Federalismo e sovranità del cittadino secondo Radicali Italiani7 aprile 2016
Il documento sulle politiche locali previsto dalla mozione generale di Radicali Italiani #radicali
https://iniziativaradicale.wordpress.co ... i-italiani La mozione generale di Radicali Italiani impegna gli organi dirigenti a
“predisporre entro tre mesi un documento che raccolga le azioni politiche Radicali già poste in essere a livello locale ed esprima un progetto di governo a partire dal quale verificare la percorribilità di iniziative popolari e di presenze politiche alle prossime elezioni amministrative”
Potete scaricare e visionare l’intero documento cliccando Federalismo e sovranità del cittadino – 3 marzo
Qui ne pubblichiamo solo la premessa
Premessa Generale
Assicurare la sovranità al cittadino in ambito locale e globale: questo l’obiettivo di fondo dell’azione di Radicali Italiani. “Il cittadino come centro di libertà e di diritti, un centro intorno al quale, e in funzione del quale, deve organizzarsi il potere pubblico in tutte le sue articolazioni”. Si tratta di “restituire a ciascuno le chiavi del proprio destino attraverso un recupero del diritto di governare sé stessi1”e la cosa pubblica.
I cittadini esercitano la sovranità, che dovrebbe “appartenere”2 loro, nelle forme e nei limiti delle leggi, leggi che dovrebbero produrre Diritto. Le leggi, le regole, in Italia, in molti casi non producono Diritto, sono ineffettive, non producono gli effetti per le quali sono nate. Senza effettività della legge o più in generale della regola, a tutti i livelli istituzionali, la democrazia rappresentativa risulta essere un mandato vuoto. Vi è poi la sottrazione da settant’anni della seconda scheda, della possibilità per i cittadini di ricorrere all’istituto referendario, così come agli strumenti di iniziativa popolare locale, strumenti che dovrebbero integrare la democrazia rappresentativa. E infine la violazione del diritto alla conoscenza, diritto non codificato ma essenziale in una democrazia a tutti i livelli istituzionali, violazione che si manifesta in Italia sia per la natura e la proprietà dei mezzi di informazione, in mano ai Partiti o a pochi grandi gruppi industriali, sia per l’assenza di un sufficiente livello di accountability – di capacità delle istituzioni di rendere conto sulle politiche pubbliche e la conseguente capacità di governo e controllo del cittadino. Controllo che il cittadino non ha, né direttamente né tramite i suoi rappresentati, neanche rispetto all’enorme area di produzione ed erogazione dei servizi locali. Il controllo effettivo degli organismi partecipati, che forniscono i servizi, è in mano di fatto a partiti, clientele e reti di potere e manca una misurazione scientifico-comparativa della qualità dei servizi. 2
Ineffettività del Diritto, strumenti inefficaci di democrazia diretta, indisponibilità di conoscenza, incontrollabilità dei servizi pubblici, sono componenti fondamentali della crisi della sovranità del cittadino in questo Paese.
Proponiamo dunque strumenti di politica pubblica capaci di aprire il governo locale, strumenti che accrescano la capacità di contare dei cittadini, anche fuori dai partiti e dai passaggi elettorali.
Le liberalizzazioni, l’apertura alla concorrenza dei servizi locali, restituirebbero la scelta agli individui e alle famiglie dell’impresa alla quale affidarsi, e comunque garantirebbero maggiore qualità. Lo stesso criterio di apertura al cittadino dovrebbe essere applicato ai servizi sociali alla persona spostando la scelta dall’amministrazione – che oggi seleziona organizzazioni private, cooperative etc. – direttamente al cittadino.
Infine vanno promosse quelle forme innovative di produzione di servizi locali riconducibili alla cosiddetta sharing economy, che avrebbero, se ben accompagnate anche attraverso strumenti tecnologici – e non controllate rigidamente – dalle istituzioni, l’esito di sottrarre all’intermediazione di interessi politici un’area di servizi che verrebbe sostanzialmente lasciata a meccanismi di collaborazione spontanea.
Proponiamo dunque un modello alternativo a quelli che si sono susseguiti in Italia, modelli, in forma diversa, centralizzati e in mano a partiti o oligarchie “private”. Un modello alternativo sia alla gestione pubblica tradizionale – quella delle partecipazioni statali e delle municipalizzate, quelle della proprietà formalmente pubblica – che a un sistema, in piedi da venticinque anni, di esternalizzazione di servizi ad imprese o organizzazioni collaterali agli interessi di potere, tutto basato sull’affidamento diretto, sulla discrezionalità politica. Un modello finalmente federalista che si fondi su conoscenza, concorrenza e Diritto. Un modello concorrenziale sui servizi pubblici fondato su liberalizzazioni, strumenti di misurazione scientifico-comparativi della qualità, forme innovative di libera produzione e fruizione di servizi condivisi tra cittadini. Un modello con forte autonomia tributaria per comuni e città dove i cittadini possano esprimersi sulle scelte tributarie anche con referendum vincolanti.
L’assetto istituzionale più adeguato a restituire sovranità al cittadino è il Federalismo.
Federalismo che nella sua forma europea si riassume negli “Stati Uniti d’Europa”, unico livello istituzionale in grado di giocare una partita di democrazia, diritti, libertà e competitività sullo scenario globale. Nessun Paese da solo è in grado di fronteggiare sfide come le migrazioni, le grandi crisi finanziarie, il mutamento climatico o il terrorismo internazionale. Oggi sono gli Stati nazionali a fallire, così come un’ idea d’Europa: quella delle patrie e dei trattati, quella intergovernativa, quella delle reazioni nazionali che non sono altro che illusioni nazionali. Un’Europa federale accrescerebbe la sovranità dei cittadini sulle politiche pubbliche europee e quindi sulle dinamiche transnazionali.
Il federalismo nella sua forma locale, comunale, cittadina, garantisce invece all’individuo la possibilità di affermare la sua sovranità al livello istituzionale a lui più vicino e di avere, di conseguenza, un maggiore controllo della qualità dell’azione amministrativa sperimentandone direttamente gli effetti, a partire dai servizi pubblici. 3
In Italia vi è una sproporzione tra i poteri, ancora ridotti, dell’istituzione locale, dei Comuni, delle città e il peso sociale, economico ed ecologico di queste realtà urbane sulla qualità della vita della popolazione.
Chiediamo che i Comuni dispongano della leva tributaria, con una piena capacità impositiva sulla prima casa e sui servizi, per responsabilizzare l’amministrazione nei confronti dei cittadini che potranno così verificare l’utilizzo del proprio denaro. “Alcuni beni e servizi si traducono in benefici localmente circoscritti: in questi casi un’offerta decentrata permette ai poteri locali di fornirli in quantità che corrispondono a costi e preferenze specifici”3. Una forma di sovranità popolare, di potestà effettiva di governo del cittadino è certamente quella di pagare le tasse potendone verificare e sperimentare direttamente l’utilizzo (‘il Sindaco mi chiede questi soldi e mi dice come li spende, in modo che io possa valutarne l’operato’). L’operazione del Governo Renzi di azzerare le imposte sulla prima casa, anziché ridurre quelle sul lavoro (imprese e lavoratori), come da noi proposto, va nella direzione opposta rispetto a forme di federalismo municipale fiscale, proprio nella fase di definizione del livello istituzionale ‘Città Metropolitana’4.
Le forme di autonomia che proponiamo per i Comuni, connaturate ad un assetto federale, partono anche dalla convinzione che il cittadino accresca la sua sovranità e quindi la sua stessa libertà in tale contesto. Sul legame tra autonomia, responsabilità e libertà e sulla utilità di ampie autonomie locali nel quadro di un sistema federale europeo ci viene in soccorso Luigi Sturzo che nel 1951 disse che “sarebbe inconcepibile un’Europa democratica e federata, se non vi fosse l’articolazione di una vita municipale autonoma, tanto più sinceramente federale quanto più intimamente autonoma. L’autonomia che si rivendica deriva dal senso di libertà che è coscienza dei propri diritti e dei propri doveri, che è autolimitazione disciplinata e senso di responsabilità”.
Note
1 “Accendere di democrazia la politica: dal cittadino-plebe al cittadino democratico” di Mario Patrono – RADICALI ITALIANI Verso un “nuovo possibile”. Progetto per una riforma “radicale” delle istituzioni europee, statali e dell’ordinamento regionale.
2 Alla base, e sullo sfondo, uno degli enunciati di cui si compone il primo articolo della Costituzione: <La sovranità appartiene al popolo>. Il verbo <appartiene> è decisivo. Indica disponibilità e indica un carattere di continuità: anche nelle forme della democrazia “rappresentativa”, la quale pertanto non si esaurisce nel diritto, da parte dei governati, di scegliere i governanti attraverso il voto alle elezioni. Il contenuto della democrazia, si è detto bene, <non è che il popolo costituisca la fonte storica o ideale del potere, ma che abbia il potere>; non che <abbia la nuda sovranità (che praticamente non è niente) ma l’esercizio della sovranità (che praticamente è tutto)>. (“Accendere di democrazia la politica: dal cittadino-plebe al cittadino democratico” di Mario Patrono – RADICALI ITALIANI Verso un “nuovo possibile”. Progetto per una riforma “radicale” delle istituzioni europee, statali e dell’ordinamento regionale).
3 Il federalismo fiscale e l’Unione Europea di Marco De Andreis (2010) – Qual è la distribuzione ottimale delle funzioni di governo tra i diversi livelli, quello centrale europeo, quello nazionale e quello regionale/locale? La teoria del federalismo fiscale può aiutarci a trovare le risposte giuste. Elaborata da Richard Musgrave nel 1959 e in seguito da Wallace E. Oates1 , essa si basa sulle tre principali funzioni economiche di governo: stabilizzazione, distribuzione e allocazione. Secondo questa teoria, le prime due funzioni vanno svolte dal governo centrale, mentre l’allocazione può essere ripartita tra i diversi livelli, seguendo un criterio di coincidenza fra beneficiari e contribuenti.
Quello che conta è l’incidenza spaziale dei benefici: coloro che usufruiscono della fornitura di beni a un dato livello di governo dovrebbero essere gli stessi che provvedono al relativo finanziamento. (..) La divisione del lavoro fra i diversi livelli del governo per quanto riguarda l’offerta di beni pubblici è giustificata dalle diverse preferenze territoriali esistenti nell’ambito di un’ampia giurisdizione qual è ad esempio una federazione. Alcuni beni e servizi si traducono in benefici localmente circoscritti: in questi casi, un’offerta decentrata permette ai poteri locali di fornirli in quantità che corrispondono a costi e preferenze specifici. Ne consegue che la tassazione di fattori altamente mobili – come i redditi da capitale e in minor misura i profitti – dovrebbe essere attribuita principalmente al governo centrale. Il lavoro è anch’esso mobile, sebbene in misura più limitata, e la sua tassazione è legata alla previdenza sociale, una funzione di governo affidata al livello federale negli Stati Uniti e a quello degli Stati membri nell’Unione Europea. Al contrario, le imposte sui consumi, come pure quelle sui beni immobili, andrebbero affidate ai governi locali.
4 La capacità finanziaria dei sindaci dipenderà ancor di più da trasferimenti statali e regionali – finanza derivata. Si è eliminata una delle poche imposte che non si possono evadere e che esistono in tutti i Paesi, con aliquote ben più elevate di quelle ora abolite in Italia. Ci troviamo oggi in una situazione anomala in Europa e, più in generale, nel mondo Occidentale. Tra i Paesi UE, solo a Malta non si paga un’imposta sulla prima casa, mentre l’Italia resta ai primi posti in Europa per la tassazione sul lavoro.
STATI UNITI D'EUROPA SUBITO!Intervista a Emma Bonino
http://www.emmabonino.it/campagne/sue/sue_subito.php SOMMARIO: Con il Manifesto di Ventotene, scritto nel 1941 da Ernesto Rossi e Altiero Spinelli, al confino, dove erano stati costretti dal regime fascista, il sogno dell'unità federale dell'Europa diventa concreta lotta politica. Dopo cinquant'anni, la Comunità Europea, unica istituzione esistente, è bloccata nel suo sviluppo politico dall'assenza di veri organi sovranazionali. Dopo anni di fallimenti delle iniziative governative o diplomatiche è necessario affidare al Parlamento europeo, sostenuto dai Parlamenti nazionali e da tutto il popolo europeo, il mandato di redigere la carta costituzionale. L'evoluzione della Comunità in federazione, la trasformazione delle federazioni di fatto in federazioni di diritto, anche mutando la composizione geografica del loro attuale territorio, la creazione di nuove federazioni, non solo in Europa, ma anche in Asia, Africa, America Latina, è uno dei compiti prioritari del Partito Radicale. (Il Partito Nuovo, n.3, Agosto 1991)
STATI UNITI D'EUROPA SUBITO!
A trentacinque anni dalla sua nascita, la Comunità europea diventa sempre più incapace a realizzare gli obiettivi previsti e gli ideali impliciti nei trattati costitutivi: il rafforzamento delle difese della pace e della libertà, il miglioramento delle condizioni di vita e di occupazione dei popoli, l'unità e lo sviluppo armonioso delle loro economie. Infatti, sul piano politico, l'assenza di una voce unica non permette alla Comunità europea di contribuire alla soluzione delle crisi politiche e militari che avvengono persino ai suoi confini. Sul piano economico, la mancata realizzazione di un mercato interno e di politiche comuni, soprattutto nel campo della ricerca, dell'industria, dell'energia, della tecnologia e dell'ambiente, da un lato moltiplica i costi diretti e indiretti, causati dallo spreco di risorse e dalle molte duplicazioni, dall'altro diminuisce i profitti, non beneficiando dell'economia di scala, della distribuzione ottimale dei fattori di produzione e del moltiplicatore di efficacia derivato dal quadro comunitario. Sul piano sociale, la mancanza di una politica comune del lavoro e dell'occupazione, non solo aumenta gli squilibri territoriali, ma sta creando milioni di disoccupati e sottoccupati, rendendo così ancora più difficile l'inserimento di centinaia di migliaia di cittadini di paesi extracomunitari, spinti all'esodo dalla fame e dal sottosviluppo. Più in generale, la rinazionalizzazione di tutte le politiche impedisce la realizzazione di un grande programma di collaborazione solidale nord-sud ed ovest-est, che potrebbe eliminare alle origini i più gravi problemi con l'attuazione di un nuovo «piano Marshall». Allo stato attuale dell'azione della Comunità, non è da prevedere una soluzione democratica a questa situazione. Fallito il tentativo di realizzare gli Stati Uniti d'Europa, partendo dal progetto di trattato di Unione europea, elaborato da Altiero Spinelli ed approvato dal Parlamento europeo nel febbraio 1984, il Mercato unico europeo, principale obiettivo dell'Atto Unico, si avvia al fallimento o a realizzazioni settoriali, tecnocratiche e soprattutto non democratiche. Questo perchè, come testimoniano le ripetute crisi, qualunque sia il grado di integrazione economica che si raggiunge, essa non porta mai automaticamente all'integrazione politica: un programma economico, specie se di dimensione superstatuale, richiede necessariamente una gestione politica, cioè istituzioni capaci a delinearlo e a garantirne l'attuazione democratica, adeguate allo stesso livello sopranazionale: un Parlamento europeo che disponga di poteri legislativi e di controllo e una Commissione dotata di reali poteri esecutivi. Per realizzare questo salto di qualità politica bisognava superare il trattato di Roma e l'Atto Unico, affidando al Parlamento europeo, investito dal mandato costituente, l'elaborazione di un nuovo trattato. L'attribuzione del mandato avrebbe acquistato maggiore forza ideale e democratica se ottenuto con referendum popolare, come realizzato in Italia su iniziativa congiunta del Partito Radicale e del Movimento Federalista Europeo, contestualmente alle elezioni europee del 1989. E' necessario, perciò, che i federalisti democratici, in primo luogo i membri del Parlamento europeo e dei Parlamenti nazionali, contribuiscano al rafforzamento del Partito nuovo, federalista, transnazionale e transpartitico, impegnato prioritariamente nella elaborazione e nella successiva ratifica della nuova carta costituzionale degli Stati Uniti d'Europa. Il Partito nuovo è il partito degli innovatori che deve battersi contro quello degli immobilisti e la palude dei partiti tradizionali. Il compito è difficile: però, più ampio sarà il consenso al Partito nuovo, più rapidamente si potrà contribuire alla realizzazione degli Stati Uniti d'Europa, aperti alla adesione e alla collaborazione di tutti quei paesi che vogliano condividere questo grande progetto, fondamento degli Stati Uniti del Mondo.
STORIA E TEORIA DEL FEDERALISMOdi Angiolo Bandinelli
http://www.emmabonino.it/campagne/sue/storia.phpSOMMARIO. La storia del "Manifesto" di Ventotene deve essere fatta risalire agli anni bui del dopoguerra e della crisi europea, quando gli intellettuali liberali e democratici furono costretti ad avviare un profondo processo di revisione del loro bagaglio ideale e programmatico: "come salvaguardare, nello Stato, il diritto alla o alle libertà, in presenza di una esigenza montante di maggiore eguaglianza e parità di opportunità?" Liberali e marxisti si lacerarono nella ricerca di una armoniosa conciliazione tra le diverse priorità, cercando di avvicinare un ideale di "libertà compiuta", non solo formale, per tutti. Ma Benedetto Croce prende atto che è finita l'epoca della "fiducia nel soggetto trascendentale", mentre la politica dispiega il suo volto più strumentale: la libertà, oggi, è solo nel "trascendente mondo della Storia", dove le contraddizioni si armonizzano. In questa condizione, la libertà si rifugia anch'essa nel trascendentale: la "religione" della libertà. In politica, si individuano tre modelli di soluzione alla crisi: il modello americano, quello italiano e quello sovietico...In tutti e tre, lo Stato è al centro del sistema, e il Bene è definito in funzione dello Stato. A sua volta, il Bene è ristretto nella sfera dell'Economico, e tutti i valori devono rapportarsi a questo. Lo Stato fascista e quello sovietico sono tra loro più simili, ma anche nel modello democratico americano vi sono punti di simiglianza. La seconda guerra mondiale tenderà ad avvicinare ancor più i tre modelli e le loro realizzazioni, fino alla bomba atomica. Spinelli e Rossi risalgono alle origini del processo, e individuano il nocciolo profondo nel formarsi storico degli Stati nazionali, che hanno finito nell'essere travolti dalla Volontà di Dominio nel contempo e per conseguenza trasformandosi in padroni di "sudditi" costretti ad operare in vista della massima "efficienza bellica". Perfino il movimento operaio si piega alle esigenze dello Stato-nazione, la lotta di classe si trasforma in uno scontro "corporativo" per l'appropriazione del massimo dei beni disponibili. La proposta di Rossi e Spinelli, a questo punto, è la "distruzione" del Behemoth statale "in quanto centro di concentrazione assoluta di potere". A questo fine non è certo sufficiente la creazione della Società delle Nazioni (o dell'ONU): ciò che occorre, è creare un "sistema politico" che superi gli inconvenienti dello Stato "assoluto", nazionale. Solo lo Stato federale può contemplare e favorire al suo interno la persistenza di altri "sistemi originari" creatori di diritto" e quindi di una pluralità di fedeltà che sia davvero garanzia di libertà per tutti e ciascuno. (LA PALLACORDA, bimestrale, Torino, 2 semestre 1984 - Ripubblicato in "IL RADICALE IMPUNITO - Diritti civili, Nonviolenza, Europa", Stampa Alternativa, 1990)
La storia del "Manifesto di Ventotene" viene da lontano, anche da più lontano che non siano gli anni nei quali, nel cerchio forzato dell'esilio in patria, Ernesto Rossi e Altiero Spinelli gettavano giù quelle poche pagine di appunti e riflessioni. Certo, già allora esse apparvero fastidiose, incomprensibili e pericolose, se costarono all'uno e all'altro l'isolamento dagli altri detenuti politici (pochi dei quali vollero sottoscriverle) e il distacco reciso dai comunisti, che le condannarono aspramente e senza appello. Ma le radici della loro diversità affondano in quel travaglio di idee con il quale, dopo la crisi del 1921 che separava le due anime del socialismo europeo - comunisti e riformisti - con un solco non più destinato a chiudersi, a seguito della vittoria dei fascismi europei, al cospetto della profonda trasformazione delle strutture statuali determinata dall'industrializzazione, e in mezzo agli scontri sempre più aspri fra le Potenze sul terreno della divisione dei mercati e dell'egemonia mondiale, politici e intellettuali dovettero avviare la revisione del loro bagaglio di teorie e di ipotesi. In Italia sono gli anni dei Rosselli, di "Giustizia e Libertà", del liberalsocialismo, che ereditano i dubbi e le sconfitte degli Amendola come dei Nitti, dei Salvemini, dei Gobetti e dei Matteotti, sconfitti e massacrati non tanto dalla mano omicida di qualche sicario, ma da una violenza più profonda, drammatica e grandiosa, che investiva e liquidava certezze e garanzie, diritti e "forme-Stato", con una facilità irrisoria, una burbanza e una sicurezza che davano adito a sospetti profondi circa il sostegno reale che ne guidava e reggeva la mano assassina. Il mondo democratico più avvertito cominciò a porre mano ad una revisione che non poteva non essere difficile, mentre i tempi stringevano e una nuova e più sconvolgente resa dei conti si avvicinava. Una lettura di prima approssimazione di questi tentativi ci pare possa dirci che il gran tema in discussione è sul come, dinanzi alle trasformazioni e agli sconvolgimenti in atto, si possa salvaguardare, nello Stato, il diritto alla o alle libertà, in presenza di una esigenza montante di maggiore eguaglianza e parità reale di opportunità e di conseguimenti: per tutti i membri della comunità sociale e per ciascuno di essi. I due termini appaiono inconciliabili, o quasi. Pareggiare le opportunità per tutti - e non solo le opportunità, ma i conseguimenti reali - non significa sviluppare armoniosamente la vecchia, grande intuizione e affermazione liberale secondo la quale occorre appunto poter garantire a tutti e ciascuno l'accesso, o le possibilità di accesso, a quell'agone sociale nel quale poi ciascuno possa far valere le proprie capacità. Le sinistre marxiste sbeffeggiano questa fiducia e la denunciano come una truffa messa in atto dal mondo borghese ai danni del proletariato: la corsa che si svolge sull'agone sociale è già truccata in partenza, non bastano le assicurazioni d'un allineamento corretto sulla linea di partenza; il garantismo formale è il sigillo d'una farsa che il proletariato non può più accettare. L'uguaglianza deve essere non formale, ma sostanziale, il proletariato deve impossessarsi (per gestirlo in proprio, in quanto classe) del sistema della produzione. E' un progetto di grandezza storica, che mira scopertamente alla sovversione non dei tempi, ma del tempo in sé che, una volta che la rivoluzione avrà vinto, sarà qualitativamente altro da quello che oggi misura la durata interiore della coscienza dell'uomo, fordianamente parcellizzandola e impedendole di svilupparsi armoniosamente e "totalitariamente". Se questa è la risposta marxista al quesito, essa non è apparsa convincente a molti, i quali però non riescono a fornire al problema una diversa soluzione, che appaia ugualmente persuasiva. I più, in realtà, balbettano concettini informi, se non deformi. Ma, d'altra parte, il tentativo più aulicamente solenne e vigoroso, quello compiuto da un Benedetto Croce che di nuovo affronta i grandi temi filosofici troppo a lungo accantonati, approda ad una dichiarazione di sconfitta. Benedetto Croce prende atto, proprio in questi anni, che un'epoca della storia si è chiusa, l'epoca della fiducia nel soggetto trascendentale, attore e protagonista del movimento della libertà (1). Il soggetto portatore delle categorie trascendentali è sconfitto, almeno sui piano dell'agire, sul piano della politica. La politica è il luogo della funzione (funzione/finzione) cui il soggetto viene sacrificato in una separatezza e divisione di sé da sé e dal tutto che non pare possa essere, nel contingente, reintegrata. La libertà è altrove: è nel trascendente mondo della Storia, nel cui occhio, che si apre e si dilata dopo e al di sopra dell'evento, si ricompongono e si armonizzano gli avvenimenti che nel contingente si svolgono come fotogrammi d'un film, in una successione che non ha connessioni interiori. La libertà, dall'altra parte, si interiorizza: fai il tuo dovere, è l'imperativo del quotidiano; afferma dinanzi al foro della tua coscienza solitaria il valore e l'etica, anche quando essa non può dettare le sue leggi nel mondo del fattibile, dove si svolge la vicenda umana. Se la politica è funzione, manipolazione strumentale, come si può paragonare, mettere a raffronto il suo prodotto, quale che esso sia e quale che siano le sue pretese, con la libertà che, identificandosi con l'etica, si pone come categoria, quindi nel trascendente, misura delle cose dalle quali essa non può, per definizione, essere misurata? Dunque, prosegue Croce, la coniugazione di libertà con giustizia è un impossibile logico, un assurdo concettuale e filosofico. Lo Stato operi per disporre del bene economico con la massima equità possibile nel contingente; ma non per questo pretenda di realizzare nella sua completezza l'ideale, la sostanza (substantia, proprio) della libertà matrice della storia e dello stesso Stato. La risposta di Croce condivisibile o meno che sia, si iscrive nel suo tempo con grande precisione, e ne dà una sua interpretazione che per certi rispetti - e pensiamo alla definizione dell'attività politica - si incontra perfettamente con altre che pretendono una maggiore modernità (Luhmann). Ma se gli sforzi teorici dei democratici e dei liberali non producono soluzioni soddisfacenti, i politici architettano tuttavia, e realizzano, tre ipotesi. Negli anni '30, in America come in Unione Sovietica, come in Italia, si disegnano modelli grandiosi di rapporto tra bene e libertà, e quindi tra cittadino (suddito) e Stato, che in gran parte si distaccano l'un dall'altro ma che hanno anche alcuni tratti in comune. Per tutti e tre i modelli, lo Stato è al centro del sistema, e la politica è l'attività centrale cui tutte le altre, compresa la sfera dell'economico, sono subordinate: è quello che si chiama il primato del politico. Il bene è definito, in tutte le sue valenze, in funzione dello Stato. Nulla può sfuggire al circolo di valori che lo Stato impone ai suoi cittadini/sudditi, non vi è diritto di natura che possa imporre allo Stato e alle sue ragioni un limite qualunque. Ogni bene si appiattisce e regredisce alla condizione dell'economico, e l'economico è il solo metro del rapporto tra i beni: ma tutto, ripetiamo, è governato dentro la sfera del sistema politico, e per il bene superiore dello Stato. Lo Stato sovietico e quello fascista sono i più simili tra di loro nello spingere alle estreme conseguenze questo modello sistematico. In parte, resta più elastico il modello statuale delle democrazie occidentali, a partire da quello americano. Non c'è dubbio, qui una serie di garanzie vengono frapposte, o lasciate sopravvivere, tra i poteri propri allo Stato e i diritti rivendicati dal cittadino. Si accetta (e si impone) la distinzione tra pubblico e privato, a diminuire e svelenire iI condizionamento massiccio di quella riduzione del soggetto trascendentale a funzione che però non viene del tutto negata: anche questi Stati sono proiezioni di società industrializzate e altamente specializzate, e proprio qui anzi si inventa e si esalta quello che sarà il paradigma stesso del sistema, quello che viene chiamato fordismo o taylorismo. Si accetta comunque (o si tollera) l'obiezione di coscienza; si delimitano spazi di libertà per le chiese e per la sfera del religioso, anche quando esso non coincide col privato (ma la Chiesa cattolica non accetterà mai tale delimitazione e, rivendicando a sé la pienezza del potere - in quanto Stato in sé perfetto - arriverà tutt'al più ad accettare situazioni di fatto determinate dai rapporti di forza o a contrattare, in alcuni casi, la delimitazione delle sfere di competenza); si erige a canone di interpretazione del fenomeno politico il sistema statistico, attraverso il quale, nella misurazione dei rapporti di forza tra gruppi di potere concorrenti, si arriva anche a individuare i percorsi della funzione di libertà (il che equivale a dire, ancora una volta, che la libertà non è valore trascendente, né forma dell'infinito processo storico, ma funzione, rapporto, definibile come "forma" delle esigenze strutturali proprie a ciascuno dei gruppi di forze concorrenti nell'ambito del sistema: che è sistema chiuso, non infinito). E' il massimo di libertà concepibile e realizzabile all'interno dello Stato moderno; ed è sicuramente sufficiente a determinare, nella crisi del 1939, la spaccatura mondiale, tra progresso e reazione. Ma, con gli occhi dei posteri, possiamo vedere oggi che anche in questa occasione alcuni equivoci vengono tollerati: la partecipazione alla guerra antifascista dà all'Unione Sovietica una formidabile legittimazione come paese democratico. Nonostante le denunce che proprio durante gli anni '30 vengono rivolte al "Dio che è fallito" in un dibattito che avrà un influsso enorme sugli sviluppi della cultura per oltre trenta anni, il socialismo reale viene accolto tra le esperienze positive della società e degli Stati moderni nel cammino faticoso verso la soluzione del problema storico in cui si dibattono: il rapporto, ripetiamo, tra giustizia e libertà. Le risultanze di questo dibattito e di queste gigantesche esperienze vengono messe in causa proprio dalla seconda guerra mondiale. E questa l'occasione nella quale il sistema dello Stato moderno, lo Stato del Politico e della "funzione", si sbarazza di tutte le garanzie che ha dovuto accordare alle esigenze di libertà e si erge di nuovo, come mostruosa Ipostasi, in tutta la sua spietatezza. L'economia dello Stato sociale, mettendo in mostra tutte le sue capacità e le sue potenzialità nel momento in cui si trasforma, con immensa facilità, in economia di guerra, rivela quali siano le fondamenta reali, fin qui restate celate, su cui essa si basa. Nell'obiettivo della vittoria "giusta" tutte le garanzie di libertà sono sospese, ogni cedimento è tradimento, l'individuo viene di nuovo ricondotto, totalitariamente, alla condizione di funzione del sistema, in alienazione assoluta. Anche gli Stati democratici assumono parecchi degli aspetti dello Stato totalizzante e totalitario, che erige la propaganda a valore di verità. Il processo pare ineluttabile. Quando si pensa alla vittoria sull'avversario la si pensa in termini, ormai, di annientamento. Come è noto, i veri obiettivi militari da distruggere per avvicinarsi alla vittoria non saranno le divisioni nemiche sul campo di battaglia ma le popolazioni civili delle città, di cui si cerca di spezzare i tessuti e i gangli nervosi, e i bersagli su cui saranno gettate le bombe atomiche saranno ancora una volta città, popolazioni di donne, vecchi e bambini. La bomba atomica realizza la definitiva silloge del sistema statuale e sancisce, con la perpetuazione della sua minaccia incombente, la condizione etica del mondo moderno. Non è poi tanto un caso se i piloti che la sganciarono impazzirono: l'uomo della strada non aveva ancora maturato le difese contro l'orrore dell'annientamento dell'etica, divenuta succube della funzione, allo stesso grado cui invece erano giunti gli scienziati atomici, eredi di una lunga e complessa storia culturale che aveva già elaborato teorie (o sofismi) giustificatori e assolutori... Non saranno in molti coloro che osservando questa mostruosa degenerazione dei sospetti e delle speranze cercheranno di porre il problema su basi nuove, diverse. Credo che si possano annoverare tra di essi i due antifascisti che elaborarono il "Manifesto di Ventotene", Ernesto Rossi e Altiero Spinelli. Il "Manifesto" si apre con questa lapidaria affermazione, insieme assioma e tesi da dimostrare: "La civiltà moderna ha posto come fondamento il principio della libertà, secondo il quale l'uomo non deve essere un mero strumento altrui, ma un autonomo centro di vita. Con questo codice alla mano si è venuto imbastendo un grandioso processo storico a tutti gli aspetti della vita sociale che non lo rispettassero". Come si vede, siamo nel cuore stesso del dramma moderno. Il ragionamento che segue alla premessa è lineare. Quel principio di libertà si è sviluppato grazie all'affermarsi dell"'eguale diritto a tutte le nazioni di organizzarsi in Stati indipendenti". L'ideologia che ne è conseguita, quella dell'indipendenza nazionale, è stata indubbiamente molla di progresso. Tuttavia, con l'addensarsi sulla scena politica di molte Nazioni e Stati tutti ugualmente indipendenti ha portato con sé, quale sua conseguenza inevitabile, il formarsi di una volontà di dominio di ciascuno Stato nei confronti di tutti gli altri, e questa volontà di dominio si è eretta a morale universale, indiscussa e irriducibile (tra parentesi: nello stile del "Manifesto", che indubbiamente rivela atteggiamenti "titanistici", è già presente in nuce quel nietzchismo che oggi torna, pressappoco identico, quale rispecchiamento e insieme rifiuto nichilistico della cultura moderna, divenuta anch'essa, a sua volta, totalizzante...). Quale conseguenza di questo suo sviluppo, o ipertrofia, o degenerazione, lo Stato, da tutelatore della libertà dei cittadini si è trasformato in padrone di sudditi "tenuti a servizio, con tutte le facoltà, per renderne massima l'efficienza bellica". Il processo ha investito tutte le formazioni statuali, anche se "gli Stati totalitari sono quelli che hanno realizzato nel modo più coerente l'unificazione di tutte le forze, attuando il massimo di accentramento e di autarchia...". Una sola smagliatura sembra di poter cogliere in questo argomentare serrato, ed è il passaggio nel quale si afferma che gli Stati totalitari "si sono dimostrati gli organismi più adatti all'odierno ambiente internazionale". La sconfitta dei fascismi, sopraggiunta di li a poco, avrebbe messo in forse tale premessa e quindi le sue conclusioni. Ma solo in superficie; il processo di alienazione della libertà "trascendentale" dinanzi al potere non si è allentato, in una temperie che ha comunque accantonato ogni interpretazione della storia e della politica che si richiami a postulati etico-politici. In ogni caso, l'argomentazione di Rossi e Spinelli, che sembra trovare limiti e incertezze, riprende subito fiato e coglie un altro problema essenziale. Il "Manifesto di Ventotene" ha un avversario di fondo, ed è ovviamente il nazionalismo della forma-Stato moderna; ma ha anche un temibile interlocutore, con il quale polemizza a lungo, nelle ideologie delle sinistre che si rifanno più o meno dichiaratamente a Marx, e comunque privilegiano l'interpretazione economica della storia, in termini di lotta di classe. Quanti hanno cercato di risolvere il problema del rapporto libertà-giustizia utilizzando questo schema affermano che, nel momento in cui saranno aboliti, con la lotta di classe, la proprietà privata e il dominio dell'uomo sull'uomo, anche il problema della libertà sarà risolto. E il capitalismo che assoggetta l'uomo e lo priva della libertà di disporre di sé, che strumentalizza lo Stato per i suoi fini di parte, che scatena guerre che sono, in definitiva, guerre di dominazione capitalistica, guerre imperialistiche. Tutti questi mali saranno sconfitti, dicono i marxisti, una volta che sia stato colpito al cuore il sistema del capitale. Le questioni relative alla forma-Stato sono secondarie, mero riflesso dei movimenti reali che si svolgono a livello di struttura. La vera liberazione dell'uomo si svolge a questo livello, ed è la lotta di classe, che attraversa orizzontalmente gli schieramenti nazionali, sollevando ad una dimensione infra- e internazionale la responsabilità delle masse sfruttate: "Proletari di tutto il mondo, unitevi!" non è uno slogan dettato da passioni e sentimenti, è il dettato di un sillogisma teorico ferreo. Purtroppo, il sillogisma teorico non si chiuderà mai. Già con la prima guerra mondiale i proletari si divideranno secondo linee di frattura nazionali. Nel ventennio successivo, le masse operaie saranno profondamente inserite nel tessuto nazionale e diverranno ovunque il pilastro fondamentale delle fortune dello Stato nazionale. In America, è in questi anni (e l'episodio di Sacco e Vanzetti ne diventerà simbolico) che viene spezzato lo sviluppo di una sinistra marxista, mai più risuscitata dopo l'esplosione del New Deal rooseveltiano. In Italia un grandissimo teorico, Alfredo Rocco, getterà le formidabili basi di uno Stato nazionale, fascio dei produttori, che assorbirà in sé, soddisfacendole nella più assoluta integrazione, le esigenze e le aspirazioni delle masse lavoratrici. Il movimento socialista, dovunque, perderà il suo carattere internazionalista, e una sua notevole parte si piegherà alla difesa del "socialismo in un solo Paese". Da questa trasformazione strutturale del rapporto tra classe e nazione-Stato prenderà vita un nuovo schema di lotta per il potere che sarà destinato a lunga vita, riuscendo a dissolversi in schemi di interpretazione che saranno esaltati persino come emblematici della perfetta democrazia. Tale complessa trasformazione viene ben individuata dal "Manifesto di Ventotene", anche se per definirla esso impiega un termine che non incontrerà fortuna. Il "Manifesto" infatti definisce come "sezionalismo" quel meccanismo che oggi noi preferiamo chiamare "corporativismo". La lotta sociale e politica sarà soprattutto finalizzata, in ciascuno Stato, a fissare le quote rispettive che ciascun settore sociale, ciascuna corporazione, riuscirà a prelevare dall'insieme dei beni a disposizione della collettività. "Si continua a parlare della società moderna come della società capitalista. Ma se si intende bene cosa sia una società capitalistica (...) bisogna dire che oggi viviamo in una società (...) che è essenzialmente una società sindacalista", troviamo scritto sul "Manifesto" e "sindacalismo" è qui inteso, analogamente a "sezionalismo", come "corporativismo". Il massimo di democrazia si avrà, poste tali premesse, nell'aperto svolgimento di questo scontro per la spartizione e distribuzione dei beni, intesi come beni di scambio, ad esclusione di altri beni, o valori, diversi. In definitiva, anche il principio della lotta di classe si è dissolto, rispetto alla sua pretesa di interpretare le strutture profonde e autentiche della storia contemporanea; e allora quale altra risposta sarà possibile alla annosa domanda, quella su cui in tanti si sono travagliati? A questo punto, il "Manifesto di Ventotene" avanza la sua proposta. Se il travaglio del mondo moderno dipende (come sembra dimostrato) dallo sviluppo ipertrofico del Behemoth statuale, la battaglia da ingaggiare è quella della sua distruzione in quanto centro di concentrazione assoluta di potere. Non è sufficiente che lo Stato garantisca al suo interno il libero svolgimento della lotta politica tra le parti sociali. Lo scontro è diseguale perché, per la forza delle cose, per i dati strutturali che condizionano la vita dello Stato, prima o poi, e magari sotto l'impulso della guerra (che lo Stato in quanto tale tende sempre a promuovere), le forze che puntano alla ricostituzione dell'assolutismo torneranno a prevalere. Per dissolverle davvero occorre dissolvere il centro di potere che le attila, là dove esso si costituisce: occorre, insomma, abbattere lo Stato-nazione... In poche e sarcastiche battute il "Manifesto" liquida la speranza che possa a questo fine essere sufficiente la ricostituzione della Società delle Nazioni (magari con la nuova sigla dell'ONU). Il fallimento della esperienza societaria è sotto gli occhi di tutti. No. Il problema sarà risolto solo se si riuscirà a costituire un sistema federale di Stati, a partire dal punto dove la situazione è più matura e le condizioni sono più propizie: dunque, l'Europa. Qui si dovrà tentare di costruire, facendosi forza della crisi che attraverseranno i suoi Stati dopo la tremenda guerra, uno Stato federale, gli Stati Uniti d'Europa, modello e protagonista di un formidabile esperimento, rivoluzionario nei suoi fondamenti, di costruzione di un sistema civile capace di contemperare forza e libertà, potere e diritto, centralità decisionale e pluralità di soggetti, artificio (Stato) e natura (preesistenze storico-culturali), in un insieme il più possibile armonico già nella sua struttura ideale e concettuale. Lo Stato federale europeo non è un'utopia umanitaria, dunque; è un progetto politico che si pone un obiettivo definito, preciso: costituire un sistema politico che non presenti gli inconvenienti dello Stato assoluto, nazionale. Lo Stato federale possiede questi requisiti: esso infatti, per le caratteristiche della propria forma, non è in grado di assolutizzare e ipostatizzare un centro di potere assolutistico, comunque totalizzante. Il sistema federale è, per definizione, nontotalizzante; per la sua costituzione storica non è mononazionale, e quindi fa deperire la volontà di potenza del nazionalismo (e del razzismo); per la sua articolazione non è bellicoso, perché portato a contemperare spinte diverse, centrifughe. La sua forma istituzionale, sufficiente a garantirne l'efficienza (in quanto allo Stato federale vengono delegati alcuni essenziali poteri) non ha tuttavia carattere globale; altri importantissimi poteri restano affidati agli Stati membri. Essa contempla addirittura la persistenza al suo interno di altri sistemi originari creatori di diritto, grazie ai quali è consentita al cittadino una pluralità di fedeltà che impedisce il suo assorbimento in un sistema monocentrico, totalizzante. Anche sul terreno dell'economia, mentre è sufficientemente ampio, nella dimensione europea, da poter fare sviluppare un mercato di ampiezza adeguata alle dimensioni tecnologiche dell'industria moderna, non esige, rende anzi impossibile, una concentrazione dei mezzi di produzione subordinata totalmente al potere politico... Sarebbe lungo esaminare partitamente tutti questi elementi, vagliarli, giustificarli, svilupparli (o, magari, rifiutarli): basti qui questa prima, insufficiente elencazione, per coglierne quanto vi era, nel momento in cui essi venivano dettati, di congruo con i problemi del tempo, con la ricerca teorica, con aspirazioni e bisogni di grande portata ideale. Queste qualità non sarebbero tuttavia state sufficienti a fare del "Manifesto" un testo così importante della cultura politica del nostro tempo. Furono gli eventi politici ad assumere, per loro conto, un andamento convergente con le indicazioni del piccolo testo. NOTA 1) Benedetto Croce: "La storia come pensiero e come azione", Laterza 1938.
L'ARIA FRITTA DEL NAZIONALISMOAltiero Spinelli
http://www.emmabonino.it/campagne/sue/nazionalismo.phpSOMMARIO: «Non c'è, dico, grande problema che possa essere ancora affrontato seriamente con criteri e con strumenti nazionali». Con queste parole Altiero Spinelli, il padre del Federalismo europeo, dal Manifesto di Ventotene del 1942 al progetto di trattato dell'Unione europea, lasciava al Partito radicale il suo testamento politico, nel corso del Congresso del PR del 1985 a Firenze. Dopo pochi mesi da quel suo intervento al Congresso del Pr Altiero Spinelli moriva. ("Numero unico" per il 35 Congresso del Partito Radicale - Budapest 22-26 aprile 1989 - Edizioni in Inglese, Ungherese e Serbocroato) (Notizie Radicali n 265 del 28 novembre 1985)
Cari amici del Partito Radicale, nella difficile azione che il Parlamento europeo sta conducendo per ottenere una riforma seria della Comunità europea, Marco Pannella si è impegnato in prima linea con chiarezza. Voglio pensare che il Partito radicale approvi questa azione del suo leader e si proponga di seguire il suo esempio. È questa la ragione per cui ho accettato l'invito che mi aveva rivolto Negri e sono venuto qui anche se il tema non è nemmeno iscritto all'ordine del giorno del vostro congresso. Non starò qui a ripetervi le ragioni politiche, economiche, militari, culturali che militano a favore dell'Unione europea. Se ne parla tanto e da tanto tempo che suppongo che esse siano note a tutti voi. Permettetemi solo di aggiungere a queste ragioni una che è di gran peso ma normalmente è accuratamente ignorata: si dice spesso che se l'unificazione europea non dovesse riuscire - ed è evidente che ci sono grossi ostacoli e che talvolta si è quasi indotti a credere che non riuscirà - sarebbe inevitabile il ritorno ad un rinnovato nazionalismo; anzi, che questo nazionalismo già riemerge in tutti i paesi.
DUE SOLE ALTERNATIVE
Le tendenze alla boria nazionale, al protezionismo, alla xenofobia, al razzismo, e ad altre simili virtù generate dalla mitologia dello Stato nazionale sovrano si fanno sentire in vari Stati ed anche da noi. Ma questa rinascita nazionalistica non è in realtà che aria fritta, che molti uomini politici agitano nei loro discorsi perché mancano loro idee e criteri per giudicare la realtà nella quale stanno vivendo. Il fatto è che non c'è oggi più alcun grande problema concernente l'economia, la moneta, il collegamento sociale del nostro sviluppo con quello dei paesi poveri del mondo, la difesa, l'ecologia, lo sviluppo scientifico e tecnologico, l'universalità della cultura, non c'è, dico, grande problema che possa essere ancora affrontato seriamente con criteri e con strumenti nazionali. Perciò, malgrado le restaurazioni nazionali che sono state fatte dopo la guerra, al di là dei superficiali rigurgiti di sentimenti nazionalisti a cui assistiamo -e soprattutto di parole nazionaliste a cui assistiamo- noi vediamo che in Europa quasi tutti questi problemi sono già affrontati di fatto sui piani che superano quelli nazionali. Ci sono essenzialmente due metodi che sono contemporaneamente in opera; c'è il tentativo che fa perno intorno alla Comunità e a tutti i suoi successi ed insuccessi, e c'è il tentativo di un'Europa che sia fatta dagli europei. E c'è contemporaneamente il tentativo di un'Europa che sia fatta dagli americani. E vorrei che non ci sdegnassimo inutilmente, e in fondo non seriamente, di questa seconda alternativa. L'unità imperiale sotto l'egida americana è certo anche assai umiliante per i nostri popoli ma è superiore al nazionalismo perché contiene una risposta ai problemi delle democrazie europee, mentre il ritorno al culto delle sovranità nazionali non è una risposta. L'unità fatta dagli europei è in realtà la sola, vera alternativa all'unità imperiale. Il resto è schiuma della storia, non è storia. Le due forme stanno procedendo insieme e noi le vediamo sotto i nostri occhi; e guardate, non si può abolire l'una nella misura in cui si sviluppa l'altra. Perché l'una corroderà alla lunga l'altra; ma è attraverso queste due che l'Europa va muovendosi. Sta di fatto che nella misura in cui non si sviluppa o regredisce una di queste forme, si sviluppa l'altra.
EUREKA DICEVATE?
Vi dò solo due esempi. Gli europei hanno tentato, ad un certo momento, di darsi un esercito comune. Non ci sono riusciti; ebbene, noi abbiamo una serie di eserciti apparentemente nazionali inquadrati sotto il comando americano e nel sistema imperiale americano. E la responsabilità fondamentale della difesa dell'Europa ce l'hanno oggi gli americani. Noi formiamo truppe di ausiliari. In questi giorni si discute dappertutto che l'Europa deve fare un grande sforzo per le tecnologie avanzate: è stata trovata subito una bella parola greca «eureka», ma non hanno trovato niente. Perché quello che ci hanno proposto è semplicemente che vari Stati si mettano d'accordo per vedere quali di questi Stati è d'accordo con qualche altro per questo o quel programma e, appena hanno stabilito il programma, ciascuno inizia a tirarsi indietro, a voler mettere il meno possibile. E' un'esperienza che abbiamo fatto per una trentina d'anni e non è stato possibile sviluppare la politica della ricerca e dello sviluppo scientifico europeo. Oggi la si ripropone come l'aver trovato qualcosa di nuovo che ci metterà alla pari con gli americani e con i giapponesi. Contemporaneamente gli americani che sviluppano la loro politica di ricerca e sviluppo fanno una cosa molto semplice. Offrono a tutte le società, le ditte e i centri di ricerca la possibilità di fare dei contratti con loro per ricerche. Quale sarà il centro di ricerca, quale sarà l'impresa che dirà di no, quando ci sono proposte di questo genere? Cioè, il fatto di non avere affrontato in modo serio il che cosa bisogna fare per avere veramente una politica di ricerca e sviluppo scientifico fa sì che noi diveniamo sempre di più satelliti americani. Ora, ad entrambe queste forme di superamento della nazione noi vediamo che c'è una resistenza nazionale. Contro tutte e due. Ma in un certo senso essa è più loquace quando deve fare polemica con gli americani; in realtà essa è assai più forte quando agisce contro la prospettiva europea che quando agisce contro la prospettiva imperiale. In questo secondo caso, dopo le irritate esclamazioni, si accetta molto più facilmente quello che il fratello maggiore vuole. E perché è più forte contro la prospettiva europea? Perché la prospettiva imperiale ha il suo centro di potere che già esiste, che è forte, che può più facilmente dare soddisfazione alle vanità nazionali dei vassalli complimentandoli, facendo omaggio alla loro bandiera, ai loro capi, offrendo piccoli privilegi, tollerando anche modesti sgarbi. Il centro del potere europeo, invece, deve essere costituito, ed è inizialmente ancora debole, e può essere sviluppato solo a patto che i paesi si uniscano, s'impegnino formalmente, chiaramente, a trasferire questo o quel pezzo di sovranità nazionale al centro europeo.
IL VERO OSTACOLO
Noi vediamo come è forte la tentazione, nei nostri governi, a riprendere con una mano quello che hanno dovuto ridare con l'altra. Chi abbia occhi per vedere, ed orecchie per sentire, si accorge che noi oggi stiamo assistendo, come vi ho detto, e partecipando allo sforzo parallelo di rafforzare l'Unione europea fatta dagli europei e l'Unione europea fatta dagli americani. Direi che in questo sta il nostro grande vantaggio rispetto al sistema imperiale stabilito nell'Europa orientale: il nostro impero è, almeno in Europa, un impero liberale, che perciò permette che lo si critichi, che si cerchino alternative. Non sappiamo per quanto tempo potrà rimanere con queste caratteristiche. Ed è sicuro perciò che bisogna battersi seriamente per una costruzione europea. Suppongo che voi siate senz'altro per un'Europa fatta per gli europei e dagli europei; e vorrei che ci chiedessimo dove sta l'ostacolo maggiore. Facciamo attenzione, perché è un ostacolo un po' diverso da quelli che si incontrano di solito nella vita politica. Praticamente non è nel mondo economico; il mondo economico è aperto, in momenti più difficili è un po' più timoroso, in momenti di sviluppo più coraggioso; ma il mondo economico, in genere, è aperto. Non è nel mondo culturale. Non è nel mondo politico. Non c'è nella coscienza media dei cittadini una grossa resistenza ed infatti tutti i sondaggi che periodicamente si fanno in Europa -ad eccezione della Danimarca che si chiude in sé stessa- dimostrano che in tutti i Paesi, anche in quelli che si dice siano i più reticenti, la maggioranza è favorevole alla costruzione europea. L'ostacolo, il vero ostacolo sono le grandi amministrazioni nazionali, che gestiscono buona parte del potere anche politico, che sono fatte per gestire politiche nazionali, ed in particolare le diplomazie che sono fatte per determinare se e in che misura occorre cooperare con altri Stati, mantenendo però la gestione delle politiche in mano ad esse stesse. Le amministrazioni riescono ad essere dominate dalla direzione politica se questa ha grandi e forti visioni di quel che si deve fare, delle riforme da introdurre e via dicendo. Ma se le ideologie si riducono a come sono ridotte oggi, a poco più che slogan per i piccoli militanti così necessari ai grandi partiti per le grandi occasioni elettorali, se prevale il desiderio di andare al potere per gestirlo così come è -sia pure dichiarando che si vogliono fare altre cose fino al momento in cui si arriva al governo- quando si arriva al governo si gestisce quel potere. Allora il peso culturale e pratico delle amministrazioni pubbliche è enorme ed è quasi insormontabile ed ha per sua natura un'influenza immobilizzante e conservatrice. E vi dò l'esempio della crisi istituzionale europea; della Comunità nel suo momento attuale. Il Parlamento europeo rendendosi conto come tutti che non è possibile sviluppare l'Europa con queste fragili e deboli istituzioni che sono state fatte trent'anni fa per un'Europa di sei paesi -adesso sono dodici-, per problemi economici abbastanza semplici -ed oggi sono molto più complessi-, ha presentato un suo progetto che ha elaborato ed ha dimostrato che europei, che corrispondono in fondo alla coscienza media dei nostri paesi nelle più varie famiglie politiche, sono capaci di pensare insieme un progetto che è un progetto valido. Fatto questo i governi, cominciando da Mitterrand, hanno dichiarato che la cosa gli interessava. Ed hanno immediatamente messo la cosa in mano ad un comitato di loro esperti, i quali hanno fatto un rapporto un po' riduttivo, dopodiché sono arrivati al Consiglio di Milano e lì hanno deciso di fare una conferenza. In questa conferenza diplomatica il Parlamento ha chiesto di voler esaminare, poiché esso ha fatto il progetto, che cosa la conferenza fa e di non arrivare a firmare il progetto fino a quando ci sia un accordo fra la conferenza ed il Parlamento. La conferenza in questi quasi sei mesi non riesce a fare un passo avanti in niente. In un solo punto si sono trovati d'accordo; nel rispondere al Parlamento no. «Noi vi informeremo ma voi non avete più niente da dire in questa faccenda». Cioè l'organo che rappresenta i cittadini europei, che ha mostrato di essere capace di dare la formula costruttiva, non deve aver nulla da dire. Tutti questi funzionari (poiché sono i funzionari: i ministri non vanno o assistono alla prima mezz'ora della riunione e poi se ne vanno via) sono stati fatti non per fare l'Europa ma per mantenere il più possibile le loro strutture nazionali. Sono l'elemento della continuità con il passato, non della costruzione del futuro.
IL PARLAMENTO EUROPEO
xIl Parlamento può dare la censura alla commissione, può farla dimettere, può o respingere il bilancio o dare un bilancio diverso da quello che dà il Consiglio. Soprattutto il Parlamento europeo, e la Corte europea l'ha confermato chiaramente in una sua sentenza, deve dare degli avvisi di cui, stranamente, il Consiglio non è obbligato a tener conto. Il Parlamento europeo dovrebbe avere il coraggio di fare lo sciopero dei suoi pareri e creare una situazione di crisi per scoprire la cattiva coscienza nei vari partiti, nei vari governi, perché, infine, tutti quanti hanno paura se l'Europa dovesse veramente morire. Io ho detto varie volte che questo potere del Parlamento corrisponde un po' al potere dei tribuni della plebe a Roma, i quali non avevano veramente alcun potere di governo, nessun potere di fare leggi né di governare, però avevano quella «potestas tribunica» con cui potevano paralizzare tutto, fermare tutto. In questa maniera sono riusciti a trasformare la «cosa nostra» dei patrizi in cosa pubblica del popolo romano. Il Parlamento europeo può fare questa battaglia. Però il Parlamento europeo è composto da gente che ha insieme la fierezza di sentirsi rappresentanti dei cittadini e la paura del sentirsi isolati perché i partiti che li hanno fatti eleggere magari si occupano di altre cose; perché non sanno cosa ci sta dietro. Occorre che questi deputati sentano sul collo il fiato dei cittadini, i quali vogliono che si comportino in una certa maniera.
ALMENO TRE PAESI
Perciò c'è, in questo momento, la possibilità di un'azione che può avere un effetto. In fondo voi avete già fatto l'esperienza al tempo del divorzio dove c'era nel Parlamento una maggioranza divorzista. Ma se non ci foste stati voi con la vostra azione quella maggioranza non si sarebbe mai costituita perché avrebbe trovato altre dieci priorità prima di occuparsi del problema del divorzio. Ora la stessa cosa esiste oggi. In fondo voi dovete sapere mantenere su scala europea un'azione simile a quella che ha messo insieme paura e coraggio ai deputati europei e perciò indirettamente anche paura e coraggio in questa materia ai partiti europeisti, ma tutti più o meno addormentati. Questa azione non si deve fare solo in Italia; direi che in Italia è relativamente facile e nel seno del Parlamento europeo c'è la maggioranza o la quasi totalità che è d'accordo. Bisogna che la sappiate impiantare. Vi dovete fare missionari, nel senso di andare a fare quest'azione negli altri paesi e soprattutto io direi dando una priorità a tre paesi oggi: la Francia, la Germania, e la Spagna. Bene, io credo che troverete anche altri, altre forze, che so il Movimento federalista; con cui farete delle alleanze, ma è un'iniziativa per fare congiuntamente questa pressione con petizioni, con firme, con agitazioni. Trovatele tutte le maniere, con minacce che farete pesare alle prossime elezioni, e via dicendo. Io penso che se voi mettete un po' dello sforzo che avete saputo mettere in varie battaglie nazionali in questa battaglia europea, potete avere un risultato perché la situazione è oggi aperta in questo senso. Vorrei concludere dicendo che l'azione per la federazione europea è un'azione cui partecipano forze di tutte le famiglie politiche europee, ma è radicata culturalmente, è impiantata culturalmente, nel modo di pensare radicale. E non è un caso che quello che forse è il più importante dei vostri maestri, cioè Ernesto Rossi, sia stato anche uno dei fondatori del Movimento federalista europeo. Sappiate dunque assumere questa azione portando in essa il vostro fervore ad anche il vostro grano di follia.