Spazio vitale, territorio, Lebensraum, Home RangeLebensraum https://it.wikipedia.org/wiki/Lebensraum Il termine Lebensraum (spazio vitale) è una definizione nata in biogeografia, successivamente estesasi all'utilizzo in ambiente geopolitico. Con questo termine si indica maggioritariamente la teoria nazionalsocialista tedesca dello spazio vitale.
Un concetto simile, lo spazio vitale, albergava nel pensiero fascista italiano, del quale riassumeva e giustificava le aspirazioni di espansione territoriale.
La parola lebensraum venne coniata da Friedrich Ratzel nel 1897, in applicazione ad analisi fito e zoogeografiche, per riferirsi a un'area geografica all'interno della quale si sviluppa una determinata specie, per poi ricevere riconoscimento in ambiente scientifico dopo la pubblicazione del suo studio biogeografico nel 1901. Un termine che, in tale contesto, otteneva una valenza di carattere darwinistico-sociale.
Spazio vitalehttps://en.wikipedia.org/wiki/Spazio_vitale Home Rangehttps://en.wikipedia.org/wiki/Home_range
Home range e territorialità Chiara
http://www.ecologicacup.unile.it/index. ... l=&start=3 Le forze che promuovono l’isolamento o la spaziatura tra gli individui, coppie o gruppi in una popolazione, non sono mai così diffuse come quelle che favoriscono l’aggregazione; ma, tuttavia, sono importanti per aumentare la fitness oltre che essere meccanismi di regolazione delle popolazioni.
L’isolamento, in generale, dipende da due principali fattori:
- la competizione fra individui, oppure
- l’antagonismo diretto.
Figura 4. Movimenti di una banda di Coati Nasua narica (coati dal naso bianco) sull’Isola di Barro Colorado durante un periodo di nove mesi. L’home range complessivo è delimitato dalla linea tratteggiata (in grigio la core area). Il diametro massimo est-ovest è di circa 700 m (da Kaufmann in Wilson, 1983).
In entrambi i casi si può avere una distribuzione casuale o uniforme in quanto i vicini più prossimi vengono eliminati.
L’attività degli individui, delle coppie o dei gruppi di familiari di vertebrati ed invertebrati si svolge in un’area ben definita, chiamata home range (area di residenza).
Più esattamente viene definita home range (area vitale, area familiare), quell’area all'interno della quale un animale (singolo, coppia, gruppo) svolge le proprie attività durante l'anno. Nell’ambito dell’home range possiamo, inoltre, individuare la core area, cioè quella parte di home range soggetta a più intensa frequentazione.
Figura 5. Sito di nidificazione (tondo), territorio (rigato denso) e home range (rigato largo) di una coppia di Gypaetus barbatus, comunemente noto come "avvoltoio barbuto" o "avvoltoio degli agnelli", sui Pirenei spagnoli (da Hiraldoetal., 1979).
Nel caso in cui l’area identificata con l’home range viene effettivamente difesa, per cui lo spazio utilizzato da individui, coppie o gruppi di antagonisti è poco o affatto sovrapposto, allora si parla di territorio che, quindi, è l’area effettivamente occupata più o meno esclusivamente da un animale (gruppo) per mezzo della repulsione, attraverso la difesa palese o l'annuncio (Wilson, 1983).
Ci sono casi in cui l’home range coincide con il territorio (Figura 4) e casi in cui, invece, il territorio è solo una parte dell’home range come nel caso dei gipeti, o altri grandi rapaci, che difendono, dall’ingresso di conspecifici, un’area relativamente ristretta attorno al nido (territorio), mentre una coppia di soggetti nidificanti frequenta un’area notevolmente più estesa per la ricerca alimentare (home range) che può variare da 150 a 300 kmq, contemporaneamente ad altri individui (Figura 5).
Prossemicahttp://www.linguaggiodelcorpo.it/2011/10/20/prossemica Habitathttps://www.dsv.unisi.it/sites/st15/fil ... _parte.pdf La distanza interpersonale e i rapporti spaziali tra le persone e l’ambiente giocano un ruolo fondamentale nel sentirsi a proprio agio o a disagio in una certa situazione…http://www.linguaggiodelcorpo.it/2011/10/20/prossemica Edward Hall, l’antropologo che ha coniato il termine prossemica, definisce questa discliplina “lo studio di come l’uomo struttura inconsciamente i microspazi – le distanze tra gli uomini mentre conducono le transazioni quotidiane, l’organizzazione dello spazio nella propria casa e negli altri edifici e infine la struttura delle sue città.“
In effetti, come gli animali abbiamo un nostro territorio e lo stabiliamo in ogni luogo in cui ci troviamo: da casa nostra, al nostro ufficio, al nostro banco a scuola o alla nostra scrivania sul lavoro fino al compartimento sul treno o allo spazio che circonda l’ombrellone quando siamo in spiaggia.
La territorialità è un meccanismo istintivo che negli animali consente la regolazione della diffusione della popolazione e della densità di insediamento; il territorio assume per l’animale un luogo sicuro, tanto è vero che un’animale che abbia perso il proprio territorio è più vulnerabile ai predatori.
Parallelamente, nelle dispute tra animali della stessa specie per il possesso di un territorio ha in genere la meglio il possessore del territorio; lo stesso avviene anche per l’essere umano; si sa, ad esempio, che una squadra di calcio che giochi in casa appaia sempre più temibile che se gioca sul terreno avversario.
Gli animali mostrano, quando un altro animale si avvicina ad una certa distanza, un comportamento di fuga: questa distanza é detta Distanza di Fuga e varia da specie a specie: per un antilope è di mezzo chilometro; per una lucertola, meno di due metri
L’animale, se può evita il confronto, per lo meno fin quando ha uno spazio sufficiente: oltre una certa distanza detta Critica, però, procede all’attacco del nemico o dell’invasore.
Alla stregua degli animali anche l’uomo ha un qualcosa di assimilabile alla Distanza di Fuga e a quella Critica; la reazione umana ad una violazione dello spazio personale è però più contenuta e alle volte non da luogo nemmeno all’azione.
La distanza in base a cui l’uomo regola i rapporti interpersonali è detta Spazio Vitale o Prossemico: potremmo rappresentarcela come una bolla di sapone che ci avvolga; ogni violazione dello spazio vitale, che nella nostra cultura si estende in ogni direzione per circa 70 cm. – 1 metro, porta ad un aumento dello stato di tensione; come dire che ogni tentativo di entrare nella bolla, provoca una pressione che viene avvertita come fastidiosa o sgradevole; questo possiamo verificarlo, quando siamo in ambienti affollati, in cui lo spazio prossemico si riduce, al punto di arrivare al contatto fisico; in quel caso, sopportiamo di essere messi “al muro”; non così se qualcuno ci si avvicina troppo quando c’è “spazio da vendere”!
In modo analogo, se entriamo su un treno, non andiamo nel primo scompartimento che troviamo, ma andiamo a cercarcene uno libero: se ci troviamo già nello scompartimento possiamo compiere atti che dissuadano gli altri ad entrare o a sedersi vicino a noi: ad esempio, mettendoci in piedi e rovistare nei bagagli sulle cappelliere proprio al momento in cui treno sosta nelle stazioni, oppure disseminando borse e valigie su tutti i posti disponibili.
Anche a tavola esprimiamo l’istinto del possesso territoriale; senza accorgecene, dividiamo il tavolo in due metà: se qualcuno, ad esempio, beve e nel poggiare il bicchiere, lo mette nella nostra ipotetica metà, avvertiamo un senso di stizza.
Tornando al concetto di spazio prossemico, va precisato che la “bolla” non è sferica: infatti, una violazione prossemica fatta sul fianco crea meno tensione di una fatta faccia a faccia, o per alcuni, se eseguita da dietro: la bolla ha, in definitiva, i contorni irregolari.
Inoltre, lo Spazio prossemico personale varia da cultura a cultura: è molto ridotto nei popoli dei paesi caldi (e tra i marocchini, gli arabi), in cui arriva quasi al contatto fisico; è, invece, molto ampia nei paesi freddi (ad es. tra gli inglesi è di circa 2 metri); da questa diversità, nascono dei problemi nei rapporti interetnici; l’uno può trovare l’altro appiccicoso e il secondo ritenere il primo freddo.
Distinguiamo 4 distanze prossemiche, in ogni distanza abbiamo una fase di vicinanza e una di lontananza:
– Distanza intima:da 0 cm. a 45 cm.
– Distanza personale: da 45 cm. a 70 cm./1 m.
– Distanza sociale: da 120 cm. a 2 m.
– Distanza pubblica: da 2 m. ad oltre i 2 m.
La Distanza Intima é la distanza dei rapporti intimi (es. tra partner) e sconfina nel contatto fisico; a questa distanza, si può sentire l’odore, il calore dell’altro e si possono avvertire le sue emozioni; gli sguardi diretti poco frequenti; il tono delle voce é più basso, così come il volume.
La Distanza Personale é la distanza adottata da amici o da persone che provano attrazione per l’altro: a questa distanza, si può toccare l’altro, lo si guarda più frequentemente che nel caso della distanza intima, ma non se ne sente l’odore.
La Distanza Sociale è una distanza formale adottata nei rapporti formali: con impiegati negli uffici, con commercianti, con professionisti.
La Distanza Pubblica è la capacità di percepire una persona o di farsi percepire a distanze superiori a due metri; normalmente, a questa distanza siamo percepiti come parte dell’ambiente. È presente solo in chi ha personalità pubblica: così, se passa Mario Rossi a dieci metri da noi, non lo notiamo, ma se quell’individuo é Michael Jackson avvertiamo immediatamente l’eccitazione della sua presenza.
Quando le persone si avvicinano l’una all’altro, modificano tutto il loro comportamento; così si riducono gli sguardi, la voce si fa più bassa e debole e gradatamente spariscono le gesticolazioni e aumentano i contatti fisici.
La Percezione prossemica si ribalta nei rapporti intimi: viene vissuto con piacere un avvicinamento e con sofferenza un allontanamento: se il mio partner ad una festa mantiene le distanze e parla con tutti, trascurandomi, lo vivo come un rifiuto. È per ribadire l’unione che coniugi, fidanzati o parenti stretti, costretti a tenersi a distanza dalle circostanze, si scambiano sguardi, qualche parola e a volte, fuggevoli contatti; alle volte, si assiste nel caso di legami stretti al comportamento di partner che, pur distanti, producono all’unisono e inconsapevolmente, variazioni di postura e movimenti sincronici ad esempio nell’annuire; inoltre, possono tendere mani e gambe l’uno verso l’altro o tenere le mani scostate come se si tenessero per mano
Lo status di un individuo influenza la dimensione della zona personale: tanto più elevata è la posizione sociale o lavorativa, tanto più ampia sarà la sua sfera prossemica; inoltre, dirigenti, graduati dell’esercito spesso reputano di essere in diritto di violare la distanza intima dei propri subordinati.
La distanza prossemica è influenzata da diversi fattori: etnici, di temperamento (una persona estroversa viola più facilmente lo spazio prossemico di una introversa); dallo stato d’animo (un individuo nervoso o furioso mostra di tollerare meno degli altri la violazione dello spazio personale; un depresso può anche non percepirla), dalla storia personale: se una donna ha subito uno stupro, può diventare particolarmente suscettibile all’avvicinamento di un uomo.
Un altro fattore che indice sulla percezione della distanza interpersonale è il sesso; una donna gradisce meglio un avvicinamento frontale e meno se qualcuno le si approssima da lato; per un uomo invece è l’esatto contrario.
Un ambiente particolarmente opprimente e minaccioso rende le persone più circospette e aggressive quando qualcuno si avvicina loro:in un esperimento sui carcerati è stato dimostrato come gli individui violenti abbiano un ampio spazio prossemico attorno, circa tre volte di più rispetto ai prigionieri non violenti; per altro, questi ultimi, mostrano un aumento della percezione prossemica posteriore: questo perchè, come è stato confermato dagli stessi reclusi, temono un attacco fisico o omosessuale da tergo.
Vegetale a Chi? - Le piante hanno i sensi, possono comunicare e sono intelligenti!Filippo Rossato
https://www.euganeamente.it/intelligenz ... lle-pianteAd affermare la sensibilità e l’intelligenza del mondo vegetale è Stefano Mancuso, professore dell’università di Firenze e direttore del laboratorio di neurobiologia vegetale, che assieme ad Alessandra Viola, giornalista scientifica, ha pubblicato un libro divulgativo dal titolo “Verde Brillante” ed edito da Giunti. Fin da quando l’uomo è comparso sulla Terra convive con i vegetali che, come risaputo, sono comparsi sulla terraferma circa 450 milioni di anni fa. Nonostante il lungo periodo di convivenza (circa duecentomila anni ??? il Sapiens) non si può certo dire che l’uomo abbia davvero imparato a conoscere queste entità relegandole fin dall’antichità ad un “rango inferiore”. Già nella Bibbia, la vicenda di Noè fa riferimento al solo salvataggio di una coppia per tipo di animale, ma dei vegetali nemmeno l’ombra. Anche Aristotele considerava i soli vegetali appena un gradino sopra le rocce e cioè in grado di vivere, ma non di certo di “sentire” e non dotati di intelligenza. Da sempre quindi, le piante ed i vegetali sono considerati privi di sensi e di capacità di comunicare. Ma è davvero così? È possibile che dei viventi, che si sono evoluti in milioni di anni e che potrebbero sopravvivere benissimo anche senza la presenza dell’uomo in quanto autotrofi, non abbiano un minimo di intelligenza?
Le strategie evolutive
Per comprendere meglio come funzioni una pianta dobbiamo spiegare le diverse strategie evolutive intraprese da animali e vegetali. Gli animali, infatti, hanno adottato “strategie di movimento” e hanno potuto concentrare le proprie funzioni vitali in organi ben definiti e non replicabili. Al contrario, le piante non possono muoversi ed hanno dovuto creare un sistema in cui le funzioni vitali fossero “diffuse”. Se un erbivoro bruca la quasi totalità delle foglie di una pianta, quest’ultima, seppur con qualche stento, riuscirà comunque a sopravvivere; un animale al contrario, se viene privato di un organo vitale è destinato a morire. Questo si traduce nella mancanza di organi definiti, ma un vegetale può comunque svolgere le proprie funzioni vitali. In pratica può respirare anche senza polmoni, mangiare senza una bocca e stare in piedi senza uno scheletro.
Piante ed individui
I vegetali non possono essere considerati “individui”, cioè non divisibili. Possiamo vederli come un organismo composto di vari comparti modulari, alla stregua di una colonia di formiche, dove anche se una parte della famiglia dovesse perire, la restante sarebbe in grado di sopravvivere.
Le piante hanno i sensi? Anche per fattori culturali non siamo avvezzi a pensare che i vegetali abbiano dei sensi. Un riscontro abbastanza rapido può esserci fornito dal fatto che queste ultime sono prive di occhi, bocca, naso, orecchie per non parlare del tatto, insomma le piante “vegetano”. Ma è davvero così? Si può affermare che oltre a possedere i sensi come l’uomo li intende, ne hanno anche di più! Ovviamente le differenze ci sono e sono molte.
La vista
Secondo la definizione del vocabolario, la vista è la facoltà di vedere, di percepire stimoli visivi, il senso della luce e degli oggetti illuminati. Pur non vedendo come l’uomo, le piante sono in grado di intercettare la luce, di usarla e di riconoscerne sia la quantità che la qualità. Questo avviene in quanto la luce è “l’alimento” principale per parametri, le piante sono in grado di modificare la loro posizione crescendo in direzione della luce. Questo movimento, che peraltro è molto rapido, si chiama fototropismo. È una vera espressione di “intelligenza verde” in quanto presuppone il calcolo del rischio e la previsione dei benefici che lo sforzo comporta.
L’olfatto
Anche in questo caso, al contrario dell’uomo, i vegetali su tutta la loro superficie hanno dei recettori di sostanze volatili in grado di comunicare a tutta la pianta l’informazione. Le piante si servono di queste sostanze per ricavare preziose informazioni sull’ambiente, per comunicare tra loro e con gli insetti. Basti pensare al basilico, rosmarino, limone, liquirizia ed altri. Questi aromi fungono da “parole” che esprimono precisi messaggi che però l’uomo fatica ancora a decifrare. Alcuni di essi si è scoperto indichino lo stato di salute della pianta, altri lo stress, il pericolo. Tutti questi messaggi sono utilizzati per avvertire le piante vicine cosicché esse possano adottare le più adatte contromisure.
Il gusto
Come negli animali, anche nelle piante il senso dell’olfatto e quello del gusto sono strettamente connessi. Nel caso delle piante, gli organi preposti al senso del gusto sono alcuni recettori delle sostanze chimiche. Ad esempio, le radici “assaggiano” in continuazione il suolo alla ricerca di nutrienti come nitrati, fosfati o potassio. Ce ne si accorge osservando l’apparato radicale. Le piante, infatti producono una maggior quantità di radici laddove la concentrazione di queste sostanze risulta più elevata. Non possiamo però dimenticare che molte specie osservano una dieta diversa: si tratta delle cosiddette “piante carnivore”. Nonostante le evidenze sulla dieta di queste specie, si dovette attendere Charles Darwin e il suo libro del 1875, intitolato appunto Piante insettivore, per trovare risposte scientifiche sensate a dubbi sull’esistenza di “piante cacciatrici”. Ma come mai questo tipo di dieta? Queste specie si sono evolute in ambienti umidi e in zone palustri, luoghi in cui l’azoto era scarsamente o per nulla disponibile.
Dovettero inventare un sistema di approvvigionamento e con il passare del tempo modificarono la forma delle foglie. Le piante di questo tipo non si limitano però a imprigionare e uccidere gli insetti, ma attuano sulla foglia una vera e propria digestione delle prede per assimilare i nutrienti che contengono. Non esistono solo le specie carnivore propriamente dette. Osservando le foglie della patata, del tabacco o di piante appena un po’ più esotiche quali la Pawlonia tomentosa, si può notare che è abbastanza frequente trovarci sopra degli insettini morti. Le foglie di queste piante secernono sostanze appiccicose o velenose che uccidono gli insetti. Questi decomponendosi rilasceranno l’azoto che verrà assorbito dalle foglie stesse. Ma le sorprese sulla dieta vegetale non finiscono qui: alcuni anni fa è stato pubblicato uno studio relativo a una pianta in grado di cacciare dei vermi con speciali trappole sotterranee.
Il tatto
Nel mondo vegetale il senso del tatto è strettamente connesso a quello dell’udito. Si serve di piccoli organi detti “canali meccano-sensibili” che si trovano un po’ dappertutto nella pianta. La pianta si accorge di essere toccata? Per rispondere è sufficiente osservare il comportamento della Mimosa pudica, un particolare tipo di mimosa detta “sensitiva” che appena viene sfiorata ritrae le foglie. Sembra ormai evidente che si tratti di una strategia di difesa, ma non è ancora chiaro da cosa. Quel che è certo è che la pianta è in grado di imparare se uno stimolo è pericoloso o meno. Ad esempio se si scuote la pianta le sue foglie si chiudono, ma se si continua a scuotere per molto tempo le foglie si abituano alle vibrazioni e si riaprono. Le piante in breve tempo “imparano” che gli scossoni non sono pericolosi e smettono di sprecare energia per la chiusura delle foglie. Un altro esempio è quello offerto dalle piante rampicanti (e da tutte quelle che producono viticci). Per esempio il pisello rampicante produce viticci molto sensibili che quando toccano qualcosa si arricciano in pochi secondi. Lo scopo è quello di avvolgersi intorno all’ oggetto con cui sono venuti a contatto. Questo è un comportamento che si ritrova in moltissime piante che “tastano” gli oggetti intorno a loro per scegliere quello migliore da cui farsi sorreggere durante la crescita.
L’udito
Le piante, come tutti sanno, non sono provviste di orecchie, ma ormai abbiamo scoperto che esse possono vedere senza occhi, gustare senza papille, annusare senza naso e persino digerire senza stomaco. Possono dunque udire senza la presenza di padiglioni auricolari. Questo avviene in quanto la terra è un conduttore così buono che non c’è bisogno di orecchie per sentire. Le vibrazioni possono essere captate da tutte le cellule della pianta grazie alla presenza dei canali meccano-sensibili. Nei vegetali, quindi, anche il senso dell’udito è diffuso. Numerosi esperimenti negli anni hanno cercato di verificare le capacità uditive dei vegetali e i risultati sono sempre stati interessanti. Dai dati di laboratorio si è recentemente dimostrato come l’esposizione ai suoni faccia variare l’espressione genica nelle piante. Altri esperimenti più recenti, concentrati sulla parte ipogea della pianta hanno dimostrato che le radici percepiscono una gamma molto ampia di vibrazioni sonore. Nel 2012 una ricerca condotta in Italia ha dimostrato che le radici producono suoni, anche se il modo in cui ciò avviene non è ancora chiaro. La sonorità delle radici è stata provvisoriamente battezzata clicking, perché i suoni che la contraddistinguono somigliano a dei “click”. Con ogni probabilità questi piccolissimi “click” sono il frutto della rottura delle pareti cellulari e, pur non essendo prodotti dalle piante in modo volontario, la loro importanza potrebbe essere comunque cruciale.
…e molti altri sensi!
Una pianta è in grado di misurare con precisione l’umidità di un terreno e di individuare fonti d’acqua anche molto distanti. Dispone infatti di una specie d’igrometro, molto utile per conoscere quanta acqua è presente nel suolo e dove si trovi. Le piante hanno anche altre straordinarie capacità: per esempio possono sentire la gravità, i campi elettromagnetici e ovviamente sono in grado di riconoscere e misurare un elevatissimo numero di gradienti chimici contenuti nell’aria o nel terreno. Alcuni di questi sensi sono localizzati nelle radici, altri nelle foglie, mentre altri ancora sono diffusi nell’intero organismo vegetale, ma ciò che più stupisce è il livello di raffinatezza cui giungono questi veri e propri laboratori di analisi verdi. Una pianta, infatti, è in grado di individuare e riconoscere quantità assolutamente irrisorie di elementi chimici importanti o al contrario dannosi per la sua crescita, anche a metri di distanza dalle radici. Le radici di una pianta, dopo aver percepito il nutriente, si rivolgono in quella direzione e crescono fino a raggiungerlo per assorbirlo. Al contrario, nel caso d’inquinanti o composti chimici pericolosi sia per il mondo vegetale sia per quello animale, le radici si muovono in modo da allontanarsene il più possibile.
Conclusioni
Abbiamo visto che, se pur con meccanismi leggermente diversi da quelli cui siamo abituati a pensare, le piante hanno i sensi. Sono quindi dotate di intelligenza e sanno prendere decisioni anche apparentemente complesse. Capacità di questo tipo sono note da quasi un secolo e sono state approfonditamente studiate, senza tuttavia essere mai collocate nella giusta prospettiva. Questo avviene perché ancora oggi, nella nostra cultura, le piante non sono considerate esseri senzienti, ma organismi passivi. Eppure il mondo vegetale grazie a queste straordinarie capacità ci offre in molti campi un aiuto insostituibile. Le piante sintetizzano decine di migliaia di molecole, molte delle quali vengono usate nella nostra farmacopea, producono ossigeno e rendono disponibile uno dei più diffusi materiali da costruzione (il legno), mentre in passato hanno persino prodotto le riserve energetiche (i combustibili fossili) che da secoli sostengono il nostro sviluppo tecnologico. Apporti preziosi e irrinunciabili, senza contare che esse sono l’unica risorsa realmente disponibile per disinquinare il Pianeta. Al ritmo con cui lasciamo che le specie vegetali si estinguano, è probabile tuttavia che anche in questo campo si stia di fatto rinunciando a chissà quante soluzioni inesplorate e alla nostra futura possibilità di disinquinare efficacemente, a costo molto contenuto e senza alcun impatto, il nostro Pianeta.
In biologia si definisce dominante la specie che si ricava maggiore spazio vitale a discapito delle altre, dando prova di questa competizione di una migliore adattabilità all’ambiente ed una superiore capacità di risolvere i problemi che naturalmente si presentano a ogni essere vivente nella lotta per la sopravvivenza. L’assunto è piuttosto chiaro: più una specie è diffusa, maggiore peso specifico essa possiede all’interno dell’ecosistema. Dunque, se scoprissimo un pianeta lontano abitato per il 99% da una certa forma di vita cosa diremmo? Che probabilmente quella è la specie dominante! Allora perché non farlo anche sulla Terra dove il 99,7% della biomassa è rappresentata da vegetali e dove l’individuo più grande è ancora un albero?
La memoria delle piante e chimiche fito-cognitive18 luglio 2010
https://gifh.wordpress.com/2010/07/18/l ... -cognitiveFino a qualche anno fa anche negli animali era tabù parlare di intelligenza, ma oggi non è più così, oltre all’istinto c’è di più. Penso che l’intelligenza sia una proprietà biologica, una proprietà della vita stessa, che si è adattata differenziandosi ed evolvendosi in modi distinti secondo precise esigenze biologiche.
In sintesi, non esistono esseri viventi privi di una forma di intelligenza, e il regno vegetale non fa eccezione, sebbene sia comprensibile quanto può essere difficile accettarlo senza porsi qualche interrogativo esistenziale.
Intelligenza del cavolo! Molti studi vengono condotti su piante come l'Arabidopsis thaliana, appartenente alla stessa famiglia del cavolo comune, e utilizzata come "organismo modello". Imagecredit: Wikimedia Commons
Il ruolo della chimica infatti non è relegato solo alle esigenze energetiche e riproduttive della vita vegetale, ma come per il regno animale, vi sono numerosi segnali di attività cognitive.
Le piante di pomodoro comunicano con quelle della propria specie anche a chilometri di distanza. I messaggi sono veicolati da sostanze chimiche e i contenuti sono, per esempio, “attenzione, attacco d’insetti”, ma si può trattare anche di dati sugli stati nutrizionali del terreno: “Da questa parte c’è acqua!”. Le piante sono territoriali e, non potendo spostarsi, difendono la loro area vitale con i “denti”. Quando una pianta entra con le radici nello spazio vitale della pianta di un’altra specie, vengono emessi segnali di avvertimento. Se vengono ignorati, allora si scatena una guerra chimica, con emissione di sostanze mortali per le radici dell’antagonista.
Il professor Stefano Mancuso è uno dei ricercatori più attivi in questo campo, a lui si deve il progetto di sviluppo del plantoide, il primo robot ispirato dagli studi sui vegetali, nato anche grazie ai finanziamenti dell’Agenzia Spaziale Europea che ipotizza di usarlo per la futura esplorazione di Marte. Il suo lavoro, svolto presso il LINV (Laboratorio Internazionale di Neurobiologia Vegetale Università degli studi di Firenze), si basa su un’intuizione fondamentale: anche le piante, a modo loro, posseggono l’equivalente di un cervello.
Finora sono state costruite molte macchine che imitano gli animali, ma mai una che imitasse una pianta. E invece le piante sono più dotate proprio nell’esplorazione e nella colonizzazione dei terreni sterili. Il progetto prevede l’invio su Marte di migliaia di semi artificiali che dovrebbero aprirsi, emettendo radici meccaniche che andranno nel sottosuolo e percepiranno molti parametri chimici e fisici. Quindi una “pianta madre” raccoglierà i dati e una volta al giorno li invierà a Terra». In questo modo si coprirebbero zone molto ampie, esplorando decine o centinaia di chilometri, con un consumo energetico bassissimo: i plantoidi trarrebbero l’energia solare da foglie artificiali.
Stefano Mancuso, intervenuto qualche giorno fa al TED GLOBAL 2010, una conferenza scientifica tenutasi a Oxford a cura di un’organizzazione no-profit (TED, acronimo di Technology, Entertainment, Design), ritiene che le piante siano sottovalutate. Le piante si muovono, giocano, rispondono alla gravità, dormono e comunicano, ma come riuscirebbero a fare questo senza un cervello?
Un supporto importante a questo quesito emerge da un recente studio pubblicato qualche giorno fa dalla rivista specializzata Plant Cell, in cui un gruppo di ricercatori polacchi guidati da Stanislaw Karpinski, mostrano che le piante non solo inviano segnali elettrochimici in maniera analoga al sistema nervoso animale, ma “ricordano” le informazioni (come uno stimolo luminoso) e sono dotate di cellule dedicate alla trasmissione di queste informazioni. La persistenza della memoria si concretizza esaminando le immagini acquisite con tecniche di fluorescenza per valutarne le risposte, in cui è evidente, anche dopo aver tolto la sorgente luminosa, la permanenza dello stimolo provocato dalla luce.
“Lo stimolo sensoriale quindi prosegue anche dopo che la luce è spenta, un modo per costruire una memoria a breve termine“, come sostiene Karpinski, in un suo messaggio di posta elettronica. “Le foglie sono fisiologicamente in grado di ‘memorizzare’ diversi episodi di eccesso di luce e utilizzano queste informazioni memorizzate, per esempio, per migliorare la loro acclimatazione e le difese immunitarie“.
Gli scienziati hanno scoperto che la luce su una foglia innesca una cascata di eventi, una catena di reazioni chimiche che segnala immediatamente al resto della pianta la situazione attraverso un tipo di cellule chiamate bundle sheath cell, presenti in ogni parte della pianta. Karpinski, della Università di Varsavia di scienze della vita in Polonia, ha misurato i segnali elettrici provenienti da quelle cellule, esaminandoli alla ricerca di un sistema centrale nervoso per i vegetali.
Christine Foyer, uno scienziato dell’Università di Leeds, ha detto che questo studio “porta il nostro pensiero un passo avanti”. Le piante devono sopravvivere a stress, come la siccità o freddo, superandoli e continuando a proliferare”. “Ciò presuppone una valutazione della situazione e producendo una risposta adeguata – il che è una forma di intelligenza.”
Non ci sono neuroni nelle piante, ma esiste sicuramente una rete di comunicazione ancora non completamente compresa.
Scommetto che per qualcuno potrebbe essere una notizia inquietante, visto che ancora oggi tanti esseri umani sono ancora pervasi dai deliri di discriminazione etnica e moltissimi sono gli increduli di fronte all’emotività animale, come potranno mai conciliarsi con queste rivoluzionarie e sconcertanti scoperte?