Nazionalismo e federalismo in Europa

Nazionalismo e federalismo in Europa

Messaggioda Berto » ven nov 16, 2018 9:53 pm

Nazionalismo e federalismo in Europa

viewtopic.php?f=92&t=2810
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
Avatar utente
Berto
Site Admin
 
Messaggi: 38318
Iscritto il: ven nov 15, 2013 10:02 pm

Re: Nazionalismo e federalismo in Europa

Messaggioda Berto » ven nov 16, 2018 9:55 pm

.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
Avatar utente
Berto
Site Admin
 
Messaggi: 38318
Iscritto il: ven nov 15, 2013 10:02 pm

Re: Nazionalismo e federalismo in Europa

Messaggioda Berto » ven nov 16, 2018 9:55 pm

FEDERALISMO CONTRO NAZIONALISMO: IL CASO DELLA CATALOGNA
Interventi

Anno LIX, 2017, Numero 2, Pagina 186

http://www.thefederalist.eu/site/index. ... ti&lang=it

Il federalismo europeo (e mondiale) comparve, come forza politica, alla fine della Seconda guerra mondiale, come mezzo per superare i nazionalismi e per unificare con un progetto politico comune i disastrati Stati nazionali del Vecchio continente e, progressivamente, l’intera umanità.

Ciò è vero ancor oggi e, in una certa misura, questa visione politica ha ottenuto un importante successo dal punto di vista storico con la creazione dell’Unione europea, sebbene essa non sia ancora un’entità politica pienamente federale.

Tuttavia le tendenze nazionalistiche si sono dimostrate resistenti sia in Occidente sia nel resto del mondo e, entro certi limiti, sono state rafforzate da un processo di globalizzazione poco equilibrato, privo di una forte dimensione sociale e politica. Così il nazionalismo è apparso vittorioso, sia pure di stretta misura, nel Regno Unito con la Brexit e negli Stati Uniti con l’elezione di Donald Trump, uomo dei media e affarista, strenuo sostenitore di una politica “America first” e anti-immigranti.

Semplificando le cose, il nazionalismo, come dottrina politica, sostiene che comunità culturalmente omogenee o dominanti (le “nazioni”) debbano avere una propria organizzazione politica autonoma sotto forma di Stato per poter esercitare in modo assoluto la sovranità sul territorio su cui sono organizzate politicamente.

Entrambi questi postulati, che già di per sé rendono problematica la garanzia di un ordine internazionale pacifico affermando il principio della sovranità assoluta di ogni nazione, producono effetti incontrollabili quando vengono applicati a comunità non statuali che si autodefiniscono “nazioni”. Il primo postulato comporta infatti o la moltiplicazione di Stati sovrani in corrispondenza delle numerose comunità culturali che si possono identificare – in Europa questo numero potrebbe arrivare a cento – oppure la soppressione di minoranze culturali nei casi in cui un particolare nazionalismo sia dominante sugli altri in un dato spazio geografico. Tale principio nazionalista compromette dunque la stabilità degli Stati attualmente esistenti e per di più complica il prendere decisioni nelle questioni internazionali.

Il secondo principio è foriero di guerre, poiché il dogma della sovranità assoluta, che comporta che non vi sia nulla al di sopra dello Stato e che quindi l’anarchia regni a livello internazionale, facendo prevalere la legge della forza anziché quella del diritto, diventa esplosivo se il numero degli Stati “sovrani” si moltiplica a dismisura.

Il federalismo, al contrario, nega entrambi i dogmi del nazionalismo. La sovranità non è assoluta, a meno, forse, che non sia esercitata dall’umanità nel suo insieme, mentre le diverse comunità culturali potrebbero appartenere alla stessa organizzazione politica, purché condividano gli stessi valori e gli stessi principi politici. Il federalismo riconosce inoltre il diritto all’autonomia a comunità culturali distinte, contrastando i nazionalismi dominanti all’interno degli Stati nazionali.

In ogni caso, dal punto di vista federalista, il concetto stesso di nazione è nettamente problematico. Renan, nella sua famosa conferenza, è arrivato alla conclusione che la nazione non può essere definita né dalla lingua, né dalla cultura, ma dal fatto che molti individui credono di farne parte.[1] Albertini sembra negarne del tutto l’esistenza.[2]

Questa è la ragione per cui il federalismo non mira ad unire nazioni, ma Stati democratici, che sono entità oggettive, caratterizzate dall’esistenza di istituzioni politiche che hanno il monopolio dell’uso della forza (il potere) entro un dato territorio e che lo esercitano secondo i principi dello Stato di diritto, indipendentemente dal fatto che vi coesistano una o più nazioni, intese semplicemente come comunità culturali. Anzi, è più corretto sostenere che gli Stati hanno creato identità nazionali attraverso sistemi di istruzione centralizzati e a coscrizione obbligatoria e non il contrario.

L’Unione europea è la concreta realizzazione di questo ideale: i vecchi Stati nazionali europei, determinati ad evitare nuove guerre sul continente, hanno deciso di mettere in comune la loro sovranità in un numero crescente di campi, realizzando un progetto politico multilinguistico e multiculturale, fino al punto che viene addirittura riconosciuta una coscienza culturale europea comune.

Il movimento indipendentista catalano, sostenuto da non più del 48% dell’elettorato, secondo il risultato del sondaggio regionale del settembre 2015, può essere visto come un ennesimo esempio di rigurgito nazionalistico, alimentato dalla crisi economico-finanziaria e dall’esistenza in una parte sostanziale della popolazione di un forte sentimento identitario, visto come incompatibile con la cittadinanza spagnola.

La questione catalana, per quanto complessa e influenzata da molte variabili, ruota chiaramente attorno alle vecchie questioni dell’identità nazionale e della redistribuzione della ricchezza,[3] nonostante altri fattori contingenti, come l’annullamento, nel 2010, da parte della Corte costituzionale spagnola, di diversi articoli dello Statuto di autonomia emendato, che era stato approvato da un referendum popolare nella regione.

Il nazionalismo catalano ha creato l’idea di una nazione catalana soprattutto sulla base della lingua catalan, [4] lingua neolatina strettamente affine all’italiano, al francese e allo spagnolo, dal momento che non è mai esistito uno Stato catalano indipendente. Dal punto di vista storico, l’antica contea di Barcellona è entrata nel Medio Evo a far parte del regno di Aragona, allora ben più ampio dell’attuale Catalogna in quanto comprendeva l’Aragona, Valencia e le Baleari e, ad un certo punto, perfino la Sardegna e la Sicilia. Questo regno si è unito per via dinastica con la Castiglia con il matrimonio di Isabella e Ferdinando. Ancor oggi, il catalano non è parlato solo in Catalogna, ma anche a Valencia e nelle isole Baleari.

Dall’adozione della costituzione spagnola nel 1978, la Spagna è di fatto uno Stato federale, che occupa il quarto posto tra i più decentrati dell’OCSE. Da allora, la Catalogna ha goduto di autogoverno, dotato di un parlamento regionale e di competenze legislative esclusive in numerosi campi, tra cui l’istruzione e la cultura.

Pertanto, nel caso della Catalogna non esiste nessuna evidente base storica o legale per poter esercitare il diritto di autodeterminazione: in base a quanto stabilito dalla Nazioni Unite, infatti, un territorio può secedere legalmente da uno Stato solo in caso di occupazione militare, dominazione coloniale, discriminazione culturale o costante violazione su vasta scala dei diritti umani (e infatti, in quest'ultimo caso, prende il nome - dopo il caso del Kosovo - di remedy secession).

L’altra spinta alla deriva nazionalista in Catalogna, oltre a quella di un’identità nazionale esclusiva condivisa da quasi metà della popolazione, è la percezione di una ripartizione scorretta delle pratiche redistributive nei confronti di altre regioni della Spagna, atteggiamento tipico anche di altri territori europei ricchi (il Veneto in Italia, le Fiandre in Belgio, ecc.). Nel 2012, il presidente nazionalista catalano, Artur Mas, ha lanciato un invito all’indipendenza proprio dopo che il governo centrale aveva respinto la sua richiesta di consentire alla regione di riscuotere tutte le tasse e di contribuire al bilancio nazionale comune in base a quanto riceveva a propria volta sotto forma di trasferimenti, annullando in tal modo qualsiasi effetto redistributivo.

Nel 2014 il movimento nazionalista ha organizzato unilateralmente un referendum informale per l’indipendenza al quale ha partecipato meno della metà dell’elettorato. Nel 2015 i partiti nazionalisti non sono riusciti a raggiungere il 50% dei voti nelle elezioni regionali, ma nonostante ciò hanno continuato a portare avanti il programma per l’indipendenza. Infine, il 6-7 settembre 2017, la maggioranza filo-indipendentista del parlamento catalano ha approvato due leggi incostituzionali che sono state utilizzate come base giuridica per un referendum di autodeterminazione da tenersi il 1° ottobre. Di nuovo, non più del 40% dell’elettorato ha partecipato a questo referendum incostituzionale, privo di osservatori indipendenti, come ammesso dagli stessi indipendentisti. Sulla base di questo cosiddetto referendum, il parlamento regionale, con l’assenza di gran parte dell’opposizione, il 27 ottobre ha dichiarato l’indipendenza. Lo stesso giorno, il Senato spagnolo ha votato in favore della sospensione dell’autonomia utilizzando come base giuridica l’articolo 155 della costituzione, ricalcato sull’articolo 37 della Legge fondamentale della Repubblica federale tedesca.

Sembra quindi che il movimento pro-indipendentista catalano contraddica diversi principi federalisti sia dal punto di vista della sostanza, sia da quello del metodo.

In primo luogo, la nazione catalana, come comunità culturale, è già pienamente autodeterminata all’interno della Spagna e qualsiasi contestazione dovrebbe essere risolta politicamente nel pieno rispetto dei limiti costituzionali. E’ chiarissimo che l’unilateralismo che ha caratterizzato il movimento nazionalista è incompatibile con lo Stato di diritto e con il principio dell’integrità territoriale, entrambi principi chiave del Trattato sull’Unione europea (articoli 2 e 4.2).

In secondo luogo, il federalismo non ritiene che ogni nazione abbia diritto a un proprio Stato politico separato e pienamente sovrano, perché ciò contraddice il principio su cui si basa il concetto di federazione europea: sovranità condivisa e ordinamento politico multiculturale.

Per di più, il federalismo europeo non potrebbe avvallare la nascita indiscriminata di nuovi Stati in Europa, minando così la forza e la stabilità dell’Unione e complicandone il processo decisionale – ammesso che l’Unione possa sopravvivere alle sfide dei nazionalismi intra-statali non solo in Spagna, ma anche altrove. Non a caso, la Corte suprema degli Stati Uniti ha dichiarato che la federazione americana è “un’Unione indistruttibile di Stati indistruttibili”, facendo valere così il principio dell’integrità territoriale in una duplice dimensione, a livello degli Stati e a livello federale.

In terzo luogo, l’indipendenza fondata sulla contestazione del principio di redistribuzione, a parte il fatto che è stata grossolanamente esagerata dai nazionalisti,[5] è in contraddizione con il principio della solidarietà, valore fondamentale sia del federalismo, sia dell’Unione europea.

In generale, pertanto, i micronazionalismi, in Spagna o in qualsiasi altro Stato membro, costituiscono una forza regressiva e negativa per il processo di integrazione europea e per una governance federale del mondo. Rappresentano una minaccia per i principi federalisti della sovranità sovrastatale, della solidarietà, del rispetto per le entità politiche multiculturali, di un ordine internazionale stabile, e, nel caso del nazionalismo catalano, anche dello Stato di diritto e della statualità democratica, che sono alla base di qualsiasi federazione regionale o globale. Se la storia ha un fine, in senso ideologico, essa punta verso una federazione di Stati liberi, democratici e liberali, non verso la proliferazione di nuove nazioni concepite esclusivamente secondo criteri linguistici o culturali.

Perciò i nazionalisti regionali non dovrebbero essere sostenuti in Europa e ancor meno dai federalisti europei.

Domenec Ruiz Devesa


[1] Ernest Renan, Qu’est-ce qu’une nation?, Clamency, Mille et une nuits, 2010.

[2] Mario Albertini, Nazionalismo e federalismo, Bologna, Il Mulino, 1999.

[3] Per una rassegna delle rivendicazioni storiche ed economiche del nazionalismo catalano, vedi Josep Borrell, Francesc de Carreras et al., Escucha, Cataluña; Escucha España, Barcelona, Península, 2017.

[4] V. Borrell e Carreras, op. cit..

[5] V. in particolare Josep Borrell e Joan Llorach, Las cuentas y los cuentos de la independencia,Madrid, Catarata, 2015, e le recensioni in un’ottica federalista di Pilar Llorente, Economics and the Tall Tales of the Independence of Catalonia, The Federalist Debate, 30, n. 1 (2017), e Domenec Ruiz Devesa, Los mitos del nacionalismo y las cuentas de la independencia en Cataluña, Letra Internacional, n. 122 (2016).
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
Avatar utente
Berto
Site Admin
 
Messaggi: 38318
Iscritto il: ven nov 15, 2013 10:02 pm

Re: Nazionalismo e federalismo in Europa

Messaggioda Berto » ven nov 16, 2018 9:56 pm

???

L’Italia al bivio tra federalismo e nazionalismo. Il tema Europa nei programmi elettorali
Nicola Vallinoto
01 Marzo 2018

http://europainmovimento.eu/europa/l-it ... orali.html

Il voto del 4 marzo ha una importanza che travalica i confini italiani. Votiamo per il Parlamento italiano ma con un occhio all’Europa. Sappiamo benissimo che dopo le elezioni francesi, che hanno visto la vittoria di Macron contro la Le Pen giocata tutta sulla scommessa europea, e dopo le elezioni in Germania, con la proposta di una Grosse Koalition con un programma che ha al primo punto l’Europa, ora tocca all’Italia, uno dei paesi fondatori della Comunità Europea, affermare o meno la volontà partecipare a pieno titolo al rilancio di un’Europa federale con un governo democratico controllato dal Parlamento che sia in grado di governare la globalizzazione e non subirne le conseguenze.

Queste elezioni hanno alcune caratteristiche peculiari: non abbiamo assistito a dibattiti incrociati tra i leader delle varie forze politiche; gli spazi dei cartelloni elettorali presentano ampie aree vuote; ed infine l’Europa non è entrata nel dibattito in modo netto come in Francia ma resta un discrimine per l’azione politica anche se non per tutti.

La rete dei movimenti federalisti ha cercato di rompere il silenzio sul tema Europa: il MFE ha chiesto un impegno sul fronte europeo per sostenere le riforme istituzionali e politiche per rendere l’Europa sovrana, democratica e federale al quale hanno aderito 120 candidati (http://www.mfe.it). Il CIME ha diffuso un patto per un’Europa unita, democratica e solidale sottoscritto da un centinaio di candidati (http://www.movimentoeuropeo.it). Mentre da Genova è partito un appello “Soprattutto Europa”, promosso da personalità ed esponenti della società di differenti orientamenti politici per “invitare gli elettori a votare per chi assicuri, senza troppi “se” e senza troppi “ma”, il maggior impegno e coerenza per una riforma e il rafforzamento dell'Unione Europea”. In poche ore sono state raccolte 500 firme sul sito http://www.soprattuttoeuropa.eu .

La maggior parte delle forze politiche critica l’UE, molte volte giustamente, e per questo motivo non possono essere tacciate di antieuropeismo. Infatti l’attuale assetto istituzionale europeo e le politiche avanzate a livello europeo, decise in modo intergovernativo, sono in parte la causa principale dei molti problemi irrisolti.

Se da una parte l’Europa è la causa dei suoi mali allo stesso tempo è anche la possibile soluzione ai problemi che i cittadini italiani vorrebbero veder risolti. In un sondaggio di Demopolis a tre settimane dal voto risulta che i cittadini italiani vorrebbero che l’UE si impegnasse con maggior incisività per "investimenti per la creazione di posti di lavoro, la gestione dei flussi migratori e la riduzione delle disuguaglianze sociale". Nello stesso sondaggio viene evidenziato che la maggioranza degli italiani si definisce in massima parte eurocritica: "un quarto dei cittadini italiani – infatti - si dichiara antieuropeista, l'11% europeista convinto e il 64%, la stragrande maggioranza, è favorevole di principio all'Europa anche se è critico sulle recenti politiche europee e vuole un deciso cambio di rotta".

La vera divisione tra le forze politiche, infatti, non risiede sulle critiche all’UE ma sulle proposte per risolvere i problemi che preoccupano i cittadini.

Da una parte troviamo le forze che vogliono recuperare la sovranità nazionale e quindi ritornare a un modello di Europa divisa in Stati nazione sovrani; dall’altra quelle che vogliono costruire una sovranità sovranazionale condivisa e, quindi, puntano a una federazione europea.

Queste ultime sono quelle che nel Manifesto di Ventotene vengono indicate come forze progressiste in contrapposizione a quelle reazionarie.

Per uscire da questa situazione in cui l’UE risulta inefficace e inconcludente e per far sì che tutte le anime del popolo europeo possano risultare vincenti occorre una visione del futuro che non guardi al passato, ovvero alle frontiere nazionali, né a mettere l’una contro l’altra le fasce più deboli della popolazione intra-extra-europea. Occorre invece una visione di lungo periodo che sappia tener conto delle sfide globali senza far leva sulle paure dei cittadini e apra una prospettiva di gestione condivisa dei beni pubblici sovranazionali tra i vari livelli istituzionali (dal locale al globale) basata su una cittadinanza federale multidimensionale che non prevarichi i sentimenti di appartenenza locali ma valorizzi le differenze.

In questo articolo analizzerò le proposte avanzate dalle principali forze politiche, che si presentano alle politiche del 4 marzo, con una lettura mirata esclusivamente al tema europeo lasciando ad altre analisi più approfondite la dissertazione sui restanti argomenti. Come sappiamo il 70% della legislazione nazionale è di derivazione europea e, quindi, se un partito nazionale vuole incidere sui problemi che attanagliano i cittadini deve fare proposte a livello europeo altrimenti rischia di non essere una forza credibile per il cambiamento necessario a costruire una Italia europea e, allo stesso tempo, un’Europa italiana che guardi al Mediterraneo, crocevia di tre continenti, come luogo di incontro e di sviluppo piuttosto che un cimitero di morti e tragedie.

L’analisi si basa sui documenti presentati dalle forze politiche al momento della pubblicazione delle liste di candidati e sono tutti scaricabili dal sito del Ministero degli interni che merita il nostro plauso per il lavoro di trasparenza (http://dait.interno.gov.it/elezioni/trasparenza ). Non vengono prese in considerazione affermazioni verbali, promesse o patti elettorali che lasciano, come ben sappiamo, il tempo che trovano.

In base alle proposte illustrate nei documenti presentati al Ministero degli interni farò una suddivisione delle forze politiche in due grandi contenitori: “nazionalisti” ed “eurofederalisti”.

A questi due gruppi ho dovuto aggiungerne un terzo in modo da completare la rappresentazione del panorama politico italiano in vista del 4 marzo. Gruppo che possiamo definire dei “non allineati” e che include quelle forze che non si sono espresse con chiarezza, o hanno evidenziato ambiguità, sul tema europeo lasciando il cittadino nel dubbio su come verrà usato il suo voto dopo il 4 marzo. Nella seguente tabella trovate uno schema riassuntivo della suddivisione delle forze politiche in base alle proposte presenti nei rispettivi programmi sul tema Europa.

Eurofederalisti
Non allineati
Nazionalisti
+Europa
Movimento 5 Stelle
Forza Italia
Insieme
Potere al Popolo
Noi con l’Italia
Partito Democratico
Lega – Fratelli d’Italia
Liberi e Uguali
Forza Nuova - Casapound
Civica Popolare
Partito Comunista

Al terzo gruppo dei “non allineati” appartengono anche le forze politiche che non si sono espresse sul tema europeo. Tra queste abbiamo il Movimento 5 Stelle. Il M5S ha presentato un programma molto breve suddiviso in venti punti di cui nessuno riguarda direttamente e specificatamente l’Europa. Al momento del voto non è possibile capire cosa farà il M5S sul tema europeo una volta che dovesse diventare la forza di governo. Una forza che si candida a governare un paese come l’Italia, uno dei paesi fondatori dell’UE, non può non indicare nel suo programma qual’è la sua idea di Europa qualunque essa sia. Non è possibile dover ascoltare un rappresentante di spicco di tale movimento affermare, in un programma di prima serata e di massimo ascolto, di non sapere come voterebbe nel caso di un referendum sull’Euro. Per questo motivo ritengo che la posizione del M5S sia ancora più pericolosa di quella di una forza che si dichiara, in modo trasparente e netto, per il ritorno alla sovranità nazionale in quanto non è dato sapere se un voto espresso ai cinquestelle andrà a rafforzare la linea nazionalista o quella federalista.

Nel gruppo dei “non allineati” va inserito anche Potere al popolo il cui programma lascia qualche dubbio sulla collocazione della nuova formazione politica. Non propone un’Europa federalista ma neanche immagina una soluzione nazionalista. Attacca e critica l’Unione europea ma non predica il ritorno all’Europa degli stati nazionali. Il punto più ambiguo è il passaggio sulla rottura dell’UE dei trattati. Cosa vuol dire in pratica non viene spiegato.

Ecco il passaggio che riguarda l’Europa: “Negli ultimi 25 anni e oltre, l’Unione Europea è diventata sempre più protagonista delle nostre vite. Da Maastricht a Schengen, dal processo di Bologna al trattato di Lisbona, fino al Fiscal Compact, le peggiori politiche antipopolari vengono giustificate in nome del rispetto dei trattati. I ricchi, i padroni delle grandi multinazionali, delle grandi industrie, delle banche, le classi dominanti del continente approfittano di questo ”nuovo” strumento di governo che, unito al “vecchio” stato nazionale, impoverisce e opprime sempre più chi lavora. L’Unione Europea è uno strumento delle classi dominanti che favorisce l’applicazione delle famigerate e impopolari “riforme strutturali” senza nessuna verifica democratica. Il “sogno europeo” dei tanti che hanno creduto nella possibilità di costruire uno spazio di pace e progresso si è scontrato con la dura realtà di un’istituzione al servizio degli interessi di pochi. Noi ci sentiamo naturalmente vicini ai tanti popoli che vivono nel nostro stesso continente, con i quali la nostra storia si è intrecciata e si intreccia tuttora e che soffrono come noi a causa di decenni di politiche neoliberiste; insieme a tutti costoro vogliamo ricostruire il protagonismo delle classi popolari nello spazio europeo.” E tra le proposte di lotta troviamo: “
- rompere l’Unione Europea dei trattati;
- costruire un’altra Europa fondata sulla solidarietà tra lavoratrici e lavoratori, sui diritti sociali, che promuova pace e politiche condivise con i popoli della sponda sud del Mediterraneo;
- rifiutare l’ossessione della “governabilità”, lo svuotamento di potere del Parlamento, il rafforzamento degli esecutivi, l’imposizione di decisioni dall’alto perché “ce lo chiede l’Europa”;
- il diritto dei popoli ad essere chiamati ad esprimersi su tutte le decisioni prese sulle loro teste a qualunque livello– comunale, regionale, statale, europeo – pregresse o future, con il ricorso al referendum.”

Ora passo ad analizzare i programmi dei partiti che appartengono al gruppo delle forze nazionaliste.

Partiamo dal programma del centro destra presentato in maniera congiunta da Forza Italia, Fratelli d’Italia, Lega e Noi con l’Italia. Esso afferma chiaramente che vuole meno vincoli dall’Europa, che prima deve venire l’interesse degli italiani e che la nostra Costituzione deve prevalere sul diritto comunitario. Per dirla in parole semplici ci vuole “meno Europa” l’esatto contrario degli obiettivi di +Europa.

Un paragrafo viene dedicato all’Europa e si intitola in modo perentorio: “Meno vincoli sull’Europa”. Tra le proposte troviamo:
- No alle politiche di austerità
- No alle regolamentazioni eccessive che ostacolano lo sviluppo
- Revisione dei trattati europei
- Più politica, meno burocrazia in Europa
- Riduzione del surplus dei versamenti annuali italiani al bilancio UE
- Prevalenza della nostra Costituzione sul diritto comunitario, sul modello tedesco* (recupero di sovranità)
- Tutela in ogni sede degli interessi italiani a partire dalla sicurezza del risparmio e della tutela del Made in Italy, con particolare riguardo alle tipicità delle produzioni agricole e dell’agroalimentare

Più a destra troviamo Casapound nel cui programma si afferma di voler “Abbandonare il vecchio Euro per una nuova moneta sovrana italiana funzionale alla nostra economia ed ai nostri interessi nazionali.” Inoltre propone l’”Uscita dell’Italia dall’Unione europea e dai suoi folli vincoli che soffocano la nostra libertà.”

Sempre a destra troviamo Forza Nuova che ha un capitolo intitolato “Sovranità nazionale – italexit” in cui si dichiara che: “Un popolo non può essere libero se non ha sovranità. Non accettiamo che il nostro destino sia deciso da organismi burocratici non eletti e da banche internazionali che sfruttano i popoli. Noi esigiamo il ripudio di tutti i debiti da usura verso le banche centrali, la creazione di una Moneta di Popolo, dichiarata proprietà dei cittadini che non viene prestata e quindi non crea debito o inflazione e la nazionalizzazione della Banca d’Italia. Noi esigiamo il ritorno in mani italiane di aziende storiche svendute a stranieri, una politica contraria alle delocalizzazioni e che favorisca anche il ritorno in Italia delle aziende già delocalizzate. Noi auspichiamo un rilancio dell’IRI che possa ridare slancio a tutta l’economia italiana. Il nostro popolo deve essere padrone della sua moneta, della sua casa, della sua sicurezza e delle sue strade o non sarà mai libero. Noi esigiamo l’uscita da UE, EURO e NATO e l’affermazione di una politica di amicizia e collaborazione con la Russia.”

Dall’estrema destra passiamo all’estrema sinistra dove troviamo proposte simili, come l’uscita da UE e da Euro, da parte del Partito comunista.

Ecco la lunga parte di programma riguardante l’Europa: "Il programma del Partito Comunista è un programma rivoluzionario, non è realizzabile attraverso la partecipazione a governi borghesi e coalizioni con forze politiche di sinistra e/o centrosinistra. E’ incompatibile con la permanenza dell’Italia nell’Unione Europea e nella Nato, che sono strumenti nelle mani del grande capitale finanziario per schiacciare i diritti dei lavoratori e appropriarsi della ricchezza da loro prodotta. Non esistono terze vie. O il governo del capitale e dei padroni, o il potere nelle mani dei lavoratori!
La realizzazione del programma del Partito Comunista di trasformazione sociale dell’Italia, che mette al centro dello sviluppo gli interessi e i diritti dei lavoratori e delle classi popolari, è incompatibile con il sistema capitalistico, con l’attuale assetto dello stato italiano, con la sua permanenza all’interno dell’Unione Europea, dell’euro, della Nato e di ogni altra alleanza imperialista. E’ incompatibile con un sistema di economia di mercato basato sul potere dei grandi monopoli e del capitale finanziario, sulla rapina quotidiana che si consuma a danno delle classi popolari sotto la parola d’ordine del pagamento del debito pubblico, che non può che essere unilateralmente cancellato.
La realizzazione di un programma di trasformazione sociale sarebbe vanificata o resa del tutto impossibile da vincoli, legislazioni, istituzioni, proprietà privata di aziende e banche, che rappresentando argini e difesa del sistema capitalistico che vogliamo abbattere. E’ necessario in particolare l'esproprio senza indennizzo e la nazionalizzazione di banche, assicurazioni e grandi imprese, la cancellazione unilaterale del debito pubblico, l’uscita dell’Italia dall'Unione Europea, dall’euro e dalla Nato, con una parallela trasformazione delle istituzioni e delle leggi italiane.

a) l’Uscita dell’Italia dall’ Unione Europea
Il PCI fu l’unico partito ad opporsi all’ingresso dell’Italia nel Mercato Comune Europeo. I comunisti, nel 1957 al momento del voto in Parlamento, definirono questa istituzione “strumento del capitale monopolistico europeo” ammonendo sulle gravi conseguenze economiche e sociali, che l’ingresso nel MEC avrebbe causato per i lavoratori, a causa della pressione delle grandi società monopolistiche e della libera circolazione di merci, capitali, servizi e persone, che sarebbe divenuta strumento nelle mani della finanza per mettere in competizione i lavoratori, abbattendo diritti e salari. Siamo passati dalla CECA al MEC, quindi alla CEE, ora all’Unione Europea e il carattere antipopolare delle politiche europee è sotto gli occhi di tutti e continua ad inasprirsi. L’UE è veicolo delle politiche di attacco ai diritti dei lavoratori e delle classi popolari, delle massicce privatizzazioni, dei tagli ai servizi sociali, dello schiacciamento della piccola produzione a favore delle multinazionali. Ha ingabbiato anche le parti più progressiste della Costituzione Italiana nei vincoli imposti dai trattati europei a tutto vantaggio del grande capitale bancario e industriale. I comunisti sono contro l’Unione Europea. L’accettazione della UE da parte della sinistra borghese coincide con il suo processo di trasformazione in forza di sistema e con il tradimento degli interessi dei lavoratori. L’Unione Europea non è riformabile in senso favorevole agli interessi popolari. Pensare di trasformare l’UE dall’Europa dei capitali e dei trattati all’Europa dei popoli è pura illusione, come è illusorio pensare di realizzare qualsiasi cambiamento radicale nel proprio Paese permanendo all’interno dei vincoli imposti da Bruxelles. Il caso della Grecia lo dimostra chiaramente. Per questo il Partito Comunista lotta per: - l’uscita dell’Italia dall’Unione Europea, la denuncia dei trattati e delle leggi sul mercato comune, sulla difesa militare comune, sulla moneta comune, l’abrogazione delle direttive e dei regolamenti sulle privatizzazioni dei servizi sociali e del patrimonio pubblico, sull’istruzione e sul lavoro che non siano compatibili con gli interessi dei lavoratori e delle classi popolari;
a) l’Uscita dell’Italia dall’ Unione Europea Il PCI fu l’unico partito ad opporsi all’ingresso dell’Italia nel Mercato Comune Europeo. I comunisti, nel 1957 al momento del voto in Parlamento, definirono questa istituzione “strumento del capitale monopolistico europeo” ammonendo sulle gravi conseguenze economiche e sociali, che l’ingresso nel MEC avrebbe causato per i lavoratori, a causa della pressione delle grandi società monopolistiche e della libera circolazione di merci, capitali, servizi e persone, che sarebbe divenuta strumento nelle mani della finanza per mettere in competizione i lavoratori, abbattendo diritti e salari. Siamo passati dalla CECA al MEC, quindi alla CEE, ora all’Unione Europea e il carattere antipopolare delle politiche europee è sotto gli occhi di tutti e continua ad inasprirsi. L’UE è veicolo delle politiche di attacco ai diritti dei lavoratori e delle classi popolari, delle massicce privatizzazioni, dei tagli ai servizi sociali, dello schiacciamento della piccola produzione a favore delle multinazionali. Ha ingabbiato anche le parti più progressiste della Costituzione Italiana nei vincoli imposti dai trattati europei a tutto vantaggio del grande capitale bancario e industriale. I comunisti sono contro l’Unione Europea. L’accettazione della UE da parte della sinistra borghese coincide con il suo processo di trasformazione in forza di sistema e con il tradimento degli interessi dei lavoratori. L’Unione Europea non è riformabile in senso favorevole agli interessi popolari. Pensare di trasformare l’UE dall’Europa dei capitali e dei trattati all’Europa dei popoli è pura illusione, come è illusorio pensare di realizzare qualsiasi cambiamento radicale nel proprio Paese permanendo all’interno dei vincoli imposti da Bruxelles. Il caso della Grecia lo dimostra chiaramente. Per questo il Partito Comunista lotta per l’uscita dell’Italia dall’Unione Europea, la denuncia dei trattati e delle leggi sul mercato comune, sulla difesa militare comune, sulla moneta comune, l’abrogazione delle direttive e dei regolamenti sulle privatizzazioni dei servizi sociali e del patrimonio pubblico, sull’istruzione e sul lavoro che non siano compatibili con gli interessi dei lavoratori e delle classi popolari."

E ora passiamo al gruppo delle forze eurofederaliste.

Tra questi troviamo sicuramente la nuova forza +Europa, l’unica che ha incentrato il programma interamente sull’Europa. Ecco l’incipit: “Per affrontare le grandi questioni del nostro tempo occorrono risposte più ampie che può dare solo un’Italia più europea in un’Europa unita e democratica. Un’Europa per il benessere e contro la povertà, per le libertà fondamentali e contro ogni forma di discriminazione, per l’accoglienza e l’integrazione con regole certe e contro l’indifferenza, per la sicurezza e contro il terrorismo. Un’Europa votata all’innovazione tecnologica e alla ricerca scientifica, alla valorizzazione del patrimonio storico e ambientale, alla tutela della concorrenza in un mercato aperto e alla creazione di opportunità di lavoro. Vogliamo farlo a partire dall’Italia, abbattendo i muri reali o immaginari eretti dai nazionalismi, dall’odio e dal populismo e dobbiamo farlo perché la Storia ha dimostrato dove questi portano: indietro, mai avanti. E’ tempo di dire che per guardare al futuro dell’Italia non serve meno Europa. Anzi. Per avere - anche in Italia - più crescita, più diritti, più democrazia, più libertà, più opportunità, più sicurezza, più rispetto dell’ambiente, serve +Europa.”
E poi un capitolo dal titolo significativo: “Europa: una federazione leggera verso gli Stati Uniti d’Europa” con il seguente contenuto: “L’Europa che vogliamo non è un “superstato europeo”, bensì una federazione leggera. Come è stato già fatto con la moneta, si tratta di spostare al centro federale funzioni di governo oggi svolte dagli Stati membri - e le relative risorse per svolgerle: redistribuzione sociale e regionale, ricerca scientifica, reti trans-europee, controllo delle frontiere, diplomazia (inclusi aiuti allo sviluppo e aiuti umanitari), difesa. Oggi, su ogni euro speso in ricerca e sviluppo nell’UE, solo 4 centesimi provengono dal bilancio dell’Unione. Noi vorremmo che questi ultimi fossero invece 33, cioè un terzo di tutta le spesa. Come? Destinando a grandi programmi di ricerca su scala federale l’1 % del PIL europeo Il controllo delle frontiere è già, per quanto riguarda almeno i movimenti delle merci, una competenza esclusiva dell’Unione europea. Ma viene svolto dalle organizzazioni doganali degli Stati membri. Noi vorremmo che si creasse una polizza di frontiera davvero Europea, sotto il controllo dell'Unione, per il controllo dei movimenti di merci e persone alla frontiere esterne dell’UE.
Parlare al mondo con una sola voce è di importanza vitale per l’Europa. Diplomazia e Difesa sono funzioni di governo oggi svolte dagli Stati membri da spostare quasi esclusivamente a livello federale. Gli Stati membri continuerebbero ad avere rappresentanze non diplomatiche nel mondo, così come forze armate nazionali di scala ridotta - sotto forma di Guardia Nazionale - potrebbero coesistere con un esercito europeo. Il bilancio di un’Unione europea con queste competenze si aggirerebbe attorno al 4-5% del PIL europeo – oggi è pari all’1%, mentre i governi nazionali assorbono in media il 50% del prodotto dei rispettivi paesi. A questo livello il bilancio dell’Unione potrebbe cominciare a svolgere anche un ruolo di stabilizzazione macroeconomica, cosa che oggi non può fare a causa delle sue dimensioni molto ridotte. In quasi tutti i casi non occorrerebbero risorse aggiuntive ma sostitutive: per finanziare queste funzioni di governo a livello europeo verrebbero usate le risorse con cui oggi gli Stati membri le finanziano a livello nazionale. Economie di scala e buon senso portano a concludere che si otterrebbe di più e di meglio a parità di spesa.
Dal lato delle entrate, se all’Unione andassero, oltre i dazi, un’aliquota IVA di circa 20% sulle importazioni extra UE e una corporate tax europea armonizzata, dovrebbe essere possibile finanziare un bilancio dell’ordine di grandezza (4-5% del PIL europeo) citato. Altre ipotesi sono percorribili, in particolare se colpiscono esternali tà negative oppure se poggiano su una base imponibile meglio definibile a livello europeo che a livello nazionale – come la web tax. Attualmente circa l’80% del bi lancio risulta da trasferimenti diretti dagli Stati membri. Si tratterebbe invece di basarlo interamente su risorse proprie, stabilendo un principio di corrispondenza tra spese europee e tasse europee, attraverso una facoltà di imposizione diretta dell’Unione che oggi non c’è.”
Intendiamo anche batterci per: l’elezione del Presidente della Commissione europea a suffragio universale; la trasformazione del Consiglio dei ministri dell’Unione in un Senato europeo a elezione diretta, sia per politicizzarlo, liberandolo dal controllo delle burocrazie nazionali, che per rendere i suoi processi decisionali pubblici e trasparenti; l’istituzione di una valutazione annuale dello stato della libertà e della democrazia in ciascun stato membro da parte della Commissione - o della Corte di Giustizia, o di un’Agenzia ad hoc - con il mandato di monitorare il rispetto dei diritti fondamentali elencati all’art. 2 del Trattato sull’Unione europea.”
Di seguito il capitolo specifico sulla “Difesa europea” con le seguenti proposte:
“Che si punti o meno agli Stati Uniti d’Europa, le aree o funzioni di governo candida te a una maggiore integrazione sono quelle appena viste a proposito della federazione leggera. Così, in un discorso alla Sorbona il 26 settembre del 2017, lo stesso Macron ha proposto la creazione di una polizia di frontiera europea. Ha affermato che “all’inizio del prossimo decennio, l’Europa dovrà dotarsi d’una forza comune d’intervento, di un bilancio della difesa e di una dottrina militare comune per agire”.
Nel suo discorso sullo Stato dell’Unione del 13 settembre 2017, il presidente della commissione europea, Jean-Claude Juncker, ha parlato di una “vera e propria unione europea di difesa entro il 2025”. I primi passi in questa direzione sono però molto timidi. Ad esempio, la cooperazione permanente nel settore militare, inaugurata alla fine del 2017, ha finito per essere poco più di una lista di progetti di cooperazione - 17 per la precisione - che spaziano dalla creazione di un comando medico a un centro per lo scambio di esperienze in materia d’addestramento. Tutte cose lontanissime dalla creazione di un esercito europeo, fosse pure solo un nucleo di questo, e abbastanza innocue da assicurare alla Permanent Structured Cooperation (PESCO) un’adesione quasi generale (25 paesi su 28). Vogliamo forze armate dell’Unione addestrate ed equipaggiate al meglio, dotate di elevata prontezza operativa e capacità di proiezione - ma prive di armi nucleari. Condividiamo l’appello all’eliminazione delle armi nucleari lanciato nel 2007 da Henry Kissinger, George Shultz, William Perry e Sam Nunn e rilanciato dall’allora Presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, nel suo discorso a Praga il 5 aprile del 2009. Siamo perciò favorevoli al ritiro delle armi nucleari tattiche (bombe per aereo) statunitensi schierate in Belgio, Germania, Italia e Paesi Bassi, in parte assegnate per un eventuale uso alle aeronautiche nazionali di questi quattro paesi. Va posta, secondo +Europa, la questione di un’iniziativa diplomatica italiana per arrivare a un ritiro concordato con gli alleati della NATO di queste armi dal territorio europeo, mentre va ribadita l’importanza per la sicurezza europea e globale del Trattato di Non Proliferazione delle Armi Nucleari e del Trattato che ha eliminato le forze nucleari a raggio intermedio (INF).
Con l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione, la Francia rimarrà l’unico Stato membro dotato di armi nucleari – e membro permanente con diritto di veto del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Il problema del rapporto tra un esercito europeo, che + Europa vuole equipaggiato di sole armi convenzionali, e il deterrente nucleare francese, auspichiamo si risolva nel medio-lungo termine nel quadro di un disarmo nucleare generale e completo – come quello previsto nel Trattato sulla Proibizione delle Armi Nucleari, approvato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 7 luglio 2017, cui vorremmo aderissero quanto prima l’Italia e i suoi alleati della NATO. Ad interim, le armi nucleari francesi, conservando la loro consistenza e schieramento attuali, potrebbero estendere la deterrenza al resto dell’Unione europea, supplendo al ruolo svolto attualmente da quelle americane."
E per finire il capitolo sulla Governance economica dell’eurozona.
"È tempo di superare la stucchevole polemica anti-europea sull’austerità. L’economia europea è in forte espansione e l’Italia partecipa al processo, il mercato del lavoro migliora, e anche la dinamica salariale sta riprendendo. In questo quadro l’Italia si potrà sedere al tavolo franco-tedesco come pari tra i pari se cesserà di chiedere flessibilità per questa o quella categoria di spesa pubblica e saprà mostrare programmi di politica economica che garantiscano tre cose: la riduzione del debito pubblico in rapporto al PIL, il rafforzamento della qualità dei bilanci bancari, riducendo i rischi (NPL e portafoglio di titoli sovrani), politiche mirate per il rilancio della produttività, che ristagna dall’inizio di questo secolo. Senza crescita della produttivi-tà non c’è spazio per aumenti sostenibili dei salari, dunque la domanda cresce poco e la sostenibilità del debito pubblico resta sempre in bilico.
Sulla governance dell’eurozona la Commissione Europea ha messo sul tavolo, nel dicembre del 2017, un insieme di proposte importanti che meritano pieno sostegno.
Inoltre, l’Unione deve trovare una nuova intesa sulla gestione delle politiche economiche nella quale sia possibile affiancare al criterio della finanza pubblica sana, una visione proiettata verso il futuro che si basi sulla ripresa dell’integrazione – particolarmente nei servizi a rete e nel mercato digitale – e forti investimenti comuni in istruzione e nuove tecnologie. Le condizioni finanziarie favorevoli dovrebbero essere sfruttate per mobilitare risparmio pubblico e privato verso questi obbiettivi.
In questo quadro, è urgente completare l’unione bancaria, con il pilastro mancante dell’assicurazione dei depositi, e l’unione del mercato dei capitali (CMU), in modo che i grandi eccessi di risparmio possano muoversi a finanziare l’investimento produttivo nelle aree ancora in difetto di convergenza. La conduzione delle politiche economiche nazionali dovrà riflettere gli obiettivi comuni di crescita, superando le asimmetrie che hanno scaricato il peso dell’aggiustamento degli squilibri di domanda quasi esclusivamente sui paesi più deboli.
Occorre consolidare gli strumenti comuni per la gestione delle crisi, trasformando il Fondo Salva-Stati (MES) in un vero e proprio Fondo Monetario Europeo che fornisca liquidità e finanza ai paesi sotto attacco speculativo, e fornisca la linea di sostegno di ultima istanza per il meccanismo comune di assicurazione dei depositi e il fondo per la risoluzione delle banche in crisi. Le decisioni del fondo, che deve essere assoggettato a controllo parlamentare, dovrebbero essere prese a maggioranza qualificata, non più all’unanimità, in base a proposte presentate dalla nuova figura del ministro europeo delle finanze, che dovrebbe diventare motore e coordinatore delle iniziative di politica economica comune.
Non serve un bilancio separato della zona euro. Serve invece una capacità fiscale comune più forte dell’Unione per la produzione di beni pubblici europei, tra i quali un peso maggiore devono assumere le spese per la sicurezza e la difesa, quelle per le politiche comuni per l’immigrazione, quelle per l’investimento in ricerca e nuove tecnologie, quelle per l’istruzione e la creazione di percorsi di studio multinazionali. Il bilancio dell’Unione fornisce anche lo strumento adatto per aiutare i paesi membri nelle fasi di depressione ciclica, sostenere gli sforzi di riforma strutturale, assistere i paesi che muovono verso l’ingresso nell’euro.”

E ora passiamo a Insieme che già nel titolo del programma precisa “Insieme per un’Italia più giusta in un’Europa più unita”. La coalizione formata da Area Civica, Verdi e Partito Socialista Italiano dedica un capitolo all’Europa intitolato: “Insieme per un’Europa capace di ridurre le disuguaglianze e far crescere democrazia e coesione”. Segue il contenuto:
“Solo chi ama l’Europa potrà salvarla: ma per fare questo è necessario fare chiarezza.
L’ Europa non è un concetto geografico, ma rappresenta per Insieme valori come democrazia, solidarietà, apertura, tolleranza, eguaglianza, rispetto dello stato di diritto. Eppure questi valori, garanti della pace in un continente dalla storia sanguinosa, sono messi a dura prova dall’incapacità di trovare soluzioni reali ai problemi delle persone: questo è uno stimolo potente per il populismo autoritario, nazionalista e xenofobo che sta rialzando la testa.
Non ci possono essere soluzioni nazionali a problemi transnazionali. Vogliamo un’Europa capace di ridurre le disuguaglianze e far crescere democrazia e coesione.
Rifiutiamo totalmente ogni opzione di uscita dall’Euro o di delegittimazione di istituzioni comuni come il Parlamento Europeo, la Commissione o la Banca centrale Europea, pur se non condividiamo alcune delle loro scelte politiche.
Allo stesso tempo, non possiamo accontentarci di sventolare la bandiera dell’Europa cosi come è e di coltivare un europeismo elitario. Vogliamo che l’Italia sia parte attiva del cambio deciso delle sue politiche economiche, delle priorità di investimento; vogliamo agire per rendere la UE di nuovo capace di rappresentare un baluardo per la pace e lo stato di diritto dentro e fuori i suoi confini.
Crediamo che solo un’Europa più forte e federale possa fare fronte, con efficacia e determinazione, alle questioni cruciali della contemporaneità, dal cambiamento climatico, alle grandi migrazioni, dalla disoccupazione alla precarietà. Conflitti, guerre, instabilità in aree ai nostri immediati confini richiedono una politica estera unitaria, autorevole, efficace, una cooperazione dei servizi di intelligence e sicurezza strettissima e in grado di prevenire, contrastare, sradicare il terrorismo. La crisi economica e finanziaria è stata la dimostrazione dell’inadeguatezza delle istituzioni e della governance europea. Con l’imposizione di ricette di austerità fallimentari e la traumatica uscita del Regno Unito dall’Unione, è oggi indispensabile una profonda riforma del quadro istituzionale e politico dell’Unione Europea.
Vogliamo un’Europa che difenda con orgoglio il modello di Welfare europeo attorno a cui è nata ma che sappia anche adeguarlo, rendendolo più efficace e maggiormente in grado di rispondere ai nuovi bisogni dei cittadini europei, alle nuove richieste dei consumatori, oggi più attenti ed esigenti, alle nuove fragilità delle persone più deboli ed alle nuove aspettative delle classi più giovani.
Vogliamo un piano Ue di investimenti straordinari per il rilancio dell’Europa sociale da varare al più presto in modo che sia operativo entro il 2019 per dare risposte ai problemi più urgenti dei cittadini del vecchio continente che riguardano un gap negli investimenti da 100-150 miliardi di euro in tutta Europa, anche nei Paesi più ricchi, per quanto riguarda le infrastrutture sociali, in particolare sanità, educazione e alloggi sociali accessibili.
In questo senso il “New Deal per l’infrastruttura sociale” presentato da Romano Prodi a Bruxelles individua assai bene le priorità verso le quali orientare al più presto un Piano operativo decennale di investimenti da 150 miliardi: infrastrutture sociali, salute, istruzione ed edilizia.
Romano Prodi si conferma ancora una volta un punto di riferimento per tutti quelli che affidano all’Unione Europea il compito di immaginare uno sviluppo che coniughi crescita e inclusione e aiuti l’Europa ad indirizzare l’economia verso uno sviluppo compatibile. Questa è l’Europa del futuro e di cui si avverte sempre di più il bisogno: un’Unione che diventi attore principale di una crescita economica più equa ed inclusiva, socialmente sostenibile, che non consumi le risorse ambientali e sappia creare occupazione stabile e di qualità per i giovani. INSIEME ha messo al centro del suo Programma questa visione e queste proposte per aiutare anche l’Italia a crescere. Davvero ci auguriamo che il “Piano Prodi” diventi la bussola dell’azione dell’Unione e dei paesi membri nel prossimo futuro e che il prossimo Governo italiano lo metta al centro della sua azione.
Ma per fare questo è necessario rilanciare anche il processo di riforma e democratizzazione delle istituzioni europee, processo che non può rimanere soltanto nelle mani dei governi francese e tedesco o affidato al rapporto di forza tra gli stati: occorre tenere insieme e vincere su questi due indispensabili piani, quello politico e quello istituzionale per rilegittimare e rendere efficace agli occhi dei suoi cittadini il progetto europeo.
Insieme vuole che l’Europa abbia una politica estera comune che giochi un ruolo di primo piano a livello internazionale, in grado di aggredire le cause strutturali della povertà, promuovendo la giustizia e la solidarietà globali, la pace e la difesa dei beni comuni globali.
Occorre, inoltre, procedere con decisione verso una Difesa comune europea, andando oltre la fase attuale basata su una utile, ma non sufficientemente efficace attività di cooperazione, con forze armate comuni sotto la bandiera dell’Unione Europea, in grado di garantire interventi rapidi ed efficaci e con dotazione di armi convenzionali.
È urgente far sì che l’Europa abbia una sola voce in materia di sicurezza. La cooperazione deve essere democratica, trasparente, affidabile e basata su principi universali. L’UE dovrebbe sostenere una governance multilaterale globale, rafforzando e riformando il ruolo dell’ONU. Priorità deve essere data alla gestione dei conflitti civili. L’UNHCR stima che siano 65 milioni le persone profughe, la metà all’interno del proprio stato. Migliaia di persone muoiono ogni anno fuori delle nostre frontiere, a causa delle restrizioni sempre più forti. L’UE ha il dovere di garantire che queste persone possano cercare protezione. L’European Border Agency FRONTEX è uno strumento non del tutto adeguato. Dobbiamo garantire un sistema di asilo degno di questo nome ed intervenire, sia come UE che singoli stati membri, in modo coordinato per soccorrere i naufraghi in mare e consentire vie di ingresso sicure e legali. Occorre intervenire sulle cause che costringono le persone ad emigrare e superare la normativa di Dublino che obbliga i rifugiati a fare domanda di asilo solo nel primo paese di ingresso.
Sotto il profilo istituzionale l’Europa deve riprendere il suo cammino verso un obiettivo chiaro: gli Stati Uniti d’Europa, una federazione di Stati che decidono di gestire dal centro politiche e Piani di azione comuni in materia di politica estera (inclusi aiuti allo sviluppo e aiuti umanitari), difesa, ricerca scientifica, reti trans-europee, controllo delle frontiere.
Per poter efficacemente gestire queste politiche e queste competenze comuni occorre avere un bilancio adeguato, almeno 4-5 volte superiore a quello attuale (pari circa all’1% del Pil Europeo) per poter dare all’intervento dell’’Unione un impatto realmente visibile.
Il rafforzamento del bilancio dell’Unione deve passare sia dallo spostamento delle risorse oggi destinate alle politiche nazionali dei Paesi membri verso l’Unione, sia dall’esercizio concreto di una autonoma capacità di imposizione fiscale Ue. Ciò anche attraverso l’individuazione di voci di entrata specifiche come una corporate tax europea a partire dalle grandi multinazionali .
Ci vogliono istituzioni europee maggiormente rappresentative perché maggiormente collegate ai cittadini: noi proponiamo che il Presidente della Commissione europea sia eletto direttamente a suffragio universale.
Insieme propone come prime misure urgenti
- un piano di investimenti con una possibile interazione tra pubblico e privato inclusi fondi pensione e assicurazioni per il rilancio dell’Europa sociale nel rispetto del “principio di sussidiarietà”
- l’attuazione di tutte le direttive non ancora recepite. L’Italia non ha fatto sempre il suo dovere per rendere l’Unione una presenza reale nella vita degli italiani. Molte, troppe sono le direttive europee non applicate e troppe le procedure di infrazione a nostro carico
- la promozione dell’elezione diretta a suffragio universale del Presidente della Commissione europea
- l’impegno a promuovere la trasformazione del Fondo salva stati in un Fondo Monetario Europeo
- l’impegno a richiamare con fermezza l’Unione europea e la comunità internazionale ad una azione più efficace per la stabilizzazione del governo libico, nonché per appropriate forme di cooperazione allo sviluppo dei paesi africani;
- la creazione delle condizioni per un più rapido svolgimento delle pratiche di identificazione degli immigrati e per la valutazione delle richieste d’asilo
- investimenti, anche eventualmente attraverso il Servizio civile, nell’integrazione culturale dei migranti
- l’impegno per un maggiore coordinamento dell’intelligence a livello europeo
- la rivisitazione dell’accordo di Dublino"

E ora veniamo alla formazione Liberi e Uguali. Non ha un punto specifico sull’Europa ma nella premessa vi è un passaggio chiaro sulla scelta di campo europeista. Eccolo: "Il ripudio della guerra e il rilancio del multilateralismo e della cooperazione internazionale devono essere la bussola di un nuovo ruolo dell’Italia e dell’Europa nel mondo globale, in un quadro ancora drammaticamente segnato da conflitti, terrorismo e grandi fenomeni migratori.
La nostra è una scelta chiaramente europeista ma vogliamo combattere la deriva tecnocratica che ha preso l’Europa restituendo respiro alla visione di un solo popolo europeo. Vogliamo un’Europa più giusta, più democratica e solidale. Occorre superare la dimensione intergovernativa che detta i doveri e non garantisce i diritti con politiche di dura austerità. Vogliamo dare maggiore ruolo al Parlamento europeo che elegga un vero governo delle cittadine e dei cittadini europei affinchè possano tornare ad abitare la loro casa.
Il cambiamento e la discontinuità rispetto alle politiche degli ultimi anni costituiscono l’elemento fondamentale di questa visione, che ambisce a radicarsi in maniera stabile nella società italiana. Non mille promesse ma progetti che servono, scritti bene, da fare meglio. Un lavoro ben fatto. La politica che ritrova il suo ruolo di servizio a favore dei cittadini.”

La formazione Civica Popolare si colloca anch’essa nel gruppo delle forze europeiste. Ecco il passaggio sull’Europa:
“Civica Popolare crede in un’Europa più democratica, più politica e sociale con istituzioni di Governo scelte dai cittadini. Per questo occorre proporre un’idea di Europa che ne recuperi la radice originaria. L’integrazione europea era stata immaginata dai padri fondatori come uno strumento per garantire la pace, attraverso gli obiettivi di libertà e di giustizia sociale. Da un certo punto in poi (intorno al 2000) c’è stata una torsione e l’Europa è diventata quasi esclusivamente una sovrastruttura burocratica concentrata intorno ai principi del libero mercato.
Perciò il nostro europeismo che deve essere un elemento caratterizzante va rivolto verso un recupero dell’idea di Europa come strumento per la pace e la piena realizzazione della persona. La tentazione di nuovi nazionalismi e sovranismi non è solo pericolosa perché fa crescere chiusure e paure. È anche illusoria; è un imbroglio. Ci vuole più Europa per affrontare insieme le grandi sfide del Mediterraneo e dell’Africa, per essere decisivi nella nuova economia mondiale, per garantire sicurezza, ma anche occupazione e riduzione delle diseguaglianze.
Questa condizione è stata colta dal Presidente Mattarella nel discorso alle Camere in occasione del 60° anniversario del Trattato di Roma, quando ha chiesto che i paesi europei si impegnassero per una modifica dei trattati. La non inclusione (anzi la esplicita esclusione) della Carta dei diritti sociali nel Trattato è una delle storture da correggere.
Europa e territori
Serve oggi una nuova concezione della sovranità, più ispirata al principio dell’interdipendenza e della cooperazione. Più Europa, dunque, ma anche più autonomia ai territori alle comunità locali nelle quali si custodiscono tradizioni e identità preziose. È la rete delle comunità autonome e responsabili la nostra immagine del futuro, non quella dei fili spinati. È il pluralismo rispettoso delle diversità la nostra visione, non la chiusura impaurita e rancorosa tra uguali. Ripartire dai territori significa anche investire sulla responsabilità dei cittadini e sulla rete del volontariato in tutti i settori della vita collettiva.”

E per concludere il programma europeista del Partito Democratico. Di seguito il paragrafo dedicato all’Europa “Verso gli Stati Uniti d'Europa”.

"Per il Partito Democratico l’Europa è l’orizzonte naturale in cui si giocano tutte le partite più importanti della contemporaneità. Senza Europa le nostre vite sarebbero peggiori, avremmo meno benessere economico e sociale. Ma c’è ancora molto da fare se vogliamo che l’Europa assomigli di più all’ideale che ci ha permesso di costruirla.
La nostra Europa è quella di Ventotene, dove il sogno europeista venne rilanciato nel momento più buio della nostra storia. È l’Europa di Maastricht e degli sforzi fatti per arrivare alla moneta unica. Ed è l’Europa di Lisbona, una forza che prova a farsi Unione politica e dell’innovazione.
Il 2018 sarà l’anno delle scelte. Con le elezioni del 4 marzo l’Italia sceglierà se vorrà essere alla testa di un processo di rafforzamento dell’Unione Europea, per renderla più vicina ai bisogni dei cittadini, per rimettere crescita e sicurezza al centro del progetto europeo, o restarne ai margini.
Se vorrà partecipare alla costruzione del futuro, o arroccarsi e chiudere il mondo fuori dalla porta.
L’Italia ha le carte in regola per far parte del gruppo di paesi che disegnerà la nuova Europa:
siamo il secondo paese manifatturiero europeo;
siamo l’unico paese al mondo con un costante avanzo primario da più di venti anni;
il pagamento del nostro debito non è mai stato messo in discussione;
negli ultimi tre anni le procedure di infrazione a carico del nostro Paese sono passate da 120 a 62 (l’Italia era la maglia nera d’Europa, adesso è la maglia rosa);
abbiamo una storia europeista e di integrazione, che ha attraversato governi di vari colori e differenti fasi storiche (una storia che sarebbe pericoloso interrompere per l’avventurismo di chi propone un referendum per uscire dall’euro a giorni alterni);
negli ultimi anni il Partito Democratico e l’Italia hanno svolto un ruolo decisivo nell’imprimere un cambiamento d’indirizzo alla politica economica europea dall’austerità alla crescita.
I prossimi mesi saranno decisivi nella definizione del percorso di riforme in Europa, e l’Italia ha bisogno di un governo forte e credibile e di proposte chiare e ambiziose, in continuità con l’azione e l’elaborazione di questi anni, per svolgervi un ruolo da protagonista."


* questo punto è stato smentito da un articolo pubblicato su La Stampa (http://www.lastampa.it/2018/02/27/itali ... agina.html)

Nicola Vallinoto

Bio

Informatico, federalista ed altermondialista. Ha curato con Simone Vannuccini il volume collettivo “Europa 2.0 prospettive ed evoluzioni del sogno europeo” edito da ombre corte nel 2010. Ha ideato e promosso l'International Democracy Watch con Lucio Levi e Giovanni Finizio con i quali ha pubblicato il primo rapporto "The democratization of international organizations. First international democracy report", Routledge, 2014. Ha pubblicato "Le parole di Porto Alegre" ed "Europa anno zero", Frili Editori 2002.

Altri articoli dello stesso autore:
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
Avatar utente
Berto
Site Admin
 
Messaggi: 38318
Iscritto il: ven nov 15, 2013 10:02 pm

Re: Nazionalismo e federalismo in Europa

Messaggioda Berto » ven nov 16, 2018 9:57 pm

La scelta: democrazia tra nazionalismo e federalismo
18 Aprile Apr 2017

https://www.linkiesta.it/it/blog-post/2 ... ismo/25507

Altiero Spinelli, il fondatore del federalismo europeo, scrisse nel ‘Manifesto di Ventotene’ (1941) che ‘La linea di divisione fra i partiti progressisti e partiti reazionari cade perciò ormai, non lungo la linea formale della maggiore o minore democrazia, del maggiore o minore socialismo da istituire, ma lungo la sostanziale nuovissima linea che separa coloro che concepiscono, come campo centrale della lotta quello antico, cioè la conquista e le forme del potere politico nazionale (…) e quelli che vedranno come compito centrale la creazione di un solido stato internazionale, che indirizzeranno verso questo scopo le forze popolari e, anche conquistato il potere nazionale, lo adopereranno in primissima linea come strumento per realizzare l'unità internazionale.’

In sostanza, Spinelli (e i suoi co-autori Rossi e Colorni) scriveva di una divisione tra ‘nazionalismo’ e ‘federalismo’. A distanza di 76 anni, il nazionalismo e’ di nuovo alla ribalta, mentre l’idea federalista (e piu’ in generale quella di ‘integrazione politica’) e’ stata danneggiata dagli errori e dai problemi dell’Unione europea. A parte le istituzioni sovra- ed internazionali, il nazionalismo ha poi corroso la qualita’ stessa della democrazia. Per semplificare, proviamo ora a dividere l’occidente e l’Europa in ‘Ovest’ ed ‘Est’, vecchie e nuove democrazie.

L'Europa occidentale ha visto l'ascesa di nazionalismi populisti da piu’ di vent’anni. I volti di Geert Wilders, Marine Le Pen, Matteo Salvini, Nigel Farage e numerosi altri sono ormai noti e familiari a molti, nei media, nel mondo accademico e naturalmente tra gli elettori. Siamo stati rassicurati circa le loro credenziali democratiche e il rispetto per le ‘regole del gioco’, ma fino a che punto possiamo fidarci? Possiamo fidarci di chi (Geert Wilders) ha più volte chiesto il divieto del Corano? A che punto è Marine Le Pen veramente pronta a tagliare i legami con l'eredità di suo padre? L'intolleranza, il razzismo, il nazionalismo, la critica dei ‘valori europei’ difficilmente possono coesistere con i valori e le istituzioni democratiche, in particolare in tempi di persistente crisi economica. Partiti e leaders politici possono a parole dirsi democratici, ma le loro reali possibilità di scelta e azioni saranno influenzate dalle condizioni in cui vivono (le ‘strutture’ di tanta teoria sociale ...). Inoltre, il nazionalismo populista è anche il risultato delle debolezze di classi dirigenti che hanno troppo spesso scelto l'opzione non molto democratica (ma confortevole!) di 'grandi coalizioni', che in un certo senso sono la degenerazione delle forze ‘internazionaliste’ di Spinelli.

La Germania ha avuto un governo di coalizione negli anni 2005-2009 e poi di nuovo dal 2013, l'Italia ha conosciuto un governo di unità nazionale guidato da un tecnocrate, Mario Monti, nel 2011-13, seguito da una ‘quasi’ grande coalizione con i Primi ministri Letta, Renzi, e Gentiloni. L’ Austria ha visto i due maggiori partiti al potere insieme dal 2006. In paesi come Belgio e Paesi Bassi, i governi di coalizione sono una sorta di tradizione, anche se alcuni partiti 'tradizionali', come i Laburisti olandesi sono nel frattempo quasi scomparsi (vedi le recenti elezioni). I governi di coalizione sono in qualche modo accettabili in tempi di crisi (come nella seconda guerra mondiale in Gran Bretagna), ma nel lungo periodo tendono a diventare conservatori, negoziare su ogni dettaglio, e perdere di vista obiettivi politici più audaci. La retorica europeista di Frau Merkel purtroppo si e’ tradotta in poco piu' che (paternalistiche e finanziariamente dolorose) critiche ai ‘dissoluti’ paesi dell'Europa meridionale. Questa è dogmatica (o opportunistica?) fedeltà ai diktat neoliberisti, nient’altro.

L’ Europa orientale ha subito le conseguenze di un neoliberismo imposto prima e in modo più duro, che ha portato a quelle che a volte sono chiamate ‘democrazie illiberali’. Non si tratta soltanto di un’etichetta accademica o mediatica, ma è il modo stesso in cui Orban fa riferimento alla ‘sua’ Ungheria. Orban ha costantemente respinto i valori liberali, che sono al centro del progetto europeo.

Mentre la sua politica e’ stata in generale piuttosto opportunistica, non esiste qualcosa cosa come una ‘democrazia illiberale’: si tratta di una contraddizione in termini. Cercando di invertire le parole e scrivere di ‘autocrazia liberale’, come proposto da alcuni studiosi, non cambia i termini dell'equazione. L’Ungheria di Orban ha più di un aspetto autoritario e dovrebbe essere punita dall'Unione europea, anche se - a dire il vero - si tratta di una risposta prevedibile agli eccessi neoliberisti di quelle forze internazionaliste (tra cui George Soros, di origine ungherese) che hanno portato a Budapest il mercato senza la politica, per non parlare della politica europea. Il vuoto socio-economico degli anni 1990 è stato ancora una volta colmato dalle sirene del nazionalismo - non è una grande sorpresa, dopo tutto. Tra i ‘modelli’ cui Orban si è riferito in più di un'occasione, ci sono Turchia e Cina.

La Turchia è un caso chiave perché fino ai primi anni 2000 Ankara guardava ad ovest e all’adesione all'UE, un'opzione che era vista come un modo per modernizzare ulteriormente il paese e consolidare le sue fragili credenziali democratiche. Ora il paese rischia di diventare un one-man show, soprattutto dopo che un Erdoğan assetato di potere ha vinto il referendum costituzionale (16 aprile), che trasformerebbe la Turchia in una repubblica presidenziale. Il rispetto delle libertà e dei diritti è diminuito enormemente, e il paese sta scivolando verso l'autoritarismo e una combinazione tossica di neoliberismo e Islam politico. Può questo essere un modello per stati come l'Ungheria, che sono ‘ancora’ membri dell'Unione europea?

La Cina, naturalmente, è un esempio molto più grande e più importante. Le sue aziende stanno investendo il mondo intero in un vortice di investimenti, acquisizioni e diplomazia economica. La Cina non è democratica, se i concetti politici hanno senso. Tuttavia, ha gestito la globalizzazione meglio di qualsiasi altro paese e ha qualcosa da offrire, e cioè l'idea (un po’ meno la pratica) di ‘meritocrazia’, che è profondamente radicata nella cultura confuciana. Lo studioso canadese, Daniel A. Bell, ha notoriamente esaltato le virtù meritocratiche della Cina.

Mentre la realtà e’ forse ancora diversa dall'ideale, la Cina ha una lezione per l'Occidente. La qualità delle nostre classi politiche è enormemente diminuita, come i principali eventi del 2016 hanno chiarito. La democrazia dovrebbe aiutare a ‘selezionare’, non solo ‘eleggere’ i leader. Purtroppo, i nazionalismi populisti sono stati una scarsa risposta alle inadeguatezze delle elite internazionaliste (o ‘federaliste’, per tornare a Spinelli) che, in particolare in Europa, avrebbero dovuto governare nel ventunesimo secolo.

Le prossime elezioni, in Francia, Germania, e altrove, segneranno uno spartiacque. E tempo di scelte. I nazionalisti sostengono di rispettare il gioco democratico, ma è difficile dimenticare che anche il fascismo aveva affermato di essere una democrazia, di un tipo ‘organizzato, centralizzato, autoritario’. Da che parte della divisione di Spinelli scegliamo di stare?
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
Avatar utente
Berto
Site Admin
 
Messaggi: 38318
Iscritto il: ven nov 15, 2013 10:02 pm

Re: Nazionalismo e federalismo in Europa

Messaggioda Berto » ven nov 16, 2018 9:57 pm

Altro che guerrafondaio. Il nazionalismo è la virtù di chi resiste agli Imperi
Marco Gervasoni - Gio, 18/10/2018

http://www.ilgiornale.it/news/spettacol ... 89607.html

La "nazione" prima è stata demonizzata, poi ne è stata proclamata la fine. Ma è l'unico argine al globalismo

Lo ripetono tutti in loop: giornalisti mainstream e conduttrici televisive, intellettuali da rotocalco, nani e ballerine, ministri degli esteri e persino presidenti della Repubblica: la nazione chiude, la nazione impoverisce gli spiriti, la nazione fa provinciale (e anche un po' deplorable). Quando poi diventa nazionalismo, orrore!, equivale a fascismo, razzismo, xenofobia.

E poi il nazionalismo porta inevitabilmente con se le guerre, non ne ha provocate due nel Novecento? Meno male che l'Europa c'è!

Non dobbiamo regalare dignità di «discorso» a questo cicaleccio che non fa che ripescare i più vieti canoni della ideologia della fine delle nazioni: per questo mi vengono ai piedi i capelli (che non ho) quando mi capita di sentirli da ministri, anche di questo governo, e da presidenti della Repubblica. Guarda caso, però, solo da noi sopravvivono. Andate a dire a uno statunitense che la nazione non esiste più: vi guarderà disgustato o vi colmerà d'improperi. E solo quattro gatti dell'intellettualità globalist East-West coast hanno trovato «nazionalista» l'ultimo grande discorso di Trump all'Onu. Ma, lo sappiamo, Trump è un tipaccio, meglio non fidarsi. Allora ascoltiamo Macron, l'europeista Macron: certi passaggi dei suoi interventi ricordano non solo De Gaulle, persino Pétain, tanto alza il peana alla nazione Francia.

I tòpoi che reggono questa (povera) ideologia dell'anti nazione sono fondamentalmente tre:

1) le nazioni sono superate;
2) le nazioni portano alla guerra;
3) le nazioni producono il nazionalismo.

Si tratta nei primi due casi di affermazioni storicamente infondate, nel terzo di una vera e propria tautologia. Che le nazioni fossero superate lo sostennero, negli anni immediatamente successivi al crollo del muro di Berlino, una serie di autori (guarda caso tutti appartenenti a Stati nazione ben solidi) statunitensi come Francis Fukuyama (La fine della storia e l'ultimo uomo, 1992) e Thomas L. Friedman (Il mondo è piatto, 2005) e giapponesi come Kenichi Ohmae (La fine dello Stato nazione, 1995). Era un'autentica ideologia, che ha spopolato negli anni Novanta, ma già imbarcava acqua con l'11 settembre, e che è finita affondata con la crisi del 2008. Già all'epoca qualcuno, come il grande Samuel Huntington, mise in guardia e spiegò che il ruolo delle nazioni, tutt'altro che diminuito, era addirittura cresciuto dopo il 1989, e che si sarebbe ulteriormente intensificato. Cosa che larga parte delle scienze sociali e politiche ha poi confermato nei decenni successivi. Oggi nessuno studioso informato e serio prenderebbe più sul serio le tesi del «superamento delle nazioni».

Quanto al sentimento nazionale che porterebbe alla guerra, anche questa è un'interpretazione dei due conflitti mondiali datata e discutibile: quelli che si scontrarono nel 1914 non erano Stati nazione ma Imperi (anche quando non si chiamavano così, come la Francia) e la guerra fu prodotta dai conflitti ingenerati dall'espansione imperiale, come già allora videro non solo Lenin ma anche il liberale Hobson. Per ciò che riguarda la Seconda guerra mondiale, solo chi non conosce il nazismo può definirlo un nazionalismo: Hitler non era un nazionalista ma un imperial-razzista, e le razze non si disponevano nella sua visione all'interno della nazione ma di spazi post nazionali, cioè imperiali. Basta leggere qualsiasi discorso di Hitler, basta sapere, come tutti dovrebbero, che in caso di vittoria la Germania avrebbe creato uno spazio europeo con una moneta unica, basta immergersi negli straordinari testi sullo spazio imperiale composti da Carl Schmitt durante la guerra e oggi tradotti in Stato, grande spazio, nomos (Adelphi, 2015).

La terza affermazione è infine una tautologia: non ci può esser nazione senza nazionalismo, cioè senza un legame solido, razionalmente emozionale ed emozionalmente razionale, con la propria nazione. Per cui, se correttamente inteso, il nazionalismo è un sentimento da rivalutare; di più, è una virtù. Come ci spiega Yoram Hazony, filosofo politico e biblista israeliano, direttore dell'Istituto Herzl di Gerusalemme ed editorialista del Wall Street Journal, nel libro freschissimo di stampa The Virtue of Nationalism (New York, Basic Books). Il nazionalismo non è un sentimento negativo e va inteso come una virtù nel senso greco del termine: come una condotta naturale (la natura dell'uomo essendo quella di animale politico) e adesione alla forma più giusta, in senso aristotelico, di comunità politica.

Il libro di Hazony è importante e ricco di spunti, richiederebbe quindi un lungo spazio per analizzarlo bene. Ci sono tuttavia tre punti essenziali.

Il primo. Dobbiamo essere riconoscenti in eterno a Israele e riscoprire la Bibbia, cioè l'Antico Testamento, come all'origine della nostra tradizione politica. In Italia tendiamo a dimenticarlo, diversamente dal mondo anglosassone, ma l'Occidente è, come scrisse il grande Leo Strauss, sia Atene che Gerusalemme. L'una non deve esistere senza l'altra. Cosa ci ha tramandato Gerusalemme, cioè l'Antico Testamento? Che l'antico popolo d'Israele è la prima nazione della storia e che questa Alleanza è più buona e giusta di quella dell'altra forma di organizzazione politica, l'Impero.

Ecco il secondo punto importante del libro di Hazony. Non esistono infiniti modelli di comunità politica, anzi nella storia ve ne sono solo due: la nazione, e il suo opposto, l'Impero. Quando perciò molti esaltano modelli post-nazionali, globali, federalisti e quant'altro, anche se non lo sanno (o fanno finta di non saperlo) quello per cui essi si battono è un Impero. La stessa Unione europea, come scrive Hazony, è strutturata come un Impero, fallace e fallimentare perché privo di un centro e guidato da un'autorità non politica ma tecnocratica, però pur sempre entità di carattere imperiale. E si badi bene che paragonano la Ue a un Impero anche studiosi che del Minotauro di Bruxelles forniscono giudizi più positivi e ottimistici di Hazony basti pensare al volume di Jan Zielonka, Europe as an Empire. The Nature of the Enlarged European Union (Oxford University Press, 2007).

Qualcuno potrebbe chiedersi cosa vi sia di male nell'Impero. Per Hazony esso mostra almeno tre ordini di problemi: conduce a guerre disastrose, produce una sorta di anarchismo diffuso perché si estende su spazi talmente vasti da non potere, neanche oggi, essere controllabili e infine lede la libertà dei popoli e degli individui e minaccia la democrazia intesa come controllo. Siccome la storia, dagli Assiri fino al 1919, è stata essenzialmente storia di Imperi, tanto in Occidente quanto in Oriente, le affermazioni di Hazony sono tutte verificabili. Al contrario le guerre condotte dalle nazioni, realtà più ristrette, più omogenee, in cui vige il principio di sussidiarietà tra i vari livelli del potere, sono sempre state più limitate. Altro che il nazionalismo autostrada verso la guerra, è al contrario l'imperialismo che la produce. Basta del resto vedere, nella storia della Ue, dopo che dal 1992 i governi nazionali hanno accelerato il processo di integrazione verso uno spazio post nazionale (imperiale), quanto le tensioni siano accresciute.

Il terzo punto importante del volume di Hazony sta nello scenario di insieme: quello che oggi è in corso è un conflitto su scala mondiale tra Nazioni e Imperi, tra nazionalismo e imperialismo (sotto forma di globalismo). Non è un caso che la nazione più imperialista e globalista del mondo, la Cina, sia al tempo stesso la più favorevole al commercio internazionale senza freni. E anche se le tesi sul superamento delle nazioni non hanno più molto credito, continua a essere egemonica in una larga parte delle élite internazionali l'ideologia imperialista-globalista, che porta a demonizzare, a condannare a priori, a delegittimare tutte quelle realtà che vogliono restare nazionali e non intendono assoggettarsi a spazi imperali.

Così ecco prevalere nel mainstream liberale la denuncia del nazionalismo di Trump, ecco i giudizi negativi sul Giappone, ecco soprattutto la condanna di Israele: in pagine molto dense e belle Hazony ci dimostra che una delle ragioni per cui una parte delle élite europee e nordamericane oggi odia Israele sta nella sua pervicacia a voler restare nazione, nel difendere i propri confini, la propria religione, la propria lingua e la propria cultura. Israele è lo scandalo: invece di adeguarsi ai valori dell'imperialismo-globalismo, cioè niente cultura nazionale, niente lingua, frontiere aperte, multilateralismo, sottomissione alle agenzie internazionali tipo Onu, Gerusalemme continua a tenere alta la fiamma della difesa del proprio popolo, dell'Alleanza, come nell'Antico Testamento.

Hazony fornisce al concetto di nazionalismo un significato un po' diverso da quello che siamo abituati oggi a sentire in Europa e soprattutto in Italia: la nazione per lui è comunità politica, fondata sulla omogeneità di una etnia, di una cultura e di una lingua principali, che però devono essere aperte, non esclusiviste e ovviamente rispettose delle minoranze integrate nello spazio politico nazionale. Quanto ai confini, il nazionalismo teorizzato da Hazony è difensivo e non espansivo. È una idea di nazione che rimanda a quella famosa di Ernest Renan (Che cosa è una nazione) e al significato francese di République. Ma è anche tanto simile all'idea di nazione del nostro Risorgimento che non era destinata, come sciaguratamente hanno scritto alcuni storici negli ultimi vent'anni, a generare il fascismo. Al contrario, l'idea liberale di nazione di Cavour e quella repubblicana di Mazzini hanno ancora molto da trasmetterci. E se non amiamo definirci nazionalisti, perché diffidiamo sempre un po' degli ismi, possiamo però sottoscrivere la tesi di Hazony: il nazionalismo è, indubbiamente, una virtù.

Questo articolo è apparso su "Atlanticoquotidiano.it, quotidiano on line di approfondimenti economici-politici diretto da Federico Punzi, Danele Dell'Orco e Daniele Capezzone.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
Avatar utente
Berto
Site Admin
 
Messaggi: 38318
Iscritto il: ven nov 15, 2013 10:02 pm

Re: Nazionalismo e federalismo in Europa

Messaggioda Berto » ven nov 16, 2018 9:58 pm

I partiti civilizzazionisti europei, Non evitare i populisti europei: collaborare e imparare da loro, di Daniel Pipes
24 ottobre 2018

http://www.linformale.eu/i-partiti-civi ... niel-pipes

L’Europa sta tornando agli orrori degli anni Trenta? In un’analisi, Max Holleran scrive su New Republic che “negli ultimi dieci anni, i nuovi movimenti politici di destra hanno assembrato coalizioni di neonazisti con i tradizionali conservatori fautori del libero mercato, normalizzando le ideologie politiche che in passato hanno a ragione destato allarme”. Holleran ritiene che questa tendenza stia causando un’ondata di “populismo xenofobo”. Sulle pagine di Politico, Katy O’Donnell concorda: “I partiti nazionalisti ora si sono insinuati ovunque dall’Italia alla Finlandia sollevando timori che il continente stia facendo marcia indietro verso il tipo di politiche che hanno portato alla catastrofe nella prima metà del XX secolo”. Leader ebraici come Menachem Margolin, a capo della Associazione ebraica europea, avvertono “una reale minaccia dai movimenti populisti in tutta Europa”.

La Germania e l’Austria, culle del nazionalsocialismo, destano ovviamente maggiori preoccupazioni, soprattutto dopo le elezioni del 2017, quando Alternativa per la Germania (AfD) prese il 13 per cento dei voti e il Partito della libertà austriaco (FPÖ) ne ottenne il 26 per cento. Felix Klein, commissario tedesco per la lotta all’antisemitismo, afferma che l’AfD “contribuisce a rendere nuovamente presentabile l’antisemitismo”. Oskar Deutsch, presidente della Comunità ebraica austriaca, sostiene che il FPÖ “non ha mai preso le distanze” dal suo passato nazista.

Sarà poi vero? Oppure questa insurrezione riflette una sana reazione da parte degli europei per proteggere il loro modo di vivere dall’immigrazione libera e dall’islamizzazione?

Innanzitutto, come si può definire il fenomeno in discussione? I partiti in questione tendono a essere considerati di estrema destra, ma ciò è inaccurato, poiché essi offrono una combinazione di politiche di destra (incentrate sulla cultura) e di sinistra (focalizzate sull’economia). Ad esempio, in Francia, il Rassemblement National (l’ex Front National, N.d.T.) attira il sostegno della sinistra invocando la nazionalizzazione delle banche del paese. In effetti, gli ex comunisti costituiscono un elemento fondamentale del sostegno: Hénin-Beaumont, che ora è tra le città francesi più favorevoli al Rassemblement National, in passato era fra le più comuniste.

Charles Hawley di Der Spiegel afferma che “tutti questi partiti sono, di base, nazionalisti”, ma questo è storicamente sbagliato. Sono patriottici e non nazionalisti; sono difensori e non aggressivi. Tifano per le squadre di calcio e non per le vittorie militari. Apprezzano le usanze britanniche, ma non l’impero britannico; il bikini, ma non il lignaggio tedesco. Non rimpiangono gli imperi né rivendicano la superiorità nazionale. Il nazionalismo tradizionalmente concerne potere, ricchezza e gloria e questi partiti puntano sulle usanze, sulle tradizioni e sulla cultura. Anche se definiti neofascisti o neonazisti, tali partiti considerano fondamentali la libertà personale e la cultura tradizionale; concetti come “Un Popolo, Una Nazione, Un Leader” esercitano uno scarso potere di attrazione.

Meglio definirli “civilizzazionisti”, concentrandosi sulla loro priorità culturale, perché provano una grande frustrazione nel vedere sparire il loro modo di vivere. Amano la cultura tradizionale dell’Europa e dell’Occidente e vogliono difenderla dall’assalto dei migranti aiutati dalla sinistra. (Il termine “civilizzazionista” ha l’ulteriore vantaggio di escludere quei partiti che odiano la civiltà occidentale, come il partito neonazista greco Alba Dorata.)

I partiti civilizzazionisti sono populisti, contrari all’immigrazione e all’islamizzazione. Essere populisti significa nutrire risentimento verso il sistema e sospetti verso una élite che ignora o denigra tali preoccupazioni. L’élite è costituita dalle cosiddette 6P: polizia, politici, preti, stampa [press], procuratori e professori universitari. Al culmine dello tsunami migranti nel 2015, la cancelliera tedesca Angela Merkel rispose a una elettrice preoccupata per la migrazione incontrollata con un tipico biasimo riguardo alle colpe dell’Europa e con un consiglio spocchioso su una più frequente partecipazione alle funzioni religiose in chiesa. Dimitris Avramopoulos, il commissario europeo per la Migrazione, ha categoricamente annunciato che l’Europa “non può e non sarà mai capace di fermare la migrazione” e ha continuato a dare lezioni ai suoi concittadini dicendo: “È ingenuo pensare che le nostre società resteranno omogenee e senza migranti se si costruiscono barriere (…) tutti dobbiamo essere pronti ad accettare la migrazione, la mobilità e la diversità come la nuova norma”. L’ex premier svedese Fredrik Reinfeldt si è detto favorevole ad accogliere più migranti: “Spesso sorvolo la campagna svedese e consiglierei agli altri di farlo. Ci sono campi e foreste sterminati, c’è più spazio di quanto si possa immaginare”.

Tutti e tre questi leader politici europei sono considerati conservatori. Altri, come il francese Nicolas Sarkozy, e il britannico David Cameron hanno assunto toni decisi, adottando però una linea di governo morbida. Il loro sprezzante rifiuto dei sentimenti ha creato una opportunità per i partiti civilizzazionisti in gran parte dell’Europa. Dal venerabile FPÖ (fondato nel 1956) al neonato Forum per la Democrazia nei Paesi Bassi (fondato nel 2016), essi colmano un vuoto elettorale e sociale.

I partiti civilizzazionisti, guidati dalla Lega italiana, sono contrari all’immigrazione, cercando di controllare, ridurre e persino invertire l’immigrazione degli ultimi decenni, in particolare quella di musulmani e africani. Questi due gruppi si distinguono non a causa del pregiudizio (“l’islamofobia” o il razzismo), ma per il fatto che sono meno assimilabili degli stranieri per una serie di problemi a essi associati, come l’attività lavorativa e criminale e per timore che essi imporranno la loro visione all’Europa.

Infine, questi partiti sono contrari all’islamizzazione. Man mano che gli europei imparano a conoscere la legge islamica (la Shari’a) focalizzano sempre più l’attenzione sul suo ruolo rispetto alle questioni riguardanti le donne, come l’uso del niqab e del burqa, la poligamia, i taharrush (gli assalti sessuali di massa), i delitti d’onore e le mutilazioni genitali femminili. Altri motivi di preoccupazione riguardano l’atteggiamento dei musulmani nei confronti dei non musulmani, tra cui la cristofobia e la giudeofobia, la violenza jihadista e l’insistenza con cui si sottolinea che l’Islam gode di uno status privilegiato nei confronti delle altre religioni.

I musulmani formano una membrana geografica intorno all’Europa, dal Senegal al Marocco, all’Egitto, alla Turchia, alla Cecenia, consentendo con relativa facilità a un elevato numero di potenziali migranti di entrare illegalmente nel continente via mare o terra. Il continente è a 75 km dall’Albania all’Italia; a 60 km dalla Tunisia all’Italia (alla piccola isola di Pantelleria); a 14 km attraverso lo Stretto di Gibilterra dal Marocco alla Spagna; a 1,6 km dall’Anatolia all’isola greca di Samo; a meno di 100 m attraverso il fiume Evros dalla Turchia alla Grecia e a 10 m dal Marocco alle enclave spagnole di Ceuta e Melilla.

Un numero crescente di aspiranti migranti si aggira intorno ai punti di accesso al continente, in alcuni casi ricorrendo alla violenza per entrare. Nel 2015, Johannes Hahn, commissario europeo per l’Allargamento, stimava che “alle porte dell’Europa ci sono 20 milioni di rifugiati”. Potrebbe sembrare un gran numero, ma se a questa cifra si aggiungono i migranti economici, i numeri aumentano ancora di più; e tenuto conto del fatto che la penuria d’acqua spinge gli abitanti del Medio Oriente a lasciare i loro paesi d’origine, il numero degli aspiranti migranti potrebbe iniziare ad avvicinarsi a quello della popolazione europea di 740 milioni di abitanti.

Quasi senza alcuna eccezione, i partiti civilizzazionisti sono afflitti da gravi problemi. Composti principalmente da neofiti, annoverano un numero allarmante di personaggi stravaganti: estremisti antiebraici e antimusulmani, razzisti, svitati assetati di potere, cospirazionisti, revisionisti storici e nostalgici nazisti. Autocrati gestiscono i loro partiti in modo antidemocratico e cercano di dominare i parlamenti, i media, i sistemi giudiziari, le scuole e altre istituzioni chiave. Nutrono risentimenti antiamericani e prendono soldi da Mosca.

Queste lacune in genere si traducono in debolezza elettorale, dal momento che gli europei si oppongono all’idea di esprimere un voto a favore di partiti che vomitano bile e idee bisbetiche. I sondaggi mostrano che circa il 60 per cento dell’elettorato tedesco mostra preoccupazioni relative all’Islam e ai musulmani, ma che solo un quinto degli elettori ha votato per l’AfD. Quindi, per avanzare elettoralmente e realizzare il proprio potenziale, i partiti civilizzazionisti devono convincere gli elettori che possono fidarsi di loro per governare. Soprattutto i partiti più longevi, come il FPÖ, stanno cambiando, come dimostrano le perpetue lotte intestine, le divisioni e altri problemi, ma per quanto disordinato e spiacevole possa essere questo processo è necessario e costruttivo.

L’antisemitismo, la questione che maggiormente delegittima i partiti civilizzazionisti e suscita i dibattiti più accesi, richiede un’attenzione speciale. Questi partiti hanno spesso origini dubbie, annoverano elementi fascisti e danno segnali antisemiti. I leader ebraici europei, di conseguenza condannano i civilizzazionisti e insistono affinché lo Stato di Israele faccia lo stesso, anche se i civilizzazionisti sono al governo e Israele deve avere a che fare con loro. Addirittura, Ariel Muzicant, presidente onorario della Comunità ebraica austriaca, ha minacciato Gerusalemme che se smettesse di boicottare il Partito della libertà austriaco: “Sicuramente deplorerò il governo di Israele”.

Ma tre punti mitigano queste preoccupazioni. Innanzitutto, i partiti civilizzazionisti in genere prendono le distanze dalle ossessioni per gli ebrei quando si evolvono e maturano. A causa dell’ostinato antisemitismo di Jean-Marie Le Pen, sua figlia Marine Le Pen lo espulse nel 2015 dal Rassemblement National da lui fondato nel 1972. In Ungheria, lo scorso dicembre, il partito Jobbik ha rinunciato al suo pedigree antisemita.

In secondo luogo, i leader civilizzazionisti cercano di essere in buoni rapporti con Israele. Vi si recano in visita, rendono omaggio allo Yad Vashem e in alcuni casi (come il presidente ceco e il vicecancelliere austriaco) appoggiano il trasferimento delle loro ambasciate a Gerusalemme. Guidato dal partito civilizzazionista Fidesz, il governo ungherese è quello che in Europa ha relazioni più strette con Israele. Questo schema non è passato inosservato in Israele: ad esempio, Gideon Sa’ar, membro del partito Likud, definisce i partiti civilizzazionisti “gli amici naturali di Israele”.

E per finire, a prescindere dai problemi dei civilizzazionisti con gli ebrei, tali asperità perdono rilevanza rispetto al dilagante antisemitismo e antisionismo della sinistra, soprattutto in Spagna, Svezia e nel Regno Unito. Jeremy Corbyn, leader del partito Laburista britannico, simboleggia questa tendenza: definisce gli assassini degli ebrei suoi amici e li frequenta pubblicamente. Mentre i leader civilizzazionisti lottano per abbandonare l’antisemitismo, molti dei loro avversari politici si buttano a capofitto nella feccia.

Nell’arco di vent’anni, i partiti civilizzazionisti, da quasi irrilevanti che erano, sono diventati una forza importante in quasi la metà dei paesi europei. Forse l’esempio più lampante di questa ascesa è offerto dalla Svezia, dove i Democratici svedesi hanno pressoché raddoppiato i loro voti ogni quattro anni: ottenendo lo 0,4 per cento delle preferenze nel 1998, l’1,3 per cento nel 2002, il 2,9 per cento nel 2006, il 5,7 per cento nel 2010 e il 12,9 per cento nel 2014. Non è stato così nel 2018, perché conquistare il 17,6 per cento dei voti non è servito a far loro acquisire una consistente forza nella politica svedese.

Nessun altro partito civilizzazionista è cresciuto in modo così matematico, ma i voti e i sondaggi stanno a indicare che otterranno l’appoggio. Come Geert Wilders, il leader del partito civilizzazionista olandese, osserva: “Nella parte orientale dell’Europa, i partiti anti-islamizzazione e contrari alla migrazione di massa vedono un aumento del consenso popolare. L’opposizione è in aumento anche in Occidente.” Questi partiti hanno tre modi per arrivare al potere.

(1) Da soli. I partiti civilizzazionisti governano l’Ungheria e la Polonia. Le popolazioni di questi due ex paesi membri del Patto di Varsavia, che hanno conquistato la loro indipendenza solo una generazione fa e che guardano con sgomento gli sviluppi in Europa occidentale, hanno deciso di seguire la loro strada. Entrambi i loro premier hanno esplicitamente respinto i migranti musulmani illegali (pur mantenendo la porta aperta ai musulmani che rispettano le regole). Altri paesi dell’Europa orientale hanno scelto con più titubanza questa stessa via.

(2) Unirsi ai vecchi partiti conservatori. Per sottrarre elettori ai partiti civilizzazionisti i vecchi partiti conservatori adottano politiche contrarie all’immigrazione e all’islamizzazione e uniscono le proprie forze con quelle dei civilizzazionisti. Finora, questo è accaduto solo in Austria, dove il Partito popolare austriaco e il FPÖ hanno conquistato congiuntamente il 58 per cento dei consensi e hanno formato un governo di coalizione nel dicembre 2017, ma sono probabili più collaborazioni di questo tipo.

Il candidato repubblicano alle presidenziali francesi nel 2017 si è mosso in direzione del civilizzazionismo e il suo successore, Laurent Wauquiez, ha seguito la stessa falsariga. In Svezia, il partito teoricamente conservatore, i Moderati, ha virato verso la direzione finora inconcepibile della cooperazione con i Democratici svedesi. In Germania, anche il Partito democratico libero si è mosso verso il civilizzazionismo. La Merkel potrebbe ancora essere la cancelliera della Germania, ma qualcuno nel suo governo ha respinto la sua incauta politica in materia di immigrazione; in particolare, Horst Seehofer, ministro dell’Interno e leader di un partito alleato, ha articolato delle politiche intransigenti in materia di immigrazione e ha perfino asserito che l’Islam non appartiene alla Germania.

(3) Unirsi ad altri partiti: In Italia, l’eccentrico, anarchico e più o meno di sinistra Movimento 5 Stelle nel giugno scorso ha fatto squadra con la Lega civilizzazionista per formare un governo. In Svezia, per impedire l’avanzata civilizzazionista, alcuni partiti di sinistra, come i socialdemocratici svedesi, stanno adottando a denti stretti delle politiche vagamente contrarie all’immigrazione. In modo più drastico, il partito socialdemocratico danese ha fatto un salto in questa direzione quando la sua leader, Mette Frederiksen, ha annunciato di essersi prefissata l’obiettivo di limitare “il numero degli stranieri non occidentali che possono venire in Danimarca” creando centri di accoglienza fuori dai confini dell’Unione europea, dove i richiedenti asilo risiederebbero in attesa che la loro domanda di asilo venga esaminata e lì mantenuti a spese dei contribuenti danesi. Più in generale, il teorico politico di sinistra Yascha Mounk sostiene che “il tentativo di trasformare i paesi con identità monoetniche in nazioni realmente multietniche è un esperimento storicamente unico”. È comprensibile, egli osserva che questo abbia “incontrato un’aspra opposizione”.

Mentre i partiti civilizzazionisti acquisiscono sostegno e potere, essi aprono gli occhi degli altri partiti alle sfide legate all’immigrazione e all’Islam. I conservatori, i cui sostenitori che operano nel settore dell’imprenditoria traggono vantaggio dalla manodopera a basso costo, tendono a rifuggire da questi problemi. I partiti di sinistra di solito promuovono l’immigrazione e sono miopi per quanto concerne i problemi legati all’Islam. Il confronto tra la Gran Bretagna e la Svezia, i due paesi europei più flaccidi di fronte ai migranti culturalmente aggressivi e criminalmente violenti, mostra chiaramente il ruolo dei partiti civilizzazionisti.

In Gran Bretagna non esiste un partito del genere, pertanto, questi problemi non vengono affrontati; a Rotherham e altrove, alle bande islamiche dedite all’adescamento di minori a scopo sessuale (in realtà, bande di stupratori) è stato consentito di agire per anni e addirittura per decenni, con le 6P che hanno distolto lo sguardo. Al contrario, i Democratici svedesi hanno talmente cambiato la politica del paese che i blocchi parlamentari di destra e sinistra hanno formato una grande coalizione per impedire loro di esercitare una reale influenza. Se questa manovra ha funzionato a breve termine, l’esistenza stessa dei Democratici svedesi ha indotto dei cambiamenti politici, come l’aver inasprito i criteri di accesso per i migranti illegali.

Allo stesso modo, i paesi ex satelliti dell’Unione Sovietica turbano i tradizionali Stati membri della NATO. Il primo ministro ungherese Viktor Orbán si distingue a questo proposito, con la sua profonda analisi dei problemi dell’Europa e le sue ambizioni di rifare l’Unione europea. L’Ungheria in particolare e l’Europa centrale in generale stanno acquisendo una influenza senza precedenti a causa della loro posizione contraria all’immigrazione e all’islamizzazione.

Spero di aver stabilito due punti fondamentali in questo scritto. Innanzitutto, i partiti civilizzazionisti sono dilettanteschi, inesperti e inclini all’errore, ma non pericolosi; il loro arrivo al potere non restituirà l’Europa al “vile decennio disonesto” degli anni Trenta. In secondo luogo, stanno inesorabilmente crescendo in modo tale che nell’arco di circa vent’anni saranno ampiamente al governo e influenzeranno sia i conservatori sia la sinistra. Rifiutare, emarginare, ostracizzare e ignorare i partiti civilizzazionisti nella speranza che spariscano non funzionerà. Farlo non impedirà loro di raggiungere il potere, ma li renderà, in modo controproducente, più populisti e radicali.

Le 6P dovrebbero accettare i civilizzazionisti come legittimi, lavorare con loro, incoraggiarli a rimuovere gli elementi estremisti, aiutarli ad acquisire esperienza pratica e guidarli a prepararsi per la governance. Ma non è una strada a senso unico, perché i civilizzazionisti hanno qualcosa da insegnare alle élite, essendo in possesso di intuizioni realistiche su come mantenere lo stile di vita tradizionale e la civiltà occidentale.

Appendice: Qui di seguito tutti i nomi dei partiti civilizzazionisti europei. Tra i paesi con una significativa immigrazione non occidentale, solo la Spagna e il Regno Unito non hanno partiti civilizzazionisti con rappresentanza in parlamento.

Austria: Freiheitliche Partei Österreichs (FPÖ, Partito della libertà austriaco)

Belgio: Vlaamse Belang (VB, Interesse fiammingo)

Danimarca: Dansk Folkeparti (DF, Partito del popolo danese)

Finlandia: Perussuomalaiset (PS, Finns Party)

Francia: Rassemblement National (RN, Unione nazionale)

Germania: Alternative für Deutschland (AfD, Alternativa per la Germania)

Italia: Lega

Lettonia: Nacionālā apvienība (NA, Alleanza nazionale)

Norvegia: Fremskrittspartiet (FrP, Partito del progresso)

Paesi Bassi: Partij voor de Vrijheid (PVV, Partito per la libertà) e Forum voor Democratie (FvD, Forum per la democrazia)

Polonia: Prawo i Sprawiedliwość (PiS, Diritto e Giustizia)

Repubblica ceca: Akce nespokojených občanů (ANO, Azione dei cittadini insoddisfatti) e Svoboda a přímá demokracie – Tomio Okamura, (SPD, Libertà e Democrazia diretta, guidato da Tomio Okamura)

Svezia: Sverigedemokraterna (SD, Democratici svedesi)

Svizzera: Schweizerische Volkspartei (SVP, Partito svizzero del popolo)

Ungheria: Fidesz (abbr. di Fiatal Demokraták Szövetsége, Alleanza dei giovani democratici) e Jobbik Magyarországért Mozgalom (Jobbik, il movimento per un’Ungheria migliore)
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
Avatar utente
Berto
Site Admin
 
Messaggi: 38318
Iscritto il: ven nov 15, 2013 10:02 pm

Re: Nazionalismo e federalismo in Europa

Messaggioda Berto » ven nov 16, 2018 9:59 pm

???

Macron: «Il nazionalismo è un tradimento dei valori morali»
2018-11-11

http://mobile.ilsole24ore.com/solemobil ... d=AEOfp3eG

«Il nazionalismo è un tradimento del patriottismo». Il presidente francese Emmanuel Macron ha rivolto un discorso ai leader mondiali riuniti a Parigi per le commemorazioni dell’armistizio della Grande guerra di domenica per inviare un severo messaggio sui pericoli del nazionalismo, definendolo un tradimento dei valori morali.
Con il presidente degli Stati Uniti Donald Trump e il presidente russo Vladimir Putin seduto a pochi metri di distanza ascoltando il discorso attraverso la traduzione auricolari, Macron ha denunciato coloro che evocano il sentimento nazionalista a svantaggio degli altri.

«Il patriottismo è l’esatto opposto del nazionalismo: il nazionalismo è un tradimento del patriottismo» ha detto Macron in un discorso di 20 minuti pronunciato sotto l’Arco di Trionfo. «Perseguendo prima i nostri interessi, senza riguardo per quelli altrui, cancelliamo ciò che una nazione ha di più prezioso, ciò che le dà la vita e la rende grande: i suoi valori morali». Macron ha detto che «i vecchi demoni si stanno risvegliando» e ha messo in guardia contro i rischi derivanti dall’ignorare il passato. «La storia a volte minaccia di ripetere i suoi tragici modelli e di minare l’eredità di pace che pensavamo di aver sigillato con il sangue dei nostri antenati», ha detto.

Nella settimana che ha preceduto la commemorazione di oggi 11 novembre, Macron ha visitato i campi di battaglia della Prima Guerra Mondiale nella Francia settentrionale e orientale, mettendo ripetutamente in guardia contro la rinascita del nazionalismo, una minaccia dell’unità così accuratamente ricostruita in Europa negli ultimi 70 anni.
In un’intervista ha paragonato il tono politico attuale agli anni Trenta, dicendo che la compiacenza verso il nazionalismo sfrenato aveva aperto la strada all’ascesa di Hitler.

Aperto il Forum della pace

Quasi tutti i capi di stato e di governo che hanno pranzato all’Eliseo, dopo la cerimonia dei 100 anni dalla firma dell'armistizio nella Prima guerra mondiale, si sono trasferiti nel primo pomeriggio alla Villette dove Emmanuel Macron ed Angela Merkel inaugurano il primo Forum della pace.
In apertura del Forum anche la cancelliera tedesca Angela Merkel ha detto che il «progetto europeo di pace» nato dopo il 1945 è minacciato dall'ascesa del nazionalismo e del populismo. «Vediamo chiaramente che la cooperazione internazionale, un equilibrio pacifico fra gli interessi degli uni e degli altri e anche il progetto europeo di pace sono di nuovo rimessi in discussione».

All’evento non ha invece partecipato Donald Trump che, dopo aver rinunciato ieri a recarsi a nord di Parigi per il previsto omaggio a un cimitero militare americano, ha deciso di andare in auto a Suresnes, non lontano da Parigi, per rendere omaggio ad alcune tombe di soldati Usa caduti nella Grande guerra. Poco prima di arrivare a Suresnes, Trump aveva twittato: «Una bella cerimonia oggi a Parigi per commemorare la fine della prima guerra mondiale. Numerosi dirigenti mondiali sono venuti. Grazie Emmanuel Macron, presidente della Francia!».
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
Avatar utente
Berto
Site Admin
 
Messaggi: 38318
Iscritto il: ven nov 15, 2013 10:02 pm

Re: Nazionalismo e federalismo in Europa

Messaggioda Berto » ven nov 16, 2018 10:00 pm

???

Merkel: sì a un esercito europeo. Il nazionalismo porta alle guerre
Beda Romano
2018-11-13

https://www.ilsole24ore.com/art/mondo/2 ... 3150.shtml

BRUXELLES - Con un discorso che ha ben riflettuto il suo carattere pragmatico e metodico, la cancelliera Angela Merkel ha lanciato oggi un appello alla tolleranza e alla solidarietà. Il richiamo è sembrato rivolto tanto all'interno che all'esterno dell'Unione in un momento di gravissime divisioni sia a livello mondiale che sul fronte europeo. Con un occhio all'Italia, ha ricordato che la valuta unica richiede il rispetto delle regole e «la piena condivisione delle responsabilità di ciascuno».

Il futuro dell’euro dipende dalla responsabilità di ciascuno
«L'Unione europea è basata su regole decise in comune – ha detto la signora Merkel parlando dinanzi al Parlamento europeo –. La stessa moneta unica richiede che ciascuno di noi rispetti i suoi impegni. Il futuro dell'euro dipende dalla piena condivisione delle responsabilità di ciascuno». La presa di posizione giunge mentre agli occhi dei suoi partner il governo Conte sta mettendo a rischio la stabilità dell'unione monetaria con una Finanziaria in aperta violazione delle regole del Patto di Stabilità.

«Va tenuta in considerazione la stabilità finanziaria che sta alla base della moneta unica, che a sua volta può funzionare solo se ogni Paese rispetta all'interno tale valore e mostra responsabilità per quanto riguarda la stabilità finanziaria», ha precisato ancora la cancelliera a Strasburgo, senza mai citare l'Italia. La signora Merkel si è anche detta a favore di completare l'unione bancaria. Ha riaffermato l'idea che la zona euro si doti di una assicurazione unica dei depositi, questione che per sta dividendo i paesi membri e che la Germania ha finora frenato.

Appello a tolleranza e solidarietà
Nel suo discorso, la cancelliera ha messo l'accento sulla necessità di coltivare la tolleranza per permettere la solidarietà. Questi due concetti «sono il nostro futuro comune (…) Vi assicuro colleghi che vale la pena lottare per essi». In questo contesto, la signora Merkel ha messo l'accento sulla questione migratoria, che va “al cuore” dei problemi europei. «È un tema centrale che riguarda i rapporti con il nostro vicinato, dobbiamo trovare percorsi comuni e rinunciare ad un pezzettino di sovranità nazionale per poter fare qualcosa insieme in comune».

Sì a un esercito europeo, nel quadro della Nato
Sul fronte della difesa, la cancelliera ha detto che in prospettiva l'Europa deve pensare di avere a sua disposizione «un esercito europeo», e non più solo una forza d'intervento rapido. L'esercito europeo «sarebbe una ottima appendice alla Nato», ha precisato la signora Merkel, pur di salvaguardare delicati rapporti transatlantici. Il discorso della cancelliera ha provocato le proteste dai banchi dei partiti più nazionalisti. «Dalle reazioni che ho suscitato mi sembra di avere parlato degli argomenti giusti», ha detto la dirigente politica sorridendo ai deputati.

Il nazionalismo porta alle guerre
Al potere da quasi 13 anni, la signora Merkel, 64 anni, sta attraversando un momento politico difficile. Dopo una scia di sconfitte elettorali a livello regionale, ha deciso di non ricandidarsi alla guida del partito democristiano in occasione del congresso previsto in dicembre. Tornando sui passi dell'allora presidente francese François Mitterrand che nel 1995 sempre a Strasburgo lanciò l'allarme, sostenendo che «il nazionalismo corrisponde alla guerra», ha avvertito: «Il nazionalismo non deve più avere posto in Europa». La diffusione del fenomeno sta tornando d'attualità proprio mentre l'Europa celebra il centenario della fine della Prima guerra mondiale.

Juncker: la Germania faccia di più per l’Europa
Al discorso della signora Merkel nell'aula di Strasburgo, meno di trenta minuti e senza grandi slanci retorici, ha risposto il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker. Quest'ultimo ha salutato la scelta controversa della cancelliera di aprire le frontiere della Germania a migliaia di rifugiati nel 2015. Nel contempo, tuttavia, ha esortato il più popoloso e ricco paese dell'Unione «a fare di più, a sostenere un po' di più le iniziative della Commissione europea». Ha spiegato: «Ne guadagnerebbe in grandezza».


Gino Quarelo
Quello che dice la Merkel è un falso e un esempio è la Svizzera:

paese democratico, il più democratico, a democrazia mista diretta e rappresentiva,
federale e nazionalista,
difeso da frontiere e confini presidiati,
eppure non ha mai promosso e fatto guerre da centinaia di anni.

A produrre la guerra sono gli imperialismi, gli universalismi, gli internazionalismi autoritari e totalitari, i dogmatismi e gli utopismi/idealismi e non i sani nazionalismi democratici, liberali e federali.

La Merkel racconta balle!



Fascisti e antifascisti, nazisti, comunisti, maomettisti e zingari, la loro disumanità e inciviltà
viewtopic.php?f=205&t=2731
https://www.facebook.com/alberto.pento/ ... 3975893749


Nazismo maomettano = Islam = dhimmitudine = apartheid = razzismo = sterminio
viewtopic.php?f=188&t=2526
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
Avatar utente
Berto
Site Admin
 
Messaggi: 38318
Iscritto il: ven nov 15, 2013 10:02 pm

Re: Nazionalismo e federalismo in Europa

Messaggioda Berto » ven nov 16, 2018 10:02 pm

Il sano nazionalismo è un valore/diritto/dovere umano, civile e politico fondamentale
viewtopic.php?f=205&t=2721

Europa e i diritti negati e calpestati dei cittadini nativi europei
viewtopic.php?f=92&t=2682
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
Avatar utente
Berto
Site Admin
 
Messaggi: 38318
Iscritto il: ven nov 15, 2013 10:02 pm

Prossimo

Torna a Europa e America

Chi c’è in linea

Visitano il forum: Nessuno e 3 ospiti

cron