La racojesta - el viajo

La racojesta - el viajo

Messaggioda Sixara » sab mar 21, 2015 8:30 pm

La racogesta, el viagio
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di Gianfranco Tiozzo Netti , pubblicato in Chioggia.Rivista di studi e ricerche, n.40 (2012), pp.33-52 ora in :Il sale del sudore. Ortolani marinanti del novecento, Profilo di una comunità 5, Art&Print, Chioggia, 2013, con il titolo : La racogésta, pp.75-82.

La racogesta la conta de na jornata so le tère - i orti marinanti - a fare la racojesta, ke no xe la senplice cavà de le verdure . La cavà la se faxea pa i marcà locali, la racojesta la jera pa cueo de Rialto a Venezhia... na spece de cavà de la festa, dixen, le verdure le jera le pì bèle, le mejo prexentà, vestìe pa la festa propio: pevaroni rosi e zài, melanzhane, sèano, sìole, carote, i bìxi e la famoxa giassiòla, na coalità de salata tènara e jentile ca faxea solo lori.
Momento favoloxo del contare de Franco putìn l è el ricordo de sto viagio ke l fà, pa conpagnare so papà a Venezhia, via laguna, de nòte a vardar le stéle ke sopapà el ghe le segnava ona a ona...
La prima e anca l oltema volta - el dixe Franco - pa diversi àni a vegnere.

Gianfranco Tiozzo Netti l è ortolano de Sotomarina, ma anca pitore e scritore. E l canta anca, tel Coro Popolare Cioxoto.

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Fiòi sùxo!

Fioi sùxo! alsève che vostro pare a xe zà andao via!
Questo era il richiamo che nostra madre faceva con la morte nel cuore, a noi ragazzi dormienti, scuotendoci leggermente la spalla , dai che la late a xe vegnùa suxo.
Qualcuno di noi batteva il pugno sul pavimento di legno per far sentire che eravamo alzati, giusto per recuperare qualche secondo di sonno.
Dopo un minuto di nuovo, mia madre : zo fioi che la late a fa la pàna, alsève suxo! dai che vostro pàre a zà fato la cavà!
Parlava con una voce quasi di pianto, sapeva che qualcuno di noi era andato a dormire dopo le undici e adesso erano solo le tre del mattino.
(...) Si beveva il latte accompagnato dal pane avanzato o dai bosolai. Nessuno di noi proferiva parola. Si sbriciolava il pane a piccoli pezzi, inzuppandolo nel latte, coprendo tutta la scodella facendo in modo, che quando era finito il pane, non c'era più nemmeno il latte.

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A partìvino

Si partiva con le biciclette pesanti senza faro. Io ne avevo una da donna, frutto del passaggio di fratello in fratello.
Io andavo con questa bici da donna, ma provavo grande vergogna a non avere la bicicletta pesante con due telai e il suo bravo portapacchi dietro che mi avrebbe fatto sentire più uomo.
(...) Si andava illuminati dalla luna, c'era chi andava a tre o quattro assieme e occupavano quasi tutta la strada, macchine non ce n'erano e camion ancora meno. La strada era a disposizione di tutte quelle biciclette : ce n'erano a migliaia che circolavano, nell'arco di un'ora.
Arrivati a Brondolo si doveva fare il giro del forte, che a quei tempi aveva ancora le mura integre. Da questo punto in poi la strada non era più asfaltata (...) il ponte che attraversava la Brenta era cento metri più a ovest della ferrovia e per questo si doveva passare per due volte il passaggio a livello del treno, uno dalla parte nord della Brenta e uno a sud. In questi passaggi era consuetudine passare anche con le sbarre abbassate (...).
Io pedalavo in questa strada verso Ca' Lino ed il sonno mi prendeva : non ero ancora avvezzo alle levatacce mattutine. Cercavo di tenere gli occhi aperti ma mi si chiudevano, li aprivo di nuovo e si richiudevano. Finché andai a finire su una motta di ghiaia, cadendo rovinosamente, alzandomi subito a cercare le patele di legno che avevo perduto.
Per qualche minuto sono stato lo zimbello di tutti quelli che arrivavano dopo di me :
Oòò! Cuanto ghe n'astu de sono? - e ridevano - Francoo t 'astu spalexao? Neti !indonde credevistu de nare, credevistu de esare zà rivao?!
Io rosso in viso ma sveglio, pedalavo via più veloce che potevo.

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Le tère

La nostra terra che si trova a Ca' Lino è divisa in due piccoli appezzamenti, distanti fra loro circa cento metri, su di uno c'era el caxon, mentre sull'altro non c'era nulla per mettere all'ombra le verdure. E allora bisognava trasportarle nel campo dove c'era il caxon.
Quando sono arrivato io, gli altri della famiglia stavano raccogliendo l'insalata giassiòla; si levava dalla terra con l'intorta, cioè girando la pianta, lasciando la radice per terra, si mondava delle foglie gialle e si metteva nelle corbe.
Essendo vicino alla strada, tutti quelli che passavano , e a quell'ora erano tutti salatàri , facevano battute di questo tipo : Dàghela ai òchi! un modo benevolo per dire che non valeva niente (...) oppure - sunémo le fravole! per dire che era una cosa preziosa, e se qualcuno diceva : - femo la racojesta? si rispondeva : - Sì! femo el viajo! e l'altro - eh.. deso vago anca mi!

L'insalata gonfia di rugiada, faceva bella mostra di sé dentro le còrbe; con il sole ancora basso nel cielo si metteva un telo di juta sopra l'insalata, legato nei quattro angoli perché non scivolasse, poi si caricavano in spalla, una pesante còrba a ciascuno e la portavano nell'altro appezzamento distante cento metri. Io non le portavo perchè ero troppo piccolo e non avevo la forza, mi limitavo ad aiutarli a caricare in spalla e dopo correvo ad aiutare a scaricare dove arrivavano esausti. Per portare tutta l'insalata si facevano sei, sette giri.
Si metteva ben accatastata al fresco dentro al caxon. Poi si cominciava a raccogliere il sedano : sènalo da istae, curto e groso, taparòto. Si raccoglieva, si puliva e legato a mazzi con il cortelo da verxe, si tagliavano le radici più lunghe, poi si metteva una tavola di traverso al fosso, si lavorava la radice del sedano soppesandola sull'acqua, poi veniva messo accatastato e coperto all'ombra del pergolato.
Intanto si erano fatte le otto del mattino ed era l'ora della merenda. Di solito la polenta e il companatico erano tenuti per il mezzogiorno, però nei giorni caldi si mangiava come merenda, perché sarebbe diventata acida : fioi biò che magnemo la polenta, ossinò ora de mexodì la devente agra.
E si era all'ombra del pergolato vicino al fosso, la brezza che veniva dal mare dava una sensazione di benessere (...) nel fosso l'acqua scorreva veloce, formando piccoli mulinelli, che a tratti sparivano, per poi ricomparire più avanti, facendo dondolare le erbe acquatiche, che crescevano sul fondo del fosso.

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Gigio ranàro

(...) A quei tempi in quella zona soleva praticare un uomo che veniva dalle campagne vicine : pescava rane con la canna ed era chiamato Gigio ranàro.
Era una persona molto cordiale, amico di tutti, girava per i fossi in cerca di rane (...) gli ortolani dei dintorni erano contenti che passasse questo personaggio, perché era una persona molto aperta, chiaccherona. Al contrario della maggior parte degli ortolani, che sono abbastanza chiusi e poco inclini al parlare.
Gigio ranàro adoperava un linguaggio molto colorito e aveva un vocabolario tutto suo. Poi se si fermava all'osteria del Marasiàlo e beveva qualche onbreta de vin diventava un vero poeta, così i timidi ortolani trovavano con lui un momento di riposo e si divertivano a quei ghirigori di parole e versi detti in rima baciata.
Mentre eravamo intenti a far merenda, capitò per caso a passare lungo il nostro fosso e quando ci vide succhiare i buòboli con la polenta ci disse - sensa fare toto bete, ve ne sfondrè tre-cuatro fete, co l 'acua fa i siogòli, ve ne cukè tre fete co i bobòli, e cusì ben a l' onbria, nà sarave pì finia! - e noi tutti a ridere a crepapelle ad ascoltare quelle parole apparentemente senza senso. Si ascoltava volentieri la sua voce felpata, ingrossata dai fumi del vino.
Un passante con pochi capelli in testa facendone la parodia gli grida dalla strada : còsa fastu Gigio quà, tioi la cana e vai a cà!. La sua voce sgraziata faceva sembrare ancora più grottesca quella volgare imitazione,
facendoci venire voglia di prendere le difese di Gigio. ma lui senza perdersi d'animo rispose per le rime :
dal monte al mare, Gigio ranàro va senpre pescare, dal sole a la luna, Gigio ranaro no ghe fa male nisuna, e ti ti sì on dexgrassià testa peeà! e noi, tutti di nuovo a ridere, compreso il pelato, che per forza doveva far buon viso a cattiva sorte e si sganasciava davanti a tutti, ma coi denti stretti.

Alle otto e mezza eravamo già a raccogliere peperoni, melanzane e cetrioli. Con i corbati si andava in mezzo alle piante, si raccoglievano le verdure e poi si travasava il contenuto nelle corbe.
Con i peperoni era un lavoro abbastanza bello (...) la raccolta dei cetrioli era un lavoro un po' meno bello, perché bisognava stare sempre curvi nella ricerca dei cetrioli che si nascondono fra le foglie (...) ma per raccogliere le melanzane era un calvario.
Le spine attaccate al picciolo della melanzana si piantavano nelle mani, poi ci sono spine in tutta la pianta e le foglie fanno un pulviscolo che provoca prurito in tutto il corpo. Essendo nudi per il caldo, ci si trovava pieni di graffi sulle braccia e in tutto il corpo che alla fine della raccolta eravamo costretti a immergersi nel fosso e a lavarsi con la fresca acqua dell'Adige, che correva lentamente in mezzo alla grata, lambendo dolcemente le rive dei fossi.

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La menestra co i 4 sàsi

Alle undici e mezza mio padre accendeva il fuoco per fare la minestra.
(...) Per fare la minestra veniva messa una pignatta piena di acqua sul fuoco, aggiunto una decina di patate tagliate a dadi, un grosso sedano, due cipolle, carote sempre tagliate, sale a volte dell'olio. In un'ora si cuoceva tutto e veniva un minestrone molto denso (...) molto buono, che ancora oggi, dopo tanti anni mi viene la nostalgia di quel piatto.
Mentre si mangiava si discuteva che il minestrone si può fare con mille ingredienti (...) e mio padre mi raccontava per la millesima volta una storia, di quel vecchio che andava di casa in casa a chiedere l'elemosina.

Bussa alla porta della casa di una donna benestante ma tirchia, la signora dice al vecchio :
n'dé in paxe cristian, no ò gnente gnanca par mi
Allora il vecchio disse : se mi promette di darne un piatto anche a me, io ho quattro sassi che fanno un minestrone buonissimo.
Il vecchio tirò fuori dalla bisaccia quattro grossi sassi ben avvolti , uno per uno, con dei piccoli panni, ordinò alla donna di mettere su l'acqua e mise i quattro sassi dentro la pignatta.
Quando l'acqua fu in ebollizione il vecchio disse : se ghe fuse do patate la vegnarave ancora pì bona,
e la donna portò le patate; e il vecchio ancora : se ghe fuse na brancà de faxioi, la vegnarave pì bona de pì, e la donna portò una manciata di fagioli;
se ghe fuse on tòco de sènalo e na siola, sastu che bona che la vien , e la donna portò cipolla e sedano.
Se ghe fuse na mexa onxa de ogio la vien la fine del mondo! e la donna portò l'olio;
se ghe fuse na mexa cuarta de rixi, sastu che figura che ti fa co i toi, e la donna portò il riso.
Dopo dieci minuti, il vecchio disse : adeso la xe pronta.
Mangiarono tutti a sazietà, una minestra così buona che non ne avevano mai mangiata.
Nel momento di accomiatarsi la donna non sapeva come ringraziare quel povero vecchio, di quei quattro sassi miracolosi che fanno la minestra così buona e chiese al vecchio se voleva qualche regalo, ma il vecchio disse di no, anzi : - te laso sti cuatro sàsi, tègniteli da conto, fa cuel che t'ò ito e ti puoli far cuante minestre che ti vuoli - convincendo la donna che erano stati quei 4 sassi miracolosi a fare la minestra così meravigliosamente buona, e non gli ingredienti che il vecchio, astutamente si era fatto dare.

La racojesta

(...) Dopo mangiato si faceva un sonnellino di un'ora. Poi si ricominciava a confezionare negli imballaggi per Venezia, i ordegni, peperoni e melanzane su ceste, cetrioli ed insalate su casse. (...) Prima i cetrioli, messi su casse a tre strati con sopra i più belli e scuri; dopo le melanzane , messe sempre con lo stesso criterio, con quelle viola scuro come covertina. Per i peperoni si facevano due cernite : quelli gialli e rossi avevano un valore superiore ( di quelli verdi), erano per i palati più fini di Venezia.
Per ultima veniva confezionata l'insalata: veniva levata qualche altra foglia maltrattata, adagiata con cura nelle casse fino a riempirle, poi veniva messa tutta in giro, con le cime delle foglie verso fuori in modo che apparisse tenera e voluminosa, con quattro canne impiantate da cima a fondo (...) in modo che non scivolasse durante il trasporto, un po' di gràta sopra per tenerla più fresca.
(...) Nei periodi più caldi non si doveva lasciare la giassiòla maturare, perchè il calore del sole faceva bollire la rugiada e faceva marcire le piccole foglioline centrali : la ciape el babao tel corexin.
Le verdure confezionate e messe insieme facevano un bellissimo colpo d'occhio, sembrava un enorme quadro, con il verde cupo dei peperoni, un po' più chiaro degli spinaci,il verde quasi giallo dell'insalata, il verde-bianco
del sedano, il violetto delle melanzane, il rosso e giallo dei peperoni maturi.
(...) Intanto il carrettiere si preparava qualche ora prima e stava lì ad aspettare che finissimo per caricare nel carretto trainato dal cavallo. Nel frattempo ci dava tutte le novità, di quanti salatari facevano la raccolta in quel giorno e la quantità per ogni ortolano. Sapeva tutto perché faceva parte di una carovana di carrettieri che serviva tutta la zona da la Brenta a l 'Adige, che era il posto dove c'erano la maggior parte dei salatari.
Tutto questo territorio era approvvigionato di acqua dal machinario, enormi pompe con motori a nafta , site a metà del canale della Busiòla, che portava l'acqua dell'Adige con un canale di cemento – el scolo de la rigassion - che con un lungo percorso arrivava nei posti più reconditi della Pelàssa e del Lubion fino a la Brenta e Ca' Lino.
Caricato il carretto, mio padre mandava me, che ero il più piccolo, ad accompagnare il carico, così quando ero a Sottomarina, andavo a casa e loro, i miei famigliari, restavano negli orti qualche ora in più. I batelànti erano con le loro grosse barche che aspettavano i primi carri per caricare gli ortaggi, ormeggiati sulla riva del Tragheto.
La verdura veniva messa ben accatastata nei burci, il cestame più leggero come insalata e spinaci, veniva messo in sentina, e le casse più pesanti come cipolle, patate, sedani e zucche, venivano accatastate sul ponte. (...) Si cenava e poi mio padre partiva con il battello per Venezia.

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Re: La racojesta - el viajo

Messaggioda Sixara » mer mar 25, 2015 12:37 pm

El viajo

Si cenava e poi mio padre partiva con il battello per Venezia.
Quella sera ho voluto partire anch'io, per curiosità e per fare una nuova esperienza, anche perché al di fuori del posto dove ero nato non avevo visto niente; praticavo solo quelle due o tre calli e in marina, l'attuale via S.Marco e andare a Venezia era un'avventura di non poco conto.

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Alle dieci di sera tutti gli ortolani erano imbarcati nei battelli pronti per partire, quella sera erano quattro barche, due con il motore e due al traino.
Si partiva in convoglio, una barca dietro l'altra, illuminati dalla luna e lungo i canali mi soffermai ad ammirare il cielo.
Era la prima volta che vedevo il firmamento seduto sul ponte della barca : restai estasiato da tanta bellezza e chiesi a mio padre dove era la stella polare (...) e dove era il carro maggiore e quello minore.
La stella polare me la indicò subito senza esitazione ( ...) ma per le altre stelle le cercò nella volta del cielo, incuriosito più di me e si vide il carro minore, con all'estremità la stella polare, il carro maggiore, molto più grande e al centro del cielo miliardi e miliardi di stelle; si vedeva la via lattea che illuminava il cielo quasi più della luna e l'incanto stupendo di infinite tremule fiammelle.
(...) Poi guardando le stelle mio padre mi indicò una stella ad est, ma meno luminosa di altre di quella dimensione. Vedi - mi disse - quella è la stella del mattino e molte volte è vicino alla luna e se all'aurora ti alzi e le vedi vicine, vuol dire che farà buon tempo.
Eravamo seduti sul ponte della barca, appoggiati con la schiena ad una catasta di cipolle, con le teste vicine e con un dito mi indicava la stella :
Vedistu che la stela co la luna le xe xormane; la luna la xe na vagabonda e la gire par el sielo e la va donde che la vuole, vesse la stela camine pì a pian, la se ferme a spetarla, parché la ghe vuole ben ai marineri e ai pescaori che bate el mare e a tuti cuei che lavore a la riverta, come nualtri ortolani. Co le xe asieme, le xe de la teribile, le scase i nuli e le fa scanpare i maltenpi, co la xe sola in sielo a l'alba, la xe l'ultima a sparire de tute le stele, la spete senpre la luna che ghe vaghe visin.
(...) Io pensavo che mio padre sapesse solo di insalata, sedano e verdure varie, ma conosceva anche le stelle coi pianeti ed ero orgoglioso di essere figlio di un uomo così pieno di sapere.
Intanto gli altri ortolani discutevano per andare a dormire, perché sotto coperta non ci stavamo tutti e sopra il ponte faceva freddo : senpre ai stesi ghe toche de ndare soto proa, xei pì bei dei altri!
E l'altro rispondeva : mi vegno cuatro volte la setimana a Vanesia, aromai el me posto lo ò, ti che ti vien na olta a la olta, ti vuoli fregarme el posto!.
E mio padre : se no vesse el fio, starave mi desora, ti te te meti la jacheta de sora, el capelo sul muxo e l'aria no te la senti gnanche; infine si trovò un accordo e si andò a dormire.

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Alle quattro del mattino mio padre mi chiamò per dirmi che dovevo scendere dal battello, perché le barche dovevano ripartire per il ritorno. Due ore prima erano arrivati a Rialto, avevano scaricato gli ortaggi al mercato, ricaricato le casse vuote di ricambio, sbattendo e vociando, ma io non avevo sentito niente, stanco per la nottata diversa dalle altre e in più il giorno prima mi ero alzato alle tre.
Mi accompagnò al bar del mercato e ordinò per me un bicchiere di latte e una briosce: era la prima volta che mangiavo questo dolce, ero abituato a casa che qualche volta la mamma comprava le fugassete co le uete (...).
Il mercato di Rialto era tutto un fermento di persone, di voci, risate, battute, richiami e imprecazioni; la gente contrattava il prezzo delle verdure, per me era tutta una novità (...). Io mi divertivo molto a seguire le contrattazioni e poi era la prima volta che sentivo quella parlata, fino ad allora avevo sentito solo il marinante e qualche volta il cioxoto; udivo quelle parole molto simili, ma non esattamente uguali, con una cadenza più forte e molto più chiaccheroni di noi e mio padre che si adeguava benissimo alla loro parlata.
Il bar del mercato pullulava anche di gente (...) al di fuori degli addetti ai lavori, che veniva a bersi gli ultimi bicchieri di vino, in quel locale aperto così di buon'ora.
Mentre stavo bevendo il mio latte, mi si avvicinò un signore anziano; stava con il suo ultimo bicchiere in mano. Era di quei tipi aperti e chiaccheroni, sempre con la battuta pronta. A me sembrava il fratello di Gigio Ranaro: mi divertivo ad ascoltarlo che le sparava grosse. Mi diceva, che noi di campagna mangiamo la polenta buona, fatta con il nostro formenton, mentre loro a Venezia, mangiano semojon,, farina che gli portavano per fare una polenta alta e dura che ci vogliono i denti da cavallo per mangiarla.
Alla mia risposta, che non sono di campagna, ma abito in paese su di un isola, lui mi rispondeva – jo so! Jo so!.
Ma continuava a considerarmi un campagnolo.
Diceva che noi mangiamo le galline ruspanti, mentre loro mangiano i polli che sanno di pesce. Io cercavo di difendermi dicendogli che abito a Sottomarina : ho gli orti in campagna! Ma per abitare, sto in paese.
E lui di nuovo : jo so! jo so!. Alla fine si congedò dicendomi di non cambiare, di restare sempre in campagna. Dove si vive una vita sana, si mangia roba genuina e fresca. Mentre loro in città mangiano porcherie.
Mio padre, che era nelle vicinanze si divertiva moltissimo nel sentire quell'uomo che conosceva bene, che parlava sempre, in continuazione.
E io che battagliavo per fargli capire che non ero di campagna. Per i mesi a venire mio padre mi ripeteva sempre : elora cossa te dixevelo chel'omo? .. jo so! jo so! e ridevamo insieme.
(...)

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Finito il mercato siamo partiti per tornare a casa. Abbiamo attraversato molte calli per arrivare in piazzale Roma a prendere il pullman. Durante il tragitto mio padre si fermò in una bottega a comperare un cartoccio di caramelle, cosa che faceva di consueto, una volta alla settimana, per distribuirle a noi ragazzi, compito affidato alla mamma. Verso le undici eravamo a casa. Mio padre si scambiò i vestiti, mise gli abiti da lavoro e andò negli orti, dove c'erano i miei fratelli.
Io per quel giorno rimasi a casa e raccontavo alla mamma, che mi ascoltava compiaciuta e divertita, le mie avventure, le nuove esperienze, raccontando per filo e per segno tutti i particolari, non tralasciando nulla di quel viaggio bellissimo che mi ripromettevo di rifare.
Ma non fu così, perché era stato il primo e anche l'ultimo per diversi anni.
Mangiai e andai a letto per riposare un'ora e ripartire sugli orti ma mi svegliai il giorno dopo, quando mia madre mi chiamò per andare al lavoro con i miei fratelli; quel giorno mi aveva lasciato dormire per tutta la giornata.
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