Dal Glottologo Mario Alinei, Origine delle lingue europee, volume II:4.2.1.
Il mito dei nomi pre-IE del debbioCome sappiamo, il debbio è la tecnica detta scientificamente ignicoltura, adottata dai primi coltivatori del Neolitico per il risanamento del terreno esausto, o per l'estensione dei terreni agricoli, e consisteva nella combustione della vegetazione spontanea, o di ciò che restava dopo il taglio degli alberi, delle stoppie dei cereali, delle erbe tagliate e accumulate. Proprio per l'antichità della tecnica, alcuni dei nomi del debbio, e primo fra tutti debbio stesso (v. oltre), sono stati considerati pre-IE, coerentemente con il mito dell'arrivo degli IE e dei Proto-Italici in epoca calcolitica.
Vediamo, alla luce dei materiali lessicali dialettali, come questa idea sia del tutto infondata.
4.2.1.1.
Debelus e altri nomi del debbioI nomi dialettali del debbio, sia in Italia che altrove, sono numerosissimi, ciò che non è senza significato, come vedremo.
Il più famoso e discusso fra di essi è lo stesso
debbio, che oggi sopravvive, col verbo
debbiare, solo in Toscana e in Corsica [ALEIC 1071], ma è attestato nella toponomastica, sia toscana che alto-italiana [cfr. DEI s.v.]. Risale a un tipo
debelus, che nella forma dell'abl. plur.
debelis e dell'acc. pl.
debelus è attestato alcune volte nella Tavola di Veleia (= TV, CIL XI, 1147, III 73, IV 38-39, VII 37) del II secolo d.C.
È stato ricondotto al tema IE
*dhegwhel-, dalla radice IE
*dhegwh- «scaldare, bruciare» [IEW 240], da cui latino
favilla e
foveo [cfr. Tibiletti Bruno 1978, 170, 185], e per le sue caratteristiche fonetiche (perdita dell'aspirazione nelle due consonanti e labializzazione della labiovelare) si lascia attribuire al Leponzio o Lepontico, lingua di cui è ora accertata la celticità [ibidem, 170; Prosdocimi 1978, 550, 557 n. 6; Solinas 1992-1994; Sims-Williams 1993, 382], e non al Ligure [Petracco Siccardi 1981, 72, 93].
Il termine sarebbe quindi stato introdotto in Italia settentrionale, Toscana e nelle due isole da una delle diverse ondate celtiche.Una esauriente ricerca di Emilio Sereni ha inoltre dimostrato l'esistenza, accanto a
debbio stesso, di molti altri termini per il
debbio, nella maggior parte di origine latina (area latina): «nell'Italia centrale e settentrionale [...] sono più largamente diffusi termini [...] la cui formazione va riportata a una fase linguistica latina o romanza» [Sereni 1981, 6-7].
Purtroppo, la documentazione disponibile non permette di disegnare una mappa dei nomi del debbio in area neolatina, ma un elenco anche incompleto, che ordino approssimativamente da nord a sud, è egualmente dimostrativo: la famiglia di latino
runcare «svellere le erbe cattive, sarchiare», comunissima nell'Italia centro-settentrionale, con derivati (anche in Rumeno) che significano «terreno dissodato (nel bosco)» e poi «addebbiato» [ibidem, 12 ss.];
i derivati di latino
sarire «zappettare,
sarchiare», di area galloromanza e alto-italiana occidentale, ma attestati anche in Italia centrale [ibidem, 13-14];
la grande famiglia di (silva/terra) fracta, diffusa ovunque in Italia, nel Nord e nel Centro come «terra dissodata, disboscata, addebbiata», nel Sud come «macchia, luogo incolto», per cui solo qui sfrattare diventa «addebbiare» [ibidem, 14-15]; ticinese e trentino
regada, da
eradicata [ibidem, 10];
derivati di
bruciare, come antico italiano
brucata brusada «debbio, campo addebbiato» e francese
brûlis [ibidem 27, 28] (italiano
brullo);
latino medievale ligure
zerbata «debbio», da accostare a nizzardo
degerbà, piemontese
sgerbì, da
exherbare;
derivati di
ardeo, come
arsione e
arsiccia, comuni anche in Francia e Provenza (antico frisone
arsis, arsin, arsure, provenzale
arsino, franco alpino e francese
arselle), comuni nella toponomastica sia in Francia che in Italia (tipi
Camparso, Montarso, Boscarso, Terrarsa ecc.) [ibidem, 27];
la famiglia di
fornello (fornellare, fornellato), diffusa in area tirrenica, dalla Toscana alla Liguria e alla Provenza, fino a bearnese
fornat, e a basco
labaki («campo addebbiato col metodo dei fornelli») (Forni nel vicentino);
il tipo semanticamente affine di
formica e formicaio «fornello da debbio» [ibidem, 29];
provenzale
glebado «debbio col metodo dei fornelli», da
glebo «zolla di terra, tappeto erboso» (< lat. gleba);
marchigiano medievale
goluppata «terreno addebbiato» (Statuti comunali di Fano), avvicinabile a
voluppus «involto» e quindi a italiano
viluppo, avviluppare, sviluppare, francese enveloper, italiano meridionale
malloppo, ecc.;
toscano (Monte Amiata) fare la
roggia (le roggie) «bruciare le stoppie, addebbiare», da
rubeus «rosso»;
toscano
rasiccia «debbio praticato col raschiamento della cotica erbosa», da radere;
italiano centrale e meridionale
cavare, scavare la macchia e simili, dal latino cavare [ibidem, 11];
abruzzese
'ngotta, da (terra)
incocta [ibidem, 6];
sterpare, stirpare, strepare [ibidem, 10-11] (e strappare), da extirpare (v. oltre);
vari derivati di
focus, come infocare affocare, spesso in sintagmi del tipo mettere/appiccare fuoco ecc. [ibidem, 25];
derivati del latino
circinare «tirare in circolo», e poi «aprire una radura circolare, addebbiare» [ibidem, 37];
ancora
scuotere da excutere, sticchiare da ex-titulum,
sclapare da
scaapa, stipare da stipa (?),
svegrare (da veterum), scampare da campo,
adsolare da solum,
scarpare da scarpa,
cioccare e dicioccare da ciocco [ibidem, 19];
in Sardegna, infine, abbiamo diversi tipi lessicali:
barbattu, brabattu, -are, dal latino vervactum «maggese»;
rupere, irruttiare, dal latino rumpere;
immoddiththare da mollis [ibidem, 20];
buddìu «bollito», da
bullio;
seminare a intìpidu e simili da tepidus.
Tutti questi nomi dimostrano, senza alcuna possibilità di dubbio, che il debbio fu lessicalizzato con nomi diversi nelle varie aree italiche e nord-mediterranee; e poiché la tecnica dell'ignicoltura fu certamente introdotta all'inizio del Neolitico, il fatto che la stragrande maggioranza di questi nomi siano di origine latina «popolare» dimostra l'esistenza di geovarianti affini al Latino, o romanizzate più tardi su una base affine, già all'inizio del Neolitico.
Questo ci porta a un'altra questione: come si esprimeva la nozione di «debbio» in Latino?
Nel quadro tradizionale, infatti, questa sarebbe la sola ipotesi possibile: il termine latino è stato innovato da una miriade di forme locali. Sereni non pone il problema in termini precisi, e dà quindi una risposta indiretta ambigua, definendo «poetiche» le descrizioni del debbio degli scrittori latini: «silvas [...] cremare» (Lucrezio), «silvestrem flammis et ferro mitiget agrum» (Orazio), «incendere [...] agros» (Virgilio), «incendia iactare» (Silio Italico) [ibidem, 22], e «perifrastiche» quelle in cui tornano termini come
effodere, extirpare, incendere, accendere, comburere, urere, ustulare, ustrina e bustum [ibidem, 20 ss., 78 ss.].
Inoltre, menziona nomi di tecniche agricole meno arcaiche del debbio, che tuttavia ottengono lo stesso risultato, come il
maggese:
vervactum «terreno dissodato, maggese lavorato» (sopravvissuto in Sardegna come nome del debbio);
novalis, in origine «terreno coltivato per la prima volta» e poi «maggese, terreno lasciato a riposo», la cui motivazione è paragonabile a basco
lubarri, luberri, letteralmente
lur «terra»
barri «nuovo», di fatto «debbio, campo addebbiato» [ibidem, 16-17].
La verità è che da un lato la terminologia del debbio si era sviluppata fin dall'inizio del Neolitico in modo assai differenziato, anche all'interno di una stessa regione, e quindi poteva non esserci un nome «latino» vero e proprio; e dall'altro che all'epoca degli scrittori classici il debbio era ormai lontano dalle pratiche agricole correnti, e quindi un suo eventuale nome sarebbe caduto nell'oblio. Gli scrittori latini non conoscevano la terminologia del debbio, neanche quella locale, così come nessuno scrittore o uomo colto italiano conoscerebbe oggi la terminologia della fusione del bronzo e del ferro.
Restano da vedere gli esempi addotti da Sereni per dimostrare la sopravvivenza di un fondo pre-IE nella terminologia dialettale del debbio, nonostante la citata ammissione della sua prevalente latinità.
Uno sarebbe il piemontese
motèra «fornello da debbio», cioè la «piccola capannuccia di forma tronco-conica costruita sovrapponendo le
piote erbose l'una sopra l'altra» [ibidem, 29].
Questo deriverebbe da piemontese
mota «zolla, gleba», come il provenzale
glebado «debbio da fornelli» deriva da
gleba «zolla o tappeto erboso», dal latino
gleba.
Secondo Sereni «
motèra e mota non sono in alcun modo riferibili a un fondo linguistico latino» [ibidem, 30].
Ora, questo è vero solo nel senso che piemontese (e lombardo, trentino, veneto, friulano, emiliano)
mota «zolla», così come l'italiano
mota «fango», e i numerosissimi derivati provenzali del tipo
mauta (da cui
mota),
matta ecc., tutti «fango» o «calcina» e «poltiglia», pur derivando immediatamente da corrispondenti del latino
maltha «malta, cemento, misto di calce e sugna», sono in ultima analisi di origine greca, dal greco
málthē/-a «misto di pece e cera utilizzato per calafatare le imbarcazioni».
(Nota mia: non arrivano né dal latino né dal greco, anche Alinei qualche volta si sbaglia).
Anche se questo termine non derivasse da PIE
*meldh- [cfr. DELG], e quindi avesse origini an-IE, potrebbe essere stato introdotto in Grecia dai primi gruppi coltivatori del Neolitico, e di qui nel bacino nord-mediterraneo occidentale, con la CI/C.
Un altro termine «pre-IE» sarebbe quello usato per fornelli molto più lunghi (diversi metri) e di forma rettangolare, che è
morena in Piemonte (ma cordone, da corda, in Toscana) [ibidem, 30].
Ora, anche se è vero che
morena è uno dei numerosi membri della famiglia di
morra, mora «mucchio», e che questa viene di solito considerata pre-IE, un'analisi più attenta del termine (v. oltre) rivela la sua origine italica.
Un terzo esempio sarebbe piemontese (e veneziano, veronese e milanese)
lota, che come
piota significa la «fetta di cotica erbosa» che rappresenta l'elemento costitutivo del fornello da debbio [ibidem, 31].
E questo termine, con basco
Iuta «frana di terra», viene ricondotto di solito all'ibererico
alutia «terreno aurifero a fior di terra» [ibidem, 89].
Ma a parte l'incongruenza cronologica e semantica fra tecniche ignicole neolitiche e risorse aurifere che presuppongono l'oreficeria, mi pare molto più probabile un suo collegamento a latino
lutum «fango», «argilla»,
luteus «fangoso»,
lutare, lutina ecc., naturalmente in una variante a consonante geminata (cfr. latino totus > italiano tutto).
Da ultimo, ci sarebbe la voce sarda
narbone «debbio, campo addebbiato», con il verbo
narbonai «addebbiare», accostabile al frequente toponimo
Narbona, fra l'altro nome della capitale degli Elysici liguri [ibidem, 31].
Ma
narbone è stato già interpretato dal Wagner [DES s.v.] come derivato dal latino
arvum «campo arativo, pascolo», con l'agglutinazione dell'articolo indeterminato (o, a mio avviso meglio, della preposizione in).
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