Io sto con Trump e gli USA - contro l'antiamericanismo

Io sto con Trump e gli USA - contro l'antiamericanismo

Messaggioda Berto » mar mag 15, 2018 5:48 pm

Io sto con Trump e gli USA - contro l'antiamericanismo
http://www.filarveneto.eu/forum/viewtop ... =25&t=2771


Idiozie antiamericane.
A noi veneti gli USA non hanno mai fatto del male anzi ci hanno difesi dai nazismi fascista, nazista, comunista. Poi hanno accolto tanti veneti di buona volontà costretti a migrare dalla miseria.
Grazie America, grazie USA presidio di libertà e di democrazia per il mondo intero.
Grazie America per averci salvato noi europei dal fascismo, dal nazismo e dal comunismo e oggi con il buon Trump dal nazi maomettismo che è la piaga peggiore dell'umanità, speriamo che il buon Trump ritorni;
grazie per aver difeso la democrazia e contrastato le dittature, grazie per aver difeso l'uomo di buona volontà;
grazie per aver dato asilo e un futuro a decine di di milioni di migranti regolari e volonterosi da tutta la terra, grazie per il tuo Sogno Americano, grazie per la tua libertà;
grazie per il tuo buon esempio, grazie per aver aiutato la buona umanità di tutta la terra, grazie per esserci.



Io sto con chi mi è più simile, con chi condivide i miei stessi valori, umani, civili, culturali, economici, politici, con chi è per la democrazia laica e per il libero mercato, con chi rispetta i diritti umani universali, con chi avversa e combatte tutti i totalitarismi, gli assolutismi, i dogmatismi, nazismi siano essi fascista, ariano, comunista, maomettista.




Grazie America, grazie USA, grazie NATO, grazie UE
viewtopic.php?f=143&t=3007
https://www.facebook.com/alberto.pento/ ... 3266258465


Demenziali domande scriteriate e paragoni impossibili dei demenziali sostenitori di Putin per giustificare i suoi crimini e demonizzare l'Ucraina e l'Occidente UE, USA e NATO

https://www.facebook.com/Pilpotis/posts ... M3UMFmzfql

Non sono domande di buon senso ma domande demenziali assemblate appositamente dalla propaganda filo russa che fanno leva e presa sulla ignoranza della maggior parte della persone.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Io sto con Trump e gli USA e antiamericanismo

Messaggioda Berto » mar mag 15, 2018 5:59 pm

GLI APOSTATI DELL'EUROPA DHIMMI
Niram Ferretti
14/05/2018
https://www.facebook.com/permalink.php? ... 4575318063

Israele ringrazia Ungheria, Repubblica Ceca, e Romania per avere bloccato la risoluzione targata Unione Europea che condannava la decisione di Donald Trump di dichiarare Gerusalemme capitale di Israele.
Già l'anno scorso, all'ONU, questi paesi si astennero quando la maggioranza dei paesi europei votarono insieme agli stati arabi contro la decisione americana.
I rispettivi ambasciatori saranno presenti oggi, insieme all'ambasciatore austriaco, al ricevimento che si terrà per l'inaugurazione dell'ambasciata americana che aprirà i battenti domani a Gerusalemme.
La UE, questo coacervo burocratico senza anima, non perde mai una occasione per sottolineare la propria dhimmitudine e il proprio consolidato antiamericanismo.
Ora che gli USA si presentano ancora sul palcoscenico per quello che sono dalla fine della prima guerra mondiale a oggi, la più grande potenza del pianeta, in Europa non possono che masticare amaro.
Obama, l'europeo onorario, appartiene ormai al passato. L'incarnazione potentemente americana che Donald Trump rappresenta non è sostenibile per una Europa che da decenni ha fatto dell'antiamericanismo la propria lingua franca.
Oggi più che mai questo antiamericanismo funzionale è apparentato all'antisionismo, e non può essere che così. Si tratta di diverse idee di mondo, di diversi asetti valoriali.
Il vecchio occidente europeo, sempre più privo di identità e radici mal sopporta due paesi con un forte senso di sè, profondamente orgogliosi della propria storia, uniti con determinazione intorno alla propria bandiera.
Nelle parole di John R. Bolton, “Credono, (gli europei) di essere messi in pericolo da quelle nazioni come Stati Uniti e Israele che fino ad oggi hanno deciso di non potersi permettere di finire preda dei falsi sogni di riuscire a districarsi dai pericoli del mondo restando in uno stato di torpore o inginocchiandosi al cospetto di un attacco“.
Falsi sogni a cui nè gli USA oggi nè Israele per vocazione, possono permettersi di indulgere.


Ferruccio Bovio
vorrei conoscere l'opinione di Niram Ferretti riguardo alla schiettezza ed alla solidità dell' atteggiamento filo israeliano dei tre Paesi dell'Est che vengono citati nel post : quanto c'è di effettivo abbandono di atteggiamenti tradizionalmente ben poco favorevoli al mondo ebraico e quanto, invece, pesa tatticamente l' esigenza economica ( e magari anche militare ) di non deludere mai le aspettative degli Americani ?

Niram Ferretti
Ferruccio Bovio non sono in grado di valutare la solidità dell'atteggiamento filo-israeliano dei paesi dell'Est europeo. I paesi del gruppo di Visegard sono strategicamente filo-americani avendo conosciuto bene sulla propria pelle cosa significa essere stati sotto il tallone della Russia. L'antisemitismo tradizionale è sempre presente e non scomparirà di certo. Il punto non è questo, il punto è la convergenza nei confronti di USA e Israele nella condivisione di una visione alternativa rispetto a quello dell'Europa dell'Ovest.

Ferruccio Bovio
certo, in politica contano i fatti e non i retro pensieri...ed i fatti ci dicono che i tre Paesi in questione assumono oggi un atteggiamento più filo ebraico, rispetto ad altri che pure vengono da tradizioni di anti semitismo più sfumate .

Elisabetta Dell'Arca
Totalmente d’accordo con Niram. L’antisemitismo non è l’elemento decisivo, non perché non sia gravissimo ma perché è presente in tutta Europa, in forma più tradizionale a Est, come antisionismo a Ovest. Anzi direi in forma più insidiosa a Ovest, tutto sommato. La differenza la fanno le scelte in politica estera. Inoltre i paesi dell’Est sono in rotta di collisione con la UE

Vincenzo Savastano
bravo dott. Ferretti, un bell'articolo che rispecchia la realtà.
Vi ricordo che il solo capo di stato straniero a partecipare alle reunioni del gruppo Visengrad è stato Netanyahu.

Tiziana Alvari
Non semplicemente; annesso. Conquistato con una guerra scatenata contro Israele .Giudea e Samaria erano state assegnate ad Israele. Provi a disegnare così

Antonio Melai
Annesso in quanto per legge entrato a far parte integrante del territorio nazionale anni "dopo" la conquista militare. Giudea e Samaria non hanno ancora quello status

Tiziana Alvari
Non lo hanno ma erano state assegnate ad Israele, occupate da Egitto e Giordania nel '48 e riconquistate nel '67.Stiamo dicendo la stessa cosa ?

Antonio Melai
Si, con parole differenti, ma la stessa cosa.

Niram Ferretti
Giudea e Samaria appartengono ai territori a occidente del fiume Giordano che il Mandato Britannico per la Palestina del 1923 assegnava alla disponibilità ebraica. I territori vennero catturatti dalla Giordania nel 1948 e successivamente annessi illegalmente nel 1951. Vennero nuovamente catturati da Israele nel 1967 a seguito della Guerra dei Sei Giorni. Essendo territori privi, legalmente, di un detentore sovrano, sono tecnicamente territori contesi. Gli Accordi di Oslo del 1993, "superano" in un certo senso le disposizioni del Mandato, assegnando all'Autorità Palestinese, l'Area A e quella B.


Edoardo Quarta Io non credo si tratti di antiamericanismo, io credo che con tutti i musulmani che ci sono in Europa e con la dipendenza energetica che ha l europa dai paesi arabi ci troviamo quasi ricattati, l america non ha di questi problemi

Niram Ferretti
L'antiamericanismo è un costitutivo strutturale dell'Europa. Ha una lunga tradizione che risale addirittura, nella sua matrice conservatrice e antiliberale, al 1776. Per quanto riguarda i tempi più recenti è dal 2001 soprattutto, dopo l'11 settembre, che l'Europa ha abbracciato una ondata di antiamericanismo radicale, superiore a quello degli anni '60, '70, durante la Guerra del Vietnam. Per quanto riguarda la dipendenza energetica oggi l'Europa non si trova più nella posizione in cui si trovava negli anni '70 quando l'approvvigionamento dal petrolio dipendeva esclusivamente dai paesi dell'OPEC. L'Europa ha iniziato a consoliodare un progetto di autonomia dagli USA e di allargamento al mondo musulmano a metà anni '60, con in testa la Francia, il paese più fortemente antiamericano del continente, seguito dalla Germania (della Grecia, ferocemente antiamericana non tengo conto per la sua irrilevanza politica a livello internazionale).
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Re: Io sto con Trump e gli USA e antiamericanismo

Messaggioda Berto » mar mag 15, 2018 5:59 pm

1776
https://it.wikipedia.org/wiki/Guerra_d% ... _americana
La guerra d'indipendenza americana, denominata anche Rivoluzione americana (in inglese: American War of Independence, American Revolutionary War o American Revolution) o guerra d'America (in francese: guerre d'Amérique), fu il conflitto che, tra il 19 aprile 1775 e il 3 settembre 1783, oppose le tredici colonie nordamericane, diventate successivamente gli Stati Uniti d'America, alla loro madrepatria, il Regno di Gran Bretagna.
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Re: Io sto con Trump e gli USA e antiamericanismo

Messaggioda Berto » mar mag 15, 2018 6:00 pm

Perché l'Europa odia l'America, Markovits lo spiega in un libro
di Antonio Donno
2017/02/04

https://www.ilfoglio.it/esteri/2017/02/ ... smo-118089

Sono scettico sulla tradizione politica europea. Ed io, e molti altri, siamo ancor più scettici sulla realtà dell’Unione europea. La consideriamo come un elemento di divisione dell’occidente, e, invero, della stessa civilizzazione ‘europea’; implicitamente, e spesso esplicitamente, antiamericana; e oggi, e ancor peggio in futuro, un incubo (immensamente corrotto) basato sulla burocrazia e sulla regolamentazione; contraria alla tradizione fondata su legge-e-libertà”, cioè la tradizione liberale della sfera angloamericana. Così scriveva Robert Conquest, insigne sovietologo, sulla New York Review of Books dell’11 marzo 2000. E l’ultimo libro di Andrei S. Markovits, Uncouth Nation: Why Europe Dislikes America (Princeton University Press) conferma la valutazione di Conquest. In più, fu Hannah Arendt, nel 1954, a definire l’antiamericanismo europeo come costituivo della stessa identità europea.

Il “nuovo mondo” aveva finito per soverchiare il “vecchio mondo” e così l’antiamericanismo, scriveva Arendt, aveva finito per divenire un nuovo ism, fondato sull’invidia, nel vocabolario europeo. Markovits condivide la vecchia, insuperata analisi della Arendt e finisce con l’affermare che “l’avversione verso l’America è divenuta oggi più grande, più volgare, più determinata. E’ divenuto il dato unificante gli europei occidentali più di ogni altro sentimento politico, ad eccezione della comune ostilità verso Israele”. L’antiamericanismo è divenuto la “lingua franca” degli europei; tanto più dopo l’impegno americano, ai tempi di Bush, nel medio oriente. Ma la cosa più sorprendente, e per certi versi ancor più oscena, è che l’antiamericanismo europeo ha avuto un salto di qualità dopo l’11 settembre, prima ancora delle decisioni di Bush di intervenire per abbattere il regime di Saddam Hussein. Insomma, in quella circostanza, nonostante l’evidenza dell’estrema gravità dei fatti accaduti, l’antiamericanismo degli europei ha avuto una valvola di sfogo in un atteggiamento, consapevole ma più spesso inconsapevole, di soddisfazione per ciò che era accaduto a “Mr. Big”.

Ma l’antiamericanismo, secondo l’analisi di Markovits, ma anche di una lunga tradizione di studi sull’argomento, ha le sue radici nel momento stesso in cui la rivoluzione americana aveva dato vita a una nuova nazione e questa nuova nazione aveva mosso i primi audaci – e perciò irritanti per gli europei – passi nel sistema politico internazionale di impianto eurocentrico. Un’audacia offensiva per gli europei che aveva lasciato un lungo strascico di insofferenza, dispetto e perfino odio negli europei verso gli americani, un popolo rozzo, ignorante, presuntuoso, insopportabile. In fondo, scrive Markovits, l’America era nata da una costola dell’Europa, ma si era affrancata dalla vecchia madre ben presto. E, così, l’anti-americanismo aveva preso la piega attuale: “Questi sentimenti e prese di posizione negativi sono stati determinati non solo – ma anche soprattutto – da ciò che gli Stati Uniti fanno, ma piuttosto da un sentimento contro ciò che gli europei credono che l’America sia”. Cioè, in definitiva, una posizione contraria di natura esistenziale, nel cui ambito il termine “americanizzazione” acquista un significato spregiativo. Ma una parte assai interessante dell’opera di Markovits riguarda il binomio antiamericanismo/antisemitismo.

Markovits fa presente che la sua attenzione verso l’anti-semitismo è strettamente connessa all’anti-americanismo, in quanto “la violenza dell’ostilità verso Israele può essere compresa soltanto in stretta relazione all’antiamericanismo e all’ostilità verso gli Stati Uniti”. Allo stesso modo, l’antisemitismo e l’avversione verso le politiche di Israele si connettono, comportando anche l’opposizione all’esistenza di Israele come stato. Mentre l’opposizione alle politiche di Israele e alla fondazione stessa dello stato di Israele non sono concettualmente segno di antisemitismo, afferma Markovits, nella realtà ambedue spesso ricadono nell’antisemitismo. Tutto ciò fa il pari con l’antiamericanismo: “Israele, a causa della sua associazione con gli Stati Uniti, è di fatto percepito dagli europei potente quanto l’America, essendo l’uno l’estensione dell’altro e viceversa”.

Inoltre, Israele è alleato degli Stati Uniti, ma gli Stati Uniti sono alleati di molti altri paesi. La cosa, allora, sembra non quadrare. La spiegazione che dà Markovitz va al fondo della questione. Israele è uno stato ebraico e l’Europa si porta dietro un grande problema con il popolo ebraico, un problema irrisolto e fastidioso per la coscienza europea. E allora, dal momento che l’antiamericanismo europeo, come si è visto, è della stessa stoffa dell’antisemitismo del Vecchio Continente, un problema altrettanto irritante per gli europei, l’associazione storica, politica e culturale tra i due paesi produce la medesima associazione antiamericanismo/antisemitismo. Il cerchio è chiuso.
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Re: Io sto con Trump e gli USA e antiamericanismo

Messaggioda Berto » mar mag 15, 2018 6:01 pm

Antiamericanismo
https://it.wikipedia.org/wiki/Antiamericanismo

L'espressione antiamericanismo, descrive una posizione ostile (un atteggiamento talvolta definito come sentimento antiamericano) nei confronti della politica, della cultura e della società degli Stati Uniti d'America.
Il termine ed il concetto sono rigettati tuttavia dalla maggior parte dei detrattori della politica degli Stati Uniti, che considerano il termine carico di pregiudizi e quindi non criticamente fondato. La percezione del sentimento antiamericano ha le sue attitudini nel campo della politica estera, e i conflitti del Vietnam e dell'Iraq sono temi su cui molto si dibatte.
Secondo lo studioso Paul Hollander, l'antiamericanismo non è un vero odio nei confronti dell'America, ma una convinzione fondata sul pregiudizio che l'America influisca negativamente sulla cultura e la società e ne sarebbero l'esempio il consumismo e lo stile di vita praticato dai suoi cittadini. Altra tesi è stata suggerita dalla francese Marie-France Toinet, la quale sostiene che il termine non è fuori luogo o solo una carica di stereotipi e pregiudizi, ma una reazione di stati minacciati dall'impero economico e militare qual è l'America.



http://ita.anarchopedia.org/Antiamericanismo
Il termine Antiamericanismo é un usato spesso da politici e giornalisti per indicare un pregiudizio contro gli Stati Uniti d'America, la sua gente, la sua storia, le sue alleanze o le scelte politiche interventiste del suo governo. Il termine stesso é improprio visto che gli Stati Uniti comprendono solo una parte delle Americhe.
Comunemente nell'ambito antagonista con questo termine s'intende definire una posizione critica nei confronti del ruolo egemone degli USA.



Antiamericanismo

http://www.wikiwand.com/it/Antiamericanismo

L'espressione antiamericanismo, descrive una posizione ostile (un atteggiamento talvolta definito come sentimento antiamericano) nei confronti della politica, della cultura e della società degli Stati Uniti d'America.[1][2]

Il termine ed il concetto sono rigettati tuttavia dalla maggior parte dei detrattori della politica degli Stati Uniti, che considerano il termine carico di pregiudizi e quindi non criticamente fondato.[2][3] La percezione del sentimento antiamericano ha le sue attitudini nel campo della politica estera[4], e i conflitti del Vietnam e dell'Iraq sono temi su cui molto si dibatte.[5]

Secondo lo studioso Paul Hollander[6], l'antiamericanismo non è un vero odio nei confronti dell'America, ma una convinzione fondata sul pregiudizio che l'America influisca negativamente sulla cultura e la società e ne sarebbero l'esempio il consumismo e lo stile di vita praticato dai suoi cittadini.[2][7] Altra tesi è stata suggerita dalla francese Marie-France Toinet, la quale sostiene che il termine non è fuori luogo o solo una carica di stereotipi e pregiudizi, ma una reazione di stati minacciati dall'impero economico e militare qual è l'America.[8]
Il rapporto con la globalizzazione
Lo stesso argomento in dettaglio: globalizzazione e movimento no-global.

Secondo gli esponenti del movimento no-global, questa corrente sociale ed economica è un male, poiché nei paesi occidentali vengono persi migliaia di posti di lavoro per andare all'estero in nazioni che richiedono meno costo sulla manodopera.[9]

Tutto ciò è contestato come una strategia attuata dagli Stati Uniti d'America e più in generale dalla comunità anglosassone per ampliare la propria influenza sul mercato internazionale.[10]

Il modello economico e culturale che impongono gli Stati Uniti sul mondo (che si riflette ad esempio nel cinema e nei prodotti commerciali) sono visti come un sistema per adeguare i governi fragili allo stile dei paesi anglosassoni.[11]
Nel mondo
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L'antiamericanismo è un fenomeno che coinvolge l'intera comunità internazionale, e si crede che esso sia aumentato a dismisura dopo la salita al potere di George W. Bush.[12][13]
Asia

In Asia, si registra un forte sentimento antiamericano in Vietnam (e nei paesi dell'Indocina in genere), Cina, Corea del Nord, Corea del Sud e Giappone.[14][15] Secondo Robert Hathaway, direttore del Wilson Center's Asia, in Giappone e Sud Corea la popolazione e i governi manifestano questo odio in risposta alle azioni condotte degli Stati Uniti in territori stranieri, giudicate troppo violente e talora un danno sul piano sociale per la comunità asiatica in generale.[16]

In Giappone, l'odio nei confronti degli USA è particolarmente forte, affonda le sue origini dalla disfatta durante la seconda guerra mondiale e i bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki, e ha iniziato a manifestarsi in maniera procace subito dopo la fine del conflitto.[17]

Nelle due Coree, questo sentimento nasce durante gli anni ottanta, quando gli Stati Uniti occuparono la penisola.[18]. Stando alle dichiarazioni di Katherine Moon, portavoce del Wilson Center, l'antiamericanismo è in decadenza nella Corea del Sud[16], ma ancora molto vivo nella Corea del Nord.
Europa
Lo stesso argomento in dettaglio: Europa e Unione europea.

In Europa si è iniziato a parlare di antiamericanismo con la sconfitta della Seconda Guerra Mondiale. A livello pubblico questo sentimento è cresciuto dopo l'attuazione della "guerra preventiva" e più generalmente dopo la guerra in Iraq. Secondo Sergio Fabbrini, l'Unione europea teme la possibilità di essere "americanizzata" sia in campo economico, che sociale e culturale, e sarebbe per questo motivo che vari governi hanno deciso di attuare una politica contraria a quella americana.[19]

Secondo un sondaggio del Pew Global Attitudes Projects, dal 2000 al 2006 l'opinione pubblica europea è andata sfavorendo gli Stati Uniti. Nel Regno Unito si è passato dall 83 al 56%, in Francia dal 62 al 39%, in Germania dal 78 al 37% e in Spagna dal 50 al 23%.[20]

Secondo un sondaggio del Financial Times (2007) il 32% delle oltre cinquemila persone intervistate in Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia e Spagna, ritengono gli Stati Uniti la principale minaccia per il pianeta.[21]
Italia
1968: manifestazione contro gli USA a motivo della guerra del Vietnam, sui manifesti sono riprodotti i ritratti di Che Guevara e Malcolm X
1968: manifestazione contro gli USA a motivo della guerra del Vietnam, sui manifesti sono riprodotti i ritratti di Che Guevara e Malcolm X
Manifestazione del No Dal Molin, movimento di cittadini e di associazioni contrari alla realizzazione della nuova base dell'esercito statunitense nell'aeroporto Dal Molin di Vicenza
Manifestazione del No Dal Molin, movimento di cittadini e di associazioni contrari alla realizzazione della nuova base dell'esercito statunitense nell'aeroporto Dal Molin di Vicenza

In Italia, come in Germania, il ricordo delle città bombardate nella seconda guerra mondiale ha alimentato l'avversione per la politica estera americana, e si è mescolato alle simpatie per l'URSS nutrite da molti; gli stessi mass media avrebbero contribuito a mostrare immagini negative degli USA: la New York nevrotica di Woody Allen (considerato europeo dagli americani e da sempre più amato nel Vecchio Continente che in patria), l'America della guerra del Vietnam, gli americani sterminatori di pellerossa nelle guerre indiane, poi quella vista come affaristica della globalizzazione, della speculazione responsabile di crisi finanziarie, delle multinazionali, razzista e ipocrita, divisa tra business e borsa (vedere film come Wall Street), dal Mc Donald's al WTO, è molto presente nell'immaginario europeo. Gli spettacoli americani che hanno riscosso più successo, da sempre, sono sempre stati quelli critici verso l'American way of life, come I Simpson, American Dad e I Griffin, i documentari di Michael Moore e i film di Oliver Stone, o quelli di puro intrattenimento senza pretese ideologiche. Serie come I Soprano sono state viste come affette da pregiudizio contro gli italiani.[21] In Italia la maggioranza degli italiani e dei mass media ha spesso preso posizioni fortemente critiche verso gli statunitensi, nonostante gran parte della politica fosse schierata con la NATO, specie verso temi come la pena di morte negli Stati Uniti d'America (facendo riferimento ad alcuni casi specifici: Sacco e Vanzetti, Derek Barnabei, Joseph O'Dell[22] e altri condannati presi in simpatia dall'opinione pubblica italiana, come accaduto a Dominique Green e Karla Faye Tucker[23]), la guerra d'Iraq e specifici fatti come la strage del Cermis, la crisi di Sigonella, la vicenda di Silvia Baraldini, di Nicola Calipari, Chico Forti o Amanda Knox, la strage di Ustica, le basi americane sul suolo italiano, il presunto appoggio statunitense alla strategia della tensione in Italia e il MUOS. Questo sentimento sarebbe trasversale tra sinistra e destra[24][25]; esso è diminuito solo nel periodo intorno agli attentati dell'11 settembre 2001, con una solidarietà filoamericana diffusa, per poi ritornare ai livelli di sempre con le guerre afghane e irachene.[26]
Nazifascismo

Rifacendosi alle teorie di Arthur de Gobineau, il nazifascismo europeo descrive la superiorità di una razza ariano-nordica la cui supremazia fisica e intellettuale sarebbe anche da ricercarsi nelle scarse mescolanze di sangue tra diverse etnie, che in America ha portato tra l'altro agli afroamericani, sinoamericani e ispanici.[27]

Attraversando quindi l'ideologia razziale che si pone come base del misticismo nazista, si arriva all'antisemitismo e all'antiamericanismo, poiché entrambi sono giustificati dal fatto che l'America sarebbe mossa da una cospirazione ebraica su stesse dichiarazioni di Adolf Hitler con l'intento di sopraffare l'Europa. Proprio la creazione di questi pensieri giocò un ruolo fondamentale nell'ascesa dei fascismi al potere in diversi paesi europei.[28][29]

Il jazz non sarebbe una musica aperta al nuovo mondo di uguaglianza, ma una delle tante azioni promosse dagli ebrei americani per dominare il mondo fingendo di voler eliminare le distinzioni razziali.[27]

Sotto l'ancora enigmatico Projekt America, Hitler prevedeva di distruggere gli Stati Uniti dopo aver vinto l'Europa, iniziando da un bombardamento aereo su New York e continuando poi su tutte le principali metropoli statunitensi, contemporaneamente a un attacco lanciato da molti U-Boot.[30]
Unione Sovietica
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Nel 1950 gli artisti sovietici Nikolay Dolgorukov e Boris Efimov realizzarono un celebre manifesto di propaganda antiamericana, in cui gli USA venivano visti come una nazione tirannica che nega cinque diritti civili fondamentali: la libertà di stampa, messa a repentaglio dalle menzogne propugnate dal ricchissimo William Randolph Hearst; la libertà di pensiero, negata dallo Smith Act che rendeva illegale il Partito Comunista degli Stati Uniti d'America; la libertà di associazione, distrutta dalle violente repressioni antioperaie attuate da una polizia istigata dai capitalisti; la sicurezza personale, non garantita a causa degli omicidi realizzati dal Ku Klux Klan e infine la libertà di parola, la cui mancanza negli States è raffigurata metaforicamente da un agente che manganella e chiude la bocca alla Statua della Libertà.
Medio Oriente
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Le origini dell'antiamericanismo nel Medio Oriente sono da ricercare negli scritti dell'intellettuale egiziano Sayyid Qutb, autore di alcuni libri sull'Islam.[31]
Iran

Il sentimento antiamericano è molto forte in Iran. Partendo dalla rivoluzione iraniana[32] (1979) che ha trasformato l'intero paese in una repubblica islamica arrivando alla corsa al nucleare che ha provocato non poche tensioni con il governo di Mahmud Ahmadinejad.

Agli USA sono stati affibbiati nomi come Grande Satana o "volontà diabolica" (quest'ultimo anche dato ad Israele)[33], e ciò viene non solo per l'influenza che hanno gli Stati Uniti sul Medio Oriente ma più che altro per l'appoggio dato ad Israele.[34][35]

Secondo un sondaggio del Pew Global Attitudes Projects, gli iraniani ma in generale i musulmani considerano gli americani e più in esteso gli occidentali come violenti, aggressivi e la sola caratteristica positiva data è il rispetto per le donne.[36]

Sayyid Qutb descrive la società americana come un monopolio dell'erotismo e del peccato, e la prova di questo andrebbe ricercata nel modo di vestire che hanno le donne americane, scollate e senza pudore, contrariamente a quanto avviene per le donne musulmane.[37]

Oceania

In Australia è ancora discussa la possibilità di parlare di un odio contro l'America. Secondo un sondaggio[38] effettuato dalla Reader Digest, su un campione di 1000 australiani intervistati, il 67% si dichiarerebbe neutrale, il 17% favorevole alle politiche e al modello di vita statunitense e solo il 15% prova rancore e si dichiara antiamericano.
Manifesto antiamericano, opera del vignettista Carlos Latuff, che presenta lo zio Sam con le fattezze di Adolf Hitler, Führer del Terzo Reich nazista
Manifesto antiamericano, opera del vignettista Carlos Latuff, che presenta lo zio Sam con le fattezze di Adolf Hitler, Führer del Terzo Reich nazista

In aggiunta, il 71% degli intervistati dichiara che non andrebbe mai a vivere negli USA.
America Latina

In seguito all'appoggio degli USA alle dittature militari (come quella di Augusto Pinochet in Cile) negli anni '70 e '80 e alla diffusione delle multinazionali, il sentimento antiamericano è molto diffuso nell'America latina, specialmente in paesi come Venezuela, Bolivia, Brasile, Argentina, Cile, Ecuador, Nicaragua, Guatemala, Uruguay e Cuba. In alcuni di questi paesi (Cuba, Venezuela, Ecuador, Bolivia), costituisce una delle ideologie diffuse tra i partiti politici al governo, specialmente di sinistra e di ispirazione socialista, bolivariana e comunista.


http://www.treccani.it/enciclopedia/ame ... taliana%29
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Re: Io sto con Trump e gli USA e antiamericanismo

Messaggioda Berto » mar mag 15, 2018 6:01 pm

I mille volti dell’antiamericanismo mediorientale

https://www.huffingtonpost.it/mattia-ba ... a_23063204

Un libro prezioso mi è capitato tra le mani in questi roventi giorni di fine luglio: si tratta di "Il sogno antiamericano. Viaggio nella storia dell'opposizione araba agli Stati Uniti" (CLUEB, Bologna 2017) della giornalista e ricercatrice dell'Istituto Affari Internazionali Azzurra Meringolo, giovane specialista tra le massime esperte in Italia di questioni mediorientali. Suggerire al lettore un libro complesso come questo nella stagione estiva non può che condurre ad un piccolo paradosso: da un lato, infatti, la pausa estiva (per chi può permettersi qualche giorno di ricaricare la batterie) può lasciarci il tempo opportuno per dipanare alcuni tra i fili più annodati nell'ambito delle relazioni internazionali (lo scacchiere mediorientale quanto a complicatezza è fenomeno principe); dall'altro lato, però, una lettura del genere non è lettura estiva tout-court, per lo meno per chi cerchi pagine leggere e di evasione. Io questa lettura l'ho tentata e non me ne sono affatto pentito. In questo libro, infatti, si parla di materia ostica eppure si offrono chiavi interpretative su uno dei più interessanti fenomeni dell'oggi globale, l'antiamericanismo in Medio Oriente, appunto, studiandone anche le radici storiche e le ambivalenze.

Lo stretto, e per certi versi inedito, connubio tra storia politica, storia delle relazioni internazionali ed analisi del comportamento sociale su cui Meringolo si concentra può essere compreso alla luce di una considerazione preliminare che il recensore ha il dovere di anticipare: il libro rappresenta, infatti, il lavoro di labor limae che l'autrice ha compiuto a partire dalla sua tesi di dottorato dal titolo "L'anti-americanismo egiziano dopo l'11 settembre". Questa considerazione ha un suo rilievo se è vero che alcuni tra i migliori saggi che siano stati pubblicati nell'ambito delle scienze sociali promanano proprio dal grande, enorme, quasi insormontabile lavoro di ricerca dottorale in cui al ricercatore, per essere efficace e quindi poter "difendere" con successo la propria dissertazione davanti a una commissione di dotti (così era anche nel Medioevo), è assegnato il compito di una disamina "organicistica" del fenomeno osservato, abbandonati gli "organi" più voluminosi, per addentrarsi da analista persino all'interno della fisiologia "capillare" e "cellulare" dell'argomento trattato. Giudico quindi questo tentativo ben realizzato da Azzurra Meringolo quanto al delicato tema dell'antiamericanismo mediorientale, di cui le mille sfaccettature sono analizzate ciascuna con dovizia di particolari e quindi capacità di disvelare quello che Rawls chiamava "velo di ignoranza" di cui il lettore meno avvezzo di questioni mediorientali non può non essere partecipe (con chiunque si parli di Medio Oriente, d'altronde, viene quasi sempre confidata con grande spassionata sincerità come minimo "una certa confusione").

Una chiave che apre le porte del libro è sicuramente quella della "triangolazione geografica" giacché l'autrice ha avuto la possibilità in qualità di giornalista e ricercatrice di viaggiare in lungo e in largo gli Stati Uniti ed il Medio Oriente ma senza dimenticare l'Europa e l'Italia: un elemento che le ha offerto l'opportunità di confrontarsi con alcuni tra gli uomini politici di primo piano nelle relazioni internazionali di questi ultimi anni, ma soprattutto con il sentire dell'opinione pubblica nei diversi Stati nazione in cui Meringolo di volta in volta si è trovata. Ad una studiosa di antiamericanismo, una delle domande sicuramente rivolta più di consueto è stata da ambo le parti "ma perché ci odiano tanto?", un odio percepito vuoi in Occidente da parte islamica, vuoi in Medio Oriente da parte occidentale e soprattutto americana. Non può che scorgersi sullo sfondo quella concezione di politica come tripudio del confronto tra amicus e hostis di cui parlava Carl Schmitt nel suo Il concetto di "politico" (1932) e alimentata da diverse letture che in Occidente riprendono questa visione del teorico tedesco e che gli americani chiamano virtue-inculcating ovverosia letture favorenti il radicamento di una visione tesa a corroborare valori nazionalistici e da primazia dell'uomo occidentale, come i recenti libri scritti dai filosofi neocon come Samuel Huntington (Lo scontro delle civiltà, 1996) o Francis Fukuyama (La fine della storia, 1992).

Dal punto di vista storico il concetto di "antiamericanismo" non è un concetto autoctono del Medio Oriente, dove – guarda caso – è stato invece esportato dall'Europa già nel Settecento, all'indomani di quella scoperta dell'America che aveva sicuramente sconvolto la maniera europea di immaginarsi la Terra e di concepire il foro di origine dello Stato nazione nel Vecchio Continente. È ancora in Europa che la tensione tra americanisti ed antiamericanisti viene ad esacerbarsi dopo il Secondo Dopoguerra, con alcune fasce della popolazione profondamente riconoscenti agli Yankee e al loro potente esercito per avere combattuto le nefaste ideologie totalitarie, gli altri (soprattutto la componente socialista e comunista delle società europee) assolutamente preoccupati dal predominio culturale capitalista e consumista che si sarebbe accompagnato alla scelta prima di Wilson e poi di Roosevelt di abbandonare il ricorrente isolazionismo americano per occuparsi in prima linea delle vicende umane sull'arena internazionale nella sua vastità.

Chi glielo faceva fare – si chiedevano, del resto già gli autori del Federalist americano Hamilton, Jay e Madison – agli Stati Uniti di imbarcarsi in avventure internazionali dall'esito incerto laddove gli Stati Uniti si erano rivelati essere già abbondantemente spaccati al loro interno (si pensi alla Guerra di secessione), laddove però essi potevano rivendicare una efficace protezione dalla tumultuosa Europa grazie alla fortuna di ben due oceani? Tocqueville e Dewey, profeticamente, avrebbero risposto che l'avventura "imperialista" cui gli USA sarebbero stati vocati nel Novecento sarebbe stata la necessitata risposta alla crisi stessa della politica "democratica" e al progressivo empowerment delle gerarchie militari incapaci di sottostare ai dettami della politica e invece sempre desiderose di perseguire l'arma clausewitziana della guerra come "prosecuzione della politica con altri mezzi". Ecco spiegato, prima a causa dell'affondamento dei sottomarini americani da parte tedesca nella Grande Guerra e in seguito con l'attacco inaspettato di Pearl Harbor del '41 – minaccia non calcolata all'indipendenza dell'immenso territorio americano – l'interventismo novecentesco degli Stati Uniti e la piena autoincoronazione napoleonica cui gli Stati Uniti hanno ceduto, nonostante gli inauditi dubbi della popolazione interna, quale "superpotenza" capace d'essere l'unica garante della stabilità della politica internazionale sia durante la balance of powers della Guerra Fredda sia dopo la fine della cosiddetta età delle ideologie.

Eccoci arrivati, allora, al momento in cui "americanismo" ed "antiamericanismo" dall'Europa si trasferiscono verso altri lidi, anche complici – non va dimenticato – alcune debacle degli eserciti coloniali o "protettori" europei stessi, come nel caso francese in Indocina e se si pensa ai problemi lasciati irrisolti dal tandem anglo-francese tra Siria, Iraq e Libano. Ma venendo alla contemporaneità, come non vedere che all'antiamericanismo politico della seconda parte del Novecento, particolarmente allergico alla Dottrina Bush verso l'Iraq e alle teorie della Guerra Preventiva, si accompagni di nuovo una recrudescenza dell'antiamericanismo sociale che trova particolare terreno fertile nei caratteri della religiosità islamica, così potentemente avversa alle degenerazioni lascive degli americani, alla loro concezione di genere emancipata, alla loro brama di potere non tanto politico quanto altresì in termini di controllo (e talora di espropriazione vera e propria) delle risorse economiche.

Nell'endiadi di antiamericanismo politico e di antiamericanismo culturale, concepito come avversione alla cultura americana, non può che riaffiorare anche la politica schmittiana dell'amicus/hostis con la definizione da parte USA dell'antiamericanismo come di "ultimo rifugio delle canaglie" così come nelle parole di Johnson per descrivere l'ambivalenza del governo egiziano che ora si comporta da alleato formale degli Stati Uniti per conservare il proprio ruolo da ago della bilancia nel precario baricentro regionale, ma governo egiziano che ora fomenta in maniera neanche troppo surrettizia l'opinione pubblica dimostrando come gli Stati Uniti stessi non possono che comportarsi come "interferenza" rispetto al modus operandi proprio della politica mediorientale. Negli Stati Uniti si radica insomma, e per molti versi ragionevolmente, una consapevolezza circa una certa inaffidabilità dell'alleato musulmano sia esso marocchino, tunisino o egiziano.

Al contrario, il pregiudizio rimane in vero anche sulla costa meridionale del Mediterraneo con alcune teorie del complotto, quasi elementi "di costume", ma che passano invece seriamente nella vulgata dell'opinione pubblica: è il caso della Coca-Cola bevanda caratterizzata in Medio Oriente da un odi et amo quasi dal sapore catulliano. Il gusto delle nere bollicine con la caffeina, dopotutto, appaiono certo rinfrescanti nel caldo torrido del deserto e addirittura halal, ovverosia confacente agli scritti del Corano che deplorano il consumo di alcol, e cionondimeno la bevanda non può che farsi perfettamente "eretica" se si mette quel corsivo del suo celebre marchio, coi ghirigori e gli svolazzi, davanti allo specchio, giacché qualche bravo calligrafo arabo non ha potuto che leggere reiteratamente e verosimilmente in quell'etichetta un terribile motto: "No a Maometto e no alla Mecca". Addirittura ai Simpson, poi, sarebbe da ascriversi il merito di aver preconizzato l'interesse geopolitico americano verso il Medioriente, visto che in un episodio di qualche anno fa Bart e i suoi amici venivano ingaggiati dalla Marina USA per bombardare una banda di oppositori.

Le ambivalenze nel rapporto tra la potenza americana e lo scacchiere del Golfo, non possono che manifestarsi con ancora più vigore all'avvento di una presidenza americana sicuramente sui generis come quella di Trump di cui ancora stiamo osservando i primi passi dopo la politica c.d. "della mano tesa" – a dire il vero abbastanza inconcludente – di Obama nella regione. Se i discorsi della campagna elettorale del candidato repubblicano-indipendente di New York sono stati caratterizzati dalla classica roboante retorica nazionalista che ha trovato la sua acmé e in un avvicinamento ad Israele con il sostegno trumpiano di spostare l'ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme (con tutte le implicazioni per una città sempre a rischio data la convivenza tra le tante etnie e fedi religiose come la Capitale della Terra Santa), nondimeno appaiono chiare anche le ambiguità del mandato del quarantacinquesimo presidente americano, se si tiene conto che alcuni membri del suo staff come Steve Bannon, tra i primi consiglieri del Presidente, sono capaci di connubiare una singolare avversità tanto per gli arabi (in particolare i rifugiati siriani) quanto per gli ebrei (Bannon e Trump appartengono del resto ad una corrente di ultra-righttacciata a più riprese di antisemitismo). Un'altra preoccupante ambiguità del Presidente milionario riguarda la sua forte simpatia circa relazioni politico-commerciali positive con i ricchi paesi produttori di petrolio del Golfo Persico, come l'Arabia Saudita, in cui si sono manifestati i primi germi di quel wahabismo che è stato identificato come prodromico a certo terrorismo jihadista.

Anche a questo paradosso inerente il tema del "dove si può trovare un equilibrio tra l'essere islamofobi e l'essere filosauditi" che quasi certamente caratterizzerà l'amministrazione americana anche negli anni a venire è dedicato il corredo di risposte su cui il già Ambasciatore Roberto Toscano (in Iran per quasi tutto il primo decennio del Duemila) si sofferma nella sua nota di lettura al libro di Azzurra Meringolo.

Un vero mare magnum di elementi che possono agevolarci in quella mission impossible di districarci nelle sempre più complesse trame mediorientali, che Azzurra Meringolo ci invita insieme e ci aiuta a compiere. A lei va ascritto il merito di avere ordinato e sistematizzato a tutto tondo e da molteplici punti di vista questo bel libro: storiografia, sociologia dei costumi, giornalismo, teoria delle relazioni internazionali.

Buona lettura, cari lettori, ma oltre alla Meringolo non dimenticate di mettere nella borsa da spiaggia anche una bella rivista senza pretese per sdrammatizzare un po': troppo gravoso rischia di risultare il carico di capire le vicende internazionali di questi ultimi anni e di questi nostri assai difficili giorni.
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Re: Io sto con Trump e gli USA e antiamericanismo

Messaggioda Berto » mar mag 15, 2018 6:02 pm

L’antiamericanismo, un pericolo che Trump deve aiutarci a combattere
Maurizio Caprara
21 gennaio 2017

https://www.corriere.it/cultura/17_genn ... ffbe.shtml

È indispensabile che il Paese resti tollerante, laico, calamita per energie di varie provenienze

Adesso che alla Casa Bianca è cominciata l’era di Donald Trump, merita di essere rivolto un appello agli americani: aiutateci a combattere l’antiamericanismo. Per riuscirci, è indispensabile che il Paese resti tollerante, laico, calamita per energie di varie provenienze. Comunque la si pensi sull’ormai ex presidente Barack Obama, tra gli italiani il gradimento verso la guida degli Stati Uniti era stimato nel 2016 da una ricerca Gallup al 61%. In Europa, il punto più alto della disapprovazione verso la presidenza Obama - 35% - non ha mai raggiunto l’impopolarità di George W. Bush.

Converrebbe tener presenti queste tendenze al nuovo presidente di «America first», America innanzitutto. Rischiano di non contribuire al meglio al suo proposito, per esempio, i segni di sbrigativo fastidio riservati alla Nato «obsoleta»: ogni legittima critica non deve intaccare la deterrenza delle capacità di risposta di un’alleanza verso minacce e aggressioni, efficace se compatta.

Intorno alla Nato, nata nel 1949 per difendere l’Occidente dalla dittatura sovietica, ha ruotato una faticosa evoluzione di forze politiche del nostro Paese. Dal rifiuto, il Partito comunista passò nel 1976 alla svolta con la quale Enrico Berlinguer si definì più sicuro non stando all’Est. Prima della formazione di Alleanza nazionale, nella destra di origini fasciste a tanti non sembrò naturale procedere da convergenze con Washington sull’anticomunismo ad accettare la Nato. Roba da buttare?

Tra i prodigi politici del XX secolo uno è riassumibile così. Per combattere il nazifascismo che piegava l’Europa spezzando milioni di vite, nella seconda guerra mondiale i bombardamenti angloamericani uccisero in Italia almeno 64.354 civili. Eppure, già nel 1954 gli Usa godevano di un gradimento tale da poter farci scherzare sopra Alberto Sordi in Un americano a Roma. Lo si dovette a lungimiranze al di là e al di qua dell’Atlantico, al piano Marshall per la ricostruzione, ad altri sforzi. Adesso che equilibri del mondo tornano in discussione, di lungimiranza ne serve.
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Re: Io sto con Trump e gli USA e antiamericanismo

Messaggioda Berto » mar mag 15, 2018 6:03 pm

I falsi miti dell’antiamericanismo “di sinistra”
settembre 11
di Enrico Galoppini

http://www.ildiscrimine.com/falsi-miti- ... i-sinistra

In Italia, in Europa, in Occidente, essere bollati come “antiamericani” comporta l’esclusione dal consesso delle “persone rispettabili”, se non addirittura una vera morte civile. Eppure c’è stata un’epoca, che culminò con la guerra nel Vietnam, nella quale essere “antiamericani” costituiva addirittura un vezzo, una moda ‘ribellistica’.

A quella generazione di “contestatori” delle “marce per la pace” e “per i diritti” (nate negli stessi Usa e poi esportate in Europa!), ha fatto seguito quella del “riflusso”, del “ritiro nel privato”, dove spopolano i “benpensanti”, tra cui non pochi sono quelli affluiti dai ranghi dei “delusi del Sessantotto”. Ma le porcherie commesse in giro dall’America non sono affatto terminate con la fine della devastazione del Vietnam, perciò un atteggiamento ostile verso l’America e i suoi comportamenti è fisiologico e si ripresenta attuale ad ogni generazione.

Per questo, a gestire tale sentimento provocato essenzialmente dall’azione nefanda degli Stati Uniti stessi, è stato incoraggiato un ‘monopolio del dissenso’, in mano ad alcuni ‘guru’ d’orientamento “radical” che si esprimono e pubblicano in inglese, cosicché in Italia e in Europa i loro omologhi “di sinistra” sono perlopiù dei diffusori delle elaborazioni, tutt’al più parafrasate, di alcuni “opinion leader alternativi” d’Oltreoceano e d’Oltremanica verso i quali nutrono un particolare timore reverenziale. Insomma, nessun “antiamericanismo” è lecito ai “confini dell’Impero” se non reca il beneplacito di qualche esponente del pensiero “radical”[1]. Ciò è particolarmente chiaro se si osserva la marginalizzazione di quell’“antiamericanismo di destra” che, frutto di una cultura “tradizionalista” e/o di un sentimento filo-fascista, è stato sistematicamente escluso dal novero delle idee “ammesse in società”. Se “tu vò fa l’antiamericano”, parafrasando Carosone, devi essere “libertario”, “radical (chic)”, “di sinistra”, altrimenti non si può!

Eppure, un “antiamericanismo di destra” avrebbe più senso di uno di “sinistra”, se non altro perché la guerra contro l’America l’ha combattuta l’Italia fascista[2], e, soprattutto, perché essendo gli Stati Uniti la “terra promessa” della Democrazia, della Libertà e dei Diritti umani, col relativo tipo umano e il modello di società che vi s’instaura, una critica sensata all’americanismo potrebbe prendere le mosse solo da un punto di vista “tradizionale”, ordinato dall’alto in base ai principi d’ordine spirituale.

Non abbiamo detto volutamente “un punto di vista tradizionalista”, poiché un conto è inserirsi nel solco di una Tradizione regolare, viva e operante, un altro considerarsi “guénoniano”, “evoliano”, “gurdjeffiano” eccetera, leggendo solo libri su libri e per questo autoelevandosi al rango di “uomo differenziato”… Dal punto di vista di una Tradizione regolare come quella islamica, l’America risulta necessariamente un’aberrazione, il punto finale di quella “caduta”, o “regresso”, che l’uomo – sia come individuo che come collettività – deve inesorabilmente esperire prima della “fine dei tempi” e della nuova Età dell’oro che deve far seguito. Questo per puntualizzare che anche un’insistenza su un carattere “di destra” dell’“antiamericanismo” è una forzatura, essendo “destra” e “sinistra” due facce dell’unica medaglia liberal-democratica, o “moderna”.

Ma questo è un punto che eventualmente andrà sviluppato in un altro articolo, qui interessandoci una rapida disamina dei “miti” di un “antiamericanismo di sinistra” che non ha alcun senso se si ama andare al fondo delle cose e non ci si accontenta dell’apparenza, tanto per agitarsi un po’ contro qualcosa o qualcuno.

Innanzitutto va specificato che l’atteggiamento sano è quello di chi è “per” qualcosa, non “contro” qualcosa. Dall’alba del mondo, i grandi costruttori di civiltà si sono sì battuti contro delle storture, delle deviazioni, delle condizioni intollerabili e “innaturali”, ma solo per “raddrizzare” la situazione e riportarla conforme all’ordine naturale delle cose. Si pensi all’opera del Profeta Muhammad, che dovette – all’inizio seguito da uno sparuto manipolo – combattere contro un disordine su tutti i piani, in primis spirituale, addirittura emigrando a Yathrib (poi Medina), tanto erano “invivibili” le condizioni a Mecca.

Con l’”antiamericanismo”, in specie quello “di sinistra”, va detto invece che si è di fronte ad un atteggiamento meramente negativo, non sapendo del resto cosa proporre di realmente “alternativo” all’America e al suo modello di “civiltà”.

Di fronte ad una simile superficialità, l’America stessa ovviamente ringrazia ed offre un seppur minoritario proscenio a dei sedicenti “oppositori”, che comunque, a causa delle loro idee che non mettono a repentaglio l’andazzo generale, i fondamenti della “civiltà moderna”, hanno un loro pubblico che va a vedere i loro film, legge i loro libri, ascolta i loro discorsi eccetera.

Ma questo pubblico “antiamericano di sinistra” fondamentalmente ama l’America, il che al fondo non sarebbe sbagliato – a patto che si “ami” anche tutte le altre “culture” – perché l’odio è un veleno che obnubila la capacità di discernimento e, soprattutto, è quanto di più antispirituale vi possa essere. Tuttavia questo tipo di “opinione pubblica”, privo di un orizzonte tradizionale, protesta contro gli Stati Uniti e l’Occidente a causa delle “ingiustizie” da essi perpetrate, ma, si faccia attenzione, solo certe “ingiustizie” e non altre, ovvero quelle che risultano tali ad un metro di giudizio “democratico”, “egualitario”, “umanitario”.

Questa sorta di “coscienza critica dell’America” s’incarna in un tipo umano lacerato tra amore e odio verso la “Terra dell’Utopia”: un amore di fondo, messo però a dura prova da puntuali e ripetute “delusioni”… Pertanto il desiderio di chi contesta l’America da questa posizione non è quello di vederla sparire, assieme alla sua parodistica “civiltà”, bensì di vederla “migliorare”, d’incoraggiarne quelle tendenze insite nelle roboanti e ipocrite “dichiarazioni di principio” che fanno andare in brodo di giuggiole gli utopisti d’ogni risma.

Per essi gli Stati Uniti, anche se mettono a ferro e fuoco il mondo intero e lo traviano con ogni raggiro ed artificio, alla fine hanno sempre una “missione” da compiere, sono animati fondamentalmente da “buone intenzioni”; così la colpa dei crimini commessi in giro per il mondo è sempre di qualche “cattivo” che pregiudica un’impresa altrimenti “buona”: dai “Padri fondatori” al “Bill of Rights”, dall’ “I have a dream” di Luther King alla “Nuova frontiera” di Kennedy, dalla “clintonite” della sinistra bombardatrice di Belgrado all’obamiano “Yes we can”.

Quest’atteggiamento di voler vedere comunque al fondo dell’impresa americana un qualcosa di perfettibile perché fondamentalmente buono, deriva dal comune approccio utopistico che affratella i sognatori di “mondi migliori possibili”. Per essi la realtà non conta nulla: come vi erano solo “compagni che sbagliano” vale l’assunto per cui l’America compie sempre degli “errori”.

Non deve quindi sorprendere che anche gli “antiamericani di sinistra” alla fine si esaltino per il “vento di libertà” che, a distanza di vent’anni da quello che spirò sui Paesi del blocco sovietico, sta spazzando via le “dittature” del mondo arabo e islamico. Questa sedicente “sinistra antiamericana” stregata dal divo Obama, imbevuta fino al midollo di retorica “libertaria”, è la miglior cassa di risonanza del nuovo ‘verbo’ che accompagna la cosiddetta “primavera araba”, sui abbiamo già detto la nostra[3].

Tornando alla fondamentale subalternità di chi critica l’America da una posizione “democratica”, non può non colpire come da decenni venga assicurato senza un barlume di dubbio che… “l’America è finita”! Di nuovo, l’osservazione della realtà – che fa a cazzotti con le utopie – induce a ben altre considerazioni, poiché l’America non solo si espande militarmente conquistando progressivamente porzioni del pianeta che prima non controllava[4], ma il suo “modello” si allunga a macchia d’olio, addirittura oltre le conquiste dirette, il che rappresenta la vittoria più chiara, nonché un segno di “vitalità”, anche se va detto che è solo la conquista materiale che assicura definitivamente all’americanismo le menti e i cuori.

Così, sulla stessa falsariga onirica, “l’America ha perso in Afghanistan”, “l’America ha perso in Iraq” e via illudendosi, perché non si vorrà certo credere che il “caos” colà vigente non sia un esito voluto da chi ha tutto l’interesse, mentre ogni aspetto della vita dei locali deve diventare impossibile, a costruirsi le sue basi militari per la prossima conquista e a predare il Paese conquistato di ogni sua ricchezza, specialmente mineraria e monetaria (per non parlare del mercato mondiale della droga, che dev’essere sempre controllato). Il sospetto è addirittura che le “perdite americane in Iraq” e altrove che questi “antiamericani” brandiscono con tanto di contatori elettronici sui loro “siti alternativi” siano causate da un misurato e sotterraneo ‘sostegno’ alle forze delle varie “resistenze”, affinché il “caos” frutto delle “violenze” si protragga indefinitamente.

Prima di procedere in questa disamina dell’“antiamericanismo democratico” va anche specificata una cosa: che esso si fa largo nelle convinzioni delle persone in misura differente, a seconda delle rispettive sensibilità. Non è dunque un pacchetto “tutto compreso”. Qui stiamo esaminando i differenti aspetti che, singolarmente o cumulativamente, caratterizzano l’atteggiamento di chi critica l’America da posizioni “democratiche”, “umanitarie”, non tradizionali, ma va da sé che vi è chi si beve un paio di bicchieri di questa propaganda e chi invece si ubriaca del tutto.

Discretamente forte, in questo senso, è il ‘cocktail’ che va sotto il nome di “antimperialismo”. Ma per chiarire con un esempio i diversi livelli di penetrazione di questo sentire “critico” verso l’America e i suoi comportamenti, si consideri che è raro che una stessa persona straveda per Kennedy, Clinton, Obama e si reputi “antimperialista”. L’antimperialismo implica infatti un tipo di avversione all’America di tipo meno edulcorato ed ipocrita, ma non per questo è esente da gravi abbagli, i quali derivano in definitiva dal medesimo errore di base di tutti quanti: la negazione di Dio, del Creatore di tutte le cose al quale tutte sono sottomesse, che ha provvidenzialmente e misericordiosamente comunicato ad ogni forma vivente il modo per riuscire in questa vita e nell’altra. Ma anche questo potrà essere l’argomento di un successivo articolo, perché va chiarito dove sta l’inganno dei continui e plateali appelli a “Dio” da parte dei capi della potenza più antispirituale al mondo (“God bless America!”).

Ciò premesso, a proposito dell’”antimperialismo” va detto che esso presuppone l’individuazione degli “imperialisti”, ovvero di quegli Stati che si espandono ai danni di altri per costruire i loro “imperi”. L’”Antimperialismo” deriva però – come osservato – da una visione del mondo di tipo “laico”, da cui l’equivoco sul termine “Impero”, un istituto i cui fondamenti sono eminentemente spirituali: da tale equivoco nasce il successo delle teorie di Hardt e Negri su un fantasioso “Impero americano” tra i ranghi degli “antiamericani di sinistra”. Ma anche parlare di “Impero inglese” non ha alcun senso, l’Inghilterra essendo stata la punta di lancia della diffusione della “democrazia” e del “parlamentarismo” in società in buona parte “tradizionali” fino all’impatto violento con gli “esportatori di bene”[5]. “Imperi” veri erano invece quello russo, quello austro-ungarico, quello tedesco, quello ottomano, quello giapponese ecc., tutti con sovrani di “diritto divino” e tutti spazzati via da chi li ha sostituiti con la “democrazia” e “l’autodeterminazione dei popoli” (che tanto piace agli “antimperialisti”!).

Inoltre, chi si pone su posizioni “antiamericane” da un punto di vista “antimperialista” è esposto alla possibilità di commettere l’errore madornale di considerare tutte le potenze in grado di avere un peso a livello planetario o regionale parimenti “imperialiste”, senza individuare piuttosto il “nemico principale”. Così troviamo di volta in volta “antimperialisti” (anche “di destra”) che stanno coi tibetani contro “l’imperialismo cinese”, coi ceceni contro “l’imperialismo russo” eccetera. Intendiamoci: non vogliamo dire che l’azione della Cina o della Russia sia esente da ‘peccato’, ma se si vuol “fare politica” come affermano gli “antimperialisti” si deve scegliere una volta per tutte chi è “il nemico principale”, anche perché solo altre potenze possono concretamente opporgli una forza in grado di contrastarlo. Fatto salvo il fatto che non si è ancora capito come gruppuscoli più che marginali possano effettivamente “fare politica”, ovvero incidere sulla realtà, con un qualche costrutto (cosa significa, all’atto pratico, “stare con la Cina”, “stare con la Russia”?). Ma, ripetiamo, è il loro punto di vista “laico” e perciò “antitradizionale” che non fornisce loro gli strumenti interpretativi atti a far comprendere che una “opposizione all’America” in grado d’incidere non può muovere da una denuncia dei suoi “crimini”, bensì da una puntuale messa in discussione dell’americanismo, alla luce di una salda tradizione spirituale[6].

All’interno del panorama degli “antiamericani di sinistra”, a riprova che i riferimenti di fondo, per tutti quanti costoro, sono di tipo “laico”, “democratico” e anti-spirituale, vi sono inoltre quelli che sebbene scorgano chiaramente un “nemico principale”, l’America, auspicano una “modernizzazione” in tutto il mondo, a colpi di “sviluppo”, ed è per questo che leggiamo nelle analisi di costoro critiche feroci al “feudalesimo tibetano”[7]. Non sia mai detto che un popolo si possa governare come meglio crede! Quand’anche ai tibetani piacesse vivere sotto il loro “clero” e non sotto i cinesi “modernizzatori”, non si capisce quale pena dovrebbe dare ciò ad un “antimperialista” comodamente seduto nel suo studiolo zeppo di testi marxisti. È semmai vero – e qui sta la ragione di un timore circa certe “proteste in Tibet” – che vi sono alte probabilità che un Tibet sottratto al controllo cinese in men che non si dica passerebbe armi e bagagli all’America, mettendo a disposizione il suo territorio per l’ennesima enorme base Usa-Nato…

Come si vede, dall’esistenza di “antiamericani” pro-Tibet ed anti-Tibet si deduce che il problema di fondo di tutti quanti è la mancanza di un orientamento spirituale: gli uni sono anticinesi viscerali perché la Cina è “antidemocratica”, una “dittatura” (e anche perché le SS compirono la spedizione in Tibet!); gli altri sono filo-cinesi perché aborriscono il “feudalesimo” e considerano la Cina il miglior esempio di “democrazia (popolare)” e di “progresso” sin qui realizzato (mentre il Tibet rappresenta il “regresso”). La confusione, dunque, regna sovrana.

Gli stessi “antimperialisti”, poi, forse per consolarsi di fronte alla costante avanzata dell’America e dell’americanismo (mentre ripetono che “l’America ha perso”!), hanno elevato alcuni fatti o situazioni a veri e propri “idoli”. Per non girare troppo attorno alla questione e proporre un esempio paradigmatico, citiamo il caso di Cuba. Quest’isola, da decenni, rappresenta meglio del Chiapas del “subcomandante Marcos” o della “resistenza palestinese” (che ormai è in mano agli “islamici”, per cui non piace più tanto ai “laici” di casa nostra)[8], la quintessenza dell’“antimperialismo”.

Il sistema instaurato a Cuba piace agli “antimperialisti”, perché a loro parere esso rappresenta la miglior forma di “democrazia” realizzata, “laica” e “progressista”. Anche con quell’orgoglio “nazionalistico” che, chissà perché, gli stessi “antimperialisti”, e ancor di più i “critici democratici dell’America” più morbidi, non degnano di alcuna considerazione quando si tratta di valutare la triste situazione in casa loro. Anzi, ogni ripresa nazionalistica in patria – e non mi riferisco all’attuale “classe dirigente”! – porterebbe con se delle “derive ”, dei “rigurgiti di fascismo” e simili iatture… Quando con ogni probabilità, un sano “amor di patria”, da trascendere poi in vista di un Impero (altrimenti è fatica sprecata), potrebbe essere l’unica via d’uscita – politica, s’intende – alla dissoluzione di civiltà in atto, se ormai non è “troppo tardi”.

È vero che Cuba ha aiutato alcune realtà del centro e del sud America a smarcarsi dalla opprimente tutela degli “yankee”, ma la sua sussistenza anche oggi che non vi è più lo sponsor sovietico dà da pensare, come la misurata e gestibile “guerriglia” antiamericana in Afghanistan, in Iraq ecc. Anche in questo caso qualche dubbio è lecito: possibile che se gli Stati Uniti e i loro alleati sono in grado di rovesciare Stati di una certa forza e rilevanza in ogni dove, non siano capaci di togliere di mezzo il governo cubano ad essi inviso? O, piuttosto, non è che lo si lascia esistere per poi avere la scusa di affermare che ogni situazione che sfugge di mano nel continente americano è un “complotto di Fidel Castro”? Cuba, insomma, embargata com’è, e perciò “innocua”, usata come “scusa” in un senso o nell’altro: per rovesciare capi di Stato bollati come “comunisti” (Allende, ad esempio) o, nel caso in cui non vi si riesca, per giustificare il fallimento dell’azione sovvertitrice tentata a più riprese (vedasi il caso del Venezuela).

Cuba, probabilmente in un certo senso fa comodo agli Stati Uniti così com’è, come spauracchio, sopravvalutata nella sua forza da chi ne ha fatto un parodistico luogo di pellegrinaggio dai “rivoluzionari in cachemere” d’Occidente, che anelano a “liberazioni” solo ad un elementare livello socio-politico.

A Cuba, per di più, sorge una celebre base militare statunitense, quella di Guantanamo, che gli “antiamericani di sinistra” hanno denunciato senza posa da quando pare essere diventata la “prigione degli islamici”. Eppure c’è qualcosa che non torna: da Guantanamo pare essere transitato il capo dei “ribelli libici”! Non è un po’ strano? E nessuno trova niente da ridire, per primo il governo cubano! Ora, che il governo italiano non fiati sulla presenza di oltre cento basi ed installazioni militari Usa-Nato sul suolo patrio non desta sorpresa, ma che Cuba, simbolo dell’”antimperialismo” e dell’“antiamericanismo”, non profferisca parola su una cosa del genere è in effetti inspiegabile. La nostra impressione è che si sia stabilita una sorta di quieto vivere, che probabilmente ha per oggetto centrale proprio l’esistenza della base di Guantanamo, la quale, più che essere il “cattiverio” in cui rieducare i “mujahidin” acciuffati dallo Zio Sam, sembra un luogo in cui “formare” i quadri militari e logistici per la sovversione del mondo arabo-islamico alla quale assistiamo sotto lo slogan di “Primavera araba”[9].

Inoltre, il “mito di Che Guevara”, e sottolineo il “mito” che ne è stato fatto – ridotto a marchio per il concerto del 1° maggio dove al suono di cantanti larvatamente “antiamericani” va in scena il festival dell’ ‘alternativamente corretto’ – per le sue connotazioni “ribellistiche” ha ben poco a che vedere con il ripristino di un ordine naturale delle cose di cui oggi v’è un estremo bisogno. Come abbiamo già scritto, una “ribellione” che sfocia nel “ribellismo” è foriera solo di ulteriori sciagure[10]. E anche il “ribellismo”, di cui l’icona del “Che” è una delle più venerate, è un atteggiamento, o meglio una condizione esistenziale, messa a disposizione, specialmente tra i giovani, dal “mondo moderno”[11].

Un ultimo elemento va infine citato tra quelli che compongono il quadro di riferimento dell’”antiamericanismo di sinistra”: la valutazione delle “dittature di destra”. Che esse siano state incoraggiate e sostenute dall’America, non v’è dubbio, tuttavia una retorica imbalsamata ripete che la Spagna sotto Franco, i Colonnelli greci, le giunte militari sudamericane eccetera siano state dei meri burattini in mano alla Cia. Che molti di questi personaggi, in varia misura (la Spagna franchista aveva anche degli elementi “in ordine” dal punto di vista tradizionale, e non ospitava basi americane) si siano prestati ad un opera di asservimento della loro nazione ai diktat delle corporation americane, non v’è dubbio, e che essi abbiano fatto sparire in vari modi moltissimi oppositori con la scusa della “lotta al comunismo”, è altrettanto vero. Pertanto, essi non suscitano alcuna particolare simpatia.

Ma queste “dittature militari”, definite “fasciste” dal solito coro di “antiamericani” che assumono acriticamente gli impulsi culturali provenienti da Hollywood[12], sono state però mantenute in piedi fintantoché ha fatto comodo al loro padrone; poi sono state gettate nel cestino e al pubblico ludibrio: si pensi a Pinochet, prima potentissimo, poi ridotto come oggi vediamo l’altrettanto ex potentissimo Mubarak; oppure alla giunta militare argentina, fatta fuori dopo la sconfitta nella guerra della Falkland/Malvinas; oppure a Noriega, altro “dittatore di destra”, che all’improvviso diventa “pazzo”, il che giustifica un massacro statunitense a Panama. Gli esempi di questo tipo possono sprecarsi anche in Africa, ma ci fermiamo qui, perché quel che ci preme è rilevare che alla fine gli Usa e l’Occidente sovente controllano materialmente e, soprattutto, a livello psicologico, sia i “rivoluzionari” che i “conservatori”: i primi illusi circa le magnifiche sorti “progressiste” e del loro Paese e dell’umanità, i secondi ingannati sulla loro indispensabilità nel mantenimento di un “ordine” che in realtà è un vero disordine se valutato alla luce di riferimenti tradizionali autentici, rappresentati dalla Parola divina consegnata nel Libro sacro dell’Islam e dall’esempio virtuoso del Suo Inviato (nonché dalla pratica pia dei Compagni, dei Seguaci e sei Seguaci dei Seguaci, oltre che dall’opera dei Sapienti divinamente ispirati e dai Maestri che provvidenzialmente esistono per indicarci che la Tradizione è una realtà viva ed operante).

La verità è che ogni società ha bisogno, per poter prosperare, sia dei suoi “progressisti” che dei suoi “conservatori”, o meglio di uomini che sappiano essere simultaneamente “progressisti” e “conservatori”, capaci di vivere allo stesso tempo le istanze alla conservazione e al cambiamento senza che la tradizione venga ingessata in ogni minimo dettaglio né stravolta nei suoi assunti fondamentali.

L’America, invece fa piazza pulita di tutto: dove arriva con la sua potenza materiale e la sua forza di persuasione degli animi, alternativamente privilegia gli uni o gli altri, le tendenze dei liberal-democratici “soddisfatti” o “dinamici”, illudendoli di averla vinta sull’odiata controparte sociale e politica; ma alla fine, per gli uni e gli altri, spogliati della loro tradizione e della loro identità, ridotti ad ombre di se stessi, non resta che un’unica grande valle di lacrime che se non potranno certo spengere le fiamme dell’Inferno che li attende basteranno per annegare, qui in terra, in un mare di nichilismo.

NOTE

[1] Il che ricorda un analogo fenomeno, quello delle critiche al Sionismo ammesse solo se recanti l’imprimatur di qualche pensatore ebreo strombazzato dai soliti “media”.

[2] Una versione completamente plagiata dai vincitori della Seconda guerra mondiale ed interiorizzata ben bene dai vinti ripete che “dichiarare guerra all’America fu una pazzia”. Come se il senno di poi non avesse chiarito che gli Stati Uniti – coi loro sodali inglesi e sionisti – mirano sin dalla loro costituzione a dominare il mondo intero: ma per agire ‘indisturbati’ continuano a raccontare – nei documentari ‘storici’ di loro fabbricazione quotidianamente diffusi da canali tematici e non – che altri (i “cattivi” sconfitti) volevano fare quello che in realtà intendono fare loro (“i buoni” vincitori)!

[3] Cfr. “Primavera araba” o “fine dei tempi”?, 6 aprile 2011: http://www.ildiscrimine.com/primavera-araba-dei-tempi/

[4] Tra Ottocento e inizio Novecento è stato asservito il continente americano (e di nuovo negli anni Cinquanta e Sessanta), poi si è passati alla conquista di una parte dell’Europa (1945), dell’ex “Europa Orientale” (a partire dal 1989-1991, con la coda della guerra all’ex Jugoslavia del 1998-99) e del Vicino Oriente (a partire dal 1991: guerra in Iraq), con l’11 settembre 2011 che segna la fase d’avvio della conquista totale – anche e soprattutto sul piano dei valori – del mondo islamico (Afghanistan, Iraq, Libia…).

[5] Si pensi all’India, letteralmente devastata e ridotta alla fame dall’Inghilterra, e, dopo l’indipendenza, amputata con la creazione di Pakistan e Bangladesh allo scopo di aizzare un perpetuo stato di belligeranza tra indù e musulmani.

[6] Ai “crimini” degli uni verranno sempre opposti, dagli avversari, per giunta più forti mediaticamente, i “crimini” degli altri (un razzetto di Hamas, per la maggioranza lobotomizzata, sarà sempre più deprecabile di “Piombo Fuso”!)… Cosicché le denunce degli “antimperialisti”, oltre che non centrare il problema alla radice (cioè l’americanismo, il “mondo moderno”) non riescono nemmeno a raggiungere un pubblico di dimensioni minimamente consistenti su cui, eventualmente, basare una concreta e fattiva azione politica.

[7] Questi stessi autori, nei decenni passati, ci hanno ammorbato con le loro noiosissime e meccanicistiche interpretazioni sulle “resistenze primarie” (quelle di ‘Umar al-Mukhtâr, dell’emiro ‘abd el-Qâder ed altri), seguite da quelle ad essi gradite, guidate da elementi occidentalizzati nella misura in cui, avendo studiato in Europa, si erano convertiti al marxismo e al nazionalismo.

[8] Che questi gruppi “islamici” siano effettivamente rappresentanti di un Islam autenticamente “tradizionale” è un altro paio di maniche…

[9] D’altra parte, non si tratta di nulla di nuovo: anche i tedeschi e gli italiani vennero “rieducati” in gran quantità, così i ‘primi della classe’ furono inquadrati, dopo il 1945, in patria e fuori, nella farsesca “lotta al comunismo”.

[10] Cfr. La via dell’inferno è lastricata di… “proteste”, 6 luglio 2011: http://www.ildiscrimine.com/via-dellinf ... -proteste/

[11] Sarebbe interessante indagare le origini storiche del “ribellismo” (quelle metastoriche sono insite nell’esistenza stessa dell’essere umano): intanto si noti la nutrita presenza di ebrei staccatisi dalla loro tradizione tra i ranghi del “rivoluzionarismo” moderno, politico e sociale, dei “costumi”, il che ci dà la misura del nesso tra “ribellismo” e antitradizione.

[12] Le “dittature militari” sono diventate un alibi per giustificare il fallimento della “rivoluzione” in tutto il mondo…
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Io sto con Trump e gli USA e antiamericanismo

Messaggioda Berto » mar mag 15, 2018 6:03 pm

Dieci ragioni per essere anti-antiamericani
di Dinesh D'Souza
IL FOGLIO, 4 luglio 2003

http://www.camilloblog.it/wp-content/up ... uglio.html

L'America è sotto attacco, come mai lo era stata prima: non solo da parte dei terroristi ma anche di coloro che giustificano il terrorismo. I fondamentalisti islamici dichiarano che l'America è il Grande Satana. Gli europei se la prendono con il capitalismo e la cultura americani. Gli attivisti dell'America meridionale denunciano gli Stati Uniti per "neocolonialismo" e oppressione.
L'antiamericanismo estero non sarebbe un problema se gli americani fossero uniti nella difesa del proprio paese. Ma proprio qui, in patria, c'è chi incolpa l'America per quasi tutti i mali del mondo. A sinistra, molti condannano gli Stati Uniti per la loro storia di Stato schiavista, e per un continuato appoggio all'ineguaglianza e al razzismo. Persino a destra, la culla tradizionale del patriottismo, abbiamo sentito persone molto autorevoli affermare che l'America è diventata così decadente da "assomigliare a Gomorra".
Se queste critiche fossero giuste, l'America dovrebbe essere distrutta. E chi può mettere in dubbio alcuni particolari? Questo paese ha effettivamente avuto un periodo schiavista e il razzismo continua ad esistere. Molto nella nostra cultura è volgare e decadente. Ma i critici sull'America si sbagliano, perché non riescono a vedere il quadro generale. Nella loro indignazione per i peccati dell'America, ignorano i tratti più essenziali e positivi della civiltà americana.
Come immigrante che ha scelto di diventare cittadino americano, mi sento perfettamente qualificato per dire che cosa ci sia di speciale nell'America. Essendo cresciuto in una società diversa (a Bombay, in India), sono non soltanto in grado di identificare aspetti che sono invisibili a chi è nato in America, ma sono anche consapevole fino in fondo dei benefici quotidiani di cui godo vivendo qui. Ecco, allora, la mia lista di dieci grandi cose sull'America.

L'America permette anche alla gente comune di avere una vita straordinariamente piacevole
I ricchi vivono bene ovunque. Ma ciò che distingue l'America è che permette all'"uomo comune" di avere uno standard di vita eccezionalmente alto. Viviamo in un paese in cui un muratore è abituato a spendere quattro dollari per un cappuccino con latte scremato, le cameriere guidano belle macchine e gli idraulici portano la loro famiglia a fare le vacanze in Europa. In effetti, tutti i nuovi arrivati negli Stati Uniti sono colpiti dalle comodità di cui godono i "poveri" negli Usa. Se ne è avuta una prova lampante negli anni Ottanta, quando la rete televisiva Cbs ha trasmesso un documentario, intitolato "Gente come noi", per mostrare le sofferenze degli americani poveri in un periodo di recessione. Il documentario fu trasmesso anche in Unione Sovietica, con lo scopo di mettere in imbarazzo l'Amministrazione Reagan. Ma, secondo la stessa testimonianza degli ex leader sovietici, ebbe l'effetto opposto. La gente comune in tutta l'Unione Sovietica si accorse che gli americani più poveri possedevano televisori, forni a microonde e automobili. E giunse alla stessa conclusione di un mio amico di Bombay che aveva cercato senza successo di trasferirsi negli Stati Uniti. Alla mia domanda: "Perché vuoi venire a tutti i costi in America?", rispose: "Voglio vivere in un paese dove i poveri sono grassi".

L'America offre più opportunità e mobilità sociale di qualsiasi altro paese al mondo, compresi quelli europei
L'America è l'unico paese ad aver prodotto una popolazione di "capitani d'industria che si sono fatti con le proprie mani". Solo in America Pierre Omidyar, con genitori iraniani e cresciuto a Parigi, poteva avviare una compagnia come la eBay. Solo in America Vinod Khosla, figlio di un ufficiale dell'esercito indiano, poteva diventare un capitalista di primo piano, artefice della industria tecnologica, e per di più miliardario. E' ovvio che non tutti gli americani diventano capitani d'industria, ma nessun altro paese ha saputo offrire alla gente opportunità migliori per arrivare al successo partendo da condizioni modeste.

In America il lavoro e il commercio sono rispettati, cosa che in altre parti del mondo non avviene
Storicamente la maggior parte delle culture hanno disprezzato i mercanti e i manovali, considerando i primi vili e corrotti e i secondi volgari e inferiori. In alcune culture, come quelle dell'antica Grecia e dell'Islam medievale, si riteneva addirittura preferibile acquistare le cose con il saccheggio anziché con il commercio e il lavoro salariato. Ma i padri fondatori dell'America hanno rovesciato questa gerarchia morale. Hanno stabilito una società nella quale la vita dell'uomo d'affari, e delle persone che lavorano per lui, rappresenta una nobile vocazione. Secondo la visione americana, non c'è nulla di vile o di inferiore nel servire i tuoi clienti, sia come Chief Executive Officer sia come cameriere. In verità, l'America è il solo paese al mondo dove ci si rivolge ad un cameriere chiamandolo "Sir", come se fosse un cavaliere.

L'America ha raggiunto un'eguaglianza sociale maggiore che in qualsiasi altra società
Senza dubbio, ci sono grandi disparità di reddito e di ricchezza in America. In termini puramente economici, l'Europa ha una struttura più egualitaria. Ma gli americani, da un punto di vista sociale, sono gli uni uguali agli altri, molto più di qualsiasi altro popolo; e le disparità economiche non hanno alcuna influenza su ciò. Tocqueville notò questo egualitarismo già un secolo e mezzo fa, e oggi è persino più visibile e prevalente. Nonostante tutti i suoi soldi, Bill Gates non può avvicinarsi ad un americano medio e dirgli: "Ecco cento dollari. Te li do se mi baci i piedi", perché, non c'è il minimo dubbio, verrebbe mandato al diavolo. Secondo la visione americana, un uomo può avere più denaro degli altri, ma non è per questo in alcun modo migliore di loro.

In America si vive una vita più lunga e più piena
Sebbene i critici, nelle conferenze mondiali sul commercio, se la prendano contro la versione americana del capitalismo tecnologico, in realtà il sistema americano ha garantito ai suoi cittadini una vita più lunga e gli ha dato i mezzi per vivere in modo più intenso e attivo. Nel 1900, la durata media della vita si aggirava attorno ai cinquant'anni; oggi supera i settantacinque. La causa principale di questo sviluppo sono i miglioramenti compiuti nella medicina e nell'agricoltura. Questo aumento significa avere più anni a disposizione per godere la propria vita, più tempo libero da dedicare a una giusta causa o da trascorrere con i propri nipoti. In molti paesi, i vecchi sembrano non aver niente da fare: aspettano semplicemente di morire. In America i vecchi sono straordinariamente attivi, e persone di settant'anni continuano a inseguire i piaceri della vita, compresi nuovi matrimoni e soddisfazioni sessuali, con una passione che mi fa quasi paura.

In America i giovani si scelgono da soli il proprio destino
Non molto tempo fa mi sono chiesto: "come sarebbe stata la mia vita se non fossi mai venuto negli Stati Uniti?". Se fossi rimasto in India, avrei probabilmente vissuto tutta la mia vita a non più di cinque miglia di distanza dal posto in cui sono nato. Avrei senza dubbio sposato una donna con il mio stesso retroterra religioso e socioeconomico. Sarei quasi certamente diventato un medico, un ingegnere o un programmatore di computer. Avrei condotto la mia vita sociale esclusivamente all'interno della mia stessa comunità. Avrei condiviso tutta una serie di opinioni che si potrebbero prevedere in anticipo; in realtà, non sarebbero state molto diverse da quelle di mio padre, o persino da quelle di mio nonno. In altre parole, il mio destino mi sarebbe stato in gran parte assegnato. In America, la mia vita ha preso una strada completamente diversa. All'università ho cominciato a interessarmi di letteratura e politica, e ho deciso di intraprendere la carriera di scrittore. Ho sposato una donna i cui antenati erano inglesi, francesi, scozzesi, irlandesi, tedeschi e indiani-americani. Quando avevo poco più di vent'anni, ho trovato lavoro come analista politico alla Casa Bianca, anche se non ero un cittadino americano. Nessun altro paese, ne sono più che certo, avrebbe permesso a uno straniero di lavorare nella cittadella principale del proprio governo.
Nella maggior parte dei paesi del mondo, il tuo destino e la tua identità ti vengono assegnati; in America, sei tu stesso a deciderli. L'America è un paese dove ti viene concessa la possibilità di scrivere il copione della tua vita. La tua vita è come un foglio di carta bianco, e tu hai in mano la penna. E' proprio questa possibilità di essere l'architetto del proprio destino la straordinaria idea che alimenta il fascino universale dell'America. I giovani soprattutto trovano irresistibile la prospettiva di scrivere di proprio pugno il romanzo della loro vita.

L'America si è spinta oltre tutte le altre società nella realizzazione dell'uguaglianza dei diritti
Non c'è nulla di specificamente americano nello schiavismo o nella bigotteria. Lo schiavismo è esistito praticamente in tutte le culture; la xenofobia, il pregiudizio e la discriminazione sono fenomeni universali. La civiltà occidentale è la sola che abbia creato un movimento di principio contro lo schiavismo; nessun paese ha versato più sangue e investito più denaro degli Stati Uniti per eliminarlo. Sebbene il razzismo rimanga un problema in America, questo paese ha compiuto sforzi notevoli per sradicare la discriminazione, tanto da approvare persino politiche che concedono una preferenza legale ai membri delle minoranze nelle ammissioni universitarie, nel mercato del lavoro e nell'ottenimento di contratti di governo. Sono politiche ancora molto discusse, ma il punto è che appare estremamente improbabile che una società razzista le avrebbe in ogni caso permesse. E, senza dubbio, afroamericani come Jesse Jackson vivono molto meglio in America di come gli sarebbe toccato vivere in Etiopia o in Somalia, per fare solo due esempi.

L'America ha trovato una soluzione al problema dei conflitti etnici e religiosi che continuano a dividere e terrorizzare buona parte del mondo
I turisti che visitano posti come New York si stupiscono nel vedere il modo in cui serbi e croati, sikh e indù, cattolici e protestanti irlandesi, ebrei e palestinesi, lavorano e vivono insieme in armonia. Com'è possibile, visto che proprio questi gruppi si stanno scannando fra di loro in tante parti del mondo?
La risposta americana è duplice. Primo, separare la sfera della religione dal quella del governo, in modo che a nessuna religione sia data una preferenza ufficiale, e che a ognuno sia concesso di praticare la propria fede come desidera. Secondo, non assegnare diritti a gruppi etnici o razziali ma solo agli individui: in questo modo, tutti sono uguali di fronte alla legge, ci sono opportunità per tutti coloro che sappiano sfruttarle, e chiunque accetti l'American way of life può "diventare americano".
Ci sono naturalmente eccezioni a questi principi fondamentali, persino in America. Le preferenze razziali sono una di queste, e si spiega così perchè sono molto discusse. Ma in generale l'America è il solo paese al mondo a concedere una piena integrazione agli stranieri. Un tipico americano può andare in India, viverci per quarant'anni e prendere la cittadinanza indiana. Ma non può "diventare indiano". Lui stesso non riuscirebbe a considerarsi tale, e la maggior parte degli indiani non lo vedrebbe come un indiano. In America, al contrario, milioni e milioni di persone sono giunte da terre lontanissime e col tempo sono diventate, loro stesse o i loro figli, profondamente e pienamente "americane".

L'America ha la politica estera più gentile e moderata che una grande potenza abbia mai esercitato in tutta la storia
I critici degli Stati Uniti di solito reagiscono a questa verità con estrema rabbia. Denunciano il prolungato sostegno americano a un qualche despota dell'America Latina o del Medio Oriente, l'ingiusto imprigionamento dei giapponesi durante la Seconda guerra mondiale, o la riluttanza a imporre sanzioni sul regime di apartheid del Sud Africa. Quale che sia la nostra particolare opinione su questi casi specifici, concediamo tuttavia ai critici il fatto che l'America non si schieri sempre dalla parte giusta.
Ma questi critici non considerano l'altra faccia della medaglia. Per ben due volte nel XX secolo gli Stati Uniti hanno salvato il mondo: prima dalla minaccia nazista, poi dal totalitarismo sovietico. Quale sarebbe stato il destino del mondo, se non ci fosse stata l'America? Dopo aver sconfitto la Germania e il Giappone nella Seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti hanno ricostruito entrambi questi paesi, che oggi sono alleati dell'America. Ora stiamo facendo la stessa cosa in Afghanistan e in Iraq. Non dimentichiamoci poi della magnanimità mostrata dagli Stati Uniti con la ex Unione Sovietica dopo la sua vittoria nella Guerra fredda. In grande misura, l'America è una superpotenza che si mantiene a distanza: non ha alcun vero interesse a conquistare e soggiogare il resto del mondo (immaginatevi cosa avrebbero fatto i sovietici se avessero vinto la Guerra fredda). Quando necessario, l'America interviene in un altro paese per rovesciare un regime tirannico e per fermare gravi violazioni dei diritti umani, ma non rimane mai sul posto per governare. A Grenada, ad Haiti e in Bosnia, gli Stati Uniti sono intervenuti e poi se ne sono andati. Per di più, quando l'America entra in guerra, come ha fatto in Iraq, le sue truppe sono estremamente attente ad evitare di colpire i civili e a minimizzare i danni collaterali. Nel momento stesso in cui l'America bombardava le infrastrutture e i nascondigli dei talebani, i suoi aerei sganciavano anche razioni di cibo per alleviare le difficoltà e la fame dei civili afghani. Quale altro paese fa cose del genere?

L'America, la nazione più libera della terra, è anche la più virtuosa
Quest'affermazione sembra assurda, tenendo conto della grande quantità di volgarità, di vizi e di immoralità che regna in America. Così, alcuni fondamentalisti islamici sostengono che i loro regimi sono superiori agli Stati Uniti perché cercano di promuovere la virtù nei propri cittadini. La virtù, dichiarano questi fondamentalisti, è un principio ancora più alto della libertà. Ed è proprio così. Ammettiamo anche che in una società libera, la libertà venga spesso usata in modo sbagliato. La libertà, per definizione, implica la libertà di fare il bene o il male, di agire in modo nobile o vigliacco. Ma se è vero che la libertà tira fuori il peggio dagli uomini, e altrettanto vero che tira fuori anche il meglio. I milioni di americani che vivono in modo onesto e corretto meritano la nostra più alta ammirazione perché hanno scelto il bene anche quando il bene non era la sola opzione disponibile. Nonostante le tentazioni di una società libera e ricca, sono rimasti sulla retta via. La loro virtù vale ancora di più perché è stata liberamente scelta.
Al contrario, le società a cui aspirano molti fondamentalisti islamici eliminerebero la possibilità della virtù. Se in una società libera come l'America non c'è abbastanza virtù, è praticamente inesistente in una società autoritaria come l'Iran. Perché le virtù obbligatoriamente imposte non sono affatto virtù. Prendiamo il caso delle donne che devono portare il velo. Non c'è alcuna dimostrazione di modestia, per il semplice fatto che sono costrette a farlo. La costrizione non produce virtù, ma soltanto l'apparenza di essa. Perciò una società come quella americana non è soltanto più prospera, più varia, più pacifica e più tollerante, ma è anche moralmente superiore ai regimi teocratici e autoritari ai quali aspirano i nemici dell'America.
"Per farci amare il nostro paese", disse una volta Edmund Burke, "il nostro paese deve meritarsi il nostro amore". La tesi di Burke è che dobbiamo amare il nostro paese non semplicemente perché è il nostro, ma anche perché è buono. L'America non è certo perfetta, e c'è ancora molto da migliorare. Nonostante tutti i suoi difetti, tuttavia, la vita che si conduce in America è la migliore che oggi il mondo possa offrire. In definitiva, l'America è degna del nostro amore e dei nostri sacrifici perché, più di qualsiasi altra società, rende possibile una vita piacevole e giusta.
Dinesh D''Souza
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Re: Io sto con Trump e gli USA e antiamericanismo

Messaggioda Berto » mar mag 15, 2018 6:08 pm

Le origini dell'antiamericanismo neofascista
mercoledì 11 gennaio 2012
Maurizio Barozzi

http://fncrsi.altervista.org/Le_origini ... scista.htm

«Nel secondo dopoguerra la scelta di civiltà antibolscevica "degrada a milizia antioperaia", la Terza via tra comunismo e capitalismo a "semplice difesa dell'ordine costituito", le istanze sociali a "sostegno per gli interessi più conservatori". Il neofascismo degli anni '50 così, si spoglia di ogni richiamo alternativo allo status quo. Si appiattisce nella rabbiosa difesa dell'esistente, dominato com'è dalla divorante paura del comunismo. Non più oltre, ma semplicemente indietro. Al carattere illiberale unisce quello conservatore, non senza, talora venature reazionarie».

Si apre così, con questo passaggio che riprende anche frasi tratte da "La destra italiana" di R. Chiarini, Marsiglio Ed. 1995, un importante saggio "L'antiamericanismo neofascista delle origini (1945-1954) pubblicato dalla prestigiosa rivista Nuova Storia Contemporanea N. 5 del settembre/ottobre 2011, ad opera del prof. Luca Tedesco, ricercatore storico e insegnate presso l'Università degli studi di Roma Tre.

Sono frasi che si possono sottoscrivere in pieno, parola per parola e che inchiodano per sempre al giudizio della Storia il neofascismo, quella degenerazione ideale, politica e storica del fenomeno fascista che pur con la RSI aveva portato a compimento un percorso politico, sociale e ideologico più che ventennale ed aveva combattuto contro l'Occidente quella guerra del sangue contro l'oro, mostrando al mondo il suo messaggio di Civiltà.

Il neofascismo, viceversa, divenne ben presto tutta altra cosa, un penoso anticomunismo viscerale, senza capo nè coda, che morirà con il suo stesso nemico nel momento in cui, con la caduta del "muro", verrà meno l'"avversario di comodo", in virtù del quale aveva potuto giustificare quasi mezzo secolo di nefandezze e tradimenti.

Ma ancor peggio il neofascismo diverrà la guardia armata, la truppa cammellata, a difesa della subordinazione del nostro paese al colonialismo americano, colonialismo che stravolse e sottomise l'Italia in ogni campo: da quello culturale ed esistenziale a quello economico, per finire a quello militare, subordinando, nel sistema Atlantico, tutti i nostri più alti comandi militari ai Comandi NATO e utilizzando elementi neofascisti o semplicemente di destra per le operazioni stay behind e per la costituzione delle cellule Gladio, fino a coinvolgerli nel tragico periodo storico che è passato sotto il nome di "strategia della tensione".

Tutte situazioni queste che, dietro la scusa dell'anticomunismo e della difesa da una ipotetica invasione sovietica a Nord Est, in realtà avevano il compito di condurre una guerra non ortodossa per il mantenimento dello status quo e nell'interesse statunitense.

Era il risultato della spartizione dell'Europa decisa a Jalta, una divisione anche ideologica e strategica tra sovietici e occidentali che spaccò le popolazioni, i partiti e i governi di tutto il continente in partigiani della NATO e in partigiani del Patto di Varsavia, divorando ogni energia intellettuale, fisica e politica in un confronto che era funzionale soltanto ad entrambi gli occupanti.

Ma questi opposti schieramenti, Cortina di ferro e cosiddetto "mondo libero", che furono la carta vincente per il mantenimento dello stato di asservimento dell'Europa, in attesa che tutta la civiltà europea venisse a poco a poco dissolta e snaturata (mondialismo), furono anche una vera e propria truffa, perchè la sostanza degli accordi di Jalta, essendo di natura strategica, sia pur limitata nel tempo (è durata circa 40 anni), implicava la cooperazione reciproca per il mantenimento di quella suddivisione e la non ingerenza nelle aree geografiche di rispettivo dominio.

Ecco che allora le operazioni stay behind, l'occulta lotta tra Servizi Est-Ovest, la guerra non ortodossa, violenta e spaventosa che, quasi come una guerra vera, costò morti, feriti e disastri di ogni genere, aveva una funzione essenzialmente tattica, ovvero quella di impedire che le normali e inevitabili dinamiche storiche, i mai sopiti interessi geopolitici delle nazioni, potessero far defezionare dall'inquadramento nelle rispettive aree geografiche e dalla subordinazione così stabilita a Jalta, un qualsiasi paese assoggettato.

Se Jalta, d'altro canto, aveva una funzione strategica, questa non era contro il comunismo o i sovietici, ma finalizzata ad impedire ogni anelito di indipendenza della nazioni Europee. In particolare in Italia, data la presenza del più forte partito comunista di occidente ed una radicata tradizione sindacale, le strategie NATO erano impegnate ad impedire con ogni mezzo che il nostro paese dovesse, non tanto passasse nel campo opposto, visto che come abbiamo detto americani e sovietici non si sarebbero mai fatti questo reciproco sgarro agli accordi di Jalta (gli americani non mossero un dito quando i sovietici furono costretti ad intervenire in Ungheria e Cecoslovacchia, così questi ultimi restarono indifferenti al colpo di stato dei Colonnelli greci orchestrato dalla CIA), quanto potesse indirizzarsi verso una politica autonoma, equidistante dai "blocchi" e foriera di un probabile disimpegno dalla NATO, proprio come aveva fatto De Gaulle.

Certo gli americani erano permeati di un radicato anticomunismo viscerale, anche se dietro le quinte soffiavano negli USA potenti lobby e correnti mondialiste, che, viceversa, tendevano a diffondere una ideologia neoradicale nel resto del mondo e a strutturare i paesi occidentali su modelli progressisti al fine di superare vecchie tradizioni e culture peculiari a questi paesi destinati ad essere assorbiti in un Nuova Ordine Mondiale.

Ma l'anticomunismo americano, iniziava e finiva, nel momento in cui veniva garantita l'ingessatura del nostro paese nel sistema NATO, cosa questa che faceva uscire di senno i loro "servi sciocchi" ovverosia i neofascisti e le destre in genere, che dopo essere state utilizzate per ogni più sporca incombenza, dopo avergli promesso "misure di emergenza" o magari "colpi di stato", si vedevano sempre e puntualmente scaricate, in quanto oltretutto non affidabili, e quindi non se ne facevano una ragione pretendendo di voler insegnare loro, agli americani, come si doveva fare contro il comunismo. Se non fosse tragico ci sarebbe da sbellicarsi dal ridere.

Rievocato e precisato tutto questo, torniamo alla ricerca storica dell'autore.

Il prof. Luca Tedesco ricostruisce tutte quelle "voci" del neofascismo, ma forse sarebbe più opportuno definirle dei reduci del fascismo, che dal dopoguerra ai primi anni '50 si batterono contro la svolta di "destra" al loro interno, contro l'atteggiamento filo americano e filo atlantico che invece finì poi per risultare preponderante.

La sua ricerca, e questo in un certo senso è un limite, si base essenzialmente sui fogli e giornali neofascisti di prima e dopo la nascita del MSI quando «ancora agli inizi degli anni Cinquanta nascono pubblicazioni, che riferibili agli ambienti saloini, socialisteggianti e delle correnti di sinistra del neofascismo non si pongono affatto come obiettivo la difesa dell'ordine costituito, liberaldemocratico e capitalista, e accusano anzi i moderati, anche quelli che operavano nelle fila neofasciste, di utilizzare strumentalmente la paura del comunsmo e quindi la crociata antibolscevica a garanzia di quell'ordine».

Seppur non esaustiva è comunque interessante seguire la ricostruzione storica dell'autore che rivela come la maggioranza dei reduci del fascismo e le nuove generazioni a questo avvicinatesi rifiutavano decisamente il destrismo.

Duole il cuore, rileggendo la stampa di questi fascisti anti americani e il constatare che proprio con costoro vi era la possibilità di organizzare in Italia una vera lotta di indipendenza, contro la NATO, una lotta che avrebbe potuto coinvolgere non solo aspetti politici (la "terza via"), ma anche sociali (il socialismo fascista della RSI in contrapposizione con il liberismo del mondo occidentale) e culturali, ideologici (una visione della vita e del mondo opposta alla famigerata way of life americana).

Insomma, proprio, se non solo, i fascisti avrebbero potuto essere i veri avversari della NATO e non le sinistre che lo erano più che altro in virtù di una loro subordinazione agli interessi sovietici. E a dimostrazione di questo, possiamo constatare come, imploso il comunismo, una utopia al di fuori delle possibilità della natura umana, tutte le sinistre non hanno avuto più nulla da opporre al modernismo e al modello di vita occidentale e sono state quindi assorbite dalle ideologie neoradicali, i battistrada esistenziali e culturali del mondialismo.

Fu invece opera di questi neofascisti del dopoguerra scrivere, per la penna di L. Filippi, su la "Rivolta Ideale" dell'agosto 1949, la precisa sintesi dei guasti del materialismo deteriore americano. Si leggano stralci di questo articolo d'epoca nella sua prosa asciutta, senza troppe pretese intellettuali, ma proprio per questo tremendamente efficace e si consideri tutto quello che poi è accaduto in seguito, fino ai giorni nostri. Scriveva Rivolta Ideale:

«... le devastazioni materiali, per quanto tremende e stupidamente inutili, sono nulla in confronto alla devastazione morale portata fra noi dai costumi della repubblica stellata». Il giornale quindi ricordò come le origini di questa "malattia morale" (l'americanismo) risalivano alla prima guerra mondiale, quando nonostante il loro scarso contribuito militare, gli americani seppero ingigantirlo grazie al cinema, e negli anni Venti poi:

«... l'America apparve al vecchio mondo come il paradiso terrestre della felicità umana: là vi era il denaro, là vi erano guadagni, divertimenti, lusso, vita facile (...) Gli influssi americani si risentirono in tutta l'Europa e naturalmente anche in Italia Le conseguenze per noi furono: 1. la graduale sparizione del sentimento religioso, rimasto nei più come una tinta superficiale. 2. l'indebolimento dei vincoli familiari (...). 3. la diffusione del senso godereccio e spendereccio. 4. l'infatuazione fanatica del ballo e dei divertimenti mondani. 5. l'oscuramento del gusto artistico. 6. l'inclinazione alla vita comoda. 7. l'affannosa ricerca della sistemazione pratica, senza scrupoli di dignità e di morale. 8. l'aspirazione al guadagno comunque accumulato. 9. l'eclissi quasi totale del senso del dovere e del sacrificio. 10. la sparizione quasi totale di ogni disciplina interiore».

Ma in quel secondo dopoguerra, le conseguenze di quella mentalità americana furono ancora più devastanti:

«... a osservarli questi signorini e queste signorine ci si sente cascare le braccia. La loro povertà interiore è spaventosa. La loro aridità spirituale fa pena (...) Somma eleganza per essi è farsi chiamare con i nomignoli che un tempo si affibbiavano ai cani (...) Parlano tutti, maschi e femmine lo stesso linguaggio sguaiato (...) Le loro letture vanno dai settimanali a fumetti a quelli a rotocalco con le storie sceme delle varie italiche Peverelli; se si arrischiano più in là, sono libri gialli e romanzi stranieri. Non amano il teatro di prosa, che è spettacolo d'arte e talvolta fa pensare, ma adorano il cinema e lo sport. Ignorano che la Duse fu una grande attrice che morì in miseria, ma conoscono vita e miracoli di Ingrid Bergman. Ignorano che il Foscolo morì in esilio, di fame e di nostalgia, per non aver voluto servire lo straniero, ma si accendono, gli sciagurati, per gli occhi di Tyrone Power. La musica per loro è quella dei balli negreschi, e Verdi e Beethown sono degli illustri ignoti. La poesia è per loro rappresentato dai versi stupidi delle canzonette di moda, non da quelli del Carducci che infiammavano i nostri anni liceali».

Consigliamo vivamente di leggere questo saggio di Nuova Storia Contemporanea, perchè si potrà toccare con mano come, a poco a poco, venne dissolto e vanificato un grande patrimonio di idee e di energie che dovevano indirizzare i reduci del fascismo repubblicano verso un Fronte di Liberazione Nazionale, a tutto campo, contro il colonialismo americano.

Politicamente parlando l'autore dell'articolo riporta una giusta definizione di Marco Tarchi che definì l'antiamericanismo delle origini di carattere nazional patriottico, legato alle questioni del Diktat del trattato di Pace, di Trieste e delle ex colonie africane.

Una posizione questa, rileviamo noi, che poteva avere dei risvolti ambigui, in quanto subordinava quello che invece doveva essere una posizione naturale, netta e definitiva contro gli yankee, l'eventuale adesione italiana ad uno schieramento internazionale, piuttosto che ad un altro, al conseguimento di adeguate contropartite come per esempio il diritto dell'Italia a riarmarsi (una vera utopia), e alla amministrazione delle ex colonie, alla restituzione di Briga, Tenda, Trieste e dell'Istria.

Ancora nel 1950, ricorda l'autore, di fronte alla possibilità di una terza guerra mondiale, in seguito alla crisi coreana, la tendenza antiamericana anche in seno al MSI, riuscì a far approvare una mozione di fatto terzaforzista e terzamondista al Comitato centrale del partito. Giorgio Pini, che poi ovviamente abbandonerà questo partito oramai senza più speranza, prendendo spunto dal conflitto coreano riconobbe ai popoli asiatici il diritto «di decidere le loro questioni nazionali all'infuori di interventi stranieri».

Furono gli ultimi disperati colpi di coda, di coloro che in seno a quel partito, nato marcio, cercavano di orientarlo correttamente. Ma di lì a poco, nel 1951, il segretario Augusto De Marsanich, divenuto tale dal gennaio precedente, abbandonò ogni equidistanza e rilanciò la corrente del filo "atlantismo condizionato" in nome di una difesa, disse con sottile astuzia, non tanto di una vaga nozione d'Occidente, ma di una civiltà europea «perchè l'idea europea è ancora troppo debole per poter assicurare la difesa nazionale».

Il terzo congresso missista che si tenne all'Aquila nel luglio del 1952, sancì così la vittoria degli "atlantisti" e la fuoriuscita dal partito di Pini e altri.

Non passarono molti anni che le mozioni di quel partito emanarono infami e vergognose tiritere a sostegno della guerra americana in Vietnam, dei Colonnelli greci, dei golpisti cileni, ecc. La discesa nella fogna atlantica era oramai assoluta e irreversibile.

Ma come è stato possibile, ci si chiede oggi, dove tocchiamo tutti con mano la pena e la gogna di una subordinazione alla NATO, la partecipazione a guerre che non ci appartengono in favore degli interessi americani, ma quel che è ancor peggio in difesa di quel mondialismo, di quel sistema di rapina rappresentato dalla usurocrazia bancaria internazionale, ci si chiede dicevamo, come è stato possibile che, fatte salve alcune rare e gloriose eccezioni, come ad esempio i fascisti della Federazione Nazionale Combattenti della RSI, che si batterono sempre e comunque contro il sistema demoliberale, contro la NATO e gli USA, contro quell'aborto di partito reazionario e filo atlantico che era il MSI, il neofascismo venne trascinato nella abiezione morale e nel più servile ossequio alle direttive d'oltre oceano?

Possiamo darci tante risposte, possiamo analizzare la situazione sotto vari aspetti, ma per noi, da modesti ricercatori storici, comunque la si rigiri, la risposta si annida nella collusione con gli apparati dell'OSS americano, una collusione che riguardò tanti dirigenti di gruppi e movimenti neofascisti e quindi del partito missista sorto nel dicembre 1946, senza sottovalutare vari traffici massonici e di altra natura.

Furono questi personaggi che poterono contare su aiuti inconfessabili, su amicizie trasversali, su finanziamenti, protezioni e clientelismo d'accatto, che sbaraccarono ogni opposizione, che finirono per dissolvere certi ideali.

In una nazione uscita moralmente e materialmente devastata dalla guerra, laddove la vita riprendeva con gli standard imposti da un sistema democratico, regno dei furbi e dei guitti, non fu difficile per questi mascalzoni, falsi fascisti, come poi infatti si rivelarono tutti, ingannare e deviare una gran massa di seguaci, ex combattenti e giovani, verso le sponde della Destra e del filo atlantismo.

In un rapporto dei servizi segreti americani intitolato "Il movimento neofascista - 10 aprile 1946, segreto", si legge: «I neofascisti intendono stabilire un contatto con le autorità americane per analizzare congiuntamente la situazione del paese. La questione politica italiana sarà quindi collocata nelle mani degli Stati Uniti».

Fu così che nel dopoguerra gli americani avevano in mano o erano stati promotori, di «una miriade di formazioni eversive, spesso isolate, ma comunque poste agli ordini dell'arma, dell'esercito e delle prefetture, che agiscono su disposizioni precise dell'intelligence angloamericana». E tutto questo trafficare sottotraccia, dietro l'abile regia di J. J. Angleton, avveniva all'insaputa di reduci e sinceri fascisti che credevano di lottare per la loro sopravvivenza e per riappropriarsi di uno spazio politico nell'Italia del dopoguerra.

Ancora oggi chi analizza la vergognosa "resa" del 27 aprile 1945 in cui incorsero i comandanti fascisti arrivati a Como, dietro Mussolini che nel frattempo si era portato poco più avanti sulle sponde del paesino lacustre di Menaggio e vi era rimasto bloccato, non può non constatare tutta una serie di cedimenti, se non di tradimenti, che sostanzialmente risalivano al desiderio di molti di questi fascisti di volersi arrendere agli Alleati con la speranza di riciclarsi, magari, come anticomunisti nel dopoguerra. E oggi ben sappiamo che molti contatti con l'Intelligence americana avvennero a guerra in corso.

Fatte alcune eccezioni, per esempio Franco Colombo, Pavolini, ecc., tra gli arrivati a Como vi erano molti pseudo fascisti di indole conservatrice che avevano aderito al fascismo perchè questo aveva stroncato il bolscevismo e risollevato la nazione, dove i "treni arrivavano in orario e si poteva lasciare la porta di casa socchiusa senza paura dei malintenzionati". Ed avevano aderito alla RSI per «riscattare l'onore della bandiera». Ma poco o niente avevano percepito dei veri valori di vita del Fascismo, delle sue profonde riforme sociali e socialiste, di una guerra che principalmente era stata combattuta contro l'Occidente contro quel sistema di sfruttamento finanziario e capitalista, in una parola del sangue contro loro.

Finita la guerra, furono proprio questi reduci di ambigua estrazione ideologica, uniti ad altri mai stati fascisti, anzi anche assieme a qualche venticinqueluglista o ex monarchico, che si ritrovarono accumunati nell'opera di imbonimento e deviazione dei reduci fascisti della RSI, pronti ad accaparrarsi i pochi, ma ghiotti posticini parlamentari che la mangiatoia democratica metteva loro a disposizione.

Il lavoro sporco fu agevolato dal clima dell'epoca, dal tanto sangue che era stato versato dai fascisti, massacrati dai "rossi" (ma non solo) nelle "radiose giornate". Una caccia al fascista che era perdurata per mesi e mesi dopo la guerra, e che spinse molti fascisti in buona fede ad appoggiarsi a chi mostrava di voler contrastare il comunismo.

Ma se questa "comunanza di interessi" poteva essere giustificata in via eccezionale, emotiva e transitoria, non poteva e non doveva essere procrastinata successivamente, soprattutto dopo che l'Italia, fatta entrare a forza nel sistema atlantico, veniva letteralmente subordinata agli Stati Uniti d'America.

Da quel momento la collusione con i Servizi, militari o civili, con lo Stato Maggiore, ecc., tutti nati dall'Italia badogliana, democratica e antifascista, subordinata alla NATO, sarebbe stata un vero e proprio tradimento degli interessi nazionali, in barba a quella Patria di cui ci si riempiva la bocca!

Nacque quindi il MSI, partito nel quale, in quei periodi difficili, tanti reduci, tanti giovani ci dedicarono anima, sangue e anni di galera, per vederlo poi a poco a poco trasformato nel peggior partito bottegaio, forcaiolo, conservatore e qualunquista, nonchè filo americano del panorama politico italiano. In una parola in un partito squisitamente antifascista.

Al MSI fecero seguito svariati gruppi e movimenti cosiddetti "extraparlamentari", che sembravano voler rappresentare chi in quel partito non intendeva più riconoscersi, ma che, sostanzialmente, invece, non erano altro che il "MSI fuori dal MSI", visto che, più o meno, ne condividevano le posizioni di fondo della Destra e che, nonostante un apparente "non allineamento", erano portati per vie traverse e sempre in virtù del solito anticomunismo, a schierarsi con l'Occidente, visto quale "male minore", se non addirittura con Israele quale «ultimo baluardo dell'uomo bianco in Medio Oriente».

Ed anche nel periodo storico successivo, come inchieste della magistrature, sia pure a volte alquanto faziose o strumentali, confessioni di pentiti e dissociati, personaggi colti in flagranza di reato o rei confessi, esiti di processi, ecc., dimostrano, riscontriamo che a fronte di una base composta da elementi generosi e in buona fede che in qualche modo e per altri versi potevano essere indirizzati verso una condotta politica non da truppe cammellate dell'atlantismo, vi erano dirigenti collusi con i soliti Servizi.

E il conto ancora una volta torna, in pieno, senza possibilità di sbagliare.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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