Russia, Europa, USA e Cina

Re: Russia, Europa, USA e Cina

Messaggioda Berto » mar nov 26, 2019 9:05 pm

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 25/11/2019, a pag.10, con il titolo "Hong Kong, dalle urne uno schiaffo a Xi. I candidati pro-democrazia verso la vittoria" la cronaca di Francesco Radicioni.
Francesco Radicioni
Informazione Corretta

http://www.informazionecorretta.com/mai ... A.facebook

«È uno tsunami» diceTommy Cheung, tra i leader del Movimento degli Ombrelli del 2014 e candidato nel distretto di Yuen Long, al confine con la Cina, quando iniziano ad arrivare i primi risultati delle elezioni amministrative. Dopo oltre cinque mesi di proteste contro il governo, le elezioni locali per il rinnovo dei consigli di distretto di Hong Kong, sono state un test per l'amministrazione di Carrie Lam, ma soprattuto il termometro del sostegno popolare ai manifestanti pro-democrazia. I primi risultati arrivati nella notte dai 18 distretti hanno fotografato da subito il trionfo nelle urne del fronte pro-democrazia e il forte messaggio che gli hongkonghesi hanno voluto inviare alle autorità della Repubblica Popolare. Nel primissimo spoglio i primi 100 seggi assegnati (su 452) 90 sono andati ai candidati anti Pechino. Sconfitte molte tra le figure più note della politica di Hong Kong, tra queste anche il controverso Junius Ho - parlamentare pro-Pechino conosciuto per i suoi commenti incendiari contro i manifestanti - che ha perso per oltre 1.200 voti nel suo collegio di Tuen Mun. Mentre nei nuovi consigli di distretto entrano figure come Jimmy Sham del Civil Human Rights Front - la sigla che la scorsa estate ha portato in piazza milioni di hongkonghesi contro la legge sull'estradizione - e Kelvin Lam, subentrato a Joshua Wong dopo che la commissione elettorale aveva fatto decadere la candidatura dell'attivista ventitreenne. Le proiezioni danno al 6,2 % i candidati filo governativi, mentre i pro-democrazia trionfano con il 43,4%.

Blu o giallo «Campo blu o campo giallo?». Al seggio di Quarry Bayquando Chan Po King porge il volantino la prima cosa che gli elettori vogliono sapere è se sia una candidata dell'establishment vicino a Pechino o un'esponente democratica. «Durante la campagna elettorale i temi locali sono rimasti sullo sfondo - confida la candidata della coalizione democratica - mentre la città si è polarizzata sulle cinque richieste che hanno riecheggiato durante le manifestazioni e sulla brutalità della polizia». A lungo guardati con malcelato distacco dagli hongkonghesi, i consigli di distretti sono il livello più basso dell'amministrazione dell'ex-colonia - hanno potere consultivo e si occupano di questioni locali: dalla raccolta dei rifiuti alla posizione delle fermate dell'autobus, ma rappresentano l'unica elezione pienamente democratica nella vita politica della città. «È l'unico modo che abbiamo per far sentire la nostra voce», dice Barry, 28 anni, che ha appena espresso la sua preferenza al seggio di Taikoo.

In fila per ore Mentre online si diffondevano le voci che il governo avrebbe potuto sospendere il voto se fossero esplosi disordini, fin dalla mattina lunghe code si sono formate davanti ai seggi sparsi per i 18 distretti di Hong Kong. «È oltre un'ora che aspetto di votare: mai vista una cosa simile», dice un pensionato, mentre dietro di lui una fila ordinata si snoda per centinaia di metri. Una sfida anche al cliché che vuole gli hongkonghesi disinteressati alla politica. Alla fine della giornata l'affluenza è stata superiore al 71,2%, con oltre un milione e mezzo di votanti in più rispetto a quattro anni fa (47%): mai così alta in città. Mentre la leader di Hong Kong, Carrie Lam, è ora lo Chief Executive meno popolare nella storia dell'ex-colonia, con l'insoddisfazione verso il governo che ha superato l'80%.

La campagna di Nam Alla vigilia del voto il governo ha diffuso su Instagram video di denuncia dei vandalismi dei manifestanti, mentre ieri sugli schermi della ChinaChem Century Tower scorreva il messaggio «Fermare la violenza e il caos: il tuo voto è necessario». Anche nella zona popolare di Tuen Mun - a venti chilometri dagli shopping mall e a ridosso del confine con la Cina - in molti erano certi che l'alta affluenza alle urne avrebbe inviato «un forte messaggio al governo». «Non sosteniamo nessuna violenza - dice Monica, volontaria del Partito Democratico - è stata l'amministrazione ad aver ignorato le manifestazioni pacifiche di oltre due milioni di persone». Se fino a oggi sono stati i partiti pro-Pechino a dominare nei consigli di distretto - anche grazie a una consolidata rete di clientele - il voto di ieri avrà un impatto anche sulla prossima elezione del capo del governo di Hong Kong. Il bizantino sistema elettorale dell'ex-colonia britannica prevede infatti che il campo che ottiene la maggioranza dei voti nei consigli di distretto invii 117 rappresentanti nel Comitato Elettorale composto da 1.200 persone - in gran parte fedeli a Pechino - che nel 2022 nominerà il prossimo leader di Hong Kong.




Elezioni ad Hong Kong, trionfo dei democratici anti-Cina
25 novembre 2019

http://www.rainews.it/dl/rainews/artico ... 442fd.html

Nelle elezioni per i consigli distrettuali ad Hong Kong o schieramento democratico, che riunisce tutte le forze a favore del mantenimento dell'autonomia dell'ex colonia nell'ambito della formula "un Paese due sistemi", si è aggiudicato 388 seggi su 452, circa il 90 per cento. Un duro colpo al governo locale pro Pechino. Le forze pro-Pechino controlleranno ora solo un distretto dei 18 della città.
La tornata elettorale ha visto il record di affluenza alle urne, oltre 2,94 milioni di persone, per un totale del 71,2% degli aventi diritto.

Tra i vittoriosi, il candidato Ronald Tse Man-chak ha battuto il suo rivale pro-Cina, Wong Wai-kit, considerato uno dei favoriti alle ultime elezioni, per oltre 2 mila voti; Stanley Ho Wai-hong, che a settembre era stato aggredito da quattro uomini, ha vinto il seggio di Pak Sha Wan, mentre il controverso parlamentare filo-Pechino Junius Ho Kwan-yiu ha perso la rielezione per oltre mille voti.

Joshua Wong: l'Italia, il Papa e l'Ue ci aiutino
"La libertà non è qualcosa che si possa dare per scontato". E' questo l'ammonimento che indirizza all'Italia, in un'intervista all'AGI, l'attivista Joshua Wong, 23 anni, il più noto fra i leader delle proteste pro-democratiche in corso negli ultimi mesi a Hong Kong. Wong parla nel giorno delle consultazioni elettorali per il rinnovo dei Consigli distrettuali nell'ex colonia britannica, che rappresentano un test per misurare il consenso alle proteste la cui crescente violenza stravolge la quotidianità di Hong Kong da cinque mesi. Wong esprime una richiesta di intervento piu' deciso alla Ue, al Papa e all'Italia (dove sarebbe dovuto arrivare per un invito della Fondazione Feltrinelli questo mese, ma gli è stato negato il passaporto".

L'aggiornamento dell'inviato Ilario Piagnerelli

Pechino rinnova "appoggio risoluto" a Lam
La Cina rinnova il proprio "risoluto appoggio" alla leader di Hong Kong, Carrie Lam, dopo le elezioni per i consigli distrettuali, dove si sono affermati in stragrande maggioranza i candidati pro-democratici con tra quelli pro-establishment che la sostengono. "Il governo centrale sostiene con risolutezza la leadership del governo della Regione Amministrativa Speciale della capo esecutivo Carrie Lam ", ha dichiarato il portavoce del Ministero degli Esteri cinese, Geng Shuang in conferenza stampa."La risolutezza del governo cinese nel proteggere la sovranità nazionale, la sicurezza e gli interessi di sviluppo non ha vacillato", ha proseguito Geng, "e non ha vacillato la risolutezza a portare avanti il modello un Paese, due sistemi", con cui Pechino regola il proprio rapporto con Hong Kong, dopo il ritorno alla Cina dell'ex colonia britannica, nel 1997.

Situazione ancora tesa al Politecnico

Neo consiglieri: fermate l'assedio al Politecnico
Decine di consiglieri distrettuali di Hong Kong, appena eletti, hanno manifestato nel pomeriggio al Centenary Garden chiedendo alla polizia di rompere l'assedio ai manifestanti asserragliati nel politecnico da nove giorni. Michael Mo, che ha vinto il suo seggio a Tuen Mun, ha detto di essere stato sollecitato da migliaia di persone per attivarsi e spezzare la morsa delle forze dell'ordine e di consentire ai "nostri fratelli e sorelle" di lasciare il campus pacificamente.

Paul Zimmerman, confermato a Pokfulam, ha sollecitato il governo a "salvare i nostri ragazzi" prodigandosi per trovare una soluzione alle turbolenze attuali. Gary Fan, consigliere distrettuale di Sai Kung ha detto di aver avuto dalla polizia, secondo i media locali, il permesso di entrare nell'università con un piccolo gruppo di persone per appuntare il numero degli studenti e dei cittadini ancora nella struttura. un altro gruppo di consiglieri, invece, avrebbe raggiunto i palazzi del governo al fine di sollecitare lo stop immediato all'assedio.

Le Borse asiatiche chiudono in netto rialzo. Hong Kong +1,5%
Chiusura in netto rialzo per le Borse asiatiche dopo i segnali positivi che arrivano da Washington e Pechino sul fronte del negoziato commerciale. A Hong Kong l'indice Hang Seng avanza dell'1,5% a 26.993,04 punti mentre si profila la schiacciante vittoria dei candidati anti-governativi sui gruppi pro-Pechino. Sulla Cina continentale Shanghai guadagna lo 0,7% a 2,906.17. Positive anche le altre Borse in Asia, con il Nikkei 225 a Tokyo che mette a segno un +0,78%.
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Re: Russia, Europa, USA e Cina

Messaggioda Berto » dom dic 15, 2019 2:48 pm

Ecco il vero progetto geopolitico di Johnson
L'approfondimento di Polillo
15 dicembre 2019

https://www.startmag.it/mondo/ecco-qual ... bIodLs-S0c

Come si muoverà Boris Johnson dopo la netta vittoria il 12 dicembre alle elezioni nel Regno Unito. L’analisi di Gianfranco Polillo

Con il passare delle ore le ragioni della Brexit diventano più chiare. Elemento che spiega la netta vittoria di Boris Johnson. Il sapore di una svolta storica, che ricorda quella dei tempi lontani. Quando Winston Churchill mise fine ai patteggiamenti (il Trattato di Monaco) di Neville Chamberlain, preparandosi alla guerra contro il Terzo Reich. Oggi, per fortuna, le cose sono diverse. Ma vale sempre il vecchio argomento di Carl Von Clausewitz, secondo il quale, com’è noto, la guerra altro non era che “la continuazione della politica con altri mezzi”. Relazione, ovviamente, reversibile.

E che oggi il conflitto, seppure latente, sia una della componente fondamentale delle trasformazioni, che stanno intervento nei grandi equilibri mondiali, è fuori discussione. Alcuni dei grandi protagonisti passati, come la Russia, sono stati ridotti al rango di potenza regionale. Altri, come la Cina, sono divenuti i pivot del futuro equilibrio mondiale, in cui brillerà solo questa stella in competizione con gli Stati Uniti, al di là del Pacifico. Il resto, Europa compresa, ha solo una dimensione locale. Saranno, se va bene, la retrovia dei nuovi attori della grande politica. Ma poco di più.

In questa nuova complicata geopolitica, l’Eurozona è meno del tradizionale vaso di coccio, tra le due super potenze. La leadership tedesca ne condiziona gli sviluppi futuri. Non ha, a sua disposizione, quella potenza ed esperienza militare, senza la quale, è difficile contare nelle grandi dispute internazionali. La stessa Francia, che alcune di quelle qualità mantiene, non ha le risorse necessarie per poter rivendicare un suo primato. Deve quindi accodarsi e spendersi, come si è visto nell’abbattimento di Gheddafi, in Libia, solo per lucrare qualche piccolo tornaconto immediato. Ma per il resto è impotente, nonostante la sua “force de frappe”. Lo si vede chiaramente nelle difficoltà che incontra il suo presidente Emmanuel Macron.

E allora? La risposta è Global Britain: il manifesto lanciato lo scorso febbraio a Westminster, alla presenza dello stesso Johnson. Una “visione per il XXI secolo”, come recitava lo slogan della manifestazione. Progetto rischioso, ma tutt’altro che velleitario. L’idea è quella di dare voce politica, sotto l’egida dell’Union Jack, a Paesi che sono già una potenza economica, ma che non riescono ad incidere nei grandi equilibri mondiali. Paesi come il Canada, continenti come l’Australia, o il mondo del vecchio Commonwealth, con l’India in testa. Negli anni ‘70 palla al piede del vecchio impero britannico. Oggi realtà emergenti delle nuove élite mondiali. Ne sa qualcosa l’Italia alle prese con il caso Ilva.

Le basi materiali, come si diceva una volta, di questa strategia sono fornite dagli andamenti più recenti del ciclo economico inglese: sempre più simile, nel tracciato, a quanto avviene negli Stati Uniti, piuttosto che nell’Eurozona. Effetto di una reciproca attrazione: dovuta soprattutto dal prevalere della grande finanza e dei servizi sul resto dell’economia. Dopo la crisi del 2007 le distanze, in termini di tasso di sviluppo, tra la Gran Bretagna e l’Eurozona sono progressivamente cresciute. Alla fine di quest’anno, secondo le previsioni del Fondo monetario, la differenza sarà di oltre 7 punti base. Esattamente a metà strada tra il tasso di crescita cumulato negli Stati uniti e quello dell’Eurozona.

Nell’immaginario collettivo inglese si è fatta strada l’idea che il Vecchio continente abbia, ormai scelto di non crescere, da un punto di vista economico, dando priorità ad altre esigenze: il welfare, l’equità, l’ambiente. Temi evocati non solo nella tradizione italiana, dove forse l’enfasi riposta è anche maggiore. Per la verità, questo non è del tutto vero, dato che l’Europa a 27, a sua volta, cresce ad un ritmo maggiore del complesso dell’Eurozona. Ma si tratta di dettagli. In queste zone, del resto, la presenza tedesca è più strutturata, anche grazie ad una contiguità territoriale che genera una specie di protettorato economico. Il diverso grado di sviluppo complessivo di quelle aree, nonché l’oggettiva limitatezza di quei mercati rende la partita di scarso interesse, almeno per gli Inglesi.

Sarebbe, comunque, doveroso per Bruxelles un minimo di approfondimento. L’assenza di bardature burocratiche, più volte criticate, ha consentito a Londra di muoversi con maggiore scioltezza, superando i tabù dell’eccesso di rigore finanziario. Dal 2003 il suo deficit di bilancio è stato sempre superiore a quello dell’Eurozona. Contribuendo ad alimentare il deficit delle partite correnti della sua bilancia dei pagamenti. Che ancora nel 2019 presenterà uno sbilancio del 2,5 per cento, contro il 3,5 per cento degli Usa. Ed un surplus dell’Eurozona pari al 2,8 per cento del Pil. Inevitabili i riflessi sul rapporto debito/Pil: cresciuto ad un ritmo maggiore. Nel 2019 sarà pari all’85,6 per cento. Quasi uguale a quello dell’Eurozona (83,9, ma Londra partiva da una base molto più contenuta) ed ancora inferiore a quello degli Stati Uniti (106,5 per cento).

Nonostante ciò la sterlina negli ultimi 5 anni si è progressivamente rivalutata: di oltre il 13 per cento nei confronti dell’euro e del 15 per cento rispetto al dollaro. La dimostrazione che quando un Paese si garantisce un ritmo di crescita maggiore, i mercati sono disposti a chiudere entrambi gli occhi di fronte a dati finanziari non in linea con gli standard contabili dei Trattati europei. Ed è questo l’elemento che dovrebbe far riflettere un’Europa più che distratta, che si perde – com’era solito dire Boris Johnson, nelle sue istrioniche esternazioni – sul tema dei preservativi e della curvatura delle banane. Piuttosto che pensare ad alimentare il benessere della propria gente.
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Re: Russia, Europa, USA e Cina

Messaggioda Berto » sab gen 18, 2020 2:10 pm

Panoccidentalismo, una soluzione?
Caratteri Liberi
Davide Cavaliere
12 gennaio 2020

http://caratteriliberi.eu/2020/01/12/un ... KxKRtm12RQ

Le relazioni euro-americane sono da sempre oscillanti, con periodi di apertura e di chiusura, stagioni isolazioniste, periodi di intensi scambi intellettuali e reciproche diffidenze. I rapporti internazionali cambiano velocemente, ma l’America rimane, nella sua essenza, europea. Gli Stati Uniti sono stati fondati dai «bianchi» anglosassoni. I padri fondatori erano uomini impregnati di cultura romana e greca e di pensiero liberale. Thomas Jefferson conosceva anche l’italiano e leggeva Cesare Beccaria.

Il miglior illuminismo europeo è stato sublimato nella Dichiarazione d’indipendenza ratificata a Philadelphia. Dal passato romano dell’Europa gli americani hanno attinto a piene mani: architetture, effigi, motti, simboli. Gli Stati Uniti sono nati da una costola dell’Europa, come Eva da Adamo. Il paesaggio religioso dell’America è un mosaico di chiese e sette cristiane.

L’elemento ebraico che in Europa appassisce e muore, rimane dinamico in terra americana. Il giurista Jeremy A. Rabkin ha definito «greco-ebraica» l’America, che ha fatto proprio l’amore per libertà delle città-stato greche e l’idea ebraica di un popolo eletto che sia da esempio per le altre nazioni.

Gli Stati Uniti sono la punta estrema della civiltà occidentale, il loro destino è indissolubilmente legato al nostro e noi al loro. Ogni volta che le due sponde dell’Atlantico si sono allontanate, i due lembi della civiltà hanno perso qualcosa. Di contro, ogni collaborazione è stata feconda. Pur con le dovute differenze, Europa e America sono la civiltà occidentale greco-romana e giudaico-cristiana.

Il basamento sui cui poggiano è il medesimo e anche i nemici sono gli stessi. Entrambi i ventricoli del cuore occidentale sono oggi in declino, un declino che mette a rischio l’esistenza e l’unità degli occidentali. La forte immigrazione ispanica e il declino demografico dei «bianchi» mette a rischio il primato degli europei in America.

Il vecchio continente è minato da un virulento odio di sé e odia l’America perché vede in essa la condensazione di tutti gli aspetti peggiori della sua storia. Ai deliri della correttezza politica si somma la crescente presenza di immigrati musulmani. L’Europa rischia l’islamizzazione. Con il declino degli europei si interromperà ogni scambio intellettuale con l’America, che non sarà più sostanziata del rapporto con l’Europa.

Salvare l’Occidente e il suo primato è ancora possibile, basterebbe seguire il programma proposto dal politologo Alexandre Del Valle, un progetto chiamato «panoccidentalismo». Un asse «civilizzazionista», per usare il termine coniato da Daniel Pipes, che unisca Stati Uniti, Europa, Israele e Oceania. L’unione dovrebbe essere aperta anche alla Russia, a patto che interrompa le sue relazioni con cinesi, iraniani e siriani e si impegni in un reale processo di democratizzazione. L’attuale Unione Europea filoaraba dovrebbe essere smantellata a vantaggio di una collaborazione nei settori principali di interesse comune senza minare la sovranità degli Stati. Frenare lo sviluppo militare dei Paesi islamici e della Cina interrompendo l’esportazione di armi e tecnologie belliche. Troncare qualunque collaborazione scientifica con nazioni nemiche dell’Occidente; evitare qualunque operazione militare non strettamente vitale, ma sostenere gli oppositori laici e riformisti dell’Islam come propone Ayaan Hirsi Ali. Limitare al massimo l’immigrazione islamica, cinese e ispanica in Occidente e sostenere la nascita di uno Stato nazionale curdo.

Sotto il profilo culturale bisognerà vincere la colpevolizzazione e l’autorazzismo degli occidentali. La civiltà cristiana e laica ha sì commesse delle atrocità, ma non è la sola e, al tempo stesso, ha prodotto tesori inestimabili in tutti i campi del sapere. Riscoprire le radici spirituali e culturali di questa parte del mondo, l’anima classica e cristiana dell’Europa che innerva anche l’America.

Rigettare il sessantottismo e il marxismo culturale che hanno minato le basi della civiltà con un nichilismo autodistruttivo. Gli occidentali non possono abbandonare i valori che li accomunano. Oggi toccano con mano il degrado in cui sono sprofondati, sarà sufficientemente a smuoverli dal torpore? Ci auguriamo di sì.
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Re: Russia, Europa, USA e Cina

Messaggioda Berto » gio feb 06, 2020 10:45 am

Meno Kant, più Burke. L'"Ordine mondiale" secondo Henry Kissinger
Atlantico Quotidiano
Michele Marsonet
18 Gen 2020

http://www.atlanticoquotidiano.it/quoti ... M3A6l0rRR8

Quest’anno Henry Kissinger compie 97 anni. Non si direbbe leggendo il suo ponderoso libro “Ordine mondiale”, edito in Italia da Mondadori. Un volume che supera le 400 pagine, nel quale storia, geopolitica e filosofia della storia si mescolano in un dosaggio sapiente, frutto del resto della vastissima cultura del personaggio.

In effetti Kissinger non ha mai nascosto di considerarsi un accademico “prestato” alla politica. Pupillo di Nelson Rockfeller e segretario di Stato con Richard Nixon, ha senza alcun dubbio lasciato un’impronta indelebile nella politica estera e nella diplomazia americane del XX secolo. Tuttavia ha sempre sottolineato che, dal suo punto di vista, l’attività d’insegnamento e di ricerca svolta alla Harvard University per decenni è il lavoro che più ha amato, anche perché gli ha fornito le basi per impostare la sua condotta negli anni che lo videro protagonista sulla scena mondiale.

Qualcuno, forse un po’ malignamente, ha definito il libro di cui sopra come il suo “testamento”. Potrebbe essere così, vista l’età ormai veneranda. Ma, con lui, non si può mai dire. Dopo tutto abbiamo esempi di storici, letterati e filosofi che hanno continuato a scrivere sino alla soglia dei 100 anni. È un augurio, questo, poiché dalle sue pagine s’impara sempre qualcosa, prescindendo dalla simpatia o antipatia nei suoi confronti.

Il concetto di “ordine mondiale” è al centro degli interessi kissingeriani sin dagli albori della sua carriera accademica, quando si laureò a Harvard con una tesi di dottorato su Metternich e il Congresso di Vienna. Detto ordine non è però, a suo avviso, una condizione permanente del genere umano. Va piuttosto costruito con sagacia e pazienza con un abile gioco di do ut des, consci del fatto che, per ottenerlo, occorre fare concessioni tanto agli alleati quanto agli avversari. E, se l’operazione non riesce, è lecito attendersi la deflagrazione di un conflitto che potrebbe determinare la fine della civiltà.

L’alternativa all’ordine mondiale è ovviamente il disordine, giusto la situazione in cui ora ci troviamo. Come altri studiosi Kissinger è un nostalgico della Guerra Fredda, di quel periodo, cioè, in cui le due superpotenze Usa e Urss, pur in aperta e aspra contrapposizione ideologica e militare, riconoscevano che il ricorso alle armi atomiche avrebbe sancito il collasso di entrambe. Proprio per questo riuscirono a trovare un modus vivendi basato sul celebre equilibrio del terrore.

I conflitti, che pur c’erano, venivano confinati in ambito locale (basti pensare a Corea e Vietnam), senza lasciare che debordassero arrivando allo scontro diretto. Con questo l’ex segretario di Stato non esclude che un’unica superpotenza possa giungere a dominare il globo. Per farlo, tuttavia, deve possedere una superiorità militare così schiacciante da costringere gli avversari ad accettare la sua visione dell’ordine mondiale. Inutile aggiungere che, allo stato dei fatti, egli non considera plausibile tale eventualità.

Com’è noto Kissinger è un fautore del realismo politico o “realpolitik”. Per restare in ambito statunitense, giudica la politica estera americana dominata da due grandi correnti di pensiero. Da un lato, per l’appunto, il realismo politico, con principale esponente Theodore Roosevelt. Il realista si fa guidare nell’azione dagli interessi nazionali e dalle preoccupazioni di geostrategia. Dall’altro, l’idealismo politico, incarnato da Woodrow Wilson. L’idealista, al contrario, ritiene che la politica estera debba innanzitutto realizzare nella pratica una “missione morale”. Si deve inoltre notare che le due correnti appena citate sono presenti in entrambi i grandi partiti americani. È errato pensare che un repubblicano sia ipso facto realista e un democratico automaticamente idealista.

La predilezione kissingeriana per il realismo nasce dalla constatazione che, nella storia, ogni potenza dominante ha avuto bisogno della forza militare per imporsi, e senza eccezioni. Di qui le sue considerazioni pessimistiche sull’attuale Unione europea, nella quale “il processo di integrazione è stato gestito come un problema sostanzialmente burocratico di aumento di competenze dei vari organismi amministrativi europei”. I problemi economico-finanziari sono, in pratica, gli unici considerati degni d’attenzione a Bruxelles. La gestione della politica estera e, soprattutto, di quella militare è stata demandata pressoché in toto agli Stati Uniti. Ciò detto risulta difficile prevedere che la Ue possa giocare un ruolo di grande potenza autonoma nello scacchiere mondiale.

Ma nel libro lo sguardo si allarga necessariamente al contesto extraeuropeo. Interessanti le considerazioni sulla Cina che sta tentando in vari modi d’impostare un nuovo ordine mondiale diffondendo l’idea di una società gerarchica di marca confuciana. Per quanto riguarda la Russia Kissinger non nota grandi cambiamenti rispetto al periodo zarista. A cavallo tra Europa e Asia, questo Paese immenso e sottopopolato ha bisogno di mantenere una costante spinta espansiva per autodefinirsi quale nazione destinata a giocare un ruolo importante nella politica internazionale. Più carente, invece, l’analisi del mondo islamico del quale Kissinger sottolinea troppo l’unitarietà.

L’ex diplomatico vede ancora nella Pace di Vestfalia, negoziata in Europa nel XVII secolo, un modello insuperato e da imitare, con il suo sistema di pesi contrapposti che impediva a ognuna delle potenze di allora di prevalere in modo troppo netto sulle altre. Resta da capire, però, se un simile modello possa davvero funzionare anche ai giorni nostri, considerata l’entrata in scena di tanti nuovi attori e l’accorciamento delle distanze dovuto alla globalizzazione.

Kissinger è convinto che a un nuovo ordine mondiale si dovrà arrivare, per convinzione o costrizione, l’unica alternativa essendo il caos. Ed è convinto, altresì, che la “eccezionalità” degli Stati Uniti sarà confermata anche in futuro per la mancanza di concorrenti plausibili. Non manca però di invocare maggiore attenzione per le specificità culturali di Paesi che stanno acquistando un’importanza crescente nella “balance of power”. E, com’era lecito attendersi, non manca nemmeno la polemica – per quanto velata – contro l’idea di esportare ovunque la democrazia e contro l’approccio idealistico adottato, per esempio, nel caso delle primavere arabe.

Come notavo all’inizio, questo è anche un libro di filosofia della storia. Alcuni commentatori hanno rilevato nelle sue pagine l’influenza di Oswald Spengler e di Arnold Toynbee, autori peraltro studiati da Kissinger con molta attenzione in passato: “La celebrazione di principi universali – scrive nel capitolo conclusivo – deve accompagnarsi a un riconoscimento delle storie e delle culture di altre regioni”. Meno Kant, insomma, e più Edmund Burke (per citare un solo nome). Notevoli pure le frasi finali. Scrive infatti: “Molto tempo fa, in gioventù, ero tanto sconsiderato da credermi in grado di pronunciarmi sul ‘significato della storia’. Oggi so che il significato della storia è una cosa da scoprire, non da proclamare”. Non esistono dunque ricette infallibili né predizioni certe, nella storia come in ogni altro ambito dell’agire umano.



Pace di Vestfalia
https://it.wikipedia.org/wiki/Pace_di_Vestfalia
La pace di Vestfalia del 1648 pose fine alla cosiddetta guerra dei trent'anni, iniziata nel 1618, e alla guerra degli ottant'anni, tra la Spagna e le Province Unite. Si compone di tre trattati, di cui due firmati a Münster e uno a Osnabrück (ricordati, appunto, come trattato di Münster[1] e trattato di Osnabrück), entrambe città della Vestfalia. La pace venne poi completata con il trattato dei Pirenei, del 1659, che mise fine alle ostilità tra Spagna e Francia.

La Repubblica delle Sette Province Unite (Republiek der Zeven Verenigde Nederlanden /repyˈbli:k dər ˈzeˑɪ̯vən fər'ʔeˑɪ̯nɪɣdə ˈneˑɪ̯dərˌlɑndən/ in olandese; letteralmente «Repubblica dei Sette Paesi Bassi Uniti») fu la Repubblica esistente fra il 1581 e il 1795 nei territori che oggi costituiscono i Paesi Bassi.
https://it.wikipedia.org/wiki/Repubblic ... ince_Unite
Nell'epoca in cui questo Stato esisteva, in italiano era chiamato Repubblica delle Province Unite o semplicemente Province Unite. Altrove è indicata anche come Repubblica Olandese.






Edmund Burke, detto il Cicerone britannico (/ˈed.mənd bɜːk/; Dublino, 12 gennaio 1729 – Beaconsfield, 9 luglio 1797), è stato un politico, filosofo e scrittore britannico di origine irlandese, nonché uno dei principali precursori ideologici del Romanticismo inglese[2].

https://it.wikipedia.org/wiki/Edmund_Burke

Per più di vent'anni sedette alla Camera dei comuni come membro del partito Whig (i liberali), avversari dei Tories (conservatori). Viene ricordato soprattutto per il suo sostegno alle rivendicazioni delle colonie americane contro re Giorgio III, anche se si oppose alla loro indipendenza, controversia che condusse alla guerra d'indipendenza americana, nonché per la sua veemente opposizione alla Rivoluzione francese, espressa nelle Riflessioni sulla Rivoluzione in Francia. Il dibattito sulla rivoluzione rese Burke una delle figure principali della corrente conservatrice del partito Whig (che soprannominò Vecchi Whig) in opposizione ai Nuovi Whig filo-rivoluzionari, guidati da Charles James Fox.

La polemica di Burke sulla Rivoluzione francese stimolò il dibattito in Inghilterra. Ad esempio l'anglo-americano Thomas Paine rispose alle Riflessioni con I diritti dell'uomo mentre William Godwin scrisse l'Inchiesta sulla giustizia politica, condannando gli esiti sanguinosi della rivolta, ma senza ripudiare i principi che l'avevano ispirata, come fece invece Burke, che pubblicò anche opere filosofiche sull'estetica e fondò l'Annual Register.
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Re: Russia, Europa, USA e Cina

Messaggioda Berto » gio feb 06, 2020 10:45 am

Pechino e la spirale fuori controllo del debito
di Marcello Minenna*
14 Gennaio 2019
http://amp.ilsole24ore.com/pagina/AEweFFEH

Il debito totale della Cina in termini di PIL ha superato da tempo quello USA, anche se è ancora più basso di quello giapponese e dei principali Paesi europei. Si stima che sia il doppio rispetto alla media delle economie emergenti. Alimentato da un'infinita bolla speculativa immobiliare e da un sistema finanziario opaco, è quadruplicato rispetto al 2007 raggiungendo ad inizio 2018 la soglia del 317% del PIL. Si tratta prevalentemente di debito interno, anche se negli ultimi 2 anni ha pericolosamente preso abbrivio l'indebitamento in valuta estera, raddoppiato al 13% del PIL.

Il debito pubblico ha raggiunto la quota dell'50,2%, quello delle famiglie il 56,6% mentre il debito privato è al 207% del PIL. Rispetto ad altri Paesi, il livello del debito pubblico non è eccessivo ma la sua struttura presenta una prima caratterizzazione importante: infatti il debito governativo conta solo per il 32,4% del PIL, mentre quello delle amministrazioni locali per il 17,8%, un valore molto elevato. L'ammontare del debito privato è enorme, specie se valutato rispetto ad economie comparabili come gli USA (78%), il Giappone (103%) o la Corea del Sud (98%).

Per comprendere come i governi regionali ed il settore privato cinesi abbiano accumulato tanto debito in meno di un decennio è necessario indagare sui meccanismi di finanziamento a livello locale. I governi regionali cinesi sono costretti ad indebitarsi pesantemente ed in maniera continuativa; infatti nonostante siano responsabili dell'erogazione dei principali servizi pubblici (istruzione, sanità, trasporti), hanno perso nel tempo la capacità di tassazione per via di riforme che hanno favorito una progressiva centralizzazione fiscale. Pechino raccoglie oltre l'80% dei proventi fiscali e trasferisce risorse minime alle amministrazioni locali; il gap tra le spese ed il basso gettito fiscale è coperto attraverso il debito. In Cina l'accesso al credito, in analogia con l'Europa, è intermediato per 2/3 da un sistema bancario concentrato, che inoltre è a diretto controllo statale.

Qui il quadro inizia a complicarsi. I trasferimenti fiscali del governo centrale passano principalmente attraverso imprese private controllate al 100% dallo Stato (le c.d. SOE, State Owned Enterprises), responsabili di gran parte degli investimenti sulle infrastrutture e l'industria pesante. Si tratta di flussi finanziari notevoli: la quota di investimenti pubblici in Cina è intorno al 16 del PIL %, mentre si aggira intorno al 3-4% negli USA ed in Europa.

Le SOE possono indebitarsi a loro volta con il sistema bancario, e lo fanno a ritmo serrato. Secondo il Fondo Monetario Internazionale, le SOE hanno emesso metà del debito privato non finanziario (il 72% del PIL nel 2017) e sono responsabili di quasi tutto l'aumento di debito registrato dal 2008. In genere le SOE non investono in progetti in grado di generare profitto o in ricerca e sviluppo, secondo logiche di mercato, ma in base a scelte politiche e clientelari che hanno causato problemi di sovrapproduzione nei settori industriali tradizionali come energia ed acciaio. Restano comunque le principali fonti di occupazione e consenso politico a livello regionale. Le SOE sono detentrici inoltre di consistenti stock di ricchezza finanziaria, che in parte compensano gli alti livelli di indebitamento.

A valle del torrente di risorse finanziarie gestito dalle SOE si è sviluppato un ulteriore ecosistema di enti a controllo pubblico, i c.d. LGFV (Local Government Funding Vehicles), veicoli finanziari in grado di indebitarsi autonomamente. Lanciati dal governo centrale nel 2007 per stimolare gli investimenti nell'economia locale, questi enti dallo status giuridico ambiguo hanno avuto un enorme successo nell'intermediare un'enorme mole di risorse per via dell'opacità nella gestione che favorisce clientele e corruzione; nel 2017 avevano già emesso il 37% del debito totale cinese. I LGFB si sono indebitati con la banca centrale, il sistema bancario nazionale e con le stesse SOE, ad alti tassi di interesse senza alcun controllo. Il loro carattere semi-pubblico e la garanzia implicita del governo li hanno resi appetibili inoltre per hedge funds, fondi di private equity e sussidiarie bancarie sottratti alla vigilanza della banca centrale (il c.d. “shadow banking”), pronti a fornire ulteriore leva finanziaria ad enti già fortemente indebitati.

Dunque gran parte del debito privato cinese non è poi così “privato”, ma è riconducibile nel perimetro pubblico. Il reale settore privato cinese è composto principalmente da piccole e medie imprese che rappresentano il motore della crescita costituendo il 65% del PIL e l'80% delle fonti di occupazione. Il debito riconducibile alle PMI cinesi è in crescita assai più moderata, principalmente diretta verso il settore immobiliare.
Nel 2015 il governo centrale ha dovuto prendere atto che la gestione del debito locale stava finendo fuori controllo: ad oggi il 15% del credito totale all'economia è generato dallo shadow banking. Sono state varate riforme normative contro lo shadow banking, che hanno imposto forme di finanziamento più trasparenti alle SOE ed agli LGFB, come l'emissione di bond e reso più difficile l'accesso al credito non bancario. Tuttavia il governo centrale non ha posto tetti all'indebitamento degli enti per timore di inibire la crescita economica.
La conseguenza logica è stata quella di incentivare gli enti pubblici ad indebitarsi tramite altri canali, principalmente esteri. Dal 2015 il debito estero “privato”, per il 62% con scadenza inferiore ad 1 anno, è passato a 2 miliardi di $ (+110%) con un chiaro balzo in corrispondenza del varo delle nuove norme.
La crescita del debito estero aumenta le interconnessioni con i mercati globali e rende più difficile per Pechino stabilizzare l'economia nel caso di grave crisi bancaria. Negli anni '90 il governo è riuscito a contenere il dissesto delle prime 4 banche del Paese con poche ripercussioni sulla crescita; ora che un numero crescente di imprese cinesi è quotato su borse estere ed esposto alla speculazione internazionale, è lecito dubitare su quanto controllo Pechino potrà esercitare quando dovrà fronteggiare la prossima crisi.
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Re: Russia, Europa, USA e Cina

Messaggioda Berto » gio feb 06, 2020 10:46 am

Russia 2019: sindrome di Dorian Gray?
Luca Moneta
01 marzo 2019

https://www.ispionline.it/it/pubblicazi ... gray-22384

A distanza di quasi cinque anni dall’imposizione delle prime sanzioni economiche la situazione economico-finanziaria della Russia continua a sorprendere in positivo. Gli analisti e le stesse istituzioni russe, tra cui la Banca centrale, avevano rivisto al ribasso in corso d’anno le loro stime per il 2018 e si aspettavano una crescita del Pil tra l’1,5% e il 2%. I dati pubblicati da Rosstat a fine gennaio hanno sorpreso praticamente tutti indicando un’avanzata del 2,3% – l’incremento più sostenuto dal 2012 – anche se sul calcolo rimangono dei dubbi poiché i vertici dell’ente statistico sono stati sostituiti a fine anno.

Il 2,3% di crescita si accompagna in ogni caso alla robustezza economica del Paese: il debito pubblico rimane intorno al 15% del Pil, secondo i dati del FMI (un dato che potrebbe migliorare ulteriormente, poiché il FMI si era fermato a un +1,7% di crescita del Pil per il 2018). Il rapporto debito/Pil della Russia si mantiene tra i più bassi al mondo. Ripercorrendo rapidamente gli eventi: alla dissoluzione dell’Urss nel 1991, Mosca si è accollata i debiti delle Repubbliche ex-sovietiche; nel 1998 ha vissuto l’umiliazione del default sovrano e nel 1999 il debito ammontava al 92% del Pil; alla fine del 2018 la Russia rimane il Paese con l’indebitamento più basso tra le repubbliche ex-Urss, Estonia esclusa, e il 6° al mondo.



Questi risultati hanno favorito un miglioramento degli indicatori di rischio paese da parte di SACE. All’inizio di febbraio, peraltro, anche Moody’s ha elevato il rating sovrano russo a BBB-, in linea con Fitch e S&P, alla luce della stabilità del quadro-sanzioni e della conclusione controversa del caso Rusal, il cui esito si è rivelato controproducente, liberando di fatto l’oligarca che si voleva colpire da una serie di debiti e ampliando la presenza di banche finanziatrici nell’azionariato delle società coinvolte.

Accanto a quella che sotto diversi aspetti appare come la maggiore solidità economica post-sovietica, la Russia presenta però numerose vulnerabilità di carattere sociale e politico, che potrebbero far venire in mente il racconto di Dorian Gray, il personaggio di Oscar Wilde che, per mantenersi giovane e bellissimo, accumula rughe e storture in un ritratto nascosto in soffitta. E se il problema non fosse l’economia, ma la tenuta sociale e politica del Paese? Abbiamo individuato tre fattori concreti di rischio che pesano sul quadro più dell’incertezza relativa alle sanzioni e delle incognite sul prezzo del petrolio.

Primo, il consenso di Putin sta calando. Un primo campanello d’allarme è suonato dopo la riforma delle pensioni e il varo della legge di bilancio: il Cremlino non è riuscito ad attribuire ad altri la responsabilità della rottura del patto sociale, nonostante il potere delle cerchie vicine al Presidente stia crescendo. Forse sta arrivando il momento in cui più che il Presidente che cavalca l’orso (un celebre fotomontaggio diventato virale) è l’orso a gravare sulle sue spalle. Diversi gruppi industriali con a capo membri dell’entourage di Putin stanno espandendo il proprio raggio d’azione (ad esempio Rosneft) sia come braccio finanziario del Paese sia nell’ottica della successione. Il risultato di questa azione “personale” su imprese di importanza sistemica per il Paese, dalle risorse economiche agli aspetti di governance aziendale, accresce l’entropia interna e, per le imprese fornitrici, aumenta il rischio di inadempimento contrattuale.

Secondo, la crescita non è per tutti: la disuguaglianza in Russia era e rimane elevata. Secondo i dati del World Inequality Database (WID), la dissoluzione dell’Urss ha generato, come in molti altri Paesi, un notevole sbilanciamento delle entrate a vantaggio delle fasce più ricche della popolazione senza che vi fosse però un’efficace redistribuzione negli anni seguenti.




Anche rispetto a Paesi “simili” per solidità come il Kazakistan (rating S&P BBB- e rapporto debito/Pil al 18%) la distribuzione del reddito in Russia mostra uno squilibrio significativo. Anche il potere d’acquisto rimane limitato: ad esempio, ripagare un mutuo per l’acquisto di un trilocale in una zona popolare di Mosca può richiedere l’equivalente di 20-30 anni di stipendio medio di una famiglia residente nella capitale (circa il doppio di quanto serve a Milano). E fuori da Mosca il panorama è peggiore, come ha portato all’attenzione dell’opinione pubblica l'esplosione di Magnitogorsk, testimoniando il contrasto tra i nuovi quartieri della capitale e gli edifici vetusti dei sobborghi industriali. Il 68% degli intervistati in un recente sondaggio del Carnegie Moscow Center ritiene che non sia possibile diventare ricchi in Russia rimanendo onesti. Nella stessa indagine è emerso che a beneficiare delle privatizzazioni degli anni Novanta siano stati rispettivamente gli “oligarchi” e i funzionari pubblici per il 59% e il 35%. In questo senso, l’imposizione di sanzioni su specifici “oligarchi”, con effetti dannosi sull’economia nel suo insieme, potrebbe rafforzare questa avversione e incoraggiare il dissenso.



Terzo, ripartono le spinte centrifughe. Gli ultimi due anni hanno visto un forte accentramento su Mosca del potere politico, economico e militare: la limitazione delle autonomie speciali in Baschiria e Tatarstan; l’imposizione di candidati pre-approvati da Putin nelle elezioni governatoriali di settembre 2018 (bocciati in alcuni casi dal voto popolare); la ripresa dell’attività della Banca centrale nella soppressione e nel salvataggio degli istituti di credito in sofferenza e nel recente aumento dei tassi per calmierare l’inflazione; le dinamiche interne e di successione in diversi Paesi ex-sovietici o comunque legati a Mosca che hanno richiesto un impegno più corposo di Mosca (Ucraina, Siria e situazioni più remote o sfumate come Venezuela, Caucaso e Balcani); le esercitazioni militari a Oriente e le iniziative attese sul riarmo nucleare. È difficile stimare il costo complessivo di questo attivismo, ma una nuova fase “muscolare” del Cremlino potrebbe avere strascichi anche sul piano interno, magari ritrattando alcuni impegni nel segno del rigore o elargendo qualche concessione agli alleati.

Per anni abbiamo pensato che la stabilità politica fosse un punto di forza di Mosca e che le debolezze derivassero dal quadro economico e dall’incertezza relativa alle sanzioni: probabilmente è ancora così, tanto che le proposte di nuove restrizioni economiche non mancano su entrambi i lati dell’Atlantico e che gli investimenti richiesti, soprattutto esteri, per portare a termine una piena diversificazione economica sono ancora lontani dai livelli di altre economie in transizione.



Il retaggio del sistema di potere di Putin, la persistenza della disuguaglianza e i limiti delle proprie ambizioni globali potrebbero però rivelare una debolezza intrinseca, nota da tempo agli analisti, ma che forse i dati economici contribuiscono a tenere nascosta in soffitta. La sindrome di Dorian Gray potrebbe essere la vera preoccupazione della Russia nel 2019.



La sindrome di Dorian Gray è un insieme di sintomi tipici dei tempi moderni. Consiste nell’opporre resistenza di fronte all’invecchiamento e alla paura estrema che il corpo si deformi con il passare degli anni. Tale resistenza è considerata patologica nel momento in cui genera una serie di effetti negativi sul comportamento.
https://lamenteemeravigliosa.it/la-sind ... rian-gray/
Il nome di questa sindrome deriva dal famoso romanzo Il ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde. Il libro narra la storia di un uomo che vuole raggiungere l’eterna giovinezza. Le circostanze fanno sì che sia un suo ritratto, e non lui, a soffrire il processo d’invecchiamento.
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Re: Russia, Europa, USA e Cina

Messaggioda Berto » mar feb 18, 2020 8:15 pm

La Russia protesta contro le armi spaziali degli Stati Uniti
Andrea Massardo
18 febbraio 2020

https://it.insideover.com/guerra/la-rus ... Fge5sVGa20

La Russia non sembra particolarmente contenta del programma statunitense legato alle armi spaziali. Secondo i portavoce di Mosca, la mossa americana è una chiara sfida nei loro confronti, alla quale però Mosca non è intenzionata a rispondere. La nota del governo russo si riferisce al programma americano relativo al dispiegamento di armamenti al di fuori dell’atmosfera terrestre e che è stato interpretato dal Cremlino come una costante minaccia per il proprio Paese. Nonostante a riguardo gli Stati Uniti abbiano sempre proceduto con cautela.

La nuova corsa agli armamenti

Le tensioni provocate dalla delicata questione rimanda ancora una volta alla nuova stagione di corsa agli armamenti che sta interessando le potenze mondiali: con Stati Uniti, Russia e Cina in prima linea nella modernizzazione della propria Difesa. In questa situazione, le continue conquiste degli avversari obbligano i concorrenti ad alzare ancora più in alto l’asticella, per evitare di essere colti impreparati nell’eventualità di uno scoppio di un conflitto. Ecco che, proprio in virtù di questa condotta, al dispiegamento di testate nucleari a basso rendimento da parte di Washington succedono test anti-balistici da parte di Mosca, volti a prevenire l’ipotesi di un bombardamento nucleare.

La corsa agli armamenti porta però appresso una serie non secondaria di pericoli e soprattutto di crisi economiche interne dovute al dirottamento di fondi verso gli apparati militari. Senza dover necessariamente estremizzare il discorso alle condotte di Paesi come India e Pakistan – ottimo esempio di sperequazione di denaro a scopi militari – risulta evidente come un’eccessiva spesa per il comparto militare provochi una carenza di fondi da destinare alla comunità: col risultato inoltre di un sovra-indebitamento delle Nazioni.

L’obiettivo è sfiancare il nemico

Uno dei principali scopi della corsa agli armamenti e dei continui rilanci tecnologici è proprio quello di arrivare, alla lunga, a sfiancare il proprio avversario, indebolendo la sua economia e portandolo al punto di non riuscire più a competere in termini militari. A ragion veduta, le continue mosse di Washington sembrano proprio essere una sfida a distanza a Mosca, rinata dopo gli anni bui della dissoluzione sovietica e che gli Stati Uniti vogliono nuovamente sottoporre ad uno stress test per valutare le sue reali capacità competitive. I prossimi mesi segneranno una nuova serie di sfide al rialzo tra i due Paesi, che evidenzieranno fino a che punto possono spingersi le rispettive forze militari.

Il nuovo volto delle potenze mondiali

La stagione di aggiornamenti delle strumentazioni militari è destinata a cambiare il volto stesso delle grandi potenze militari, che necessiteranno ancora meno della presenza umana a favore di una maggiore automazione dei processi. L’esempio lampante sono i nuovi sistemi di difesa russi, che possono essere lanciati da basi autonome o da velivoli Mig, senza la necessità di un controllo da remoto. Grazie a queste migliorie, realisticamente, si assisterà ad un minore dispiegamento diretto di unità nelle zone più calde del pianeta, limitando anche l’impatto psicologico che attualmente determinano nella popolazione locale. Tuttavia, gli standard di sicurezza verrebbero comunque garantiti da strumentazioni intelligenti in grado di intervenire all’occorrenza e, in caso di necessità, controllati da remoto.

I rischi della corsa alle armi

Nonostante per loro stessa natura le implementazioni militari abbiano spesso lo scopo più di deterrente che di reale minaccia offensiva, un nuovo aumento delle strumentazioni balistiche rischia di aumentare le già crescenti tensioni internazionali: soprattutto da parte dei Paesi militarmente più deboli. Mentre infatti Russia e Stati Uniti, nonostante i proclami e le accuse reciproche, si sentono relativamente in una botte di ferro, lo stesso non si può dire di quei Paesi che nonostante possiedano armi balistiche non sarebbero in grado di competere con la potenza di fuoco avversaria; come per esempio i Paesi mediorientali. In uno scenario del genere, infatti, il sentimento di paura dettato dalla minore protezione potrebbe spingere a fare la prima mossa, dando inizio ad un possibile conflitto balistico; evidenziando come una grande potenza di fuoco dispiegata possa essere più pericolosa di un attacco diretto.
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Re: Russia, Europa, USA e Cina

Messaggioda Berto » gio feb 20, 2020 10:37 pm

La conferenza sulla sicurezza di Monaco ha sancito la fine della Nato?
Paolo Mauri
20 febbraio 2020

https://it.insideover.com/politica/la-c ... dBwbIb10a8

Tra il 14 ed il 16 febbraio a Monaco si è tenuta la 56esima Conferenza sulla Sicurezza che ha riunito oltre trenta capi di Stato e di governo e quasi cento ministri tra cui il presidente francese Emmanuel Macron, il ministro della Difesa tedesco Annegret Kramp-Karrenbauer, il segretario di Stato americano Mike Pompeo, il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov, il ministro degli Esteri cinese Wang Yi, il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg ed il fondatore di Facebook Mark Zuckerberg.

Il tema principale della conferenza di quest’anno, oltre le tematiche sui cambiamenti climatici, sulla recente emergenza “Coronavirus” e sui rapporti con la Cina, è stato la situazione dell’Occidente e la sensazione di aumentare la “westlessness”, termine coniato dal rapporto sulla sicurezza presentato durante l’evento che descrive un Occidente diviso al suo interno e guidato da forze illiberali, che sta perdendo sempre più le sue aspirazioni politiche globali.

Proprio la sensazione della fine dell’unità di intenti dell’Occidente è stata la chiave di lettura dei numerosi interventi che hanno avuto al loro fulcro il tema dell’utilità o meno della Nato ed in particolare la sua reale efficacia nel garantire gli interessi dei Paesi che ne prendono parte.

I partner transatlantici erano chiaramente divisi sullo stato dell’Occidente e sull’entità della sua crisi. Ad esempio, i partecipanti europei non sembrano condividere l’opinione del segretario di Stato americano Mike Pompeo, che ha visto i valori occidentali nella marcia trionfale e ha dato l’impressione che le differenze transatlantiche di opinione fossero al massimo una questione di sfumature. “Sono felice di riferire che la morte dell’Alleanza transatlantica è stata grossolanamente esagerata. L’Occidente sta vincendo, e stiamo vincendo insieme” ha detto Pompeo durante il suo intervento, e rispondendo alle accuse di chi ha sostenuto che gli Stati Uniti sembrano rifiutare di prendere le decisioni in un consesso internazionale ha risposto “abbiamo guidato 81 nazioni nella lotta contro il califfato dell’Isis. È forse questa un’America che rifiuta la comunità internazionale?”.


I dubbi dell’Europa disunita

Il segretario di Stato stava rispondendo, in particolare, ai dubbi espressi da Frank-Walter Steinmeier, presidente tedesco, che ha espressamente detto che gli Stati Uniti hanno più volte dimostrato di rifiutare la stessa idea di “comunità internazionale” agendo “a discapito di partner e alleati”.

Steinmeier si pone nel solco della frattura creata da Berlino già da qualche anno, ed in particolare dall’anno scorso, quando lo stesso cancelliere Angela Merkel si era scagliata contro il bilateralismo della Casa Bianca e a favore di una politica più multilaterale, soprattutto in seno alla Nato. I rapporti tra Germania e Stati Uniti, del resto, non sono mai stati così critici come in questi anni, con Washington che accusa Berlino di spendere troppo poco per la difesa collettiva della Nato – il famoso 2% del Pil fissato in Galles nel 2014 – ed in particolare di indirizzare i propri investimenti (pochi a dire il vero) in sistemi d’arma europei o comunque non made in Usa: mossa imperdonabile per la Casa Bianca.

Recentemente, infatti, lo stesso ambasciatore americano in Germania, Richard Grenell – trumpiano di ferro e che era tra i papabili alla carica di consigliere per la sicurezza nazionale – ha avuto modo di dire che che “è davvero offensivo dare per scontato che i contribuenti americani debbano continuare a farsi carico dei 50mila e più militari americani in Germania, mentre i tedeschi spendono il loro avanzo di bilancio su programmi nazionali”. Solo l’ultimo tassello dell’ostilità di Washington verso Berlino cominciata coi dazi su acciaio e alluminio e continuata con la dura opposizione al Nord Stream 2, il gasdotto che raddoppierà la linea che collega la Russia all’Europa Centrale attraverso la Germania.

Nello stesso periodo c’era anche stata l’approvazione, al Senato Usa, di un provvedimento che punisce quelle compagnie che intendano fornire aiuto a Gazprom, la compagnia di Stato russa leader nel settore idrocarburi, per la costruzione del gasdotto incriminato. Solo l’ultimo provvedimento di Washington per cercare di limitare l’afflusso del gas russo in Europa e così poterlo sostituire con il proprio gas di scisto (gas shale), il cui surplus di produzione, insieme ad un mercato dei prezzi “drogato”, provocherà l’esplosione di una nuova “bolla finanziaria” qualora non venisse largamente commercializzato.

La Germania però non sembra affatto essere candidata a guidare il fronte di una opposizione agli Stati Uniti, anzi, sembra che lamenti l’assenza di Washington dal continente europeo, ma sarebbe meglio dire dall’Europa Centrale: già da tempo, infatti, le truppe americane hanno “abbandonato” gli acquartieramenti in Germania, Belgio e Olanda per essere ridispiegate più a oriente, ovvero in quegli Stati che temono di più il risorgere della potenza militare russa: Polonia, Paesi Baltici, Romania, Ungheria, Repubblica Ceca hanno visto confluire la maggior parte dei fondi stanziati per il Dipartimento della Difesa nel quadro del programma Edi (European Deterrence Initiative). Tali fondo ammontavano, per l’anno fiscale 2019, a più di 6,5 miliardi di dollari, ovvero 2,2 miliardi in più rispetto all’anno precedente e quasi il doppio rispetto al 2017, anno in cui la spesa ammontava a circa 3,4 miliardi.

Tale pioggia di dollari è andata per il miglioramento di infrastrutture già esistenti in Europa Orientale, che vedono aumentata la loro capacità di accogliere le varie unità militari americane, siano essere divisioni di fanteria o stormi di aerei da caccia, ma soprattutto, nel quadro del European Contingency Air Operation Sets (Ecaos), è stato creato il concetto di Sistema di Base Aerea Dispiegabile (Dabs – Deployable Air Base System).

L’Us Air Force sarà così in grado di raggruppare equipaggiamenti come alloggi, sistemi di rifornimento, veicoli, scorte alimentari e d’acqua, parti di ricambio per velivoli e sistemi di sicurezza in un vero e proprio pacchetto base da spedire ove più necessario. E’ previsto anche il preposizionamento di altri sistemi lungo l’Europa che includono sensori meteorologici, reti di comunicazione e cibernetiche.

Tale interesse americano per l’Europa dell’Est ha ovviamente smosso le coscienze dei politici tedeschi che dimostrano di non avere una linea univoca: il ministro degli Esteri Heiko Maas ha infatti dimostrato di voler smorzare i toni proprio durante la conferenza di Monaco affermando che “credo sia un errore mettere l’Europa contro gli Stati Uniti. Siamo in un’alleanza per la sicurezza che funziona, la Nato, ma ci vogliono riforme e ne stiamo discutendo. Vogliamo incrementare il lato europeo dell’Alleanza e per farlo dobbiamo avere il consenso dell’Europa”.

Un sentimento ambiguo, quello tedesco, che è forse più dettato dalla decisione americana di spostare il fulcro della Nato a oriente abbandonando la Germania piuttosto che da un vero anelito di “indipendentismo europeo”. Del resto lo scenario globale, che Berlino, ma anche Parigi vorrebbe guidato dal multilateralismo, è preoccupante come ha avuto modo di dire il ministro della Difesa Annegret Kramp-Karrenbauer. Il ministro ha espressamente riferito che l’Occidente e i suoi ideali sono stati sfidati ed occorre essere “meglio coordinati a livello internazionale” oltre che essere in grado di “seguire in nostri interessi restando in corsa, anche quando il gioco si fa duro”.

La Germania non è stata l’unica, a Monaco, ad aver espresso dubbi sull’utilità ed efficacia della Nato allo stato attuale e dei valori dell’Occidente. Anche la Francia, per bocca dello stesso presidente Macron, ha affermato che c’è grande preoccupazione per il conflitto in seno all’Occidente e per la percezione che l’Occidente sia sempre più incapace di plasmare l’ordine internazionale. Aggiungendo anche che l’Europa ha una percezione delle minacce da parte della Cina che é significativamente diversa rispetto a quella dei rappresentanti degli Stati Uniti.

“Ciò che vuole l’Europa non è la stessa cosa che vogliono gli Stati Uniti” ha detto il presidente francese, sottolineando che questo atteggiamento vale per tutti i principali teatri di crisi a livello mondiale: i rapporti con la Cina (e la questione 5G), con la Russia, l’embargo contro l’Iran, la crisi in Siria.

Macron ha anche avvisato che l’Europa ha bisogno di investire più massicciamente nella sua economia proprio citando la questione della rete 5G. “Abbiamo bisogno di agire in fretta a livello europeo” ha detto “e come possiamo investire velocemente? Con iniziative europee”. Parole che forse non sono state digerite del tutto dai rappresentanti americani, sempre pronti a chiedere maggiori investimenti all’Europa ma solo se si tratta di indirizzarli oltre Atlantico.

Il presidente francese in questo senso è stato oltremodo chiaro: “la Cina sta investendo un’enorme quantità di soldi pubblici. Sta investendo nel suo futuro e allo stesso modo fanno gli Stati Uniti. Noi non siamo veloci abbastanza”. Macron quindi lancia un monito verso l’Europa ma non solo: sottolineare la crescita cinese significa dire a Washington che la politica di “ritiro” da alcuni fronti e il ripensamento dei rapporti con l’Europa sta portando ad un indebolimento dell’Occidente.

Si capisce quindi perché la Francia abbia proposto all’Europa, ormai slegata da ogni catena che il Regno Unito le imponeva in merito alla politica militare e industriale, di offrirle il suo “ombrello nucleare” offerto dalla Force de Frappe. Proposta che non piace a nessuno a cominciare proprio dai massimi vertici della Nato, Stoltenberg in testa, ma nemmeno all’altro gigante europeo che dovrebbe andare a braccetto di Parigi: la Germania.

Ancora il ministro della Difesa Kramp-Karrenbauer si è dimostrata cauta in merito alla proposta francese, dicendo che non è il caso di minare l’ombrello nucleare americano. “Voglio insistere sul fatto che la protezione di moltissimi Paesi europei è garantita dalla Nato e dall’ombrello nucleare americano” ha detto, aggiungendo che “se dobbiamo rinforzare la difesa dell’Europa lo dobbiamo fare in seno alla Nato”. Parole che sembrano mettere fine alle velleità indipendentiste francesi e che dimostrano una volta di più come la Germania, in realtà, si senta abbandonata dagli Stati Uniti e preferisca un loro rientro attivo piuttosto che imboccare una strada solitaria.


La Nato è quindi archiviata?

Nonostante, come ebbe a dire uno degli storici segretari generali dell’Alleanza Atlantica, Lord Hastings Lionel Ismay, lo scopo della Nato è di tenere dentro gli americani, fuori i russi e sotto i tedeschi” sono proprio i tedeschi ad averne bisogno ed in particolare a sentire il bisogno della presenza americana in Europa ed in particolare sul loro territorio. Che sia per continuare a investire economicamente in quel surplus commerciale che fa (momentaneamente) la loro fortuna, che sia perché la situazione delle Forze Armate è pressoché disastrosa, Berlino non sembra voler seguire Parigi nel suo tentativo di dare una dimensione più europea alla Difesa del Vecchio Continente.

Monaco, che poteva essere occasione di un ridimensionamento o reindirizzamento della Nato, in realtà ha solo dimostrato che l’Europa, o meglio la Germania e la Francia, è divisa nelle visioni strategiche. Uno dei presupposti per la nascita di una difesa europea, ovvero la deterrenza atomica, non può essere messo in atto senza Washington. La proposta francese di condividere l’ombrello atomico della Force de Frappe, appare ambigua e sembra configurarsi più come un tentativo di Parigi di condividerne gli immensi costi di gestione. Gestione che comunque farebbe capo, da ultimo, esclusivamente all’Eliseo e non al Bundestag, quindi figuriamoci alle altre cancellerie europee.

L’Europa, intesa come reale unione dei Paesi dell’Ue, brilla ancora una volta per la sua assenza in ambito decisionale e pertanto non resta che continuare ad accomodarsi all’interno della Nato, anche per cercare di rintuzzare le velleità franco-tedesche di egemonia che si è già realizzata in diversi ambiti, tra cui proprio quello militare.

La stessa richiesta americana di raggiungere il 2% del Pil per la Difesa, se ottemperata dalla Germania, ad esempio, la proietterebbe a diventare egemone in Europa nel campo dei programmi militari, surclassando quasi sicuramente anche la Francia con la quale ha comunque stipulato importanti trattati di cooperazione. Siamo davvero sicuri di volere una Germania così forte in Europa stante le divergenze di visione strategica che ha dimostrato nei confronti dell’Italia e di altri Paesi “Mediterranei”? Non è sbagliato forse ritenere che vada messo un tetto alle spese militari slegato da una mera percentuale rispetto al Pil.
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Re: Russia, Europa, USA e Cina

Messaggioda Berto » dom mag 24, 2020 8:15 pm

La stretta di Pechino su Hong Kong: il regime non può permettersi "due sistemi". Una sfida anche per l'Occidente
Atlantico Quotidiano
Michele Marsonet
23 Mag 2020

http://www.atlanticoquotidiano.it/quoti ... occidente/

Sono in corso, a Pechino, i lavori dell’Assemblea Nazionale del Popolo. Quest’ultima, assieme alla Conferenza Politica Consultiva del Popolo, forma il Lianghui, termine il cui significato è “doppia sessione”.

Nonostante i nomi altisonanti e il continuo ricorso al termine “popolo”, i due organismi in realtà riflettono il completo dominio politico che il Partito comunista esercita sulla società dell’immenso Paese asiatico. Dominio che non è mai venuto meno, neanche dopo le riforme economiche introdotte da Deng Xiaoping a partire dai tardi anni ’70 del secolo scorso, e miranti – almeno in teoria – a contemperare l’economia pianificata con prudenti aperture al mercato e all’iniziativa privata.

Da allora la Cina è cambiata moltissimo, divenendo nel corso di alcuni decenni una potenza mondiale a tutti i livelli, in particolare in economia, nella politica internazionale e sul piano militare.

Tuttavia Deng e i suoi seguaci rifiutarono decisamente di seguire la strada di Gorbaciov. A loro avviso l’ultimo segretario del PCUS commise un errore fondamentale attenuando in più modi il controllo del Partito comunista sulla società. Intrapresero quindi un sentiero diverso lasciando sì spazio all’arricchimento privato ma, al contempo, chiarendo senza ombra di dubbio che soltanto al partito spettava la direzione esclusiva del Paese.

Ne è derivato lo strano “socialismo di mercato” tuttora al potere nella RPC. E, dicendo potere si intende un potere assoluto, giustificato dai testi classici del marxismo-leninismo con alcune modifiche derivanti dalle idee di Mao Zedong.

L’Assemblea e la Conferenza citate all’inizio rappresentano al meglio la declinazione concreta di tale potere. La Conferenza è ufficialmente “consultiva”, ma tale è anche la più importante Assemblea Nazionale, formata da tre mila membri. Entrambe salvano – per così dire – la democrazia dal punto di vista formale poiché i rappresentanti sono eletti, fermo restando che l’elezione è strettamente controllata da un partito unico al quale nulla sfugge. Non mancano – come accadeva nell’URSS e nei suoi Paesi satelliti – formazioni politiche dal nome diverso; le quali, però, seguono fedelmente la linea dettata a Pechino dal Politburo.

Ciò nonostante gli osservatori internazionali seguono sempre con molta attenzione i lavori dei due organismi poiché, da un’attenta lettura di discussioni e documenti, è spesso possibile cogliere sia degli indizi di disaccordo sia l’emergere di nuove tendenze politiche.

Nell’ultima sessione (2016), a causa dei segnali di crisi manifestati dall’economia, la leadership aveva ridotto il budget della difesa facendolo crescere “soltanto” del 7,6 per cento a fronte del 10,1 per cento degli anni precedenti. Si tratta comunque di cifre enormi, ma i militari non avevano mancato di far trapelare una certa preoccupazione tradottasi in brontolii di vario tipo. Come può la Cina rafforzare il suo ruolo di potenza globale se gli stanziamenti per esercito, marina e aviazione vengono tagliati? La risposta del partito fu che i militari “devono farsene una ragione”, poiché solo la leadership è in grado di cogliere il quadro complessivo.

Quest’anno i delegati affrontano uno scenario assai mutato, soprattutto a causa della pandemia di coronavirus le cui conseguenze per l’economia sono assai pesanti, anche se la censura impedisce di capire fino a che punto. Più che del Pil, che è comunque in forte discesa, devono occuparsi della politica internazionale che l’approccio di Donald Trump ha in pratica rivoluzionato.

Bisogna in primo luogo notare che il Partito comunista non può cedere su alcuno dei molti fronti aperti. Ecco quindi una stretta clamorosa su Hong Kong, dove Xi Jinping e il suo gruppo dirigente sono intenzionati a fare sul serio. Alla città-isola verrà applicata la stessa politica di sicurezza nazionale vigente in Cina. Basta dunque con una stampa ancora relativamente indipendente e basta con le manifestazioni di massa, che verranno represse ancor più duramente, magari con l’intervento diretto dell’Esercito Popolare.

Ma l’approccio è sempre più minaccioso anche nei confronti di Taiwan, Stato indipendente che Pechino considera soltanto una sua provincia. Non a caso si è ricominciato a parlare di invasione militare dell’isola per farla finita una volta per tutte con la presidente indipendentista Tsai Ing-wen, riconfermata dai cittadini taiwanesi a larghissima maggioranza.

Dunque Xi Jinping, presentatosi ai lavori dell’assemblea senza mascherina protettiva, sembra intenzionato ad andare fino in fondo. La repressione a Hong Kong – ma anche nel Tibet e nello Xinjiang degli uiguri – promette di essere feroce, e gli oppositori sono destinati a entrare nei tanti Laogai, i “campi di rieducazione” sparsi nel Paese.

Il fatto è che il Partito comunista non può cambiare perché non ammette alternative di sorta al suo potere assoluto e, come già notato in precedenza, Xi Jinping non vuole fare la fine di Gorbaciov. Quando la Repubblica Popolare fu ammessa nel WTO (Organizzazione Mondiale del Commercio) l’11 dicembre 2001, il mondo occidentale si illuse che quella fosse la mossa giusta per favorire la democratizzazione del Dragone.

Non è stato così, e la globalizzazione “cinese” lo ha ampiamente dimostrato. La Repubblica Popolare pone una sfida di enorme portata alla liberal-democrazia e a un Occidente che mai è parso così diviso e distratto. Si tratta di capire se a tale sfida saprà rispondere in modo adeguato su ogni piano: politico, economico e militare.




Hong Kong, polizia stronca manifestazione contro la Cina
Federico Garau - Dom, 24/05/2020

https://www.ilgiornale.it/news/mondo/ho ... 65326.html

Oltre 150 arresti, tra cui anche quello del vicepresidente del People Power Tam Tak-Chi: agenti in tenuta antisommossa utilizzano spray urticante, cannoni d'acqua e lacrimogeni sulla folla pacifica che intona slogan contro la Legge sulla sicurezza nazionale

Non accennano a placarsi le proteste esplose ad Hong Kong a seguito della annunciata approvazione da parte del governo centrale di Pechino della cosiddetta "Legge sulla sicurezza nazionale", fortemente osteggiata invece dagli abitanti della ex colonia britannica.

La norma, che già in passato si era tentato di far passare salvo poi rinunciare dopo le forti rimostranze dei cittadini, viene quindi riproposta, anche se i tempi di approvazione ancora non sono certi. Di sicura c'è solo l'intenzione da parte del governo cinese di porre fine una volta per tutte sulle proteste e accelerare la sua stretta sui sogni di autonomia di Hong Kong. Approvando una legge che, come annunciato dal ministro degli Esteri Wang Yi, è una norma che"va approvata senza il minimo ritardo" .

La Cina tenta dunque di aumentare il suo controllo su Hong Kong, con l'adozione di leggi che vietino e puniscano ogni atto di tradimento, secessione o sovversione contro il governo centrale e che limitino interferenze straniere da parte di organizzazioni o attività politiche di qualunque genere.

La minaccia all'autonomia di Hong Kong ha dunque portato a una nuova ondata di proteste, la prima dopo la riapertura del paese in seguito all'emergenza sanitaria dovuta al coronavirus. A darsi appuntamento per dar vita ad una manifestazione non autorizzata, finalizzata alla richiesta di ritiro della proposta di Legge sulla sicurezza nazionale, numerosi cittadini. Luoghi di ritrovo, fissati sui social network, il Southorn Playground a Wanchai ed il centro commerciale Sogo a Causeway Bay. Intorno alle ore 13 locali, i manifestanti hanno dato avvio alle proteste, venendo immediatamente raggiunti e fronteggiati dalle forze di polizia. Giunti direttamente in tenuta antisommossa, come riportato dai media nazionali, gli agenti hanno utilizzato gas lacrimogeni, spray urticanti e cannoni ad acqua per disperdere gli attivisti. Oltre 150 sarebbero finiti in manette, e tra di essi anche il vicepresidente del People Power Tam Tak-Chi.

"Stare con Hong Kong", "Niente rivoltosi, solo tirannia", e "Rivoluzione dei nostri tempi", questi alcuni degli slogan scanditi dai manifestanti. "Dato che la Cina sta violando e riscrivendo le regole stabilite da un trattato internazionale su Hong Kong chiedo all'Unione europea di imporre sanzioni a Pechino e di inserire clausole legate al rispetto dei diritti umani. Spero che l'Italia possa ridurre la sua partecipazione al progetto della Via della Seta ", si auspica il leader Joshua Wong rivolgendo un appello all'occidente, come riportato da Agi. "Poiché l'Italia è una delle maggiori economie europee ad aver partecipato all'iniziativa della Via della Seta, non è sicuro che la Cina rispetti i suoi impegni e le promesse fatte nell'ambito degli accordi commerciali. È anche da discutere la possibilità che l'Italia consideri la Cina responsabile per i suoi errori", conclude.



L’atteggiamento cinese nei confronti di Hong Kong mostra la fine della superiorità statunitense
Markus
24 Maggio 2020

https://comedonchisciotte.org/latteggia ... tunitense/

Incolpare la Cina per la pandemia del Covid-19 è una menzogna. Ma gli Stati Uniti continueranno a farlo come parte della loro più ampia strategia anti-cinese.

Mentre gli Stati Uniti sono impegnati a contrastare l’epidemia a casa loro, la Cina l’ha già sconfitta all’interno dei propri confini. Ora utilizza la sua posizione di vantaggio per rimuovere un problema che gli Stati Uniti usavano da tempo per infastidirla. Hong Kong sarà finalmente liberata dai razzisti travestiti da liberali sostenuti dagli Stati Uniti.

Alla fine del 1984, la Gran Bretagna e la Cina avevano firmato un accordo formale che prevedeva, per il 1997, il passaggio alla Cina della colonia britannica di Hong Kong. La Gran Bretagna aveva dovuto accettare il patto perché aveva perso la capacità di difendere la colonia. La dichiarazione congiunta sino-britannica stabiliva che la Cina avrebbe promulgato una legge formale che avrebbe consentito ad Hong Kong di autogovernarsi in larga misura.

La “Legge Formale della Regione Amministrativa Speciale di Hong Kong della Repubblica Popolare Cinese” è, di fatto, la costituzione della Regione Amministrativa Speciale di Hong Kong. Ma è anche una legge nazionale della Cina, adottata dal Congresso Nazionale del Popolo Cinese nel 1990 e introdotta ad Hong Kong nel 1997, al termine del dominio britannico. Se necessario, la legge può essere modificata.

Il paragrafo II della Legge Formale regola le relazioni tra le autorità centrali e la Regione Amministrativa Speciale di Hong Kong. Secondo l’articolo 23 della Legge Formale, Hong Kong avrebbe dovuto attuare alcune misure di sicurezza interna:

La Regione Amministrativa Speciale di Hong Kong emanerà leggi proprie per vietare qualsiasi atto di tradimento, secessione, sedizione, sovversione contro il governo centrale del popolo o furto di segreti statali; per vietare alle organizzazioni o agli organi politici stranieri di svolgere attività politiche nella regione e per vietare alle organizzazioni o agli organi politici della regione di stabilire legami con organizzazioni o organismi politici stranieri.

Hong Kong non è riuscita a varare nessuna delle leggi richieste dall’articolo 23. Ogni volta che il suo governo ha cercato di applicare, anche parzialmente, tali leggi, nel 2003, 2014 e 2019, le proteste e le rivolte su larga scala nelle strade di Hong Kong lo hanno sempre impedito.

La Cina è sempre stata preoccupata per i disordini ad Hong Kong fomentati dall’estero, ma non aveva sollevato il problema perchè dipendeva ancora da Hong Kong per l’accesso ai capitali e ai mercati.

Nel 2000, il PIL di Hong Kong ammontava a 171 miliardi di dollari, mentre quello cinese era solo 7 volte più grande, 1.200 miliardi. L’anno scorso il PIL di Hong Kong è quasi raddoppiato, passando a 365 miliardi. Ma il PIL cinese è cresciuto di oltre dieci volte, fino ad arrivare a 14.200 miliardi, quasi 40 volte quello di Hong Kong. A parità di potere d’acquisto, la divergenza è ancora maggiore. Come sbocco economico della Cina, Hong Kong ha perso molta della sua importanza.

Un altro fattore che tratteneva la Cina dall’occuparsi in modo più attivo di Hong Kong era la sua preoccupazione per le conseguenze negative da parte di Stati Uniti e Gran Bretagna. Ma, durante l’amministrazione Trump, gli Stati Uniti hanno introdotto sempre più misure per ostacolare lo sviluppo della Cina. Secondo l‘Atto sui diritti umani e la democrazia ad Hong Kong, approvato lo scorso anno dal Congresso americano, il governo degli Stati Uniti dovrebbe vigilare su Hong Kong e punire coloro che, a suo giudizio, violano i diritti umani. Le sanzioni contro le società cinesi, in particolare contro Huawei, recentemente estese fino al blocco totale delle consegne dei chip 5G, dimostrano che gli Stati Uniti faranno tutto il possibile per ostacolare il successo economico della Cina.

Il “perno sull’Asia” dell’amministrazione Obama era già una mossa mascherata contro la Cina. La strategia di difesa nazionale dell’amministrazione Trump ha apertamente definito la Cina come “un concorrente strategico che utilizza attività economiche di tipo predatorio per intimidire i paesi confinanti, mentre militarizza il Mar Cinese Meridionale.”
Il Corpo dei Marines degli Stati Uniti viene riconfigurato in unità specializzate con il compito specifico di bloccare l’accesso della Cina al mare:

In questo modo, piccole unità di Marines verrebbero dispiegate intorno alle isole dell’arcipelago avanzato e nel Mar Cinese Meridionale, ogni elemento avrebbe la capacità di contestare lo spazio aereo e navale circostante usando missili antiaerei e antinave. Collettivamente, queste forze opererebbero un’azione di logoramento contro le forze cinesi, impedendo loro di spostarsi verso l’esterno e, alla fine, come parte di una campagna congiunta, le costringerebbero a ripiegare sulla terraferma cinese.

La “Guerra fredda 2.0” lanciata dagli Stati Uniti contro la Cina vedrà ora importanti contromosse.

Le violente rivolte dello scorso anno ad Hong Kong, incoraggiate dai media di Washington DC, erano state la dimostrazione che la situazione ad Hong Kong si stava evolvendo in modo pericoloso per la Cina.

Non c’è più motivo per la Cina di trattenersi dal contrastare questa assurdità. L’economia di Hong Kong non è più così importante. Le sanzioni statunitensi stanno comunque arrivando, indipendentemente da ciò che la Cina farà o non farà ad Hong Kong. I progetti militari statunitensi sono ora una minaccia evidente.

Dal momento che le leggi che Hong Kong avrebbe dovuto varare non sono neanche in programma, ora sarà la Cina stessa a crearle e a farle rispettare:

Venerdì, il governo centrale presenterà una risoluzione per consentire ai vertici del massimo organo legislativo, il Comitato Permanente del Congresso Nazionale del Popolo (NPC), di elaborare ed approvare una nuova legge sulla sicurezza nazionale tagliata su misura per Hong Kong, è stato annunciato giovedì scorso.

In precedenza, alcune fonti avevano riferito al Post che questa nuova legge avrebbe proibito la secessione e l’attività sovversiva, nonché le interferenze e gli atti terroristici stranieri nella città, sviluppi che preoccupavano Pechino da un po’ di tempo, soprattutto nell’ultimo anno, che aveva visto proteste antigovernative sempre più violente.


Secondo una fonte continentale a conoscenza della situazione ad Hong Kong, Pechino è giunta alla conclusione che, dato l’attuale clima politico, è impossibile per il Consiglio Legislativo della città approvare una legge di sicurezza nazionale che renda operativo l’articolo 23 della Legge Formale riguardante la città. Questo è il motivo per cui [Pechino] ha chiesto all’NPC di assumerne la responsabilità.

Il 28 maggio l’NPC voterà una risoluzione per chiedere al proprio Comitato Permanente di redigere la legge che riguarda Hong Kong. È probabile che venga votata ed approvata alla fine di giugno. La legge entrerà a far parte dell’allegato III della Legge Formale che comprende “Le leggi nazionali da applicare nella regione amministrativa speciale di Hong Kong.”

In base alla nuova legge, gli Stati Uniti dovranno interrompere il finanziamento delle organizzazioni studentesche, dei sindacati antigovernativi e dei media di Hong Kong. I partiti di opposizione non potranno più avere rapporti con operazioni di influenza gestite dagli Stati Uniti.

Il Dipartimento di Stato americano ha prontamente condannato questa presa di posizione:

Hong Kong si è sviluppata come bastione della libertà. Gli Stati Uniti esortano vivamente Pechino a riconsiderare la sua disastrosa proposta, ad adempiere ai suoi obblighi internazionali e a rispettare l’alto grado di autonomia, le istituzioni democratiche e le libertà civili di Hong Kong, fondamentali per preservare il suo status speciale ai sensi delle leggi degli Stati Uniti. Qualsiasi decisione che pregiudichi l’autonomia e le libertà di Hong Kong, come garantito dalla Dichiarazione Congiunta sino-britannica e dalla Legge Formale, avrebbe inevitabilmente un impatto negativo sulla nostra valutazione della formula un “paese-due sistemi” e dello stato del territorio.

Noi siamo con la gente di Hong Kong.

Non è (ancora?) “La guerra imminente contro la Cina” ma solo un soffiare e sbuffare, con tanta retorica ma pochi effetti pratici. Nessuna azione degli Stati Uniti può impedire al governo cinese di mettere al sicuro il proprio reame. Hong Kong è una città cinese in cui comandano le leggi cinesi, non i dollari statunitensi.

Gli Stati Uniti sembrano credere di poter vincere una guerra fredda contro la Cina. Ma si sbagliano.

Sul fronte economico non sono gli Stati Uniti a vincere con il disaccoppiamento dalla Cina, perché è l‘Asia intera che si sta distaccando dagli Stati Uniti:

Da quando, nell’aprile 2018, era iniziata la guerra tecnologica USA-Cina con il divieto di Washington di esportare chip alla ZTE Corporation cinese, la “de-americanizzazione delle catene di approvvigionamento” era diventata la parola d’ordine nel settore dei semiconduttori.

Nell’aprile 2020, Taiwan, Vietnam, Tailandia e Indonesia hanno acquistato circa il 50% in più di prodotti cinesi rispetto allo stesso mese dell’anno precedente. Giappone e Corea hanno fatto registrare aumenti del 20%. Anche le esportazioni negli Stati Uniti sono aumentate nell’ultimo anno, anche se da una base molto bassa per il 2019.

Anche le importazioni cinesi dall’Asia sono aumentate rapidamente.

Quando gli Stati Uniti proibiscono alle aziende che utilizzano software o macchinari statunitensi di progettare chip e di venderli alla Cina, queste società cercheranno di acquistare altrove i software e i macchinari. Quando gli Stati Uniti tentano di ostacolare l’accesso della Cina ai chip dei computer, la Cina costruirà la propria industria per la produzione di chip. Tra dieci anni saranno gli Stati Uniti ad aver perso l’accesso a quelli che allora saranno i prodotti allo stato dell’arte, perché verranno tutti dalla Cina. Già oggi è la Cina a dominare il commercio globale.

Il modo caotico in cui gli Stati Uniti stanno gestendo la crisi del Covid viene ampiamente osservato all’estero. Quelli che ci vedono chiaro hanno già riconosciuto che ora è la Cina, non gli Stati Uniti, la superpotenza con la testa sul collo. Gli Stati Uniti sono in affanno e continueranno ad esserlo per molto tempo:

Questo è il motivo per cui non considero il discorso su una possibile “Guerra Fredda 2.0” significativo o rilevante. Se ci fosse una sorta di “Guerra Fredda” tra gli Stati Uniti e la Cina, i politici statunitensi sarebbero comunque in grado di iniziare a pianificare in modo credibile la gestione di questa complessa relazione con la Cina. Ma, in realtà, le opzioni per “gestire” il nucleo di questa relazione sono penosamente poche, dal momento che il compito principale di ogni leadership statunitense che emerga da questo incubo del Covid sarà quello di gestire il crollo vertiginoso di quell’impero mondiale che era stato detenuto dagli Stati Uniti fin dal 1945.


Quindi, qui a Washington nella primavera del 2020, io dico, lasciamoli soffiare e sbuffare con queste loro nuove flatulenze di infantile sinofobia. Lasciamoli minacciare questa o quella versione di una nuova “Guerra Fredda.” Lasciamoli competere alle prossime elezioni, se queste si terranno, su “Chi può essere più duro con la Cina.” Ma la dura realtà mostra che, come diceva Banquo, “È una storia, raccontata da un idiota, piena di rumori e di rabbia, che non significa nulla.“

Nel suo libro del 2003, After the Empire, Emmanuel Todd descriveva il perché gli Stati Uniti si stessero muovendo verso la perdita del loro status di superpotenza:

Todd, in modo calmo e sereno, fa il punto su molte tendenze negative, tra cui l’indebolimento dell’impegno americano sull’integrazione socio-economica degli afroamericani, un’economia bulimica che si basa sempre più sui giochi di prestigio e sulla buona volontà degli investitori stranieri ed una politica estera che sperpera le riserve di “soft power” del paese, mentre il suo comportamento guerrafondaio da pompiere piromane si scontra con una resistenza in continua crescita.

La crisi del Covid-19 lo ha reso evidente a tutti.

Gli Stati Uniti, come previsto da Todd, dovranno ora rinunciare al loro status di superpotenza? O daranno inizio ad una grande guerra contro la Cina per distogliere l’attenzione e dimostrare la loro presunta superiorità?



Londra ci ripensa sul 5G di Huawei: in corso una revisione che potrebbe preludere ad una clamorosa esclusione dei cinesi
Atlantico Quotidiano
Daniele Meloni
27 maggio 2020

http://www.atlanticoquotidiano.it/quoti ... ei-cinesi/

Gli allarmi e le nuove sanzioni da Washington, le preoccupazioni crescenti tra i Tories, convincono il governo Johnson a rivalutare l’apertura al colosso cinese

Il futuro di Huawei nel Regno Unito torna materia di discussione nel governo Johnson. E non solo. Domenica scorsa il National Cyber Security Centre (NCSC) ha annunciato che è in corso un esame sull’impatto che la tecnologia 5G dell’azienda cinese avrà sui network che la utilizzeranno. Nel gennaio scorso il governo conservatore aveva dato il via libera all’utilizzo del 5G firmato Huawei, riducendo il suo ruolo nel mercato e, allo stesso tempo, ottenendo precise garanzie dai Servizi Segreti sulla sicurezza nazionale. La decisione aveva generato malcontento presso l’alleato americano, con i componenti del National Security Council Usa che erano venuti a Londra per degli incontri blindatissimi con i vertici di Whitehall e dell’intelligence.

Ora, con l’annuncio da parte americana di nuove sanzioni per limitare il ruolo di Huawei, il portavoce dell’NCSC ha affermato che “si impone una revisione del rapporto dello UK con Huawei”. La formula utilizzata è vaga, ma potrebbe essere abbastanza per i Conservatori per compiere un’inversione a U rispetto a quanto deciso a inizio anno, quando Johnson diede il via libera all’uso della tecnologia del gigante cinese nella parte “edge” della rete fino a un massimo del 35 per cento dei componenti e aveva deciso di bandire Huawei dalle sue parti sensibili – “core”.

Tre delle quattro principali società di telefonia mobile britannica hanno già deciso di impiegare il 5G di Huawei: Vodafone, EE e Three. Ora si potrebbe presentare loro la possibilità di cambiare fornitore. In Europa Nokia ed Ericsson sarebbero pronti a subentrare in caso di uscita di scena prematura dei cinesi anche se, secondo Assembly, una società di consulenza vicina agli operatori telefonici e della rete britannici, “l’addio di Huawei potrebbe causare ritardi alla rete 5G e costare fino a 7 miliardi di sterline all’economia del Regno Unito”. Anche uno studio della stessa Huawei mostra come l’eventuale lockout all’azienda cinese potrebbe “generare un aumento dei costi nel 5G dall’8 al 29 per cento per mancata competitività sul mercato”.

La decisione è stata accolta con favore dai backbenchers Tory alla Camera dei Comuni, che già a marzo avevano inscenato la prima ribellione contro il governo Johnson e dato luce al China Research Group, un think tank interno al partito sul modello dello European Research Group – che valuterà il rapporto tra Cina e Regno Unito anche rispetto alla crisi del coronavirus e ad altri investimenti sostenuti – o proposti – da Huawei e altri colossi della Repubblica Popolare in Inghilterra.

Prima del ricovero di Johnson al St. Thomas Hospital di Londra a causa del Covid-19, un gruppo di parlamentari Tories tra cui Iain Duncan Smith, David Davis e Bob Seely, aveva scritto una lettera al premier manifestando preoccupazione per le attività della Cina in alcuni settori-chiave dell’economia. La decisione del NCSC potrebbe rappresentare una buona notizia per Johnson che si appresta a portare in aula il Telecoms Infrastracture Bill, che ha già superato le prime due letture ai Comuni con una maggioranza trasversale che ha visto anche i laburisti votare a favore del progetto di legge. Il cambio di passo sulla sicurezza avviene in un momento in cui l’MI5 ha cambiato direttore generale: dal 31 marzo infatti è stato nominato Ken McCallum, una vita nei Servizi Segreti di Sua Maestà, che ha il compito anche di rafforzare la rete di cybersecurity interna britannica.
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Re: Russia, Europa, USA e Cina

Messaggioda Berto » sab mag 30, 2020 6:28 am

Hong Kong, ora Trump annuncia sanzioni contro funzionari cinesi
Roberto Vivaldelli - Ven, 29/05/2020

https://www.ilgiornale.it/news/mondo/ho ... 1590788160

"L'azione del governo cinese contro Hong Kong è l'ultima di una serie di misure che riducono lo status di vecchia data e orgogliosamente detenuto della città. E' una tragedia per il popolo di Hong Kong, in Cina, e lo è per le persone di tutto il mondo" ha detto Trump

Sale alle stelle la tensione fra Stati Uniti e Cina. Il Presidente Usa Donald Trump ha annunciato in conferenza stampa alla Casa Bianca, come riporta La Repubblica, che ci saranno sanzioni contro la Cina e i dirigenti responsabili, per la loro interferenza con l'autonomia di Hong Kong.

"La Cina ha violato la sua promessa di assicurare l'autonomia di Hong Kong", ha detto Trump. Il tycoon ha sottolineato che saranno "sanzioni contro i responsabili del partito comunista cinese" sull'isola. L'amministrazione americana comincerà anche il processo per eliminare le esenzioni che conferiscono all'ex colonia britannica un trattamento speciale, perché con la stretta di Pechino, Hong Kong "non è più autonoma". "L'azione del governo cinese contro Hong Kong è l'ultima di una serie di misure che riducono lo status di vecchia data e orgogliosamente detenuto della città. E' una tragedia per il popolo di Hong Kong, in Cina, e lo è per le persone di tutto il mondo", ha osservato Trump.

Il Presidente Usa ha poi sottolineato che la Cina "ha derubato gli Stati Uniti come nessuno ha mai fatto prima", denigrando il modo in cui Pechino ha "fatto irruzione nelle nostre fabbriche" e colpito così l'industria americana. Trump ha accusato Pechino di "spionaggio industriale" e di rivendicare in maniera illegale "territori nell'Oceano Pacifico", in riferimento al fronte caldissimo del Mar Cinese Meridionale. Un affondo che ha portato il tycoon alla decisione di ritirare gli Usa dall'Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), spiegando che l'agenzia delle Nazioni Unite è oramai completamente soggiogata al volere della Repubblica Popolare. L'amministrazione Trump annuncia poi che sarà vietato l'ingresso negli Usa a cinesi ritenuti "pericolosi" per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti.

L'Unione europea si accoda a Trump e accusa Pechino

L'Unione europea si accoda a Trump e critica la legge sulla sicurezza nazionale di Hong Kong varata da Pechino che che potrebbe portare all’apertura di agenzie di sicurezza cinesi a Hong Kong, oltre al dispiegamento di personale cinese responsabile della difesa della sicurezza nazionale nell’ex colonia britannica. L'Unione europea, come riportato dall'agenzia LaPresse, ha criticato tale decisione, affermando che potrebbe avere conseguenze sulle relazioni bilaterali ma escludendo sanzioni nei confronti dell'importante partner commerciale. "L'Ue esprime profonda preoccupazione per le misure adottate dalla Cina", che "rischiano di compromettere seriamente il principio 'un Paese, due sistemì come pure l'elevato livello di autonomia della Regione amministrativa speciale di Hong Kong", ha dichiarato l'Alto rappresentante per la politica estera, Josep Borrell, al termine di una riunione in videoconferenza dei ministri degli Esteri. Il ministro Luigi Di Maio ha da parte sua chiesto siano preservati la stabilità, la prosperità, l'autonomia e il sistema di libertà e diritti fondamentali di Hong Kong.

La reazione cinese

La Cina ha esortato gli Stati Uniti a smettere di interferire su Hong Kong e negli affari interni della Cina, sottolineando che Pechino "prenderà tutte le misure necessarie" per reagire se la controparte americana "è intenzionata a danneggiare gli interessi della Cina". Il portavoce del ministero degli Esteri Zhao Lijian ha formulato tali osservazioni in un briefing con la stampa quando gli è stato chiesto di commentare le recenti iniziative della Casa Bianca.
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