Rasixmo al contraro: łe buxie de sto soçołogoBonomi: «I profughi sono i nuovi rom, capri espiatori della nostra società»
Parla il sociologo: «L’Italia ha un impianto normativo vecchio e l’Europa è rimasta a ricette del passato. Così si crea la sindrome dell’invasione»
17/07/2015 Francesco Cancellato
http://www.linkiesta.it/aldo-bonomi-profughi-europa«Le proteste di Quinto e Roma contro i prufughi? Non mi sorprendono affatto». Non siamo di fronte a un’emergenza secondo Aldo Bonomi, sociologo valtellinese, animatore del Consorzio Aaster, autore tra gli altri di libri come “La comunità maledetta”, “Il rancore”, “Sotto la pelle dello Stato” che di fatto preconizzavano quanto sta accadendo oggi. Secondo Bonomi, nella vicende trevigiane e romane precipitano le questioni irrisolte del nostro tempo: la crisi del «modello giuslavorista di accoglienza all’italiana», che crea integrazione esclusivamente attraverso il lavoro e la «crisi dell’Europa, incapace di risolvere le sue contraddizioni, istituzionalizzandole» e di essere «comunità operosa in formazione». Questioni irrisolte, queste, che secondo Bonomi producono nuove forme di conflitti, come quello tra «comunità del rancore e comunità della cura». E luoghi-faglia, come Quinto, alle porte di Treviso ma anche come Lampedusa, il mezzanino di Stazione Centrale, Ventimiglia, Calais o la frontiera tra Ungheria e Serbia dove è stato posato il primo mattone del muro voluto dal premier Victor Orban.
Bonomi, lei parla di sottovalutazione del problema, ma il tema delle migrazioni è da tempo al centro del dibattito politico, oggi come non mai...
Il tema delle migrazioni, a mio avviso, è una cartina tornasole della crisi della politica che rimanda alla dimensione delle istituzioni nazionali e locali e del disagio e del rancore sociale.
Questo Paese ha fatto la sua prima e ultima riflessione dell’essere diventato un paese di immigrazione nel 1991, con la Conferenza nazionale sull'immigrazione. Presidente del Consiglio era Giulio Andreotti e il ministro che la organizzò era Claudio Martelli
In che senso?
Parto da lontano: e faccio notare, io che ho un po’ di memoria, che questo Paese ha fatto la sua prima e ultima riflessione politica, culturale e sociale dell’essere diventato un paese di immigrazione nel 1991, con la Conferenza nazionale sull'immigrazione. Presidente del Consiglio era Giulio Andreotti e il ministro che la organizzò era Claudio Martelli. Parliamo di archeologia politica novecentesca. E, avvicinandoci un po’, faccio notare come sia rimasto inascoltato il monito dell’allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che qualche anno fa pose alla politica la questione urgente di decidere se la cittadinanza si potesse acquisire per diritto di sangue o per diritto di suolo. Una questione talmente urgente che è ancora irrisolta. A cui si somma la questione della crisi economica.
Cosa c’entra la crisi economica con l’immigrazione?
C’entra. Abbiamo un impianto normativo, figlio della legge Bossi-Fini, principalmente, che ha una base unicamente giuslavorista: l’accoglienza e la socializzazione dei diritti sono solo per l’immigrato lavoratore. Altre forme di migrazione non sono contemplate, chiunque non rientra in questa normativa va respinto. Abbiamo fatto nostra la massima di un noto scrittore svizzero, che parlando dei migranti italiani che andavano a lavorare in terra elvetica scrisse che «ci aspettavamo braccia e sono arrivate persone».
I migranti non sono più braccia?
No, perché oggi le braccia non ci servono. E le migrazioni, che non sono stupide, ma intelligenti, non vedono più nel nord est un luogo accogliente in cui trovare lavoro.
Il nostro impianto è questo, però: i migranti sono braccia. E con i profughi - che non migrano per cercare lavoro - questo impianto va in crisi. È la migrazione ai tempi della fine del lavoro, che fino a ieri era l'unico strumento di integrazione.
Se non più per cercare lavoro, che tipo di migrazione è, quella di oggi?
È una migrazione che ci mette sotto stress perché è nel contesto di un crisi geopolitica e geoconomica che ha il suo faro illuminante nel Mediterraneo. Saremmo ciechi a pensare che sia solo un problema italiano: il Libano ha più di un milione e mezzo di profughi, in Liba ce n’è altrettanti.
Un problema tanto vasto può essere demandato a sindaci e prefetti?
No, assolutamente. Nemmeno alla sola Italia, pur con tutti i suoi ritardi e le sue sottovalutazioni. E nemmeno ai soli paesi mediterranei. Se l'Europa non fosse in crisi, toccherebbe a lei trovare una soluzione al problema. Ma anche l'Europa, che non riesce a risolvere il problema delle diverse tassazioni tra Irlanda e Italia, o il problema tra rigore e crescita in Grecia, è rimasta a ricette del passato, per affrontare il tema dell'immigrazione. Per la precisione al trattato di Dublino, secondo cui i profughi sono un problema del Paese in cui arrivano. È notizia di oggi il primo mattone del muro costruito in Ungheria per respingere le persone. È possibile che l'Europa non abbia niente da dire, su questo?
Come dovrebbe reagire, l'Europa?
Dovrebbe darsi dei confini, innanzitutto. Vanno fermati in Libano? In Libia? Nel Sahara? In Eritrea? L'Europa non risponde. E allora si creano al suo interno dei luoghi-faglia come Lampedusa, Ventimiglia, Calais, la stessa Quinto o il confine tra Ungheria e Serbia. Una comunità in formazione dovrebbe avere dei confini, o almeno chiedersi quali siano i suoi confini. E invece il tema non è in agenda.
Cosa succede, in quei luoghi-faglia, allora?
Succede che la comunità locale, sotto stress, sviluppa due sindromi.
Quali?
La prima è la sindrome dell’invasione e non ci è nuova, se pensiamo a quanto accadde coi barconi degli albanesi che arrivavano a Bari vent’anni fa.
La seconda?
Quella del capro espiatorio. Che fino a ieri erano i rom, contro cui si organizzavano fiaccolate perché insediandosi in un quartiere svalutavano le case, dequalificavano il territorio. E oggi sono i profughi, gli apolidi. Ma anche chi si occupa di loro.
A Roma hanno cercato di bastonare il mediatore culturale della cooperativa sociale, accomunato al profugo quale nemico. E anche il Prefetto, che cerca di riportare la cosa dentro un discorso istituzionale. È il conflitto tra la comunità del rancore e la comunità di cura
A chi si riferisce?
A Roma hanno cercato di bastonare il mediatore culturale della cooperativa sociale, accomunato al profugo quale nemico. E ovviamente, anche il Prefetto, che cerca di riportare la cosa dentro un discorso istituzionale. È il conflitto tra la comunità del rancore e la comunità di cura. Che non è solo l'esercito dei buoni, dei volontari, del terzo settore, ma nella quale ci metto pure Papa Francesco e i Prefetti. E, purtroppo, pure i delinquenti di Mafia Capitale che si arricchivano alle spalle dei profughi.
La comunità del rancore, invece, da chi è composta? Ceti popolari, ceti medi impoveriti?
La comunità rancorosa è quella che pensa prima di tutto al suo mutuo. Per usare la terminologia colta del filosofo Roberto Esposito è “communitas” che si fa “immunitas”, che cerca di immunizzarsi da tutto ciò che viene da fuori e che minaccia di minarne il benessere.
Una comunità che scivola a destra, nel nazional populismo, verrebbe da pensare. È questa la nostra piazza Syntagma?
È certamente una piazza nazional-populista. Che certamente si sposa con quelle che vedono nell'Euro un altra minaccia al benessere, da cui immunizzarsi tornando agli stati nazionali.
Hanno ragione?
No. Al contrario, l'unica cosa che rimane è affermare un principio sacrosanto: il principio della libertà della persona di circolare, al pari di merci e lavoro. Era il cuore dell'ideologia dell'Europa. Se ce lo dimentichiamo, l'Europa è morta.
La mafia romana dei singani, altro ke cavari espiadori!http://www.filarveneto.eu/wp-content/up ... onega1.jpg http://www.filarveneto.eu/wp-content/up ... -furto.jpgIl Papa bacchetta i rom. E ora dategli del razzista
Francesco gela la comunità gitana: "Basta pregiudizi ma basta liti, imbrogli e falsità". Un monito che in Italia può permettersi solo luiRenato Farina - Mar, 27/10/2015
http://www.ilgiornale.it/news/politica/ ... 87559.html Il Papa davvero può dire ciò che vuole. Con gli zingari si è permesso inviti all'«onestà», ai «doveri» sociali e a non provocare l'opinione pubblica, a smetterla con «falsità, truffe, imbrogli, liti».
Roba che in bocca ad altri sarebbe bollata come razzismo. Non si è fermato lì. Ha intimato, due volte, con due punti esclamativi, che i padri si decidano a mandare i figli a scuola. E se i padri non vogliono o sono distratti, se ne occupino i nonni dei piccoli nomadi.
Francesco può, e infatti i gitani accorsi in Vaticano, gremendo l'aula Paolo VI, lo applaudono perché si capisce che li tratta come un padre farebbe con i figli, e vuol loro bene. L'amore può tutto, anche arrabbiarsi. La sostanza del monito resta però nella sua durezza condita di misericordia. Ed è un inedito anche per Francesco che il 5 giugno dell'anno scorso aveva puntato il dito contro i romani.
Aveva detto: «Quando prendevo il bus a Roma e salivano degli zingari, l'autista spesso diceva ai passeggeri: “Guardate i portafogli”. Questo è disprezzo - forse è vero - ma è disprezzo». In «quel forse è vero», poco notato dai commentatori, c'era in nocciolo quanto ha svolto ieri al «Pellegrinaggio mondiale del popolo gitano».
L'ultima volta che l'immagine del Papa era stata accostata agli zingari, è stato lo scorso agosto, ad un funerale, peraltro cattolicissimo. Il defunto boss dei Casamonica, che sono gitani di etnia sinti, se ne stava pitturato sui manifesti fuori della chiesa di don Bosco, vestito da Papa, con la cupola di San Pietro accanto al suo viso. Quello però era Papa Vittorio, un apocrifo, e la banda suonava Il Padrino ... Con Francesco è stata tutta un'altra musica. Il vero Re degli Zingari è Bergoglio.
Non è una battuta: il Pontefice romano è davvero il capo spirituale dei nomadi. Pochi lo sanno, ma su circa 110mila tra Rom e Sinti presenti in Italia, 80mila sono cattolici, più del 75 per cento. Così Bergoglio da autentico padre e leader ha abbracciato gli zingari, li ha salutati nella loro lingua, con le parole o Del si tumentsa! (il Signore sia con voi!), ha proclamato la loro dignità e i loro diritti, esaltato la loro cultura.
Poi però li ha afferrati amabilmente per le orecchie. Certo con misericordiosa tenerezza, ma con una franchezza rara. Le sue parole precise sono state: «Cari amici, non date ai mezzi di comunicazione e all'opinione pubblica occasioni per parlare male di voi. Come tutti i cittadini, potete contribuire al benessere e al progresso della società rispettandone le leggi, adempiendo ai vostri doveri». Leggi, doveri.
Ancora: «I vostri figli hanno il diritto di andare a scuola, non impediteglielo! I vostri figli hanno il diritto di andare a scuola! (due volte) È importante che la spinta verso una maggiore istruzione parta dalla famiglia, parta dai genitori, parta dai nonni».
Di più: «(Dovete) impegnarvi a costruire periferie più umane... È anche compito vostro. E potete farlo se siete anzitutto buoni cristiani, evitando tutto ciò che non è degno di questo nome: falsità, truffe, imbrogli, liti».
Traduzione: smettetela di rubare, mandate i figli a scuola, e vi guadagnerete il rispetto degli altri. Francesco non ha coltivato né il vittimismo né l'assistenzialismo.
Certo poi il Papa non ha risparmiato un richiamo al resto del mondo. La novità è che ha messo gli uni e gli altri dinanzi alle rispettive responsabilità. Agli zingari, e a chi non lo è, ha detto: «Che si volti pagina! È arrivato il tempo di sradicare pregiudizi secolari, preconcetti e reciproche diffidenze che spesso sono alla base della discriminazione, del razzismo e della xenofobia. È lo spirito della misericordia che ci chiama». E qualche volta prende per le orecchie.
El Papa el ga da jornarse e nol ga da perderse co el prejudiço del rasixmo verso i singani parké no ghè rasixmo ma lomè łexitema defexa ... e se ghè dei rasisti sti ki łi xe i singani.