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Re: Russia, Europa, USA e Cina

Messaggioda Berto » mar dic 28, 2021 8:18 am

Evergrande, le 3 date da non perdere sulla crisi. Coinvolte 250 istituzioni finanziarie
MilanoFinanza.it
di Elena Dal Maso
17 settembre 2021

https://www.milanofinanza.it/news/everg ... m=facebook

Troppo grande per fallire? È quanto si stanno chiedendo gli economisti di Ubs, dopo che il governo cinese ha avvertito le banche che il colosso immobiliare Evergrande non sarà in grado di pagare gli interessi sul debito la prossima settimana. Questa mattina il titolo ha perso fino all'11% a Hong Kong per poi chiudere con un -3,4% a 2,54 dollari locali grazie 14 miliardi di dollari di liquidità iniettati nel sistema finanziario da parte della Banca centrale cinese.

Secondo Ubs, "un evento sul debito sembra inevitabile" a questo punto dal momento che il gruppo immobiliare ha assunto consulenti finanziari per esplorare strade in grado di alleviare i problemi di liquidità e considerate le aspettative di un calo delle vendite di case nei prossimi 1-2 mesi, oltre alla mancanza di progressi nella cessione in corso degli immobili.

Mentre le autorità cinesi hanno cercato di intervenire e chiedere alle banche di consentire dilazioni di pagamento, "la linea di fondo rimane che la capacità di Evergrande di generare liquidità sufficiente nel breve termine attraverso vendite contrattuali e cessioni di attività si è notevolmente deteriorata e, a sua volta, ha aumentato la probabilità che un evento importante si verifichi a breve", scrive la banca svizzera.

Per il settore immobiliare cinese, il canale di finanziamento offshore è costituito dal mercato obbligazionario denominato in dollari, dal prestito sindacato e dal finanziamento di operazioni private. Il mercato obbligazionario, spiega Ubs, è il più grande per dimensioni, con un debito totale attualmente pari a 209 miliardi di dollari, di cui circa il 70% con rating high yield. Sulla base delle stime degli analisti, i debiti totali del settore immobiliare cinese sono di quasi 4.700 mliardi di dollari, con il mercato obbligazionario offshore che rappresenta solo il 4,5%.

La dimensione complessiva del debito di Evergrande è invece di 313 miliardi di dollari secondo la banca svizzera (305 miliardi circa in base ai dati comunicati dal gruppo cinese), ovvero attorno al 6,5% del debito totale del settore immobiliare cinese. In termini di obbligazioni offshore totali in circolazione, Evergrande Group detiene 19 miliardi di dollari (in base al database di Bloomberg in tutto sarebbero quasi 24 miliardi), che equivale a circa il 9% del mercato obbligazionario offshore totale e al 12% del mercato offshore del debito high yield.

I gruppi immobiliari con rating B costituiscono un ulteriore 12,5% del mercato obbligazionario offshore ad alto rendimento (sono i junk bond), "una percentuale importante data l'elevata correlazione tra questi nomi e l'azione dei prezzi di Evergrande". In caso di ristrutturazione, gli analisti di aspettano "che le obbligazioni rimbalzino dai minimi e che il contagio sia limitato, ma in caso di una liquidazione completa il rischio è di un elevato grado di contagio sul sistema".

Incrociando i dati del servizio eMAXX Bond Holders di Refinitiv con il database di Bloomberg, emerge che nei mesi scorsi buona parte del mondo finanziario era investito nel debito di Evergrande, anche perché molti gestori fanno trading sul prezzo delle obbligazioni, cercando di rilevarle al valore più basso confidando in un rimbalzo grazie ad una ristrutturazione del gruppo. Fra i nomi che emergono dai database e che milanofinanza.it ha potuto vedere, vi sono Amundi, Ubs, Blackrock, Pimco, Allianz, Aberdeen, Pictet, Fidelity. Vi sono anche società italiane, in alcuni casi esposte per pochi milioni di dollari.

Secondo Ubs, solo nel caso di una liquidazione totale, con gli investitori che otterrebbero solo una piccola parte di quanto investito, l'evento potrebbe generare "una perdita materiale di fiducia degli investitori nel più ampio settore immobiliare e del mercato offshore asiatico high yield" creando una ricaduta nelle più ampie attività finanziarie cinesi.

Un effetto domino porterebbe le banche creditrici o in generale le società con grandi esposizioni verso Evergrande a essere costrette a una ristrutturazione creando una ricaduta su altre attività finanziarie cinesi. Ubs cita oltre 130 banche e 120 istituzioni non bancarie (250 soggetti in tutto), fra le parti coinvolte come creditori, mentre il colosso immobiliare assume circa 4 milioni di persone ogni anno per effettuare gli sviluppi dei suoi progetti, un fatto che "potrebbe creare maggiori preoccupazioni negli investitori sui rischi per la stabilità finanziaria in Cina", aggiungono gli analisti.

Un punto importante cui il mercato dovrà prestare attenzione nelle prossime settimane, avvertono gli specialisti della banca svizzera, saranno i prossimi pagamenti delle cedole sulle obbligazioni offshore, dal momento che questo potrebbe essere "l'innesco di un evento sul debito". Le date da non perdere sono tre: il 23 e 29 settembre e l'11 ottobre.



«Xi Jinping ha interrotto un sistema che ci rassicurava»
Simone Pieranni

https://www.china-files.com/xi-jinping- ... ssicurava/

In Cina stanno accadendo molte cose; vista la difficoltà a recarsi nel paese abbiamo cercato una bussola, ponendo alcune domande a Federico Masini, sinologo, professore di lingua e letteratura cinese (tra i suoi libri, oltre quelli sulla lingua e la grammatica cinese, ricordiamo Italia e Cina con G. Bertuccioli, pubblicato da Laterza nel 1996) e grande conoscitore del Paese.

Partirei dal discorso di Xi del 17 agosto: prosperità comune e necessità di redistribuire le ricchezze spropositate.

La storia dell’economia è fatta di accumulazione e distribuzione e i cinesi a un certo punto hanno deciso di muoversi su questo pendolo. Con le riforme si riteneva che l’accumulazione fosse la priorità, lasciando al mercato, come da noi, la distribuzione. Le diseguaglianze però sono diventate intollerabili. Questa inversione di tendenza di Xi da un lato è motivata e comprensibile, abbiamo visto dei fenomeni di arricchimento in Cina davvero macroscopici: in questo senso l’impegno per la redistribuzione appare piuttosto ragionevole. Il metodo però, specie nei cinesi che hanno vissuto una parte della loro vita prima del 1978, ricorda il tentativo di redistribuire una ricchezza che non c’era durante gli anni ’60 e quindi credo che desti qualche preoccupazione.Xi va verso il terzo mandato. Come valutare questa leadership e la sua attuale storia?
Si può rispondere in modo speculativo perché è molto complicato sapere cosa succede nel Pcc. Possiamo partire dal fatto che il sistema che Xi Jinping sembra avere interrotto era un sistema che a noi, in Occidente, appariva più rassicurante, perché avevamo la sensazione dell’alternanza, una percezione di dinamicità, di ciclicità rassicurante. La svolta attuale è un ritorno alla storia millenaria cinese, in cui la ciclicità è data soltanto dalla lunghezza della vita naturale, ovvero il sistema nel quale la Cina ha vissuto per parecchio tempo. La percezione esterna in ogni caso è quella di unicità della leadership e per noi questo è incomprensibile, perché è da sempre combattuta e non apprezzata.

A proposito di percezione dall’esterno: la Cina ha affrontato molte fasi in questo periodo pandemico; dapprima modello, poi origine del virus e infine con l’arrivo di Biden una sorta di avversario letale per l’Occidente. A prescindere dal grado di considerazione della Cina come nemico, perché il Paese fatica a inserirsi in un discorso politico e culturale occidentale?
Potrei banalizzare, ma noi abbiamo una storia di migliaia di anni di relazioni internazionali, che sono una base della nostra civiltà anche da prima che esistessero le nazioni, di fatto. Sulla base di questo abbiamo sviluppato la nostra storia di guerre e relazioni diplomatiche. La Cina ha avuto una storia diplomatica brevissima che risale al periodo degli Stati combattenti (453 a.C. al 221 a.C. Ndr). Per 2mila anni poi non ha avuto relazioni esterne come le intendiamo noi. Da questo punto di vista mancano proprio di una tradizione. Il primo ministero degli esteri è stato fondato nel 1868; prima esistevano uffici che si occupavano dei tributi. Se guardiamo alla storia della Rpc le relazioni diplomatiche vere e proprie cominciano negli anni 70, compresi i contesti internazionali e le organizzazioni internazionali, dove l’attivismo cinese in realtà è piuttosto recente. Pur avendo probabilmente competenze pesa la propria tradizione e talvolta ingenuità nelle relazioni. Il caso dei wolf warriors mi pare piuttosto chiaro: i loro toni erano talvolta risibili specie nei confronti di paesi sovrani. Avrebbero potuto trarre maggior beneficio con altri comportamenti. Come del resto hanno fatto in passato: a partire dagli anni ’80 la Cina ad esempio in Italia ha goduto di buona stampa, pensiamo al resoconto del viaggio di Pertini, il primo di un presidente italiano. Il post Tiananmen è durato pochissimo: Andreotti andò a Pechino poco dopo. Con Xi Jinping c’è stato un inizio di caduta ma a cambiare radicalmente la percezione è stata la nuova politica americana di Biden. Ma la mia sensazione è che oggi alla Cina non interessi più provare a farsi una buona stampa all’estero. L’idea del soft power è superata. Talvolta usa l’hard power ma con motivazioni commerciali.

Con scopi il più delle volte interni…
Certo, torniamo alla prima domanda: la stabilità cinese si misura nella capacità del proprio governo di garantire prosperità. Se venisse meno sarebbe in grande difficoltà tutto il sistema.

Nella nuova situazione internazionale la Cina ha finito, in sostanza, per proporre un nuovo ordine mondiale partendo da un assunto: che i diritti che l’Occidente concepisce come universali, in realtà non lo sono. Ognuno ha i propri, dicono i cinesi e lo stanno sottolineando in particolar modo con riferimenti agli eventi in Afghanistan.
In questo la Cina non è sola e la fine dell’Afghanistan ha significato questo per Pechino; lo scenario è cambiato nel momento in cui anche la politica nordamericana è cambiata. L’esportazione del modello Usa dopo 20 anni non è più nell’agenda americana: in questo senso si è creato uno spazio per la Cina e per la proposizione di un modello diverso. Ma poi in realtà Pechino cerca di adattarsi – ad esempio negli organismi internazionali – a concetti accettati da tutti, per quanto provi talvolta a scartare dallo status quo.



Trucchi, trucchetti e auto (mai vendute) dietro il crac Evergrande
Gianluca Zapponini
22/09/2021

https://formiche.net/2021/09/evergrande ... creditori/

Il colosso immobiliare finito sull’orlo del baratro ha investito miliardi nella mobilità elettrica, creando una controllata tra le più capitalizzate della Cina. Peccato che nemmeno un veicolo sia finito sul mercato. I soldi sono serviti molto più semplicemente a riempire le casse del gruppo. Mossa che a quanto pare non è servita

Alla fina la famosa pezza qualcuno ce l’ha messa, forse per la prima volta spaventato che la situazione potesse sfuggire di mano. Evergrande pagherà 35,88 milioni di dollari di interessi (232 milioni di yuan) sul debito onshore, offrendo un po’ di sollievo ai mercati globali sull’orlo di una crisi di nervi, causa possibile default del secondo conglomerato immobiliare cinese.

LA PEZZA DI PECHINO

In un documento congiunto con la borsa di Shenzhen, città sede del quartier generale di Evergrande, da giorni meta di pellegrinaggio di obbligazionisti in attesa di ricevere il dovuto, la capogruppo ha affermato che la società salderà una cedola sul prestito obbligazionario con tasso al 5,8% e scadenza a settembre 2025. Resta in alto mare la questione del debito offshore in dollari che vale almeno il doppio, anche questo in scadenza giovedì 23. Una mossa, collaterale alla decisione della Banca centrale cinese di iniettare 18,6 miliardi di euro nel sistema finanziario, a tasso invariato.

PASSIONE ELETTRICA

Fin qui il tampone per fermare l’emorragia. Ma con il passare delle ore emergono una serie di retroscena sulle cause che hanno portato Evergrande sull’orlo dell’abisso, facendo per un attimo rivivere lo spettro di Lehman Brothers. Come raccontato in precedenza da Formiche.net, uno dei settori extra-mattone dove si era cimentata Evergrande era l’auto elettrica, con Evergrande Nev. Fondata nel 2019 per sviluppare una gamma di auto elettriche che le permettessero in poco tempo di affermarsi tra le big asiatiche della eMobility, la branch automotive, quando fu annunciata due anni fa, destò un enorme interesse, tanto da arrivare ad aprile 2021 a una capitalizzazione di quasi 100 miliardi di dollari.

Questo proprio perché alle spalle aveva società, Evergrande Group (che partecipava la controllata Nev al 65%), da 123 mila dipendenti e 76 miliardi di dollari di fatturato. Non è tutto. Al Salone di Shanghai 2021 Evergrande Nev ha presentato alcuni prototipi che avrebbero dovuto aprire la strada a una nuova gamma di auto a zero emissioni che in pochi anni avrebbe dovuto far diventare Evergrande un vero e proprio punto di riferimento tra le vetture a batteria. Bene, anzi no.

UNA BOLLA DI SAPONE

A dispetto degli immani capitali immagazzinati dalla branch automotive, il costruttore non ha venduto nemmeno un’auto. Proprio così, ad oggi non un veicolo Evergrande Nev gira per le strade della Cina. La vicenda, che ha del surreale, è stata portata alla luce dal quotidiano Caixin, ben addentro alle vicende industriali del Dragone. Ebbene, fino a pochi mesi fa Evergrande Nev con una capitalizzazione di 674,1 miliardi di yuan alla Borsa di Hong Kong era la società automobilistica quotata di maggior valore in Cina. Il tutto senza vendere una sola auto. Possibile?

Pare proprio di sì, perché lo scopo principale di Evergrande Nev era quello di raccogliere capitali per la capogruppo e non per produrre veicoli. La stessa casa madre ha più volte affermato di aver investito 47,4 miliardi di yuan nelle auto elettriche, ma non pochi analisti ritengono che la maggior parte di tale investimento provenga dal mercato, non dalla stessa Evergrande. In altre parole, il denaro raccolto dal mercato, tramite l’emissione di bond, sarebbe solo servito ad aumentare le dimensioni e il capitale della società e non certo immettere sul mercato veicoli elettrici di ultima generazione.

Basti solo pensare che nel settembre 2018, Evergrande ha acquistato una quota importante nello Xinjiang Guanghui Industry Investment Group per 14,5 miliardi di yuan, diventando il secondo azionista della società. Quell’accordo ha aperto per il colosso immobiliare la strada dell’auto elettrica, perché Guanghui Industry Investment è uno degli azionisti del China Grand Automotive Services Group, uno dei più grandi rivenditori di auto del Paese. Ma di auto Evergrande non se ne sono viste. E nel 2019, una Evergrande a corto di liquidità ha venduto la sua partecipazione in Guanghui Industry Investment per 14,85 miliardi di yuan.




Evergrande sta affondando sotto il peso di 302 miliardi di dollari di debiti, ma il disastro cinese non si ferma qui. Altri 3 colossi immobiliari sono a forte rischio. Vanke ha 235 miliardi di dollari di debiti, Country Garden 272, e Greenland Group 190. Per tutti il timore che non riescano a rimborsare le scadenze si fa più forte ogni giorno che passa.
Marco Corrini
2 0ttobre 2021

https://www.facebook.com/roberto.gresle ... 2207009869

Anche l'industria non se la passa bene. Samsung, Toshiba e Ericson, giá un anno fa, avevano annunciato la volontá di chiudere le loro sedi in Cina, ma in questo settembre la Samsung Heavy Industries, ha dato una forte accelerata al processo di dismissioni, ritirando i propri capitali dalle joint venture cinesi. Questo ha avuto l'effetto immediato della chiusura dello stabilimento di Ningbo, con migliaia di operai che ieri sono scesi in piazza per protestare contro la perdita del posto di lavoro. La Samsung ha giustificato la decisione con l'arretratezza degli impianti cinesi che si traduce in una produttività insufficiente, ma si rincorrono voci che danno come vera causa la stretta autoritaria del governo cinese e le sue responsabilitá nella pandemia mondiale. Sembra che a ruota del gigante coreano, siano molte le aziende occidentali, sopratutto americane, che si stanno preparando a fare le valige.
Anche un mio caro amico, Ceo di una importante multinazionale dell'automotive, nel 2021 ha chiuso lo stabilimento che aveva in Cina, comprendendo anzitempo i momenti difficili che si prospettano nel paese asiatico.



Evergrande, la Banca centrale: il rischio può essere gestito. Ma Fitch taglia il rating
Il Governatore Yi Gang interviene a calmare le preoccupazioni degli investitori stranieri mentre i dati sull’inflazione di novembre segnalano una frenata
Rita Fatiguso
9 dicembre 2021

https://www.ilsole24ore.com/art/la-banc ... to-AEUzWq1

La Banca centrale cinese promette che il rischio di Evergrande «sarà adeguatamente gestito» e che i diritti di creditori e azionisti saranno rispettati perché si tratta di «un evento di mercato e i diritti e gli interessi dei creditori e degli azionisti saranno esauditi nell’ordine del loro risarcimento legale». Così il Governatore della Banca centrale cinese, Yi Gang, durante un seminario online sul ruolo dell’hub finanziario di Hong Kong. Così i titoli Evergrande balzano del 4,62% a Hong Kong, risollevandosi dai minimi storici toccati per il mancato pagamento di coupon offshore per 82,5 milioni di dollari alla scadenza di lunedì scorso dei 30 giorni di grazia. Intanto, però, la società di rating Fitch ha deciso di tagliare il giudizio a «restricted default».

I dubbi sulla ristrutturazione

Il gigante immobiliare in difficoltà si è impegnato a “coinvolgersi attivamente” con i creditori offshore per creare un piano di ristrutturazione, ma il ruolo del Partito comunista sarà essenziale. I funzionari della Provincia del GuangDong sono già entrati in pista ma per i creditori internazionali, il ruolo pratico del governo è una benedizione mista. In caso di piano di ristrutturazione saranno soddisfatti per ultimi.

Il nuovo comitato rischi composto da sette persone include manager delle imprese statali del Guangdong e di China Cinda Asset Management Co., il più grande gestore di crediti inesigibili della nazione. Un altro proviene da uno studio legale, mentre solo due membri provengono da Evergrande, incluso il presidente Hui Ka Yan, l’azionista di controllo della società. Per il comitato, la parte difficile sarà capire quali risorse prendere di mira. È probabile che si dia priorità alla stabilità sociale, con un “bail-in” di investitori istituzionali da utilizzare in caso di necessità.

Il peso degli asset negativi

Evergrande finora ha riportato 1,97 trilioni di yuan ($ 310 miliardi) di passività al 30 giugno, il più alto del settore. Quasi la metà di tale importo è rappresentata da fatture a fornitori e altri debiti, mentre il debito è stato pari a 572 miliardi di yuan, in calo del 20% rispetto a sei mesi prima.

La società ha ridotto il suo rapporto debito/capitale netto al di sotto del 100%, rispettando una delle “tre linee rosse” del governo cinese, parametri imposti per limitare l’indebitamento delle società immobiliari. La società ha in circolazione 19,2 miliardi di dollari in obbligazioni offshore, la maggior parte tra gli sviluppatori cinesi. Un altro rischio per i creditori sono le garanzie dell’impresa sui debiti delle parti correlate, comprese le obbligazioni di collocamento privato con informativa limitata.



Cina, Evergrande segnala i progressi nella ripresa delle consegne di immobili
MF Milano Finanza
27 dicembre 2021

https://www.milanofinanza.it/news/cina- ... 0916506412

Il colosso immobiliare cinese Evergrande ha dichiarato di aver fatto progressi nella ripresa dei lavori di costruzione. Il suo presidente, Hui Ka Ya, ha promesso, infatti, di consegnare 39mila unità di proprietà a dicembre, rispetto alle circa 10mila consegnate in ciascuno dei tre mesi precedenti.

Evergrande continua comunque a essere lo sviluppatore immobiliare più indebitato al mondo, con oltre 300 miliardi di dollari di passività. Il gigante sta lottando per rimborsare obbligazionisti, banche, fornitori e sta cercando di consegnare le case promesse agli acquirenti. La sua situazione è il riflesso di un'industria gonfia che soffre della campagna di riduzione dell'indebitamento del governo cinese.

Il presidente della società, una riunione tenutasi nella giornata di ieri ha esortato i dipendenti a combattere giorno e notte in modo che le vendite possano essere riprese e i debiti rimborsati. "Con la società che riprende i lavori di costruzione a pieno regime, il gruppo prevede di consegnare 115 progetti a dicembre", ha detto Hui. "Con cinque giorni rimasti questo mese, dobbiamo fare di tutto per assicurarci di raggiungere l'obiettivo di consegnare 39mila unità entro dicembre".
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Re: Russia, Europa, USA e Cina

Messaggioda Berto » mar dic 28, 2021 8:19 am

La proliferazione della "democrazia con caratteristiche cinesi"
Atlantico Quotidiano
Mauro Giubileo
22 dicembre 2021

https://www.atlanticoquotidiano.it/quot ... he-cinesi/

Da almeno due anni viviamo in un mondo in preda al caos. La pandemia ha portato con sé un enorme carico di morti ed insieme altri e sempre nuovi problemi. Soprattutto in Occidente, a volte si ha l’impressione che una tragedia dopo l’altra si abbatta su di noi; sembra che non vada bene nulla. Ogni fragile certezza si sgretola di fronte ai quotidiani sconvolgimenti. L’economia è flagellata da vecchi e nuovi mali che tornano. Le nazioni si trovano ad essere sempre più deboli e sempre più sole. In molti si sentono smarriti e atterriti. Ecco, penso che di fronte a una tale situazione nulla possa fare più male di una ignobile e sadica risata alle nostre spalle. Specialmente se questa risata giunge proprio da chi detiene una larghissima quota di maggioranza in questo capitale di mali che affliggono ultimamente il pianeta.

E invece è proprio quello che da quasi due anni sta avvenendo. L’ultimo episodio risale a poche settimane fa. Si tratta di un tweet, datato 3 dicembre 2021, della signora Hua Chunying, portavoce e direttore generale del Dipartimento informazione del Ministero degli Affari esteri della Repubblica Popolare Cinese. Tweet che recava il seguente testo:

“#China’s model of #democracy fits in well with its national conditions. It enjoys the support of the people. It is real, effective, and succesfull democracy. China is indeed a true democratic country.”

(Traduzione italiana: “Il modello di democrazia cinese si adatta bene alle sue condizioni nazionali, gode del sostegno del popolo, ed è una democrazia reale, efficace e di successo. La Cina è davvero un Paese democratico.”)

Ancora più beffarda la chiusura, con gli ebeti, cerulei e sadici hashtag “#whatisdemocracy #whodefinesdemocracy”.

Per rispondere alla signora Hua si potrebbe partire da qualche insignificante dato oggettivo. Ad esempio, il fatto che nella Repubblica Popolare non si svolgano elezioni (non “libere elezioni”, attenzione, ma elezioni punto e basta) da ben 68 anni, ossia da quel glorioso 1949 in cui i comunisti di Mao presero il potere e indirizzarono il Paese sulla strada del sol dell’avvenire. Oppure le si potrebbe ricordare come una democrazia moderna non sia monopartitica. O che, per esempio, il capo dello Stato o del governo non abbiano un mandato vitalizio, o che le minoranze etniche o religiose non vengano solitamente rinchiuse nei lager, o che non sia “democratico” tacere di fronte al mondo sulla diffusione di un virus letale, eccetera eccetera. Ma purtroppo armi del genere potrebbero avere un impatto totalmente risibile nei confronti di chi è conscio di mentire e mistificare.

E la signora Hua è una vera esperta in quest’arte. Scorrendo sul suo profilo Twitter – social che ella usa con significativa abitudine e che è invece interdetto ai comuni cittadini cinesi – si nota con quanta acribia si profonda nella diffusione di post che mettono in luce le criticità e le malattie dell’Occidente, e in modo particolare della democrazia americana. Lo fa attingendo a fonti giornalistiche – perlopiù di area liberal-progressista – come il Guardian, Bbc, Abc News, National Public Radio. Testate che in una società democratica dovrebbero cercare di rendere trasparenti al pubblico le manovre di chi è chiamato a governarlo, ma che in questo caso vengono sfruttate ad uso e consumo di una autocrazia per seminare un sentimento di profondo scoramento, rassegnazione e delusione tra i cittadini dell’Occidente allargato, proprio nei giorni nei quali alla corte di Joe Biden i leader dello stesso Occidente allargato si ritrovano in un giusto, nobile ma forse scarsamente efficace consesso a parlare di loro stessi e dello stato delle democrazie nel mondo. A questo meeting telematico ospitato dal presidente Biden nei giorni 9 e 10 dicembre, il cosiddetto Summit for Democracy, la Cina rappresentava di fatto il grande non-invitato, assieme alla Russia, la Turchia, l’Iran, l’Arabia Saudita e (per motivazioni alquanto deboli) l’Ungheria di Viktor Orbán (curiosa invece la decisione di ammettere tra i convitati il Pakistan amico dei Talebani e prima potenza nucleare in Medio Oriente, peraltro non aderente al Tnp).

Emblematiche, in questo incontro sbandierato dal presidente americano come un capolavoro di multilateralismo, sono state le parole del ministro taiwanese Audrey Tang, che rispondendo alle lamentele di chi non è stato invitato ha suggerito a queste nazioni di “raddoppiare gli sforzi per democratizzarsi”, in modo da potersi “ritrovare assieme al prossimo meeting”. Sforzo che da un Paese come la Repubblica Popolare, che ha aderito (o meglio, è stata fatta entrare estromettendo di forza proprio Taiwan) all’Onu nel 1971, sposandone mandato e valori (solo sulla carta, dato che proprio in quegli anni si dilettava nel supportare con ogni risorsa gli Khmer Rossi in Cambogia), tutto il mondo si sarebbe aspettato da tempo, specialmente a seguito delle riforme economiche sotto il regno di Deng Xiaoping e all’ingresso, a Doha nel 2001, nell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) dopo ben quindici anni di negoziati. Ci si aspettava, e per anni ci si è aspettato, che a seguito di un ingresso di Pechino nel club del mondo libero, quelli di Piazza Tienanmen, della Grande carestia del 1960, o dell’invasione del Tibet, sarebbero rimasti solo come dei brutti ricordi. E invece non è stato così.

Un cambio di rotta significativo è avvenuto soprattutto con l’ascesa al potere, nel 2012, di un despota come Xi Jinping, che con grande ragione il direttore del Tg2 Gennaro Sangiuliano, nel mandarne alle stampe una biografia, ha efficacemente definito “il nuovo Mao”. La sua politica è chiara: fare della Cina la potenza egemone globale, comprandone pezzo per pezzo ogni asset strategico con le Vie della Seta, individuate nel 2017 con una riforma dello stesso statuto del Pcc come il mezzo privilegiato per cambiare le sorti del mondo, imporre il dominio di Pechino, ribaltare il quadro delle alleanze e far soccombere l’Occidente (non è un caso, tra l’altro, che la Nuova Via della Seta sia uno strumento di pertinenza del Ministero per la sicurezza nazionale, e non di quello del commercio estero). E già dal 2015 in poi, con ben quattro revisioni legislative, “il nuovo Mao” – che, lo ricordiamo, ha anche cambiato la Costituzione per restare presidente a vita – ha imposto l’obbligo (non la facoltà, l’obbligo!) a qualsiasi cittadino e azienda cinese di rispondere ai Servizi di sicurezza e militari, e di fornire loro informazioni e assistenza. Non proprio una manovra democratica.

A questo si accompagnano potenti e spregiudicati attacchi cyber e soprattutto una massiccia opera di infiltrazione e di influenza cinese in Occidente: nel mondo accademico, tra i parlamentari (si rimanda al rapporto di qualche mese fa di Sinopsis e del Global Committee for the Rule of Law “Marco Pannella”, ripreso nei contenuti in un articolo a firma di Marco Respinti e Andrea Morigi uscito su Libero il 20 novembre 2021) e nei settori strategici dell’economia e dell’industria. Va riconosciuto al presidente del Consiglio Draghi il merito di aver saputo finora utilizzare con efficacia lo strumento del golden power, come è avvenuto per la vicenda delle sementi e dei semiconduttori, e come speriamo avvenga per quella – per citarne solo una – del porto di Palermo.

E allora, di fronte a un nemico tanto grande e quanto potente, ben venga il multilateralismo, ben venga la cooperazione, ben vengano i summit di Biden, ben venga il rafforzamento dell’Occidente allargato in nome dell’esaltazione del valore della democrazia. Ma finché non si imporrà sul tavolo con durezza la verità, finché sarà consentito alla Cina di prenderci in giro, finché una dittatura riuscirà a diffondere menzogne perché le sarà permesso farlo da un Occidente che si autoflagella e si auto dipinge in continuazione come “razzista”, “omofobo”, “non inclusivo”, “intollerante”, “retrogrado”, “chiuso”, “ricettacolo di diseguaglianze”, “palude di sovranismi”, non potremo mai pensare di avere un adeguato potere contrattuale nei confronti di Pechino.

E ancor più non potremo averlo se a rappresentarci saranno (come oggi sono) persone che credono a queste fandonie, e che solo ora, forse, si rendono conto di aver compiuto – magari inconsapevolmente – per anni, il più grande capolavoro di autolesionismo mai visto sulla scena geopolitica mondiale: quello di rendere debole la democrazia in nome della stessa democrazia, e di dare adito a tante, troppe ipotesi di volerla soppiantare. Magari proprio con una “democrazia con caratteristiche cinesi”.
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Re: Russia, Europa, USA e Cina

Messaggioda Berto » mar dic 28, 2021 8:19 am

A trent'anni dalla dissoluzione dell'URSS, Putin rievoca le vecchie glorie sovietiche
Atlantico Quotidiano
Alfonso Piscitelli
28 Dic 2021

https://www.atlanticoquotidiano.it/quot ... ovietiche/

Il 26 dicembre di trenta anni fa si dissolveva l’Unione Sovietica: quello che era stato il primo terribile esperimento totalitario del mondo contemporaneo, poi trasformatosi in epoca brezneviana in un grigio edificio burocratico, finalmente crollava per spinte esterne (Reagan, Wojtyla, Solidarnosc) e disfacimento interno. Solenne simbolo di una sconfitta epocale fu l’ammainabandiera al Cremlino nella notte di inizio inverno che per l’Occidente cattolico e protestante corrisponde al giorno immediatamente successivo al Natale.

La bandiera rossa con la falce e martello scendeva fino a terra, ma a distanza di trenta anni nel dicembre 2021, la scritta CCCP (la sigla dell’Unione Sovietica) torna sulle maglie della nazionale russa in una sfida valida per la Channel One Cup dell’Euro-Hockey. È difficile trovare paragoni per questa ostentazione: se è corretta l’equiparazione sancita – sia pur con qualche contorsione dialettica – dal Parlamento europeo tra i due totalitarismi, comunista e nazionalsocialista, è come se la nazionale tedesca sulla bianca divisa facesse rispuntare la parola Reich, preceduta dal numerale più nefasto. Peraltro la Russia giocava con la Finlandia, nazione resasi indipendente al momento della rivoluzione bolscevica e che durante la Seconda Guerra Mondiale dovette combattere una lotta impari per evitare che l’Unione Sovietica di Stalin la riannettesse.

Ricordiamo cosa accadde nell’estate del 1939: dopo una serie di sondaggi segreti la Germania di Hitler e la Russia Sovietica trovarono un accordo, una cooperazione militare che durò per circa due anni, basata su reciproche autorizzazioni ad invadere i malcapitati vicini. Per giungere a quell’accordo alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale i tedeschi tradirono il “Patto Anticomintern”, l’alleanza con una serie di Paesi dell’Est Europa, con l’Italia e con il Giappone, che appunto si basava sul principio del contenimento del comunismo. L’Italia in particolare rimase spiazzata dalla mossa dell’alleato che non l’aveva degnata di un cenno o di una informazione riservata nella fase di trattativa che condusse al Patto Molotov-Ribbentrop.

Solitamente di quella intesa russo-tedesca si ricorda la vittima più eccellente: la Polonia, smembrata in due parti. Ma a cadere nel sacco sovietico col via libera dei Tedeschi furono i tre paesi baltici, fu parzialmente la Romania che dovette cedere la Bessarabia. La Finlandia fu lasciata alla mercé di Stalin e dovette difendersi con le unghie nella “guerra d’inverno” che non casualmente divampò pochi mesi dopo la stipula del Molotov-Ribbentrop.

Non solo la parte occidentale della Polonia e una copertura strategica ad oriente che gli permetteva di sferrare la guerra lampo contro i Paesi dell’Europa occidentale, Hitler ci guadagnò anche un appoggio degli intellettuali comunisti su cui oggi la divulgazione storica orientata a sinistra stende un velo pietoso. Nella Francia occupata dai tedeschi la stampa vicina al partito comunista usciva abbastanza liberamente e diffondeva la tesi per cui la guerra era stata l’esito della ingordigia delle demoplutocrazie capitaliste.

Vecchie storie da dimenticare? Difficile però l’oblio, se la nazionale russa di Hockey si presenta ad Helsinki il 18 dicembre con la scritta CCCP sulla maglia, per “ricordare i 75 anni del primo oro olimpico” nella disciplina… La giustificazione non è apparsa congruente ai finlandesi, subito i social si sono riempiti di commenti indignati: la maglia “sovietica” è un “gesto offensivo che non appartiene allo sport né a nessun altro” ha twittato, tra gli altri, l’ex primo ministro Alexander Stubb.

Per capire la disinvoltura con cui la Federazione Russa ha giustificato il riferimento alla sigla sovietica occorre inquadrare la tendenza fondamentale del patriottismo russo nell’era Putin. Mentre Gorbaciov si illudeva di salvare l’edificio del socialismo reale con qualche riforma, ed Eltsin esprimeva il suo meravigliato stupore di fronte allo straordinario benessere diffuso che non il socialismo reale bensì l’Occidente era riuscito a concretizzare, Putin si ricongiunge idealmente a quel momento particolarissimo della storia russa che fu l’autunno del 1941, quando Stalin proclamò la “grande guerra patriottica”.

All’inizio dell’estate 1941 Hitler aveva invaso la Russia ribaltando per la seconda volta le alleanze (poi si dice gli Italiani…) e la terribile macchina da guerra della Wermacht era giunta fin sotto Mosca. A quel punto Stalin cercò di mobilitare tutte le energie russe: non ripetendo gli slogan del comunismo (l’internazionalismo, la classe operaia, la lotta allo sfruttamento capitalista…), ma come un Machiavelli delle steppe fece appello alle energie più profonde del nazionalismo russo e della santa fede ortodossa.

La formula “Grande Guerra Patriottica” che il dittatore georgiano utilizzò fa rivoltare nella tomba Marx, Engels e Trotskij, ma in compenso si dimostrò straordinariamente efficace. Con i tedeschi sotto Mosca, gli slogan dell’ideologia comunista apparvero come un insieme di astrazioni agli occhi dello stesso dittatore che preferì puntare su altro. L’espressione “Grande Guerra Patriottica” fa esplicito riferimento alle fonti della tradizione russa: la lotta contro Napoleone dello zar Alessandro I e dei suoi generali, vittoriosi col metodo della terra bruciata e sotto l’egida del “Generale Inverno”; la tradizione religiosa della Russia profonda che unisce cristianesimo e sciamanesimo. Stalin giunge fino al punto di far volare sulle truppe schierate in battaglia l’icona della Vergine di Kazan, la stessa che in copia Vladimir Putin consegna a Papa Francesco in una delle sue visite in Vaticano.

Il nazional-comunismo di Stalin lascia tracce profonde nella insanguinata storia russa del Novecento, perché a suo modo segna una riconciliazione interna, dopo le ecatombi di anticomunisti, ma anche di comunisti negli anni delle “purghe”. La chiesa ortodossa smette di essere perseguitata e viene riammessa come “instrumentum regni”. Il patriottismo prevale sullo stakanovismo nella pedagogia delle masse e troverà una futuristica declinazione negli anni delle sfide stellari tra “cosmonauti” sovietici e “astronauti” americani.

Alla fine tutto sarà vano. Non vi è orgoglio patriottico che possa tenere in piedi e far marciare il pachiderma sovietico che si schianta definitivamente negli anni 80. Quando l’ex colonnello del KGB sale al potere in una Russia drammaticamente impoverita gioca una carta abbastanza simile a quella adoperata da Stalin. Nel momento in cui l’Unione europea e la Nato si estendono ad Est nell’ex cintura esterna dell’impero sovietico e le risorse energetiche russe sono a rischio espropriazione, Putin fa appello al patriottismo russo, ma anche alla gloria delle vittorie sovietiche. Lo schema è lo stesso, ma invertito. Stalin agganciava il patriottismo russo al comunismo, ideologia ufficiale dello Stato. Putin, che pure ha dichiarato la sua ammirazione per autori anti-comunisti come Berdajev e Solgenitsin, fa l’opposto: aggancia al patriottismo di rivalsa russo il ricordo impenitente di quando la Russia era all’apogeo della sua potenza e dominava da Dresda a Vladivostok, passando per (e anche calpestando…) Berlino, Varsavia, Budapest, ovvero quando era sovietica. Del resto sul significato della fine dell’URSS il presidente russo è stato categorico: “la più grande catastrofe geopolitica del ventesimo secolo”.

Il punto è che questo schema funziona in patria, ma è catastrofico al di fuori dei confini. All’interno riconcilia i russi con i nonni e i bisnonni che combatterono e conseguirono una vittoria ad un prezzo terribile (vedi la rappresentazione del “Reggimento degli Immortali” per la sfilata del 9 maggio), ma a Vilnius, a Varsavia, a Kiev, e in questi giorni a Helsinki, esso suscita lo stesso sconcerto inquadrato in maniera umoristica in una sequenza cult dei Simpson che mostra un ambasciatore russo con sottopancia girevole che da Russia diventa URSS.

In termini di soft power il recupero putiniano delle glorie sovietiche ha lo stesso effetto-simpatia di un bacillo che si aggiri incontrollato dalle parti di Wuhan per poi salire su un aereo…

Mosca continuamente si appella a una “intesa non scritta” per cui la Nato avrebbe dovuto evitare l’allargamento ieri fino ai Baltici, domani fino all’Ucraina. Tuttavia, nella fascia esterna dell’ex impero sovietico il sentimento prevalente è proprio quello di un appello all’ombrello atlantico per evitare che torni il vecchio, non amato padrone. I media russi descrivono le bandierine Nato piantate sulle capitali dell’Est come una invasione, ma in quelle capitali il ricordo delle tragedie del Novecento e dei quaranta anni di occupazione russo-comunista si fa sentire e diventa più forte nel momento in cui a Mosca si celebrano i successi (solo sportivi e astronautici?) dell’Unione Sovietica. In questo scenario la sigla CCCP che rispunta non appare una trovata geniale.
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