L'ebreo cristiano don L. Milani, ła łengoa - e i veneti?

L'ebreo cristiano don L. Milani, ła łengoa - e i veneti?

Messaggioda Berto » mer nov 11, 2015 3:26 pm

L'ebreo cristiano don Lorenso Milani, ła łengoa - e i veneti?
viewtopic.php?f=25&t=1987

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http://www.filarveneto.eu/wp-content/up ... ilani4.gif

Mi a credo ke anca Milani nol ghese łe idee ciàre e kel fuse anca lù na vitima del prejudisio soçal clasista e połedego statal nasionalista verso łe łengoe locałi o popołari dite diałeti; el jera on lemete coultural forse dovesto a ła storia de ła so fameja.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Don Lorenso Milani e ła łengoa

Messaggioda Berto » mer nov 11, 2015 3:28 pm

La mia è scuola laica
http://www.foe.it/Resource/donMilani.pdf

http://www.corradomarchi.it/pubblicazio ... milani.htm

DON LORENZO MILANI
L'IMPORTANZA DELL'ADERENZA

Ad ottant’anni dalla nascita, sessanta dalla conversione al cattolicesimo e trentacinque dalla morte, il pensiero pedagogico di don Lorenzo Milani e la scuola di Barbiana rimangono ancora attuali. Il suo spirito e l’impresa da lui realizzata possono ancora animare ed essere d’esempio per gli educatori.

Il nome di don Lorenzo Milani rievoca agli insegnanti oggi meno giovani – che hanno vissuto il ’68 - molte suggestioni, ma nulla più.
Rimane il ricordo di un ‘mito’, di un’alternativa cristiana alla contestazione d’ispirazione marxista. La sua scuola di Barbiana – era l’anno 1954 – è ricordata come precorritrice di una riforma della scuola sempre attesa e mai arrivata. Qualcuno ricorda con nostalgia o con sospetto la sua scelta di campo a favore dei poveri in un periodo in cui la Chiesa era esplicitamente schierata con la Democrazia Cristiana[1].
Altri ricordano la scuola che doveva promuovere tutti: “una scuola che seleziona distrugge la cultura.
Ai poveri toglie il mezzo d’espressione.
Ai ricchi toglie la conoscenza delle cose"[2]; oppure pensa al suo rifiuto delle materie, diremmo oggi, curricolari[3].
Qualcun altro sorride all’idea di favorire fra i docenti i celibi in modo da richiedere loro totale dedizione di tempo e di entusiasmo a favore della scuola[4], oppure si stupisce quando in Lettera a una professoressa, a proposito di uno sciopero degli insegnanti, si afferma: “è difficile vedere in voi dei lavoratori con diritti sindacali. (…) Quando toccate quelle poche ore di insegnamento la gente capisce che di noi non ve ne importa nulla"[5]. Per i più esperti di cose scolastiche la scuola di Barbiana ha rappresentato solo improvvisazione o laboratorio povero.

Eppure l’insegnamento di don Milani ha inciso profondamente su quanti hanno frequentato le sue scuole di San Donato di Calenzano e di Barbiana al punto che, a 35 anni dalla morte, si parla ancora di modello di Barbina. A lui si deve il merito di aver intuito sul piano pratico metodiche e teorie che saranno oggetto della riflessione didattica dei decenni successivi, più in generale il merito di aver precorso tematiche che saranno oggetto del dibattito sulla riforma della scuola. A oltre 50 anni dalla sua prima scuola, quella di San Donato, il gruppo non si è disperso, ma ha dato origine a realtà ancora presenti, l’ultima delle quali è il “centro di Formazione e ricerca Don L. Milani e Scuola di Barbiana"[6].

Nuclei fondativi del suo pensiero pedagogico

• L’insegnamento della lingua. Il punto centrale della sua didattica è costituito dall’insegnamento della lingua (italiana, ma vale anche per le lingue stranere come mezzo di comunicazione): la sua principale e costante preoccupazione si esprimeva nello sforzo di ridare la parola ai poveri.

Quando il Nostro iniziò la sua attività a Calenzano si reso presto conto della situazione di soggezione in cui le persone si trovano per mancanza dello strumento linguistico. ???

Non si tratta solamente di saper leggere e scrivere. E el parlar, endove lo gheto làsa?

Se a Calenzano nel 1952 tutti sanno scrivere mentre poco più di cento anni prima solo il 3% della popolazione è pur vero che “la vita moderna richiede al cittadino un crescendo di prestazioni intellettuali (politica, sindacato, burocrazia ecc.) che non erano richieste al bracciante del secolo scorso. (…) Non è dunque esagerazione sostenere che l’operaio d’oggi col suo diploma di quinta elementare è in stato di maggior minorazione sociale che non il bracciante analfabeta del 1841"[7].

Interessanti sono le osservazioni sulla lettura dei quotidiani: essi ormai giungono nelle case di tutti (se non acquistati, portati a domicilio dai propagandisti dei partiti), ma pochi sono in grado di capirne il contenuto.
In una serie di esempi il don Milani dell’epoca di San Donato fa notare[8] con degli esempi come alcuni articoli di contenuto scontatissimo risultino incomprensibili a chi ha frequentato solamente fino alla quinta elementare per un certo numero di parole a lui sconosciute.
Si tratta di vera soggezione culturale: “la quasi totalità degli anziani – riferisce[9] - e l’88,6% dei giovani del nostro popolo è intellettualmente alla mercé di chi abbia fatto anche una sola classe oltre le elementari”.

Ecco allora che per il don Milani dell’epoca di Barbiana l’interesse principale è quello di insegnare la lingua, ridare la parola ai poveri perché venga spezzato il circolo vizioso secondo il quale le classi superiori condizionano la lingua e così facendo si approfondisce il divario tra le classi sociali. La lingua, o meglio tutte le lingue, devono trovarsi al centro della scuola. “La lingua poi è formata dai vocaboli di ogni materia. Per cui bisogna sfiorare tutte le materie un po’ alla meglio per arricchirsi la parola. Essere dilettanti in tutto e specialisti solo nell’arte di parlare"[10].
Questa centralità della parola crea a Barbiana tecniche raffinate: le regole dello scrivere sono: “avere qualcosa di importante da dire e che sia utile a tutti o a molti. Sapere a chi si scrive. Trovare una logica su cui ordinarlo. Eliminare ogni parola che non serve. Eliminare ogni parola che non usiamo parlando. Non porsi limiti di tempo"[11].

Caro Milani par ridarghe ła paroła al popoło e a ła pora xente, cogna darghe ła so łengoa e no el tałian o ła łengoa dei paroni, dei siori, de łi opresori, de ki ke ghe manca de creansa, del stado o poder połedego ...

No xe ła mancansa del stromento o angagno łengoestego, łe ła mancansa de ła so łengoa, łe ła viołensa etno-soço-rasista ke ła ghe nega el dirito oman a ła so łengoa, łè sceta viołensa rasista ke descremena, omiłia, deride, sprèsa ...


Grazie a Lettera a una professoressa possiamo entrare in aula e vedere come lavorano intorno alla produzione scritta:

...
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Re: Don Lorenso Milani e ła łengoa

Messaggioda Berto » mer nov 11, 2015 3:48 pm

Ke eror grando ca te ghè fato Milani! Ke eror grando ca te ghè fato Milani! Me par ke anca Milani el fuse vitima del falbo mito de ła łengoa.


“LA PAROLA CI FA UGUALI”:IL PENSIERO DI DON MILANI, UN GRANDE PRETE POLEMISTA - 5 febbraio 2010

No xe ła paroła ke ła ne fa conpagni o paregni, ma xe lomè el nostro omàni. La łengoa ła vien asè dapò.


http://ilbiancoeilrosso.it/2010/02/05/l ... -polemista

Don Milani non suscitò inchieste giornalistiche, ma seppe scuotere il mondo della scuola e degli operatori culturali, al punto da provocare un cambiamento nel modo di concepire l’insegnamento della lingua, le sue finalità e i suoi metodi. “Lettera a una professoressa” (1967) è l’opera che ha contribuito a diffondere le sue idee, stilata a più mani con i ragazzi della scuola di Barbiana, nonchè violento atto d’accusa nei confronti di una scuola classista.

Don Milani è mosso dalle concrete esigenze della sua prassi pastorale: ciò che più gli interessa non è la lingua in sè come fenomeno sociale, ma il parlante nelle sue condizioni reali di povertà linguistica.

Ne discende che la povertà linguistica fa sì che i contadini e i montanari siano esclusi da tutti “gli interessi degni di un uomo” ( interessi civili, politici, culturali, religiosi), per cui sono esposti alla disinformazione, al raggiro, alla soggezione nei confronti di chi sa parlare meglio di loro: il padrone, il propagandista politico, il commerciante.

“Finchè ci sarà uno che conosce 2000 parole e uno che ne conosce 200, questi sarà oppresso dal primo. La parola ci fa uguali”. Così gli allievi di don Milani sintetizzarono l’essenza del suo pensiero.

Per lui i poveri devono far propria la lingua dei ricchi, che è l’unico elemento valido della cultura borghese, perchè solo allora essi potranno esprimere, in maniera adeguata, i propri valori.

La lingua è vista come uno strumento neutro anzi che come lo specchio di una determinata concezione del mondo.
La lengoa no lè mai neutra Milani.

Don Milani non si pone neppure il problema di quale lingua bisogna insegnare ai poveri, perchè operando nell’ambiente rurale toscano non avverte la distanza tra lingua e dialetto , e di conseguenza si concentra sull’obbiettivo di un più vasto e sicuro patrimonio lessicale (2000 parole invece di 200, sempre nell’ambito dello stesso codice linguistico).

Egli percepisce, con acume, la distanza che separa la lingua dell’uso dalla lingua letteraria che si insegna nelle scuole, tanto è vero che ai suoi ragazzi preferisce insegnare la lingua attraverso i giornali, avendo constatato che gran parte del mondo contadino e operaio non è in grado di comprendere i messaggi trasmessi dai mezzi di comunicazione di massa.
Ciò non significa però che bisogna usare con i poveri un linguaggio inferiore, rinunciando al loro arricchimento lessicale, per cui un giornale o un libro scritto per i poveri dovrebbero proporre un linguaggio tutto facile, costellato di vocaboli difficili, ma accuratamente distanti l’uno dall’altro e inseriti in contesti che ne favoriscano almeno l’intuitivo apprendimento. La validità del pensiero di Don Milani risiede nell’idea della centralità dell’insegnamento linguistico nell’istruzione di base, perchè bisogna sfiorare tutte le materie un pò alla meglio per arricchirsi la parola, ai fini di essere dilettanti in tutto e specialisti solo nell’arte del parlare.

Le sue opinioni sono state accolte e rilanciate dal mondo della ricerca universitaria, e tramite questo hanno influito, in sede politica, sui programmi di riforma della scuola media inferiore nel 1979 e delle elementari nel 1985. Il movimento per l’Educazione linguistica democratica, ispiratosi a Don Milani, ha contestato la pedagogia linguistica tradizionale per l’inefficacia dei suoi metodi e per il suo carattere classista.

Le idee-guida dell’educazione linguistica democratica sono il riconoscimento della centralità per i dialetti, le lingue minoritarie e le diverse varietà d’uso dell’italiano, l’importanza attribuita alle abilità linguistiche ossia la capacità di comprensione e di produzione di messaggi sia orali sia scritti.
Il fine dichiarato dell’educazione linguistica è l’adempimento del dettato costituzionale (artt. 3 e 6), che impone di rimuovere gli ostacoli, anche linguistici, che rendono difficile la partecipazione di tutti i cittadini alla vita del Paese.


Emanuele Porcelluzzi


Vivalascuola. Rileggiamo don Milani
Pubblicato su febbraio 4, 2013
https://lapoesiaelospirito.wordpress.co ... scuola-134
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Re: Don Lorenso Milani e ła łengoa

Messaggioda Berto » mer nov 11, 2015 4:13 pm

La parola ci fa uguali
by gabriella

http://gabriellagiudici.it/m-g-loduca-l ... -fa-uguali

I problemi dell’unificazione linguistica degli italiani dialettofoni e quelli degli anni ’60 dopo l’unificazione della scuola media e l’innalzamento dell’obbligo scolastico a 14 anni, con le esperienze di don Milani, Mario Lodi e don Roberto Sardelli. Tratto da una lezione di Maria Giuseppa LoDuca.

Finché ci sarà uno che conosce 2000 parole e un altro che ne conosce 200, questi sarà oppresso dal primo. La parola ci fa uguali.
Gli allievi di don Roberto Sardelli


1. Inquadramento storico
Il primo dato storico e sociologico da avere ben chiaro è che l’idioma chiamato, a partire dal Cinquecento, «italiano» (formatosi attraverso la stilizzazione del dialetto fiorentino trecentesco, arricchito di latinismi e depurato di tratti locali), questo idioma è rimasto per secoli appannaggio nemmeno delle classi dirigenti, ma (fuori di Firenze, delle maggiori città toscane e di Roma) appannaggio quasi esclusivo della gente di lettere.
A metà Ottocento, da Torino a Napoli, da Milano a Venezia, sappiamo che la grande borghesia urbana e le residue aristocrazie conoscevano, come lingua di cultura, assai meglio il francese che non l’italiano… Fuori della Toscana e di Roma, l’italiano era una lingua puramente libresca, nota, come tale, soltanto a una minoranza esigua della popolazione: lo 0’8%.
L’italiano era una lingua straniera in patria. Negli Stati regionali preunitari, e nelle varie regioni dell’Italia unita, classi borghesi e popolari si incontravano e intendevano grazie all’uso dei dialetti e di altri idiomi, le lingue minoritarie (De Mauro, 1977b, 96-97).

Dopo l’unificazione politica le cose cominciarono lentamente a cambiare: la centralizzazione amministrativa e la leva obbligatoria ebbero tra gli altri effetti quello di far sentire a tutti, o a quasi tutti, il disagio di una pluralità linguistica che non comportava ancora la contemporanea presenza di una lingua unitaria, una lingua cioè che consentisse ai cittadini di uno stesso stato di comunicare e di intendersi.
Oltre che programma di governo, dunque, l’unificazione linguistica fu soprattutto un’esigenza nata da una ben precisa situazione storica. Altri noti fattori di unificazione linguistica furono l’industrializzazione e la mobilità interna, soprattutto dal sud al nord, l’urbanizzazione ed i fenomeni migratori dalle campagne alle città, la diffusione della scolarità elementare prima, postelementare poi, infine la diffusione dei mezzi di comunicazione di massa, la radio e il cinema prima, la televisione poi, che hanno contribuito in modo determinante a diffondere una competenza almeno passiva dell’idioma nazionale.

E la scuola? Sempre De Mauro ricorda il ruolo fondamentale svolto dalla scuola nel processo di diffusione di una lingua comune. Tuttavia subito dopo l’unità e per tutto il secolo si scontrarono sulla questione due posizioni abbastanza inconciliabili:

I manzoniani avevano sperato di poter condurre attraverso la scuola una duplice lotta, volta da un lato a sradicare la «malerba dialettale», dall’altro a imporre come tipo linguistico unitario il fiorentino.
Altri, come il De Sanctis, l’Ascoli, il d’Ovidio erano decisamente sfavorevoli ad una lotta indiscriminata contro i dialetti, nei quali scorgevano i depositari di un ethos locale da non disperdere… i dialetti, perciò, non andavano messi in ridicolo, ma studiati e confrontati con la lingua, sicché dalla riflessione emergesse tutto il senso della diversità di lingua e dialetto e si diffondesse tra tutti la conoscenza della lingua senza isterilire quel che di vitale poteva esservi nei dialetti (De Mauro 19723, 88-89).

E’ noto che l’atteggiamento ufficiale delle autorità fu vicino alle posizioni dei manzoniani, anche se non era facile per nessuno controllare la neonata macchina statale. E infatti, vuoi per lo scarso adempimento dell’obbligo scolastico previsto dalla legge Casati (1859) (sembrerebbe che “intorno al 1870 oltre il 62% della popolazione in età scolastica evadesse in realtà l’obbligo”, De Mauro 19723, 90); vuoi per la scarsa efficienza delle istituzioni scolastiche primarie (“carenze legislative, povertà delle finanze comunali, ostilità del clero, degli amministratori locali e del ceto dirigente conservatore per la diffusione dell’istruzione” ivi, 91), fatto sta che quando, agli inizi del nuovo secolo, un alto burocrate del ministero dell’istruzione, Camillo Corradini, ebbe l’incarico di stendere una relazione sulla situazione scolastica italiana, delineò un quadro sconfortante.
In particolare sul piano linguistico la situazione era tutt’altro che incoraggiante: nonostante gli sforzi per insegnare l’italiano a tutti, sforzi che spesso però si concentravano nel tentativo di insegnare le regole della buona lingua italiana, i bambini continuavano a rivelare gravi carenze linguistiche, e questo perché, tra le altre cose, i maestri tendevano ad usare in classe il dialetto o «un misto di dialetto e lingua letteraria», il che «val peggio dell’uso del puro dialetto» (Relazione, in De Mauro 19723, 93).
Dunque, la dialettofonia diffusa, e l’imposizione di un modello letterario di italiano: queste, secondo il Corradini, le principali cause del fallimento scolastico nella diffusione di una lingua unitaria. Alle quali non sarà difficile aggiungere l’illusione di poter insegnare l’italiano attraverso la presentazione e l’insegnamento esplicito delle sue regole. Il processo di unificazione linguistica andò comunque avanti, a dispetto delle inefficienze scolastiche e grazie ai quei grandiosi fenomeni sociali di cui si parlava. Nel secondo dopoguerra, il boom economico indotto dalla ricostruzione fu un altro potente fattore di mobilità interna, e quindi di incontro di lingue e di culture. Quando poi nel 1962 fu introdotta in Italia la scuola media unica che innalzava l’obbligo scolastico a 14 anni (legge del 31 dicembre 1962, n. 1859, in Cives 1990, 443), un nuovo pubblico di scolari tradizionalmente fermi all’istruzione elementare, vale a dire i figli delle classi operaie e contadine, si affacciarono per la prima volta alla scuola superiore, e questa radicale trasformazione nella composizione del pubblico scolastico non fu indolore.

C’è da dire che la scuola era nel frattempo profondamente mutata: i maestri avevano smesso da tempo di parlare in dialetto con i loro allievi, avevano anzi adottato unanimamente un atteggiamento di totale espulsione del dialetto dalla scuola, e alla lunga si era imposto in classe un modello di italiano paludato ed arcaico, che sarebbe forse troppo generoso definire letterario, anche se letterari erano per lo più i modelli di riferimento. Questo modello di italiano fu definito, dai linguisti che lo scoprirono qualche anno più tardi soprattutto analizzando le correzioni degli insegnanti agli elaborati scritti dei loro allievi, ‘italiano scolastico’, a sottolineare l’artificiosità di una varietà di lingua diffusa solo a scuola.
Ma di questo parleremo a suo tempo (modulo 5). Per ora basti dire che sul versante linguistico l’innalzamento della scolarità obbligatoria ebbe degli effetti immediati. Diversamente che nel passato, e certo in misura ben più massiccia, diventò normale la circolazione nella scuola di idiomi diversi, frutto di provenienze geografiche diverse e di differenti situazioni socio-culturali.

La dialettofonia diffusa nelle classi popolari si abbatté sugli insegnanti della ‘nuova’ scuola media unificata cogliendoli del tutto impreparati. Anche perché costoro, a differenza dei maestri elementari da tempo abituati al modesto compito di istruttori di tutti i cittadini nelle abilità di base del ‘leggere, scrivere e far di conto’, non erano affatto rassegnati alla perdita di un ruolo considerato di prestigio, quello cioè della preparazione della futura classe dirigente del paese attraverso una paziente opera di filtro (o di selezione, come si disse dal ’68 in poi)3. I problemi legati all’imperfetto uso della lingua nazionale da parte dei figli dei contadini e degli operai avrebbero richiesto ben altra attenzione, ben diversa preparazione linguistica e didattica rispetto a quella normalmente posseduta da un insegnante di lettere, formatosi in una Università in generale ancora troppo poco permeabile alle moderne scienze del linguaggio e alle didattiche disciplinari. Non tutti, ad esempio, si accorsero della centralità del problema linguistico per i bambini dialettofoni, costretti dalla scuola a parlare e scrivere in una lingua ‘straniera’ per comunicare complessi contenuti disciplinari. Le ‘insufficienze’ accumulate nelle diverse materie erano per lo più interpretate come il frutto di disattenzione, scarsa applicazione allo studio, quando non di scarsa intelligenza. Il risultato fu che molti ragazzi, immessi per obbligo nella scuola media, ne venivano espulsi dopo uno o più anni di frustranti esperienze. La fuga dalla scuola, e quindi l’evasione dall’obbligo, fu per molti di quei ragazzi la soluzione quasi scontata del problema.

La parola ci fa uguali

http://i2.wp.com/gabriellagiudici.it/wp ... =780%2C246


2.2. I maestri
In questa situazione, su questa scuola si abbatté nel 1967 la bruciante denuncia di un prete ‘scomodo’, don Lorenzo Milani, ispiratore e coautore di un libretto di non molte pagine, la Lettera a una professoressa, nel quale molti vedono l’atto di nascita di una critica radicale alle scelte contenutistiche ed alle modalità dell’insegnamento linguistico tradizionalmente in uso nella nostra scuola.
Si ricorderà come Lettera a una professoressa sia un singolarissimo libro collettivo, scritto dai ragazzi che frequentavano la scuola di Barbiana, una scuola popolare allestita da don Milani nell’intento di fornire l’istruzione obbligatoria ai bambini ed ai ragazzi di un isolato villaggio di montagna, Barbiana, appunto, all’epoca tagliata fuori da altre possibilità educative. La Lettera si presenta formalmente come una lunga lettera che un non meglio precisato ragazzo di Barbiana scrive, assieme ai suoi compagni, ad una innominata professoressa, simbolo delle ottusità e delle arretratezze del sistema scolastico italiano. A lei i ragazzi raccontano le loro difficoltà nel rapportarsi con una istituzione che ignora tutto della loro lingua e della loro cultura; denunciano le contraddizioni di una scuola pubblica dimentica persino del dettato costituzionale; descrivono le modalità di lavoro messe in atto a Barbiana, e le raffrontano con le pratiche normalmente in uso a scuola.
A lei soprattutto raccontano di aver capito la centralità dello strumento linguistico nella formazione dell’uomo e del cittadino, in totale sintonia con le opinioni espresse in più occasioni dal loro maestro:
Io son sicuro… che la differenza fra il mio figliolo e il vostro non è nella quantità né nella qualità del tesoro chiuso dentro la mente e il cuore, ma in qualcosa che è sulla soglia fra il dentro e il fuori, anzi è la soglia stessa: la Parola.
I tesori dei vostri figlioli si espandono liberamente da quella finestra spalancata. I tesori dei miei sono murati dentro per sempre e isteriliti. Ciò che manca ai miei è dunque solo questo: il dominio sulla parola. Sulla parola altrui per afferrarne l’intima essenza… sulla propria perché esprima senza sforzo e senza tradimenti le infinite ricchezze che la mente racchiude…
Quando il povero saprà dominare le parole come personaggi, la tirannia del farmacista, del comiziante e del fattore sarà spezzata… chiamo uomo chi è padrone della sua lingua”.
Questo scriveva Don Milani in una lettera del 1956 al «Giornale del mattino» (in Renzi-Cortelazzo 1977, 45-46). Gli fanno eco i suoi ragazzi, che nella Lettera scrivono con lui:
Voi dite che Pierino del dottore scrive bene. Per forza, parla come voi. Appartiene alla ditta. Invece la lingua che parla e scrive Gianni è quella del suo babbo. Quando Gianni era piccino chiamava la radio lalla. E il babbo serio: «Non si dice lalla, si dice aradio». Ora, se è possibile, è bene che Gianni impari a dire anche radio. La vostra lingua potrebbe fargli comodo. Ma intanto non potete cacciarlo dalla scuola. «Tutti i cittadini sono uguali senza distinzione di lingua». L’ha detto la Costituzione pensando a lui. Ma voi avete più in onore la grammatica che la Costituzione….” (Lettera a una professoressa, 18-19).

Traspare da queste parole la convinzione, maturata nel corso dell’attività pastorale da don Milani, che “i poveri” siano vittime di un deficit linguistico che li priva della possibilità di partecipare in modo attivo e costruttivo alla vita sociale e politica della comunità. E dunque la responsabilità della scuola, nel momento in cui non prova a colmare questo deficit, ma anzi lo aggrava e approfondisce sempre più, è enorme. La scarsa, anzi nulla, considerazione per la lingua dei poveri e per la loro cultura ha infatti come conseguenza la emarginazione dei figli dei contadini e degli operai, che spesso vengono semplicemente espulsi dalla scuola, quindi tagliati fuori da qualsiasi possibilità di emancipazione e di riscatto.

Si attua così un processo circolare, per cui lo status sociale condiziona la lingua e la capacità d’uso della lingua rafforza le differenze sociali (Cortelazzo-Mora-Scorretti 1975, 237).
A queste accuse generali si aggiunge un’accusa particolare, che si connette strettamente alle modalità di scrittura della Lettera: leggiamo direttamente cosa scrivono i ragazzi di Barbiana.
C’è una materia che non avete nemmeno in programma: arte dello scrivere.
Basta vedere i giudizi che scrivete sui temi. Ne ho qui una piccola raccolta. Sono constatazioni, non strumenti di lavoro.
.«Cerca di migliorare la forma. Forma scorretta. Stentato. Non chiaro. Non costruito bene. Varie improprietà. Cerca d’essere più semplice. Il periodare è contorto… Devi controllare di più il tuo modo di esprimere le idee». Non gliel’avete mai insegnato, non credete nemmeno che si possa insegnare, non accettate regole oggettive dell’arte, siete fissati nell’individualismo ottocentesco…
Consegnandomi un tema con un quattro lei mi disse: «Scrittori si nasce, non si diventa».
Ma intanto lei prende lo stipendio come insegnante d’italiano.
La teoria del genio è un’invenzione borghese. Nasce da razzismo e pigrizia mescolati insieme…
L’arte dello scrivere si insegna come ogni altr’arte… (Lettera a una professoressa, 124-125).

Dunque si accusa la scuola di non insegnare a scrivere. Al contrario a Barbiana si mette a punto un metodo pionieristico, che può considerarsi il modello di tanti laboratori di scrittura che nasceranno anni, se non decenni dopo nelle scuola d’avanguardia e nelle classi sperimentali.
Noi dunque si fa così: Per prima cosa ognuno tiene in tasca un notes. Ogni volta che gli viene un’idea ne prende appunto. Ogni idea su un foglietto separato e scritto da una parte sola. Un giorno si mettono insieme tutti i foglietti su un grande tavolo. Si passano a uno a uno per scartare i doppioni. Poi si riuniscono i foglietti imparentati in grandi monti e son capitoli. Ogni capitolo si divide in monticini e son paragrafi. Ora si prova a dare un nome a ogni paragrafo. Se non si riesce vuol dire che non contiene nulla o che contiene troppe cose. Qualche paragrafo sparisce. Qualcuno diventa due. Coi nomi dei paragrafi si discute l’ordine logico finché nasce uno schema. Con lo schema si riordinano i monticini. Si prende il primo monticino, si stendono sul tavolo i suoi foglietti e se ne trova l’ordine. Ora si butta giù il testo come viene viene. Si ciclostila per averlo davanti tutti eguale. Poi forbici, colla e matite colorate. Si butta tutto all’aria. Si aggiungono foglietti nuovi. Si ciclostila un’altra volta. Comincia la gara a chi scopre parole da levare, aggettivi di troppo, ripetizioni, bugie, parole difficili, frasi troppo lunghe, due concetti in una frase sola. Si bada che non siano stati troppo a scuola. Gli si fa leggere a alta voce. Si guarda se hanno inteso quello che volevamo dire. Si accettano i loro consigli purché siano per la chiarezza. Si rifiutano i consigli di prudenza …. (Lettera a una professoressa, 126-127).

Ritroviamo, espresse con il linguaggio semplice e diretto della Lettera, tante delle idee e delle ipotesi di lavoro che saranno messe a punto dai ricercatori e dagli insegnanti che si impegneranno nel campo della didattica della scrittura: l’idea, innanzitutto, che il processo di scrittura sia un compito complesso, scomponibile in vari sotto-processi, i quali possono essere descritti e insegnati; l’idea che prima di scrivere sia necessario raccogliere le idee, vale a dire tutte le informazioni utili allo svolgimento del compito (è il momento importantissimo e ineliminabile dell’ideazione, che nella retorica classica prendeva il nome di inventio); l’idea che la raccolta delle informazioni richiede tempo, e non può essere troppo compressa, come normalmente succede quando si debba scrivere un tema d’italiano nelle due o tre ore canoniche previste dall’esercitazione in classe; l’idea che, una volta raccolte, le informazioni vanno riesaminate, filtrate, selezionate sulla base del piano, vale a dire del proprio progetto di scrittura; l’idea che scrivere comporta la scelta di una scansione e di una successione dei contenuti (il momento della dispositio nella retorica classica), e che tale scansione si articola in paragrafi e sottoparagrafi i quali devono avere una loro unità concettuale esprimibile attraverso un titolo; l’idea che il processo di revisione debba essere continuo e accompagnare ogni fase della scrittura, consentendo ad esempio di aggiungere nuove idee o sequenze (i foglietti) non previste dal piano iniziale. Infine, la Lettera contiene indicazioni precise sul piano linguistico, tali da configurare uno stile: sintassi breve e asciutta, lessico comune, aggettivazione essenziale, la chiarezza e la comprensibilità come obiettivi irrinunciabili (per un’analisi della Lettera come ‘manuale’ ed ‘esempio’ di scrittura si veda anche Cortelazzo 2000).

Va da sé che non c’è spazio in questo progetto educativo per il tema d’italiano, cui i ragazzi di Barbiana si sottopongono solo per superare l’esame che li attende nella scuola pubblica.
A giugno del terzo anno di Barbiana mi presentai alla licenza media come privatista. Il tema fu:«Parlano le carrozze ferroviarie». A Barbiana avevo imparato che le regole dello scrivere sono: Aver qualcosa di importante da dire e che sia utile a tutti o a molti. Sapere a chi si scrive. Raccogliere tutto quello che serve. Trovare una logica su cui ordinarlo. Eliminare ogni parola che non serve. Eliminare ogni parola che non usiamo parlando. Non porsi limiti di tempo. Così scrivo coi miei compagni questa lettera. Così spero che scriveranno i miei scolari quando sarò maestro. Ma davanti a quel tema che me ne facevo delle regole umili e sane dell’arte di tutti i tempi? Se volevo essere onesto dovevo lasciare la pagina in bianco. Oppure criticare il tema e chi me l’aveva dato.Ma avevo quattordici anni e venivo dai monti. Per andare alle magistrali mi ci voleva la licenza. Quel fogliuccio era in mano a cinque o sei persone estranee alla mia vita e a quasi tutto ciò che amavo e sapevo. Gente disattenta che teneva il coltello dalla parte del manico. Mi provai dunque a scrivere come volete voi. Posso ben credere che non ci riuscii. Certo scorrevano meglio gli scritti dei vostri signorini esperti nel frigger e nel rifrigger luoghi comuni …. (Lettera a una professoressa, 20-21).

Ritroviamo anticipate in questo passo molte delle critiche che verranno fatte al tema d’italiano nei decenni successivi, da parte di linguisti ed insegnanti. Letta dai giovani e diventata ben presto una specie di bandiera dei contestatori del sistema, la Lettera ebbe un impatto enorme, suscitando simpatie appassionate e furibonde opposizioni. Vogliamo sperare che, decantata dal tempo e dalle profonde trasformazioni che nel frattempo hanno cambiato in modo forse radicale la società italiana, la Lettera possa oggi venire riletta con uno spirito diverso, e rivelare, al di là di un linguaggio forse datato e di schematizzazioni politico-sociali troppo semplicistiche che possono anche infastidire, la passione educativa di un maestro d’eccezione dal quale abbiamo ancora da imparare.

La vicenda di Don Lorenzo Milani, unica ed eccezionale per molti versi, va tuttavia collegata ad altre esperienze educative, ad altre figure esemplari di maestri che negli anni stessi in cui maturava l’esperienza di Barbiana, o negli anni immediatamente successivi, provarono a rinnovare i modi tradizionali dell’insegnamento linguistico dall’interno della stessa istituzione scolastica. Una panoramica di queste esperienze è in Renzi-Cortelazzo 1977, 305-357, cui rimandiamo per una sintesi delle posizioni più significative. Qui ci limitiamo a ricordare brevissimamente alcune delle figure più interessanti, come ad esempio Bruno Ciari, maestro e organizzatore culturale. Oltre che impegnarsi attivamente nel Movimento di Cooperazione Educativa (MCE), una delle prime associazioni di insegnantia porre con forza sul tappeto il problema di una rinnovata educazione linguistica, Ciari mise a punto la tecnica del cosiddetto ‘testo libero orale’:
Ogni giorno appena entrati in aula, sarà bene riunirsi intorno alla cattedra o comunque in gruppo, e discutere, comunicarsi reciprocamente le esperienze, a cominciare dall’insegnante medesimo, il quale, col modo suo di ‘centrare certi particolari della sua esperienza’, porrà in atto un utile stimolo per orientare i suoi ragazzi (Ciari 1976, cit. tratta da Renzi-Cortelazzo 1977, 306).
Questa tecnica si rivela preziosa non solo come stimolo all’uso orale del linguaggio, ma anche come primo passo e incentivo all’uso scritto della lingua, uso che deve essere sempre motivato da reali esigenze comunicative. Non si dovrebbe scrivere per il maestro, affinché faccia sui testi dei segnacci rossi o dia il suo voto, ma per comunicar qualcosa agli altri, vicini e lontani, e per fermare il proprio pensiero in modo da serbarlo come un patrimonio prezioso. In ogni caso, sia che il pensiero assuma la forma del racconto libero, o quella del diario, della corrispondenza, della relazione, della poesia o della novella, la sua destinazione è la comunità sociale della classe prima di tutto, e poi comunità più remote, in un sempre più vasto orizzonte (ivi, 317). Si noti come Ciari rifiuti l’idea di una scrittura scolastica artificiosa, esclusivamente finalizzata alla valutazione, e pensi già alla scrittura come esercizio di trasposizione del pensiero in forme testuali definite e soprattutto motivanti per gli allievi (il racconto, la lettera,il diario ecc.). Nel far ciò anticipa alcune delle piste di lavoro più promettenti che la linguistica del testo suggerirà qualche anno dopo alla didattica della scrittura La tecnica del ‘testo libero orale’ o, come anche si disse, della discussione di classe fu adottata da un altro eccezionale uomo di scuola, Mario Lodi, che la rese famosa grazie al successo di pubblico ottenuto dai suoi libri (tra i quali ricordiamo Il paese sbagliato, 1970, e C’è speranza se questo accade al Vho, 1972).

Riportiamo qui sotto un brano tratto da Il paese sbagliato, da cui si evince come la discussione di classe, guidata dalle domande-stimolo del maestro, diventi occasione per osservare, riflettere, raccontare esperienze personali, fare ipotesi, argomentare. L’occasione è data dalla ricorrenza della Pasqua. I
l maestro Lodi presenta ai bambini alcune riproduzioni di dipinti famosi, poi chiede loro quale preferiscano:

Con sorpresa vedo scelto all’unanimità il Cristo morto del Mantegna, l’unico che ha colori spenti.
Fabio: A me piace il lenzuolo perché pare proprio vero così bianco e scuro. Bianco dove ci va su la luce.
Carolina: Le donne piangono, una ha il fazzoletto all’occhio e se lo asciuga. Piangono perché Cristo è su un tavolo, morto. Una donna tiene le mani come quando pregano.
Fiorella: Gesù pare proprio morto perché è sul letto con le mani molli e ha la testa di traverso…
Lorena: Com’è brutta la faccia: ha la barba scura e i capelli disordinati. Prima gli hanno messo le spine e poi gliele hanno levate e i capelli sono rimasti in su e disordinati…
Katia:… Ha i capelli come mio zio di Calvatone, ricciolati…
Maestro: Perché avete preferito questo quadro, che non ha colori vivaci, mentre a voi piacciono i colori forti e belli?
Anna: Perché ha i colori chiari.
Umberta: Io dico che il pittore ha pitturato così perché quando moriamo siamo bianchi.
Fabio: Io dico perché è notte.
Anna: E poi Gesù è diventato brutto.
Lorena: E’ morto un uomo e c’è il dispiacere. Quando è morto il mio papà la mamma
non voleva più mettere il paltò chiaro, adesso l’ha nero.
Umberta: I colori sono giusti perché il quadro rappresenta la morte.
Ileana: E non ci vogliono i colori vivaci.
Angelo: L’altro quadro, che ha i colori vivaci, non va bene…
Maestro: C’è qualcosa che non capite in questo quadro?
Ileana: Io non capisco perché un braccio è bianco e l’altro verde…
Fabio: Io non capisco perché gli ha fatto gli occhi chiusi. Quando muoiono hanno gli
occhi aperti. I cavalli che uccide mio papà hanno gli occhi aperti.
Ileana: Anche i conigli.
Lorena: Quando è morto, il mio fratellino aveva gli occhi aperti…
Angelo: E’ meglio gli occhi chiusi perché quando uno muore, gli chiudono gli occhi.
Anna: Io sono andata a vedere il mio nonno morto: aveva gli occhi chiusi.
Fabio: Se li faceva aperti, sembrava vivo…” (cit. tratta da Renzi-Cortelazzo 1977, 327-328).

Vale la pena di notare come il maestro Lodi miri in alto, presentando ai suoi bambini le riproduzioni di alcuni dei massimi capolavori della pittura italiana (oltre al Cristo morto del Mantegna, la Deposizione di Lorenzetti, La crocifissione di Masaccio, la Crocifissione di Antonello da Messina, La pietà di Giovanni Bellini, Il Calvario del Veronese). Ma non sovraccarica gli allievi di informazioni, e non dà loro alcuna lente per ‘leggere’ il quadro prescelto: lascia che sia il quadro a parlare, e soprattutto lascia parlare i bambini.
Ricordiamo ancora il maestro umbro Orlando Spigarelli e Maria Maltoni della scuola di San Gersolè, entrambi impegnati sul fronte della valorizzazione della lingua e delle connesse esperienze di vita dei loro bambini. Il primo non reprime il dialetto dei suoi allievi, anzi li incoraggia a produrre deliziosi pezzi mistilingui, in cui l’alternanza tra italiano e dialetto non è mai gratuita, risultando al contrario imposta dalle situazioni e dai personaggi di volta in volta chiamati in causa:

Ieri è venuto a casa mia un uomo che si chiama Primino, è uno che va a comperare semi di zucca, penne, uova ecc.
Alla nonna ha detto: -Vo’ n’me conoscete, io so’ Primino l’uomo più bello del mondo. Le donne tutte me guardono, io so’ ‘n grèn galantuomo! Volete ‘l baccalà, le renghe?!
Mentre beveva del vino, il gattino nero che Stefano chiama Michele, furbo gli è entrato dentro la sua macchina e ha mangiato le aringhe. La nonna gli ha chiesto:
– Co’ v’ha portèto via?
Lui ha risposto inferocito:
-M’ha portèto via ‘na renga!!
La mamma rideva a squarciagola:
-Lascètelo fè, almeno ha fatto colazione.
Lui ha rimbeccato:
-Que? Je l’ho da passè io, cocchina? Ve la farìa paghè…” (Spigarelli 1973, cit. tratta da Renzi-Cortelazzo 1977, 336).

I ragazzi di Maria Maltoni raccontano di sé usando un italiano semplice e scarno, certo favoriti dalla loro origine toscana, sempre tuttavia preoccupati di rendere i loro testi comprensibili anche a chi non condivida le loro particolarissime esperienze:
Il secondo giorno ci si alzò presto e si andò alla carbonaia dove si doveva mettere fuoco, e si cominciò a fare il trito per accenderla. (Fare il trito vuol dire prendere tanti pezzi di legna fine e tagliarla, e farla lunga come i diti; quello si chiama trito). Dopo averne fatti un paio di corbelli si messe a fuoco e poi si finì il trito per riboccarla e si andò a principiare l’altra carbonaia. Quando era verso l’undici io andai a prendere la ricotta… Arrivai là, chiamai: –
Padrona!- e si affacciò. – Che vi è venuta la ricotta?
– Mah… son qui che la fo ora, non lo so se mi verrà; tu hai a venir su, tu aspetti, se la mi viene te la do.
– Sì, – e andai su.
Mentre ero lì ad aspettare, mi domandava dove stavo, se facevo volentieri il carbonaio eccetera. Io gli rispondevo di sì o di no. Poi bollì il paiolo della ricotta e andò a farla.
Venne una bella tazza, e mi disse:
– Ti piace lo scotto?
– Sì
– Allora te lo do – (Lo scotto è quell’acqua che rimane nel paiolo dopo aver levata la ricotta)…” (Maltoni 1963, cit. tratta da Renzi-Cortelazzo 1977, 332).
Se confrontiamo questi testi con le produzioni scritte della scuola ufficiale, possiamo forse capire lo scandalo che questi maestri rappresentarono nella scuola del tempo. C’era tuttavia, dietro questa scelta apparentemente lassista e permissiva, l’idea che il retroterra linguistico degli allievi fosse non già un insieme di cattive abitudini da correggere e possibilmente sradicare, ma un patrimonio da salvare, un mezzo in grado di veicolare esperienze di vita importanti, delle quali la scuola doveva insegnare a parlare, e a scrivere, con i dovuti mezzi e con il dovuto rispetto. Ricordiamo infine un’altra figura di prete eccezionale, don Roberto Sardelli, certo meno noto di don Lorenzo Milani, ma non per questo meno importante nella storia dell’educazione linguistica. Don Sardelli svolse la sua opera educativa nelle borgate romane, tra i ragazzi del sottoproletariato urbano, di cui colse lo sradicamento culturale e linguistico. Con uno stile e un linguaggio che ricordano Lettera a una professoressa, i suoi allievi scrivono cose non molto dissimili.

Per molti essere colti significa saper leggere e scrivere. Siccome molti operai non sanno leggere né scrivere, passano per ignoranti. Ma noi vediamo che i contadini e gli operai tra di loro parlano. Essi conoscono lo strumento più antico e più facile per comunicare tra di loro. Ma questi conoscono poche parole. Se dovessero parlare in consiglio comunale i borghesi gli riderebbero in faccia. Se emigrano all’estero o si spostano da una regione all’altra dell’Italia, né capiscono né si fanno capire. Allora stanno zitti. Finché ci sarà uno che conosce 2000 parole e un altro che ne conosce 200, questi sarà oppresso dal primo. La parola ci fa uguali (Scuola 725, 13-14).
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Don Lorenso Milani e ła łengoa

Messaggioda Berto » mer nov 11, 2015 4:40 pm

Don Milani e la puttana

26 giugno – scuola_ultimaDon Lorenzo Milani (1923-1967), priore di Barbiana

http://www.ilpost.it/leonardotondelli/2 ... la-puttana

Questo è il periodo dell’anno in cui mi capita più spesso di pensare a don Milani, alle sue classi e alle sue lettere. L’anniversario della morte (47 anni oggi) non c’entra molto. Un giorno magari finirà sui calendari, ma per ora non risulta nemmeno avviata una causa di beatificazione. E dire che qualche miracolo da esibire davanti a una commissione Milani ce l’avrebbe: il solo fatto che stiamo parlando ancora oggi di un sacerdote che morì a 44 anni, dopo aver servito e insegnato in due piccole parrocchie, non ha del miracoloso? Ma i tempi non sono ancora maturi: per adesso i suoi seguaci cattolici devono accontentarsi di poter finalmente leggere le Esperienze pastorali senza incorrere nella censura del Sant’Uffizio, ritirata in aprile dopo più di cinquant’anni. Bella e saggia mossa di Francesco, dopo il silenzio dei quattro pontefici che l’avevano preceduto. Milani continua a essere un prete molto più popolare al di fuori dalla Chiesa.
Questo è il periodo dell’anno in cui penso più spesso al priore di Barbiana, e ai suoi studenti, perché è il mese degli esami: quel bizzarro momento in cui il bistrattato insegnante, da nove mesi zimbello di studenti genitori e riformatori, si ritrova improvvisamente investito di un potere enorme, sproporzionato: la facoltà di rovinare al fanciullo un’estate, un anno, eventualmente anche la vita. Proprio così: da settembre a maggio il professore soffre, supplica, corregge, sorregge; ma a giugno boccia. O perlomeno potrebbe. Ma prima di brandire un’arma tanto ingombrante, così poco adatta a lui, pensa sempre a don Milani. Da qualche parte – non necessariamente l’Alto dei Cieli – il priore lo guarda, scuote la testa e dice: lo sai cosa sei, vero? Un cane da guardia del sistema? Sì, ma non basta. Una bestiolina ammaestrata dai padroni? Certo, ma c’è di più.Lo sai.

Tutti noi, quando ricordiamo un libro, o un film – quando crediamo di ricordare un libro, o un film – in realtà peschiamo dal pozzetto della nostra memoria due o tre situazioni o immagini, sempre le stesse. Sono il riassunto estremo di quell’opera d’ingegno, come lo schema finale che ci siamo fatti la notte prima di un esame. A volte ci aiutano a recuperare il resto; altre volte finiscono per assorbirlo, sicché alla fine molti libri che crediamo di aver letto in realtà non li ricordiamo più, a parte quella paginetta, quella frase. La maggior parte delle persone che conosco, quando pensa a Lettera a una professoressa, ricorda Gianni e Pierino. In effetti sono due personaggi sbozzati in modo molto efficace. Io però quando ripenso alla Lettera, ripesco sempre mio malgrado quel passo volgare in fondo a pagina quarantuno: “Le maestre sono come i preti e le puttane. Si innamorano alla svelta delle creature. Se poi le perdono non hanno tempo di piangere”.
Mi viene sempre in mente questo passo a fine giugno, perché non è solo il mese degli esami; è anche quello dei commiati, che a scuola sono sempre frettolosi e informali. L’esame è finito. Buone vacanze. Di solito me la sbrigo così, e in alcuni casi sarà l’ultima cosa che dirò a quella persona in tutta la mia vita. Ho diviso con lui ore, settimane, mesi, anni. Gli ho voluto bene, l’ho detestato, l’ho aiutato quando non ne avrebbe avuto bisogno, l’ho ignorato quando invece gli serviva un aiuto; in ogni caso è tutto finito, buone vacanze. Loro mi dicono “arrivederci”, e poi qualche volta mi saluteranno per strada, un po’ imbarazzati. Io non ho mai tempo per piangerli perché, in effetti, sono una puttana. A pagina quarantuno è spiegato molto bene, da qualcuno che evidentemente aveva sperimentato sulla sua pelle cosa significa essere maestro, essere prete: voler bene alla gente per mestiere. Con tutto il rispetto per le puttane e la loro professione complicata e pericolosa, mentre per noi maestri o preti si tratta semplicemente di voler bene tutti i giorni a un sacco di gente che poi, improvvisamente sparirà dalla nostra vista senza che ci sia il tempo per rimpiangerla – stiamo già preparando le prime dell’anno prossimo, ci sono già centinaia di nuovi sciagurati a cui voler bene. Da settembre a giugno. È strano, però. Alienante, si sarebbe detto una volta.
A meno di non fare come don Milani: abolire le vacanze, i pomeriggi, la domenica, il tempo libero, la famiglia. Allora sì, l’amore smetterebbe di essere finzione. Noi però alle vacanze ci teniamo, e alle domeniche, e anche i pomeriggi non li passiamo proprio tutti a correggere, ad aggiornarci, ad amare i nostri piccoli clienti a distanza. Perché siamo delle puttane, e Don Milani ce lo diceva in faccia – no, peggio. Ce lo faceva dire dai suoi studenti.

Alla scuola di Barbiana si parlava molto schietto. Sulla porta di tutte le scuole della Repubblica gli studenti di Don Milani avrebbero voluto scrivere LA SCUOLA SARÀ SEMPRE MEGLIO DELLA MERDA. L’aforisma è attribuito al giovane Lucio, che quando non era a scuola dal priore aveva una stalla con 36 mucche da gestire. A me piacerebbe ogni tanto parlarne nelle mie classi, sollecitare un’inchiesta: tu che ne pensi? Secondo te è meglio la scuola o la merda? Ma ho paura di finire sul giornale.
Dici: potresti sempre usare un eufemismo. Potresti chiedere se è meglio la scuola o la deiezione vaccina. No, non potrei. Merda si dice merda. Puttana si dice puttana. Non solo don Milani si lasciava evidentemente sfuggire queste parole di fronte ai suoi ragazzi; non solo permetteva che le scrivessero in un libro, e resistessero alle decine di stesure e ristesure; ma le sottoponeva al vaglio dei suoi amici colti e raffinati, ad esempio David Maria Turoldo che sale a Barbiana per farsi leggere le bozze e “si sganascia dalle risa a ogni parola grossa”. Lettera a una professoressa è un testo molto elegante nella sua rozzezza. Profondamente toscano, azzarderei, ma poi dovrei spiegare il perché solo ai toscani è concesso di maneggiare la nostra lingua letteraria come se fosse un coltellaccio da cucina, senza quella distanza, quel disagio in cui consiste l’uso della lingua per tutti noialtri non toscani – quella maschera che indosso continuamente, qualsiasi cosa io scriva, come se io la stessi traducendo da un’altra lingua che ho in testa (quale lingua, se non so nemmeno bene il mio dialetto?) Eppure questa distanza c’è: la sentiamo tutti ogni volta che rileggiamo quello che scriviamo e ci sembra sempre fuori fase, distorto come la nostra voce registrata. Un diaframma che forse è responsabile di intere età letterarie, di barocchi, classicismi e linee lombarde, mentre ai toscani basta scrivere come si mangia. Papini, Malaparte, la Fallaci. Ma anche i ragazzi di Barbiana, e il loro priore che non poteva più pubblicare niente a nome suo.

Questo è il periodo dell’anno in cui tento di scrivere qualcosa in memoria di don Milani, e ogni volta passo dalla biblioteca a ritirare l’edizione speciale del quarantennale (2007) di Lettera a una professoressa, uno dei pochi libri di carta che forse varrebbe la pena tenere in casa. Non solo per il testo, che merita un ripasso ogni tanto, ma soprattutto per il paratesto: le testimonianze di studenti e colleghi, gli articoli che la Lettera ispirò alla sua uscita, e ancor di più la fantastica polemica che nacque 25 anni dopo intorno a due articoli di Sebastiano Vassalli su Repubblica.
Vassalli detestava la Lettera, la definiva una mascalzonata; e nel suo secondo intervento ammise anche le sue ragioni personali. Nella professoressa svillaneggiata dai ragazzi di don Milani, Vassalli riconosceva sé stesso, giovane professore travolto dalla contestazione. “Per quindici anni, dal 1965 al 1979, mi sono sforzato, giorno dopo giorno, di essere anche un bravo professore; e ho maturato in quegli anni difficili la persuasione – forse sbagliata ma certamente legittima per un insegnante – che la nostra povera scuola di Stato abbia urgente bisogno di un legislatore che porti a termine le riforme avviate trent’anni fa; e che non abbia invece alcun bisogno di redentori, e di maestri carismatici come don Milani.
Che i redentori portino solo scompiglio; e questo è tutto”.
Nel tentativo di vendicare la professoressa, Vassalli si abbatte sul “libretto bianco di don Milani” con foga lacerbiana. Don Milani non sapeva nulla di pedagogia. “Era un maestro improvvisato e sbagliato”, “manesco e autoritario (quanti dei suoi sostenitori d’un tempo hanno veramente saputo che nella Lettera c’è l’apologia della frusta, a pag. 82, e che a Barbiana erano considerati strumenti didattici “scapaccioni”, “scappellotti”, “cazzotti”, “frustate”, e “qualche salutare cignata”?
Se da insegnante è portato a diffidare di un maestro in grado di insegnare 24 ore al giorno, da scrittore Vassalli non può credere neanche per un istante all’utopia della scrittura collettiva: macché dibattito, il prete dettava e i ragazzi esprimevano “la propria incondizionata adesione”: un po’ come votare una legge elettorale su beppegrillo.it.
Don Milani avrebbe consapevolmente distorto la realtà dei dati statistici, pure generosamente riportati, per “dividere il mondo come allora s’usava, con tutti i buoni da una parte e tutti i cattivi dall’altra”; e soprattutto si sarebbe accanito contro un bersaglio di comodo: gli insegnanti.
Ma se don Milani avesse davvero alzato il tiro contro l’istituzione scolastica e i suoi potentati, l’arcivescovo lo avrebbe costretto a fare le valige anche da Barbiana e gli avrebbe tolto anche quell’ ultimo pulpito. Perciò – credo – lui se la prese con gli insegnanti, che del resto sembravano messi lì apposta per fare da bersaglio ai rivoluzionari dell’epoca, come i poliziotti di valle Giulia infagottati nelle loro divise. Soprattutto i giovani, e tra loro l’autore di questo articolo, erano tutti poveracci e figli di poveracci: miracolati del “miracolo economico”, che, in onta alle statistiche, gli aveva permesso di arrivare alla laurea. Manovalanza intellettuale senz’altri sbocchi sul mercato del lavoro, che dall’università passava direttamente nella scuola di Stato, allora in grande espansione, e sognava e si sforzava di migliorarla.
Queste e non altre furono, in concreto, le vittime della Lettera a una professoressa; i beneficati, invece, furono i furbi di sempre, studenti e insegnanti che buttarono all’aria libri e registri e si fecero qualche anno di finte lotte e di vere vacanze, movimentate da cortei e da discorsi reboanti contro la scuola di classe… Povera Italia! E povera sinistra, che dal ‘ 68, o forse dal ‘ 45, non ha saputo fare altra politica culturale che quella d’ applaudire tutte le prime donne e tutti i tenori che hanno calcato le platee del bel paese, e che già ha incominciato a pagarne le conseguenze; ma che ancora non sembra rendersene conto, e resta cieca e sorda sui suoi errori di sempre.
Chiedo scusa per la lunga citazione, che peraltro non rispecchia il mio pensiero. Nel volume ci sono tanti altri interventi interessanti, tra cui una lunga e ponderata replica a Vassalli di Tullio De Mauro, che ribadisce quanto fu importante, e necessario, il libretto bianco di don Milani e dei suoi studenti. Io però ogni tanto sento la necessità di rileggermi gli sfoghi di Vassalli, non so esattamente il perché. È un modo per sentirmi un po’ meno puttana? Dovrebbe consolarmi il pensiero che, sì, non avrò salvato nessuno dall’ignoranza, ma non ho nemmeno mai frustato un cliente? Credo che ci sia di più. Io ci tengo a mantenere una certa distanza da don Milani, non perché disapprovi le sue frustate. Al contrario, è l’unico modo per sentirle. Se gli corressi incontro, se lo abbracciassi, se sillabassi anch’io “I care” come certi suoi discepoli postumi, magari la cinghia mi eviterebbe, ma che studente sarei? Cosa imparerei da lui? Diventerebbe un’altra icona, una di quelle figurine che ti sorridono e ti confortano qualsiasi cosa tu faccia. Don Milani non era così. Era ruvido, manesco, mi dava della puttana ed è difficile che condividesse il mio rispetto per le sex-worker.
Se oggi sono 47 anni, significa che ne sono passati sette da quando Walter Veltroni lanciò il Partito Democratico, durante un discorso fiume che nessuno ricorda. Il giorno prima aveva voluto passare da Barbiana. Se il Berlinguer riscoperto da Grillo vi ha dato un po’ fastidio, immaginate per un attimo cosa potrebbe pensare don Milani, nell’alto dei cieli o dovunque, dell’uomo che aveva scoperto il valore culturale della figurina Panini. Il priore che nella sua prima parrocchia aveva abolito il biliardino e il ping pong – il maestro del popolo che non voleva sentire parlare di ricreazione e vacanze – riscoperto da un figlio di dirigente Rai con la fissa per il jazz e per il cinema, l’inventore delle notti bianche.
Pensate alla Notte Bianca. Pensate cosa ne scriverebbe Don Milani, se potesse parlare con la lingua sua. Per lui, innanzi tutto, il mondo si divideva in oppressori e oppressi, una distinzione che Veltroni non saprebbe applicare correttamente. Lui stava con gli oppressi e li esortava a bere caffè, a stare in piedi di notte per studiare, per leggere un libro in più, per recuperare la distanza culturale dai padroni. Veltroni invece è, definitivamente, il Sindaco di Roma, l’erede di una lunghissima tradizione di questori la cui principale preoccupazione era Divertire il popolo sotto-occupato, sedarlo a furia di Circenses. Tutti obbligati a far mattina, tutti in fila col bicchiere in mano mentre i padroni si allungano in tribuna vip. E non ci sarebbe niente di male: ma deve anche prendersi Don Milani, deve scrivere “I care” sui manifesti. Ci metterà anche la foto di Don Milani, il prete buono che non voleva bocciare gli asini.
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Re: Don Lorenso Milani e ła łengoa - e i veneti?

Messaggioda Berto » mer nov 11, 2015 5:04 pm

Sto enbrojo o mecaneixmo ło ghemo anca kive co łi "studià o entełetouałi, profasori, dotori, połedeganti veneti venetisti venesianisti" ke łi sprèsa ła łengoa veneta o ke łi fa finta de apresarla e łi trata de eła doparando ła łengoa tałiana o ke łi vol enpor ła variansa venesiana fandoła pasar par coeła mejo so tute łe varianse venete, parké variansa dei siori venesiani ... e łi ghe fa viołensa e sojesion a ła xente veneta ke ła se vargogna de ła so variansa veneta de tera o de monte e de ła so storia ke par tante robe łè altra e diversa da coeła de Venesia e dei venesiani.


Veneti endependentisti ? ke łi prefarise ła łengoa tałiana a coeła veneta
viewtopic.php?f=161&t=824


Etno-soço-rasixmo łengoestego xe ciamàr diałeto na łengoa
viewtopic.php?f=25&t=23

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Anca sti kì de ła Kademia de ła Bona Creansa łi fa na połedega łengoestega ke ła descremena łe varianse venete en favor de coela venesia e łi falba anca ła storia de łe xenti venete.

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Re: Don Lorenso Milani e ła łengoa - e i veneti?

Messaggioda Berto » mer nov 11, 2015 6:40 pm

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Re: Don Lorenso Milani e ła łengoa - e i veneti?

Messaggioda Berto » mer nov 11, 2015 6:42 pm

DON MILANI: RISPOSTA AI CAPPELLANI MILITARI E LETTERA AI GIUDICI
CONSIDERAZIONI POSTUME

http://www.internetsv.info/LettereDM.html

Chiunque desideri avere qualche notizia sui cappellani militari può fare una semplice ricerca in Internet. Molto del materiale reperibile non è di particolare rilievo ed è da vagliare con cura; in ogni caso una serie di keyword balzano subito agli occhi come la "Risposta - o Lettera - ai cappellani militari", "Don Milani" e "L'obbedienza non è piú una virtú". Si tratta di testi piú volte citati e riproposti e che, nelle intenzioni degli autori di svariati siti Web - almeno all'apparenza - sembra vogliano esaurire, se non proprio chiudere, il decennale dibattito sui cappellani militari. Una questione mai apertasi ufficialmente nella Chiesa ma non di rado sostenuta con veemenza da vari esponenti di ambienti laici e clericali. La figura di don Lorenzo Milani non necessiterebbe di presentazioni, tuttavia un breve profilo biografico potrà giovare a quanti ne hanno una conoscenza approssimativa.
Lorenzo Milani nacque a Firenze il 27 maggio 1923. Ordinato sacerdote nel 1947, venne inviato come parroco a San Donato di Calenzano, dove fondò una scuola serale per i lavoratori. Per le sue posizioni ideologiche, e per le sue critiche nei confronti dell'istituzione ecclesiastica, venne trasferito nella parrocchia di Sant'Andrea a Barbiana nel Mugello, dove rimase fino alla morte, avvenuta il 26 giugno 1967. All'allora Arcivescovo di Firenze - il cardinal Florit - e alla sua Curia aveva riservato non poche critiche. Perfino il patriarca di Venezia, cardinal Angelo Giuseppe Roncalli, diventato poi papa Giovanni XXIII, aveva reagito con apprensione ai suoi atteggiamenti. A Barbiana don Milani aveva istituito una scuola popolare, con l'intento di mettere in condizione i figli dei contadini di istruirsi. Da questa esperienza era nato il libro Lettera a una professoressa (1967), clamorosa denuncia contro la scuola di Stato, divenuto poi uno dei manifesti della contestazione del 1968. Tra le altre sue opere si annoverano Esperienze pastorali (1958) e L'obbedienza non è piú una virtú (1967).
Esperienze pastorali, libro che don Milani aveva cominciato a scrivere otto anni prima a San Donato, era incentrato sulla proposta di una nuova pastorale utile a ricostruire un rapporto con la classe operaia e con i poveri. Il volume, pur avendo ricevuto il nulla osta del Cardinale di Firenze e pur recando un'introduzione di monsignor Giuseppe D'Avack, allora arcivescovo di Camerino, suscitò non poche polemiche e venne recensito negativamente soprattutto da La Civiltà Cattolica. Il 15 dicembre 1958, sotto il pontificato di Giovanni XXIII, il Sant'Uffizio ordinò il ritiro dal commercio dell'opera e ne proibí la ristampa e la traduzione, non per motivi di ortodossia, ma per ragioni di opportunità.
Ebbe piú successo invece un'altra delle sue opere: Lettera a una professoressa. Quando cominciò a diffondersi fra le università occupate e ad assurgere al rango di testo ispiratore della contestazione studentesca, don Milani ormai non c'era piú. La sua figura diventò subito un mito delle sinistre che se ne impossessarono tratteggiandolo come "prete scomodo", "prete ribelle" e soprattutto come "profeta". Della spiritualità che don Milani aveva alle sinistre importava ben poco, ciò che invece attraeva, e prestava il fianco a non poche strumentalizzazioni, erano le critiche che egli rivolgeva a torto o a ragione alla gerarchia ecclesiastica. Tutto ciò che don Milani diceva e scriveva veniva tempestivamente sfruttato fino a dare adito ad una commistione imbarazzante tra fede e politica. Ad onor del vero bisogna dire che non pare che lo stesso don Milani avesse fatto molto per evitare queste occasioni di strumentalizzazione. Fu cosí che da questo prete contestatore, colpito dall'altra grande "fede" di quell'epoca, il comunismo, ebbe origine nel 1968 quello che poi divenne il manifesto della rivolta studentesca, appunto Lettera a una professoressa. In esso don Milani contestava il ruolo dei docenti e la loro autorità, chiedeva l'abolizione della bocciatura, denunciava insomma l'intera struttura scolastica fin dalle sue fondamenta. Perfino un intellettuale laico come Pier Paolo Pasolini rimase perplesso.
L'11 febbraio 1965, alcuni cappellani militari della Toscana in un imprudente comunicato definirono l'obiezione di coscienza "espressione di viltà". Don Lorenzo elaborò subito la "Risposta ai cappellani militari", dove difese il diritto all'obiezione. La risposta venne pubblicata il 6 marzo da una rivista comunista, Rinascita. Fu cosí che esplose la polemica: il priore di Barbiana venne ammonito dal Cardinal Florit e denunciato da alcuni ex combattenti alla Procura di Firenze. Venne processato a Roma insieme a Luca Pavolini, vicedirettore responsabile di Rinascita, per apologia di reato. In vista del processo, non potendo parteciparvi perché malato, Don Lorenzo scrisse la "Lettera ai giudici". Il 15 febbraio 1966 Lorenzo Milani e Luca Pavolini vennero assolti perché il fatto non costituiva reato.
Interessante il parere dato dall'Ordinario Militare emerito, mons. Giuseppe Mani, in un'intervista fattagli dal periodico paolino Jesus, nel 2002. Alla domanda «Quando fu nominato Ordinario militare si confrontò, o magari si era confrontato già prima, con la polemica che a suo tempo il suo conterraneo don Milani aveva suscitato contro i cappellani militari?» rispose: «Come no! Aiutato dal fatto che essendo toscano posso capire di piú la mentalità dell'uno e degli altri. Le cose andarono cosí: don Milani proponeva l'obiezione di coscienza (niente di straordinario, essendoci già in altri Paesi); ai cappellani militari in congedo riuniti a Rifredi nella casa di monsignor Facibeni, santo prete fiorentino dalla cui esperienza di cappellano militare della Prima guerra mondiale nacque l'opera della Madonnina del Grappa, parlare di coscienza per non essere militari sembrò un affronto e un'offesa alla memoria dei caduti. Quei cappellani avevano vissuto l'esperienza della guerra, vedendo cadere migliaia di giovani di cui avevano raccolto le spoglie. Ecco l'origine di tutto il problema che poi finí in tribunale.
Capisco don Milani, il quale peraltro ci sguazzò dentro, ma capisco anche i vecchi cappellani. È una polemica che ormai appartiene alla storia» (CAPPELLETTI L., Preti con le stellette.
Intervista con l'ordinario militare per l'Italia monsignor Giuseppe Mani, in 30giorni, 5 (2002) s. n.).
I testi che vengono esaminati in questo contesto sono tre: 1) l'ordine del giorno dei cappellani militari della Toscana in congedo, pubblicato da La Nazione del 12 febbraio 1965; 2) la Risposta ai cappellani militari di don Milani, del 23 febbraio 1965, pubblicata il 6 marzo 1965 dal periodico Rinascita; 3) la Lettera ai giudici di don Milani, del 18 ottobre 1965. Perché interessarsi a questi articoli proposti non di rado quale "parola ultima" circa l'istituzione dei cappellani militari? Si tratta di testi attendibili? La risposta è si, ma un "si" con amplissime riserve. Non si può dire, infatti, che le argomentazioni di don Milani siano del tutto prive di valore o che non meritino alcuna attenzione, si può e si deve dire invece che devono essere sottoposte ad un attento discernimento e vagliate puntualmente. In esse si trovano concessioni a posizioni ideologiche che non dovrebbero rientrare nel pensiero e nell'opera di un sacerdote, di una guida del popolo di Dio, la cui unica ispirazione devono essere Cristo e il suo Vangelo. In altri casi si trovano posizioni profetiche coraggiose ma forse del tutto fuori tempo o quanto meno poco prudenti. In altri casi invece non si può non concordare circa alcune affermazioni di don Milani quando attingono alla verità storica e alle esigenze della giustizia.
Proprio per facilitare una lettura critica, al posto di un commento generale, si propone un commento puntuale che passo dopo passo accompagnerà i testi originali. Non risulta che agli scritti di don Milani, qui riportati, sia mai stata data una risposta ufficiale da parte di alcuna delle istituzioni interessate - eccetto il tribunale -, questo tuttavia ha un'importanza relativa. Quello che conta oggi è che i cappellani militari nella Chiesa del terzo millennio ci siano ancora, anzi piú di prima, membri ormai non di un semplice servizio di assistenza spirituale (com'era ai tempi di don Milani), ma di una Chiesa viva, di diocesi con centinaia di migliaia di fedeli, in ogni parte del mondo, note come ordinariati militari e che svolgono ovunque il loro ministerium pacis inter arma. Questa è la migliore profezia, la validazione concreta di un ministero e di un apostolato che con Cristo ed in Cristo devono avanzare per la verità, la mitezza e la giustizia (cfr. Sal 45,5).
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Don Lorenso Milani e ła łengoa - e i veneti?

Messaggioda Sixara » mer nov 11, 2015 6:47 pm

Berto ha scritto:Don Milani non si pone neppure il problema di quale lingua bisogna insegnare ai poveri, perchè operando nell’ambiente rurale toscano non avverte la distanza tra lingua e dialetto , e di conseguenza si concentra sull’obbiettivo di un più vasto e sicuro patrimonio lessicale (2000 parole invece di 200 sempre nell'ambito dello stesso codice linguistico

Siori poareti i parlava la stésa lengoa, no ghe jera na gran difaren'za fra lengoa e "dialetto" se no' tel nùmaro/uxo de le parole : doxento i poareti e domila i siori, suparzo, par cueo ke don Milani nol se lo fa el problema ( e no capìso parké ca te ghè da fartelo ti).

Berto ha scritto:Le idee-guida dell’educazione linguistica democratica sono il riconoscimento della centralità per i dialetti, le lingue minoritarie e le diverse varietà d’uso dell’italiano, l’importanza attribuita alle abilità linguistiche ossia la capacità di comprensione e di produzione di messaggi sia orali sia scritti. Il fine dichiarato dell’educazione linguistica è l’adempimento del dettato costituzionale (artt. 3 e 6), che impone di rimuovere gli ostacoli, anche linguistici, che rendono difficile la partecipazione di tutti i cittadini alla vita del Paese.

No comento e no fago la tradu'zion: me pare ciaro de còsa ke l ghea n mente Milani par cuea ke dopo lè stà definia Educazione Linguistica, proprio so modèlo de la so pedagoja ( ma nò solo ke la soa, naturalmente, tanti altri autori inportanti ke se ga zontà dopo de lu).
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Re: Don Lorenso Milani e ła łengoa - e i veneti?

Messaggioda Berto » mer nov 11, 2015 8:37 pm

Sixara ha scritto:
Berto ha scritto:Don Milani non si pone neppure il problema di quale lingua bisogna insegnare ai poveri, perchè operando nell’ambiente rurale toscano non avverte la distanza tra lingua e dialetto , e di conseguenza si concentra sull’obbiettivo di un più vasto e sicuro patrimonio lessicale (2000 parole invece di 200 sempre nell'ambito dello stesso codice linguistico

Siori poareti i parlava la stésa lengoa, no ghe jera na gran difaren'za fra lengoa e "dialetto" se no' tel nùmaro/uxo de le parole : doxento i poareti e domila i siori, suparzo, par cueo ke don Milani nol se lo fa el problema ( e no capìso parké ca te ghè da fartelo ti).

Berto ha scritto:Le idee-guida dell’educazione linguistica democratica sono il riconoscimento della centralità per i dialetti, le lingue minoritarie e le diverse varietà d’uso dell’italiano, l’importanza attribuita alle abilità linguistiche ossia la capacità di comprensione e di produzione di messaggi sia orali sia scritti. Il fine dichiarato dell’educazione linguistica è l’adempimento del dettato costituzionale (artt. 3 e 6), che impone di rimuovere gli ostacoli, anche linguistici, che rendono difficile la partecipazione di tutti i cittadini alla vita del Paese.

No comento e no fago la tradu'zion: me pare ciaro de còsa ke l ghea n mente Milani par cuea ke dopo lè stà definia Educazione Linguistica, proprio so modèlo de la so pedagoja ( ma nò solo ke la soa, naturalmente, tanti altri autori inportanti ke se ga zontà dopo de lu).



El problema lè ke la me lengoa no lè el toscan ma l veneto e ke mi no son Milani, no so gnanca on preve catolego, no me recognoso ente la coultura clasega e "taliana" e no vojo esar çitadin talian. Al fondo anca Milani el jera ono de ła casta, anca se l jera drio dirimarse.

No ła xe na coestion de coantetà de parołe, Dio nol ga creà el mondo ordenandoło co ła paroła come se ła fuse na comanda de n'enperador, come ke vien contà so serte storiełe; se 200 moti łi ghe bastava par vivar co ła so fameja ente ła so tera, ma mi credo ke łi fuse e ke łi sipia stà pì de 2000, vol dir ke łi bastava cofà łi dei de na man ke łi xe 5 par tuti i omani; basta verxar on voxonaro de łe nostre łengoe par vedar come ke i moti łi jera miłara e no 200;

Vardè ki coante parołe ke ła ga ła nostra łengoa, el caxo de i vexetałi:
Nomi de piante, de fruta e de verxura en łengoa veneta
viewtopic.php?f=82&t=1912

a vedemo ben ancò ke i toxati łi xe ndà a scoła par enparar 2000 e pì moti de tałian endove ca semo rivà ... no no lè ke co ła łengoa a ghe jera anseme ła menxogna, łe bàłe o buxie, ła viołensa, el ricato, ła servetù, ła paura, ła sojesion, ła prepotensa de ła casta e ła corusion del sistema soçal en favor del poder e senpre contro tuti staltri ke łi sapia 200 o 2000 moti.
La coantetà de parołe en pì łe podaria servir par pasar da i paria a ła casta, se te ghe l stomego de pagarte el pasajo soçal col trademento, co łe buxie, col farte conpleçe de l'opresion.

Par mi se ga da reinpostar tuti i termeni de ła coestion, ente ła manera justa, dandodeghe a tute łe robe el so vero valor:
se ga da partir da l'omo, da tuti łi omani, da ke l'omo particolar de kel popoło, de keła tera e no da altri de altre nasion o de altra clàse o casta;
e a sto omo se ga da darghe el masimo valor omàn, coeło ke se ghe da o daria al Re, a on Re, el masimo de ła creansa e de ła degnetà; no se pol partir dal popoło considerandoło na merda, n'omo sotan;
se ga da partir da ła łengoa natural de tuti łi omani e de ogni łogo o posto o tera e dapò se ghe xonta altre łengoe ke łe ghe serve par rełasionarse en aree pì grande, vaste o anpie del mondo e i jerghi o łengoe speçalixà dei laori o mestieri o profesion;
a naltri veneti se ga da partir da łe varianse łengoesteghe venete e dapò se pol xontarghe el talian o el todesco o el xlavo dapò l'angrexe, el çinexe, l'arabo, el spagnoło. el portoghexe, ... par i jerghi se pol xontaghe el latin, el vecio grego e łe vece łengoe mexopotameghe;
cusì a se ga da far co ła conta de ła storia, se ga da partir da naltri, da l'omo comoun, da l'ogneversaletà pristorega e no dal Re o dai romani e dai greghi e dai nobiłi e da łe caste.

Połedeghe łengoesteghe
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