Missionarismo: debolezza spirituale e imperialismo religioso

Missionarismo: debolezza spirituale e imperialismo religioso

Messaggioda Berto » gio feb 16, 2017 8:33 am

Missionarismo e proselitismo come debolezza e inconsistenza spirituale e imperialismo religioso e politico
viewtopic.php?f=24&t=2487


Il missionarismo è una forma di imperialismo religioso e denota da una lato una debolezza spirituale propria di tutte le idolatrie religiose e dall'altro la sua vulnerabilità all'uso politico come pretesto e giustificazione.



Missionario
https://it.wikipedia.org/wiki/Missionario
Un missionario è colui che si impegna a diffondere una religione in aree in cui non è ancora diffusa.
Il termine "missione" prende corpo verso la metà del Cinquecento e sono i Gesuiti a promuoverne l'utilizzo, esso proviene dall'introduzione del quarto voto da parte di Ignazio di Loyola durante la costituzione della Compagnia di Gesù.
L'origine teologica del termine è la traduzione latina della parola greca apostolo; Non sempre la diffusione della propria religione è il compito principale del missionario, specialmente quando questi operi in zone con elevata eterogeneità culturale. Benché nell'accezione comune "missionario" riguardi prevalentemente il Cristianesimo anche altre religioni con vocazione universale formano missionari che procedono nello stesso identico modo.

Apostolo
https://it.wikipedia.org/wiki/Apostolo
Gli apostoli di Gesù Cristo (dal greco απόστολος, apóstolo: 'inviato'), come descritto nel Nuovo Testamento, sono i dodici costituiti da Gesù.

Evangelizzazione
https://it.wikipedia.org/wiki/Evangelizzazione
L’evangelizzazione è un termine della teologia cristiana e indica due distinte attività: l'annuncio del vangelo per la conversione dei non cristiani, e l'azione della comunità dei credenti per trasformare la società e renderla adeguata alle esigenze evangeliche. Evangelizzazione deriva del sostantivo greco euangelizein, che indica l'annuncio di una buona notizia, annunciare una vittoria.

Per i vangeli di Matteo e Marco, Gesù è un evangelizzatore. La Chiesa ha però applicato il termine alla propria attività. L'evangelizzazione quindi nasce a Pentecoste. Gli apostoli riuniti nel cenacolo ricevono il dono dello Spirito Santo e iniziano a dare testimonianza pubblica della loro fede. L'evangelizzazione continua con la predicazione della Parola di Dio da parte degli apostoli, l'attività di aiuto ai poveri da parte di alcuni volontari, e dall'annuncio di alcune persone designate dalla comunità, come nel caso di Barnaba e Paolo. I primi evangelizzatori – missionario è un termine che si attesterà solo alla fine del medioevo – diressero la loro attenzione alle comunità ebraiche dal bacino mediterraneo, per aprirsi poi anche ai pagani, cioè a non credenti di origine non ebraiche. Questo fu possibile grazie alle decisioni prese al Concilio di Gerusalemme, dove gli apostoli accettarono la posizione di Paolo di Tarso di non obbligare i nuovi credenti provenienti dal paganesimo ad accettare tutte le regole e leggi ebraiche (le 613 leggi del Pentateuco, e la kasherut – legge che regola la preparazione e assunzione del cibo). Questa decisione permise ai primi annunciatori del vangelo di rivolgersi a tutte le popolazioni che incontravano. Con l'impeto della prima ondata evangelizzatrice, la Chiesa si diffuse così in Medio Oriente, Africa settentrionale, Italia e Spagna, nonché all'interno dell'Asia.

Il cristianesimo trovò nell'impero romano sia un campo fertile per uno sviluppo rapido che una fiera opposizione. L'impero, con le sue strutture di comunicazione, la stabilità politica e la lingua comune (si parlava dovunque il latino e il greco della koiné), permisero che i primi cristiani potessero facilmente comunicare con nuove popolazioni. Non a caso si hanno notizie di comunità cristiane nella penisola italica, Macedonia, Grecia, penisola Iberica, Dalmazia e Gallia già prima della fine del I secolo. L'evangelizzazione venne arginata da persecuzioni, anche violente. Più imperatori decisero di perseguitare i cristiani, dando via all'era dei martiri. Questo terminò con la pubblicazione dell'Editto di Milano nel 313. Ai cristiani venne riconosciuta la libertà di culto. La comunità cristiana si diffuse dapprima nelle città e poi nelle zone rurali (pagi in latino, da cui il termine pagano). Nel IV secolo, soprattutto grazie ai monaci, quasi tutta l'Europa venne raggiunta, anche se l'evangelizzazione potrà dirsi conclusa solo molto più tardi, nel XIV secolo
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
Avatar utente
Berto
Site Admin
 
Messaggi: 38318
Iscritto il: ven nov 15, 2013 10:02 pm

Missionarismo: debolezza spirituale e imperialismo religioso

Messaggioda Berto » gio feb 16, 2017 8:36 am

Tra tutte le religioni quella più missionarista di tutte e che fa dell'imperialismo religioso la base del suo imperialismo politico è quella maomettana o mussulmana o islamica.

È la peggiore forma di totalitarismo assolutista teocratico, fondata sull'orrore e sul terrore.


Coran e storia dell'ixlam
viewtopic.php?f=188&t=1767

Nella storia dove è arrivato l'Islam è poi sempre avvenuta la guerra civile e religiosa
viewtopic.php?f=188&t=1895

Islam è religione di guerra e violenza non di pace
viewtopic.php?f=188&t=2024

Islamofascismo, nazislam e razismo islamico
viewtopic.php?f=188&t=1875

L'Islam è il nazismo islamico? Sì!
viewtopic.php?f=188&t=2274
https://www.facebook.com/Islam-nazismo- ... 0147022373

Islam come mafia politico religiosa
viewtopic.php?f=188&t=2222

Maometto (santo o criminale terrorista ?) - Maometo (on santo o n criminal terorista ?)
viewtopic.php?f=188&t=2030

Moamed del Coran e Cristo dei Vanxełi: do omani, do parołe, do livri a confronto
viewtopic.php?f=24&t=1329

Musulmani ensemenii ke łi copa sigando Alà lè el pì grando!
viewtopic.php?f=188&t=2043

Islam e persecuzione e sterminio dei cristiani
viewtopic.php?f=181&t=1356
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
Avatar utente
Berto
Site Admin
 
Messaggi: 38318
Iscritto il: ven nov 15, 2013 10:02 pm

Missionarismo: debolezza spirituale e imperialismo religioso

Messaggioda Berto » gio feb 16, 2017 8:41 am

Anche il cristianismo è missionarista


Questo è un articolo di critica, per certi versi corretto ma per altri scorretto in quanto non opera le necessarie distinzioni tra le religioni che non sono tutte uguali nei loro comportamenti, per esempio tra il cristianismo che è non violento e il maomettanismo che è violento.
Il missionarismo cristiano è all'insegna della parola amorosa, dell'esempio e dell'amore fraterno, mentre il missionarismo maomettano è all'insegna della parola anche minacciosa e intimidatoria, dell'esempio e dell'imposizione violenta che arriva allo sterminio.




Trionfi e follia dell'antirelativismo

http://www.controapologetica.info/testi ... elativismo


I guasti dell’intolleranza

Gli atti di violenza contro le minoranze cristiane si moltiplicano senza tregua in vari paesi del mondo, e in modo particolare in quelli dell’area islamica.

Tali gesti barbarici sollevano un coro unanime di indignate proteste nel mondo cristiano. Atto dovuto, si potrebbe dire. Ma in prima fila tra coloro che si stracciano le vesti vi è chi di fronte a simili episodi dovrebbe invece fare almeno una piccola riflessione, per non dire una palinodia.

Benedetto XVI, in altre parole, non può non vedere che se gli autori dei vari attentati fossero “relativisti” non farebbero mai quel che fanno. Il loro agire è in effetti una clamorosa riaffermazione di quello che si può senz’altro definire “antirelativismo”, ossia convinzione assoluta di possedere la verità circa le realtà ultime dell’uomo e del mondo.

Come abbiamo scritto in “Relativismo”, con tale termine si deve correttamente intendere l’atteggiamento di chi ritiene che nei campi in cui non è possibile addurre prove razionali e/o sperimentali (e tra questi la religione è ovviamente al primo posto) non si può parlare di verità, ma semplicemente di opinioni, di convincimenti, sia pur quanto si voglia radicati e profondi. Perciò, di fronte a convinzioni - ossia a “fedi” - diverse, anche ammesso che tra di esse ve ne sia una vera, è impossibile dire quale sia.

Tale atteggiamento - suggerito dal più elementare buon senso, senza che si debbano scomodare astrusi principi epistemologici - è però fieramente avversato dai più convinti credenti delle varie religioni. Per costoro infatti la verità esiste, eccome; ed è superfluo dire che per ciascuno essa è rappresentata dai dogmi della propria fede.

Sicché, di fatto, è come se il cristiano dicesse al musulmano che ciò che questi considera un prezioso patrimonio di sacre verità è invece radicalmente falso, e che i cristiani hanno l’imprescindibile dovere di cercar di convincere lui e chi la pensa come lui ad abbracciare la loro fede, che è la sola vera. Il musulmano naturalmente ha una convinzione speculare: per lui falso è il cristianesimo, e l’islam ha il diritto-dovere di conquistare il mondo.

A questo punto, se uno dei due è portato ad usare le maniere forti, è inevitabile che cerchi di rompere la testa al suo fervente contraddittore.

È incredibile che il pontefice non si renda conto che la sua crociata contro quello che egli definisce “relativismo” contribuisce oggettivamente, sia pure in modo indiretto, allo scatenamento della follia, perché è essa stessa intrinsecamente follia. Chi semina vento, raccoglie tempesta.


Violenza fisica e violenza spirituale

Certo, Ratzinger può obiettare che i cristiani di regola non ricorrono alla violenza, ma la subiscono. Noi però abbiamo definito la fede cristiana, con particolare riferimento al cattolicesimo, “intolleranza non violenta”, con ovvia allusione alla violenza fisica. Ora, per quanto si voglia insistere sulla specificazione che qualifica “non violenta” l’intolleranza cristiana, è indubbio che la radice prima di ogni male, di ogni conflitto più o meno sanguinoso, sta nell’intolleranza stessa.

Giova ripetere: chi, senza poter addurre altra prova se non la propria insindacabile fede, si proclama depositario esclusivo delle verità ultime sull’uomo e sul mondo, affermando di doverle comunicare a tutti gli uomini perché le accettino, compie inconfutabilmente un atto di arroganza, di prevaricazione e di provocazione. Che qualcuno non accetti supinamente e reagisca con la violenza anche fisica fa parte delle regole del gioco.

Del resto, la Bibbia contiene innumerevoli passi in cui la violenza contro gli infedeli - violenza fisica nel senso più pieno del termine - viene addirittura imposta da Dio; né la Chiesa ha mai pensato di espungere tali passi dal sacro testo. E il più santo dei profeti del Signore, Elia, non esita a sgozzare di proprio pugno, uno dopo l'altro, ben 450 (quattrocentocinquanta!) “profeti di Baal”.

Con simili referenze, il cristianesimo non può vantare titoli validi per stigmatizzare la brutale violenza islamica o indù.

È vero che Gesù alternava alle manifestazioni di intolleranza affermazioni e atteggiamenti di straordinaria mitezza, confacenti al suo ruolo di agnello sacrificale, e col monito di porgere l’altra guancia giungeva a predicare il ripudio della violenza fisica.

Ma se, come egli proclamava,“chi non crederà sarà condannato” (Mc 16, 16), l’annuncio evangelico è oggettivamente violento: coarta, mediante un vero e proprio ricatto, la libertà di pensiero e di coscienza.

Nello stesso Benedetto XVI abbiamo un esempio di straordinaria mitezza di atteggiamenti (a cominciare dalla voce e dall’intonazione suadente dell’eloquio) associata a un’assoluta intolleranza sul piano dottrinale, quale risulta ad esempio dalla “Dominus Jesus”.

Definendo dunque il cristianesimo “intolleranza non violenta”, noi ci riferiamo unicamente alla forma di violenza più grossolana e vistosa, quella fisica. Ma l’intolleranza costituisce sempre, di per sé, una violenza, quanto meno psicologica.


La mistica della pace

Nel suo discorso del 10 gennaio 2011 ai membri del Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, il papa ha affermato che da parte del mondo laico “si tende a considerare la religione, ogni religione, come un fattore senza importanza, estraneo alla società moderna o addirittura destabilizzante”.

Non possiamo dargli torto. Senonché tale atteggiamento, a suo giudizio immotivato, è in realtà pienamente legittimo. In effetti, la religione è oggettivamente causa di destabilizzazione: o perché vuole imporre la propria legge a quella dello stato (è il caso della sharia islamica) o perché, quando debba confrontarsi con altre confessioni, diviene quasi inevitabilmente fonte di conflitti più o meno violenti.

Altra affermazione del pontefice, nella stessa occasione: “La venerazione nei riguardi di Dio promuove la fraternità e l’amore, non l’odio e la divisione.”

Non è vero. Ce lo dicono nel modo più esplicito le parole di Gesù stesso: “Non pensate che io sia venuto a metter pace sulla terra; non sono venuto a metter pace, ma spada”; con la seguente precisazione, a scanso di equivoci: “sono venuto a dividere il figlio da suo padre, la figlia da sua madre, la nuora dalla suocera; e i nemici dell’uomo saranno quelli stessi di casa sua” (Mt 10, 34-36).

Di fatto, il cristianesimo stesso è religione di pace solo quando si sia affermato senza contrasti come unica religione di un popolo; ma quando deve conquistare popoli d’altra osservanza (e questo è proprio il caso al quale si riferiva Gesù, il cui kérygma era destinato a imporsi a popolazioni pagane), diventa per forza di cose fonte di divisione e di odio. Il missionarismo cristiano, ossia l’imprescindibile esigenza di portare la presunta “verità” a tutto il mondo, non può che produrre simili conseguenze.


La mistica del martirio

La veemente denuncia degli atti di violenza è solitamente accompagnata, da parte cristiano-cattolica, dalla “santificazione” delle vittime in quanto màrtiri caduti per la causa della fede. La persecuzione viene cioè automaticamente etichettata come martirio; e, si sa, sanguis martyrum semen christianorum. Si citano con malcelato compiacimento le parole di Gesù: “Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi”.

L’autogratificazione del martirio tocca il culmine nella certezza - che è di fede - che alla fine del mondo la Chiesa, prima di entrare nella gloria celeste, rivivrà la passione di Cristo.

Questo porta in primo luogo a dimenticare che Gesù non fu un innocente ingiustamente perseguitato: fu messo a morte perché blasfemo, ossia proprio perché aveva mortalmente offeso la “chiesa” di quel Dio di cui egli aveva l’incredibile ardire di proclamarsi figlio, sentenziando per di più: “Io sono la via, la verità, la vita”. Atteggiamento, come ben si vede, schiettamente intollerante, proprio di chi non ha il minimo dubbio di possedere la verità nella sua pienezza.

In secondo luogo, è quanto mai discutibile che si definisca martire chi non ha volutamente affrontato la morte per “testimoniare” la verità della propria fede, ma ha semplicemente subito una brutale violenza in quanto appartenente a una determinata confessione. Martire a pieno titolo può essere definito solo chi, come il pakistano Shahbaz Bhatti, affronta consapevolmente un altissimo rischio di perdere la vita a causa della propria azione in difesa della fede.

Ancor meno giustificato poi è rifiutare la qualifica di màrtiri, ad esempio, ai kamikaze islamici, ironizzando per di più sulla propaganda che definendoli tali li proclama destinati al paradiso. È fuori discussione infatti che il kamikaze dà volontariamente la vita per la causa della propria fede; è quindi testimone - ossia martire - nel senso pieno del termine.

È fin troppo facile dire che un simile comportamento è aberrante, in quanto il martirio viene conseguito a prezzo di tante vite innocenti. Tale giudizio è pienamente lecito – anzi, sacrosanto - in una prospettiva laica, “relativistica”, che qualifica come fanatismo le conseguenze pratiche dell’intolleranza religiosa, individuando nell’intolleranza stessa la radice prima dell’aberrazione.

Ma non è lecito da parte di chi rifiuta nel modo più assoluto di relativizzare la propria pretesa di detenere il monopolio della verità; da parte di chi, soprattutto, mentre sbandiera il comandamento dell’amore, finge di ignorare la presenza nel proprio libro sacro, come si è detto, di innumerevoli passi in cui viene ordinata la soppressione fisica di chiunque – dal nemico straniero al più stretto parente – cerchi di indirizzare il fedele verso il culto di un altro Dio.

“Non è lecito uccidere in nome di Dio”, predica continuamente Benedetto XVI. Ma nella Bibbia si comanda la soppressione dell’apostata e si fa l’apologia delle guerre di Yahweh, cui compete ufficialmente il titolo di “Dio degli eserciti”.

Non sembrino fuori luogo questi continui richiami al testo biblico: si pensi alla pignoleria con cui il pontefice nella lectio di Ratisbona ha provveduto a rivedere le bucce al Corano esaminando le disposizioni contenute in determinate sure e giungendo persino a distinguere tra sure più o meno tarde.


Libertà di religione come libertà di bestemmia

Torniamo a considerare quanto abbiamo detto or ora circa l’incompatibilità tra affermazioni qualificanti di fedi profondamente diverse quali sono appunto il credo cristiano e quello islamico.

È inoppugnabile che, se quello che credo io cristiano è il vero, quel che credi tu musulmano è falso, e viceversa. E se tu proclami le tue verità e addirittura cerchi di indurre i miei fratelli di fede ad accettarle come tali, di fatto pronunci una orribile bestemmia contro il mio Dio.

La legge contro la blasfemia vigente ad esempio in Pakistan - legge che alcuni spiriti illuminati cercano, finora con scarso successo, di far abrogare - è quindi oggettivamente conforme alla ragione, in quanto pienamente coerente con la dottrina islamica.

Lo stesso discorso si può fare, specularmente, per quei fondamentalisti protestanti che – irresponsabilmente ma coerentemente – bruciano in pubblico copie del Corano, in cui a giusto titolo vedono un concentrato di bestemmie.

In effetti, quando ci si trova di fronte alla plateale blasfemia costituita dalla pubblica professione di una fede che nega i sacri dogmi della propria, la scelta di non reagire, qualora non sia suggerita dalla paura, non è altro, per chiamare le cose col loro nome, che atto di somma ipocrisia: per amore del quieto vivere si finge di non aver sentito e ci si tappa le orecchie per continuare a non sentire.

Orbene, questo, secondo Benedetto XVI, è proprio quello che dovrebbero fare cristiani e musulmani nei paesi in cui si trovano a confrontarsi; e s’intende che il discorso vale per tutte le altre religioni che vengano a trovarsi in conflitto. Il che significa che, non potendosi parlare di pace, come si è visto, si punta su una sorta di tregua armata permanente.


Ovviamente, chi non crede può solo augurarsi che tale tregua “tenga” in tutti i casi e per un tempo indefinito; ma se ci si pone nella prospettiva del credente è impossibile non avvertire la contraddizione di fondo che sta alla base di un simile atteggiamento: rivendicare la libertà di religione equivale di fatto a rivendicare la libertà di bestemmia.

Se poi proprio non vogliamo parlare di bestemmia, parliamo comunque di offesa: nessuno può negare che proclamare l’assoluta verità delle proprie convinzioni religiose in faccia a chi ha convinzioni radicalmente diverse - che vengono per ciò stesso dichiarate false - sia obiettivamente oltremodo offensivo.


Diritto di conversione come diritto di apostasia

La libertà religiosa che Benedetto XVI invoca, proclamandola valore non negoziabile, si sostanzia di vari elementi. Ad esempio, padre Bernardo Cervellera, l’autorevole direttore di “Asia News”, vi include:

1) la libertà di credere le verità della propria fede (e quindi, tra l’altro, di disporre liberamente dei testi che le contengono);

2) la libertà di praticare la propria religione, ossia la libertà di culto;

3) la libertà di proclamare apertamente il proprio verbo, a cui si affianca il diritto di associazione in vista di tale obiettivo;

4) il diritto di convertire al proprio credo appartenenti ad altre confessioni.

Giusto. Senonché il diritto di convertire equivale, in prospettiva speculare, al diritto di convertirsi, abbandonando la propria fede; in altri termini, al diritto di apostasia.

Ora, nei primi secoli cristiani l’apostasia era considerata nientemeno che il massimo dei peccati, più grave ancora dell’omicidio e dell’adulterio. Si resta quindi a dir poco sconcertati: quello che era il massimo peccato concepibile è diventato addirittura un sacrosanto diritto, elemento irrinunciabile della libertà religiosa!

Questo dà l’idea della profondità dell’influsso che la maturazione delle coscienze prodotta dalla cultura laica della tolleranza ha esercitato sulla dottrina stessa della Chiesa. Il papa ci rifletta e ne tragga le debite conclusioni.


Il ripiegamento su Assisi

A un certo punto comunque Benedetto XVI, di fronte al moltiplicarsi degli episodi di violenza anticristiana, e rendendosi forse conto di aver gettato benzina sul fuoco con l’improvvido discorso di Ratisbona, si è spaventato veramente; sicché ha deciso di fare quello che negli anni precedenti aveva sempre accuratamente evitato: ha annunciato, dopo l’Angelus del Capodanno 2011, di voler partecipare all’annuale incontro di preghiera per la pace che vede riuniti ad Assisi esponenti delle varie religioni.

Nel 1986 Giovanni Paolo II aveva preso l’iniziativa del primo di questi incontri (continuati negli anni successivi ad opera della Comunità di Sant’Egidio), partecipandovi di persona. Ciò aveva suscitato all’interno della Chiesa una quantità di critiche; e Ratzinger stesso non ha mai fatto mistero della sua scarsissima simpatia per eventi di questo genere.


Scrive Sandro Magister:

“In effetti, nel 1986, l'allora cardinale Joseph Ratzinger non si recò a quel primo incontro, contro il quale era critico. Partecipò invece a una sua replica tenuta sempre ad Assisi il 24 gennaio 2002, alla quale aderì "in extremis" dopo essersi assicurato che gli equivoci dell'incontro precedente non si ripetessero.
L'equivoco principale alimentato dall'incontro di Assisi del 1986 è stato quello di equiparare le religioni come sorgenti di salvezza per l'umanità. Contro questo equivoco la Congregazione per la dottrina della fede emanò nel 2000 la dichiarazione "Dominus Iesus", per riaffermare che ogni uomo non ha altro salvatore che Gesù.”

Sta di fatto che, appena dieci giorni dopo l’annuncio pontificio, un gruppo di nove intellettuali cattolici militanti e di irreprensibile ortodossia, evidentemente a loro volta spaventati non meno del papa stesso, gli hanno scritto una lettera per indurlo nientemeno che a un ripensamento.

I firmatari in sostanza affermano che qualunque cosa Benedetto XVI dica o faccia ad Assisi, i media distorceranno il suo messaggio. Prendersela con la disonestà dei media ovviamente è l’unico modo possibile per dire, senza offendere direttamente il Papa, che da Assisi uscirà inevitabilmente un messaggio di relativismo religioso.

È questo infatti l’unico senso che può avere un incontro degli esponenti delle varie religioni per pregare assieme. Alla base vi è ovviamente l’idea che in questo modo si abbia più forza per indurre Dio a concedere la pace; ciò a sua volta implica che sotto le varie forme con cui lo si prega vi sia un unico Dio. Ma questo è decisamente negato dalla Chiesa (così come da musulmani e da ebrei, ad esempio). Bisogna pertanto pensare che uno di questi “dèi” sia vero e gli altri falsi; ma qual è quello vero?

Per ognuno il proprio, ovviamente. Ma non è ipocrita allora starsene a guardare gli altri che pregano degli idoli? Situazione grottesca, che richiama quella dei profeti di Baal che sul Carmelo invocano a gran voce il loro Dio senza che nulla accada.

Tutto si rivela per quello che realmente è: una gigantesca commedia.

Una conclusione s’impone: se da ogni incontro di preghiera tra gli esponenti di spicco delle principali religioni mondiali esce per forza di cose un messaggio di relativismo, ciò è dovuto al fatto che quest’ultimo è l’unico atteggiamento sensato di fronte a opposte pretese di detenere il monopolio della verità.

Il relativismo, in altre parole, è nelle cose: dipende solo in parte dal modo in cui simili manifestazioni vengono gestite. Indipendentemente dal modo in cui i media presentino l’evento - e quindi anche nell’ipotesi di un’assoluta obiettività, neutralità, onestà dell’informazione -, per il grande pubblico non può che aversi un rafforzamento inconscio delle naturali propensioni relativistiche.

Il che equivale a dire che si porta acqua al mulino della secolarizzazione. Tra le cause di quest’ultima infatti vanno senz’altro annoverati la convivenza e il conseguente quotidiano confronto di culture e religioni diverse, ciascuna delle quali ovviamente diviene sempre meno credibile nella sua pretesa di possedere in esclusiva la rivelazione dell’unico vero Dio.

Ogni prospettiva e ogni atteggiamento antirelativista è dunque, intrinsecamente, follia indifendibile. I nove firmatari della petizione non rivelano niente di nuovo: semplicemente chiedono che tale follia non sia posta sotto gli occhi di tutti, per di più con una spettacolarità mediatica straordinaria.

Dicono in sostanza che occorre tenere il più possibile nascosta l’ipocrisia di fondo che regola i rapporti tra fedi diversissime, ognuna delle quali rivendicante il monopolio della verità assoluta.

La commedia deve continuare a svolgersi a sipario chiuso.


Incoerenza

Da quanto abbiamo detto sin qui ci pare che emerga chiaramente una conclusione. La strategia di Benedetto XVI si può riassumere nei seguenti termini: antirelativismo – ossia intransigenza, dogmatismo, intolleranza – sul piano dottrinale; relativismo – e pertanto rivendicazione della libertà religiosa, il che significa tolleranza – sul piano pratico.

Detto in altre parole: mentre antirelativismo equivale a intolleranza, il relativismo implica tolleranza, e quindi libertà religiosa; ora, il papa, nemico dichiarato del relativismo, rivendica ciononostante la libertà religiosa (e quindi in pratica, come abbiamo visto, la libertà di bestemmia e il diritto di apostasia).

Potremmo parlare di relativismo demonizzato a parole ma di fatto commerciato sottobanco.

Siamo dunque di fronte a una sfacciata incoerenza, che nessuna capriola dialettica può riuscire a nascondere. Al fondo vi è la chiara percezione, da parte del pontefice, che per i cristiani in molti paesi la coerenza significherebbe, per mille motivi (dalla condizione di minoranza religiosa alla minor propensione alla violenza), una vera e propria carneficina.

Perché è tragico ma inoppugnabile: gli episodi di intolleranza religiosa, ossia i rigurgiti di violenza che mietono tante vittime cristiane, non sono altro che sussulti di coerenza; di quella stessa implacabile coerenza che muoveva la mano di Elia impegnato a sgozzare sul Carmelo i 450 profeti di Baal.

Sono trionfi della follia antirelativista.


Alberto Pento

La violenza generica della parola che condanna non è paragonabile alla violenza specifica della mano che uccide.

Il fondamentalismo cristiano non è paragonabile a quello islamico, Cristo non ha torto l'ala ad una mosca mentre Maometto ha sterminato personalmente centinaia di persone.
Essere tolleranti non significa tollerare chi fa del male, terrorizza e uccide
Il fatto che nella Bibbia vi siano stati crimini di intolleranza e di violenza religiosa non significa che i cristiani e gli occidentali non cristiani debbano accettare, tollerare e subire la violenza criminale dell'Islam e del suo nazismo maomettano.
I "crimini" preistorici degli ebrei e i "crimini" storici dei cristiani (non però sull'esempio di Cristo e sulle prescrizioni evangeliche) non giustificano e non sminuiscono i crimini attuali dell'Islam e non impediscono ai cristiani e ai non più cristiani atei e aidoli di trattare l'Islam e la sua violenza razzista e nazista con la dovuta maniera per difendere la nostra vita e i nostri valori.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
Avatar utente
Berto
Site Admin
 
Messaggi: 38318
Iscritto il: ven nov 15, 2013 10:02 pm

Missionarismo: debolezza spirituale e imperialismo religioso

Messaggioda Berto » gio feb 16, 2017 9:34 am

Spiritualità e religiosità non sono la stessa cosa
viewtopic.php?f=24&t=2454

Idolatria e spiritualità naturale e universale
viewtopic.php?f=24&t=2036

Libertà di pensiero, di critica e di espressione contro i dogmi e l'idolatria
viewtopic.php?f=201&t=2138

La peggio morte, morire martiri per un'idolo
viewtopic.php?f=201&t=2180

Per una carta universale dei diritti religiosi e spirituali
viewtopic.php?f=24&t=1788
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
Avatar utente
Berto
Site Admin
 
Messaggi: 38318
Iscritto il: ven nov 15, 2013 10:02 pm

Missionarismo: debolezza spirituale e imperialismo religioso

Messaggioda Berto » gio feb 16, 2017 9:48 am

Per una carta universale dei diritti spirituali e religiosi
viewtopic.php?f=24&t=1788


1
Tutti gli uomini hanno diritto alla spiritualità e a Dio.

2
Ogni religione deve avere come fondamento e principio il rispetto dei Diritti Umani Universali sia nella sua dottrina che nelle sue pratiche religiose e cultuali. La vita umana è il supremo valore per ogni religione.

3
Nessuna religione può sostenere che il suo Dio è quello vero, buono e giusto e che quello degli altri è falso e cattivo.

4
Nessuna religione può dare del miscredente, dell'infedele, del kafir agli altro credenti, ai non credenti e ai non più credenti; nessuna religione può discriminare e perseguitare gli altro credenti, i non più credenti e i non credenti.

5
Ogni uomo ha il diritto a non credere nelle religioni e a esprimere la sua non credenza e le sue critiche alle religioni.

6
Nessuna religione ha il monopolio di Dio, della spiritualità e della religiosità.

7
Nessun uomo può essere Dio o il suo portavoce o il suo vicario in terra.

8
Nessuna fede o credo o dottrina religosa può essere assunta a giustificazione della violazione dei Diritti Umani Universali.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
Avatar utente
Berto
Site Admin
 
Messaggi: 38318
Iscritto il: ven nov 15, 2013 10:02 pm

Missionarismo: debolezza spirituale e imperialismo religioso

Messaggioda Berto » ven feb 24, 2017 7:34 pm

Dice infatti Gesù agli Apostoli: «Andate e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Vangelo secondo Matteo, 28, 20).




Gesù (non) dixit Il gesuita che offende Cristo
di Antonio Livi24-02-2017

http://www.lanuovabq.it/it/articoli-ges ... s.facebook

L’intervista del generale dei gesuiti Padre Sosa, per il quale le parole di Gesù andrebbero contestualizzate perché gli evangelisti non avevano con sè un registratore, per la sua assoluta incoerenza logica, non meriterebbe alcun commento teologico ma solo una risata. Ma, trattandosi di un intervento dell’attuale generale dei Gesuiti nel dibattito sull’interpretazione di un documento pontificio così problematico come l’Amoris laetitia, si rende necessario, per responsabilità pastorale nei confronti dei fedeli ai quali l’intervista è giunta attraverso i media internazionali, un richiamo al corretto rapporto del Magistero e/o della sacra teologia con la verità rivelata, quella con la quale Dio «ha voluto farci conoscere la sua vita intima e i suoi disegni di salvezza per il mondo» (Vaticano I, costituzione dogmatica Dei Filius, 1870).

I fedeli cattolici (sia Pastori che fedeli) sanno che la verità che Dio ha rivelato agli uomini parlando per mezzo dei Profeti dell’Antico Testamento e poi con il proprio figlio, Gesù (cfr Lettera agli Ebrei, 1, 1), è custodita, interpretata e annunciata infallibilmente dagli Apostoli, ai quali Cristo ha conferito la potestà di magistero autentico per l’evangelizzazione e la catechesi. Agli Apostoli Cristo ha detto: «Chi ascolta voi, ascolta me; chi disprezza voi, disprezza me. E chi disprezza me, disprezza Colui che mi ha mandato» (Vangelo secondo Luca, 10, 16). Il valore di verità della dottrina degli Apostoli e dei loro successori (i vescovi con a capo il Papa) dipende quindi interamente dal valore di verità della dottrina di Cristo stesso, l’unico che conosce il mistero del Padre: «La mia dottrina non è mia ma di Colui che mi ha inviato» (Vangelo secondo Giovanni, 7, 16). Padre Sosa, prigioniero com’è dell’ideologia irrazionalistica (pastoralismo, prassismo, storicismo) è allergico alla parola “dottrina”, ma non si rende conto che con questa sua stolta polemica offende non solo la Chiesa di Cristo ma Cristo stesso.

Tanto è essenziale la potestà di magistero (munus docendi), che Cristo ha conferito agli Apostoli unitamente alla potestà di amministrare i sacramenti della grazia (munus sanctificandi), con i quali gli uomini possono essere santificati, cioè uniti ontologicamente (non solo moralmente) a Cristo, e in Lui, nell’unità dello Spirito, a Dio che è il solo Santo. Dice infatti Gesù agli Apostoli: «Andate e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Vangelo secondo Matteo, 28, 20).

E per provvedere alle necessità spirituali dei fedeli, con la costituzione gerarchica della Chiesa, Cristo ha conferito agli Apostoli anche la missione pastorale (munsu regendi). Si capisce allora che non si può pensare a riforme “pastorali” della Chiesa in contrasto con la dottrina dogmatica e morale, come vorrebbe padre Sosa, con l’alibi delle presunte ispirazioni di un fantomatico “Spirito”, che certamente non è lo Spirito di Gesù (quello che «ex Patre Filioque procedit») perché contraddice frontalmente la sua dottrina e i sui comandamenti, anche lì dove Gesù ha parlato in modo definitivo e inequivocabile, com’è il caso del matrimonio naturale, che è indissolubile perché Dio così lo ha istituito «fin dal principio».

Non serve a niente – tanto meno all’edificazione della fede dei cattolici di oggi – sostenere con argomenti pseudo-teologici, ossia con la propaganda rivoluzionaria, le riforme dottrinali di una immaginaria “Chiesa di Bergoglio”: i fedeli sanno benissimo che la “Chiesa di Bergoglio” non esiste e non può esistere, perché Dio ha voluto solo la Chiesa del Figlio suo, la Chiesa di Cristo, Verbo Incarnato e Capo del Corpo Mistico, sempre presente per essere l’unico Maestro, Sacerdote e Re per ogni generazione, fino alla fine dei tempi (si vedano il classico trattato teologico del cardinale Charles Journet, L’Eglise du Verbe Incarné, Desclée, Paris-Bruges 1962, e il recentissimo saggio del Prefetto della Congregazione della Fede, il cardinale Gerhrard Ludwig Müller, intitolato Der Papst – Sendung und Auftrag, Herder Verlag, Frankfurt 2017).

Non serve a niente parlare di una “Chiesa del popolo”, immaginata secondo gli schemi ideologici della sudamericana “teologia del pueblo”, dove è “la base”, “coscientizzata” dagli intellettuali organici (i teologi), quella che decide quale dottrina e quale prassi rispondono alle necessità politiche di quel momento storico e il Papa non è più l’interprete infallibile della verità rivelata e l’amministratore dei misteri salvifici ma l’interprete della volontà popolare e l’amministratore della rivoluzione permanente. Sono le aberrazioni pseudo-teologiche che si ritrovano già nella Teologia de la revolución del peruviano Gustavo Gutiérrez e che traggono origine dalla «nuova teologia politica» del tedesco Johann Baptist Metz. Il venezuelano padre Sosa, da sempre legato a questa corrente ideologica, ripropone oggi, nell’intento di sostenere servilmente le presunte intenzioni rivoluzionarie di papa Bergoglio, teorie che già quarant’anni fa, sotto papa Wojtyla, sono state condannate dal Magistero come contrarie al dogma ecclesiologico.

Nemmeno serve l’alibi pseudo-teologico di una nova e “aggiornata” interpretazione della Scrittura, capace di contraddire perfino le «ipsissima verba Christi» e capace poi di squalificare come “fondamentalisti” quanti nella Chiesa (non solo i teologi come Carlo Caffarra ma anche i Papi come san Giovanni Paolo II) stanno al significato ovvio e vincolante degli insegnamenti biblici. Questi sofismi possono far presa sull’opinione pubblica cattolica meno fornita di criteri di discernimento: ma sono stati già da tempo decostruiti e smentiti punto per punto dai documenti del Magistero recente e dalla critica teologica (vedi il mio trattato su Vera e falsa teologia, Leonardo da Vinci, Roma 2012).

Noi cattolici sappiamo di dover leggere l’Antico e il Nuovo Testamento alla luce della dottrina della Chiesa, perché è proprio della Chiesa che ci ha dato la Sacra Scrittura, garantendone l’ispirazione divina, ed è essa che ne fornisce l’interpretazione autentica, ogni qual volta un’interpretazione è necessaria per renderne comprensibile il messaggio salvifico agli uomini di un determinato contesto storico-culturale.

Noi cattolici, a differenza di Lutero e di tutti quei protestanti che ne hanno seguito la metodologia teologica (radicalmente eretica), non ci basiamo sull’illogico principio della «sola Scriptura» e del «libero esame», e non vediamo alcun motivo logico di opporre la Bibbia al Magistero e il Magistero alla Bibbia. Noi cattolici abbiamo motivo di credere, al di là di ogni ragionevole dubbio, all’autorità dottrinale della Chiesa che ci ha consegnato la Sacra Scrittura, assicurandoci del fatto che essa è veramente la «parola di Dio», in quanto Dio stesso ne è l’autore principale e gli agiografi, che hanno scritto sotto l’ispirazione dello Spirito Santo, ne sono gli autori secondari o strumentali.

Ciò significa, contro il relativismo professato da padre Sosa, che ciò che si legge nella Sacra Scrittura è assolutamente vero, è la verità dei misteri soprannaturali che Dio ci ha rivelato gradualmente, per mezzo dei profeti, e poi definitivamente nella persona stessa di Dio Figlio. Si deve tener sempre presente che i testi scritturistici, pur contenendo la rivelazione dei misteri soprannaturali, di per sé ineffabili, forniscono ai credenti quel tanto di conoscenza (analogica) del divino che permetta loro di trovare in Cristo «la via, la verità e la vita».

Per questo loro essenziale scopo salvifico i testi scritturistici non sono “aperti” a ogni possibile interpretazione, anche in contraddizione con il loro significato testuale, che di norma è chiaro ed inequivocabile (lo stesso significato chiaro ed inequivocabile che hanno le formule dogmatiche che nei secoli la Chiesa è andata definendo). Non è vero quello che sosteneva alcuni decenni or sono il protestante svizzero Karl Jaspers, ossia che «nella Bibbia, dal punto di vista dottrinale, si può trovare tutto e il contrario di tutto».

Quando avviene che il significato testuale di un passo scritturistico sia suscettibile di diverse interpretazioni, è la Chiesa stessa che provvede a fornirne un’interpretazione “autentica”, ossia conforme all’insieme organico di tutta la dottrina rivelata (analogia fidei). Qualora poi la Chiesa non sia intervenuta a fornirne un’interpretazione “autentica”, i teologi sono liberi di proporre le loro personali ipotesi di interpretazione, tutte legittime purché compatibili con il dogma.

Il generale dei Gesuiti si riferisce irresponsabilmente a pericopi evangeliche, nelle quali è testualmente contenuta la dottrina rivelata sul matrimonio, dicendo che si tratta di parole di uomini (gli agiografi), trasmesse da altri uomini (gli Apostoli e i loro successori) e interpretata da altri uomini ancora (i teologi). Insomma, per lui non è mai la Parola di Dio! In un sol colpo padre Sosa riesce a rinnegare tutti i dogmi fondamentali della Chiesa cattolica, a cominciare da quello della divina ispirazione della Scrittura, da cui derivano le proprietà di “santità” e di “inerranza” degli insegnamenti biblici (richiamati da Pio XII nel 1943 con l’enciclica Divino afflante Spiritu e poi riproposto dal Vaticano II nel 1965 con la costituzione dogmatica Dei Verbum), per finire con quello dell’infallibilità del magistero ecclesiastico quando definisce formalmente le verità che Dio ha rivelato per la salvezza degli uomini (definito nel 1870 dal Vaticano I con la costituzione dogmatica Pastor Aeternus e riproposti anche dal Vaticano II con le costituzioni dogmatiche Lumen gentium e Dei Verbum).

Riducendo la Scrittura a «espressione della coscienza della comunità credente di altri tempi», a padre Sosa sembra logico di dover sostenere la necessità di una nuova interpretazione del messaggio biblico alla luce della «espressione della coscienza della comunità credente» di oggi. Ma questo è logico solo se si professa l’«anarchia ermeneutica», quella che ha portato un teologo luterano come Rudolf Bultmann a proporre la «de-mitologizzazione» del Nuovo Testamento. Invece, per la fede cattolica (che fino a prova contraria dovrebbe essere quella del generale dei Gesuiti), è del tutto illogico suppore che la Scrittura non insegni sempre e soprattutto delle verità divine indispensabili per la salvezza degli uomini di ogni luogo e di ogni tempo. Solo chi accetta in toto l’eresia luterana può supporre che non esista quello che io chiamo il «limite ermeneutico invalicabile», ossia l’individuazione (immediata, accessibile a tutti) di un ben preciso contenuto dottrinale, che nessuna interpretazione può negare o mettere in ombra. Questo è il caso, per l’appunto, della dottrina evangelica sul matrimonio e l’adulterio.

Capisco (anche se la depreco) l’intenzione di padre Sosa di sostenere la (presunta) rivoluzione pastorale di papa Bergoglio relativizzando il dogma, per poter contraddire nella prassi quanto la Chiesa ha stabilito ormai definitivamente con la dottrina sui sacramenti del Matrimonio, della Penitenza e dell’Eucaristia. Ma ragioniamo: eliminando il dogma, su quale base si dovrebbe dar ascolto a un Papa, il quale – secondo l’interpretazione ufficiosa di Sosa e di tanti altri teologi ossequiosi – ha messo il dogma da parte?

Se non è assolutamente (non relativamente) vero – oggi come ieri e come domani – che Cristo ha dato al Papa la suprema potestà nella Chiesa, per quale motivo dovemmo ascoltarlo e obbedirgli? E noi sappiamo proprio dalla Sacra Scrittura (sulla quale si basano i dogmi enunciati dal Magistero, dai primi secoli fino al Vaticano I) che Cristo ha dato al Papa la suprema potestà nella Chiesa; ora, se si applicasse a questa volontà espressa di Cristo il criterio relativista di Sosa, allora ci sarebbero cattolici che venerano e rispettano il Papa e altri che lo ignorano o lo combattono. Gli uni e gli altri per motivi non teologici, ma ideologici, cioè politici. Fedeli a papa Bergoglio sarebbero solo quelli che lo seguono come si segue in politica un leader “carismatico” e non si tratterebbe certamente del carisma divino dell’infallibilità nella dottrina, ma del carisma umano del capopopolo che con le sue parole e i sui gesti ottiene consenso nelle masse.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
Avatar utente
Berto
Site Admin
 
Messaggi: 38318
Iscritto il: ven nov 15, 2013 10:02 pm

Missionarismo: debolezza spirituale e imperialismo religioso

Messaggioda Berto » sab mar 04, 2017 9:04 pm

Naltri no semo piegore e valtri no si pastori
viewtopic.php?f=199&t=2154
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
Avatar utente
Berto
Site Admin
 
Messaggi: 38318
Iscritto il: ven nov 15, 2013 10:02 pm

Missionarismo: debolezza spirituale e imperialismo religioso

Messaggioda Berto » lun mar 13, 2017 9:10 pm

Silence
13 marzo 2017

http://www.uccronline.it/2017/03/13/il- ... o-minaccia

L’ultimo film di Martin Scorsese, intitolato Silence, è da vedere. Il messaggio che trasmette è discutibile nel suo relativismo, tuttavia appaiono nascosti spunti davvero validi ed ha il merito di generare riflessioni ben più profonde rispetto alle abituali proposte cinematografiche.

Senza svelare la trama, è la storia di due padri gesuiti che nel 1638 partono per il Giappone in ricerca del loro maestro spirituale, padre Ferreira, rifiutandosi di credere che abbia davvero abiurato alla sua fede a causa della persecuzione subita. Arrivati a destinazione incontrano la nascosta comunità cristiana che da anni vive priva di sacerdoti, morti come martiri. Loro stessi subiscono persecuzioni che lo shogun, il dittatore giapponese, applica ai danni dei cristiani e dei convertiti, venendo sfidati ripetutamente a rinnegare la fede.

Il ricatto che subiscono dalle autorità giapponesi è psicologicamente devastante: abiurare la fede in Cristo, calpestare la Sua immagine posta simbolicamente ai loro piedi, per salvare la vita dei fratelli cristiani che hanno incontrato. Lo spettatore si immedesima e si domanda: “ed io, cosa avrei fatto?”. “Se oggi venissi sfidato da un terrorista islamico come mi comporterei?”

E’ a questa domanda che padre Angelo Bellon, docente di teologia morale nel seminario dell’arcidiocesi di Genova, ha voluto rispondere. Oltre al dovere della testimonianza in prima persona (ma non del proselitismo, come insegnano Benedetto XVI e Francesco), Gesù ha indicato il criterio della prudenza: tollerare alcuni mali per evitarne più grandi. «Se vi perseguitano in una città, fuggite in un’altra» (Mt 10,23), e Lui stesso ne ha dato l’esempio (Gv 8,59 e 10,39), imitato dagli apostoli (2 Cor 11,33; At 12,8-11). «Vi possono essere momenti (ad es. in tempi di persecuzione)», ha spiegato padre Bellon, «in cui è più prudente non manifestare pubblicamente la fede. In certi casi, come nell’eventualità di essere scoperti e denunciati, vi può essere anche l’obbligo di derogare dalle leggi ecclesiastiche che non obbligano mai con grave incomodo».

E’ quindi lecito togliere il crocifisso dal collo per evitare di attirare le attenzioni di eventuali sequestratori islamici, così come nascondere i simboli cristiani per evitare di venire scoperti, come fa la comunità sotterranea giapponese nel film di Scorsese. «I precetti morali positivi che comandano di testimoniare la fede», ha continuato il teologo domenicano, «obbligano sempre ma non in ogni momento. Qui è lecito occultare il crocifisso per salvare la propria vita necessaria alla famiglia, alla Chiesa e alla società». Obbedire non sarebbe rinnegare Dio, ma cessare di compiere un atto che non è strettamente richiesto. Ma il cristiano, di fronte alla richiesta di una esplicita abiura non può rinnegare la verità, anche esponendosi al martirio. Gli stessi apostoli hanno preferito morire piuttosto che tradire, imitati da tanti santi e sante che «hanno testimoniato e difeso la verità morale fino al martirio, perché non è mai lecito rinnegare la fede e per questo si deve essere disposti a testimoniare la verità fino al martirio».

Anche il teologo Stefano Biavaschi, da noi contattato, ha confermato: «Un conto è rinnegare la propria fede, un conto è evitare di indossare segni sacri, cosa che in fondo non è prescritta dal Vangelo. Uno può essere un ottimo cristiano anche senza indossare segni sacri. Si può scendere fino al gradino più basso del compromesso con l’altro (togliersi un crocifisso) ma mai fino allo stato di abiura. Tra l’altro il film di Scorsese mostra chiaramente due cose: 1) chi abiura non trova la pace, e sente urgente bisogno di confessarsi: segno che lui stesso si percepisce in stato di peccato. 2) verso chi si costringe ad abiurare non ci si limita nella richiesta di un singolo gesto (calpestare un’immagine, peraltro talvolta nemmeno benedetta ma fatta dal nemico stesso come strumento di abiura, e quindi semplice prodotto di arte umana che potrebbe al limite – ma proprio al limite – indurci a far nostro quanto disse addirittura un papa: “come legno ti spezzo, ma come Cristo ti adoro”) ma a chi abiura si richiede nei fatti una abiura continua, ripetuta nel tempo, che vada oltre la debolezza del momento per diventare scelta effettiva, che coincide con il rinnegamento vero e proprio della fede».

Questo perché, ha proseguito Biavaschi, «l’abiura, alla fine, modifica la persona, la distacca da Dio inizialmente per un senso di colpa verso di Lui, e successivamente per una retrocessione dei pensieri alti, fino al coinvolgimento di tutti i pensieri e tutti i valori: se ho piegato il pensiero più alto (“credo in questo Dio”) ancor più si piegheranno tutti i pensieri ed i valori rimasti. Alla fine l’abiura diventa quindi non quella del singolo gesto (calpestare un’immagine) ma quella di un’intera vita (calpestare l’opzione di fondo). Ecco perché la Bibbia ci mostra come modello Gesù, che non ha negato la sua figliolanza con Dio, anche se questo gli provocò sia la morte sia lo strazio della madre e di quanti lo amavano».


Un silence che ci parla
di Maurizio Crippa

http://www.ilfoglio.it/cultura/2017/01/ ... rla-115549

L’attimo rivelatore di Silence non è il piede che calpesta l’immagine sacra, il fumie, l’istante supremo, o infimo, dell’apostasia. L’attimo rivelatore è un controcampo. Non il controcampo che arriva verso la fine, quando padre Rodrigues beve a un ruscello, e l’acqua rimanda il suo volto doloroso e stremato, finché dall’acqua, a guardarlo, si compone l’immagine del Cristo coronato di spine del Greco. L’immedesimazione finalmente totale, l’Imitatio Christi quasi davvero compiuta. Anche se la postura del corpo è quella di Narciso, e pour cause, e il volto del giovane prete cristiano è straziato dal riso e dal pianto. Il controcampo rivelatore è molto prima. Padre Rodrigues e il suo compagno padre Garupe si riposano un istante, sfiniti, fuori dalla capanna nascosta nel bosco. Smarriti, dubbiosi, braccati. Sopra il bosco vola per un attimo un falco. Qualcuno pronuncia la parola “Dio”. Dall’altra parte della piccola valle, vedono due figure tra gli alberi. Due contadini. Due uomini stenti, due kakure kirishitan, i “cristiani nascosti”. Guardano verso di loro. I due gesuiti hanno paura. Ma si riconoscono. Anzi si sentono riconosciuti. Perché sono lì, quei due contadini emaciati, a rischio della vita? Perché prima qualcuno era venuto. Altri uomini, altri cristiani. E avevano fatto di loro dei cristiani. E loro erano rimasti fedeli a quella comunione indissolubile tra chi è venuto a portare la fede e chi l’ha conservata. Perché erano andati in Giappone, padre Sebastião e padre Francisco? Si erano detti: per ritrovare il loro antico maestro padre Ferriera, che forse si era perduto nelle persecuzioni, forse aveva rinnegato. Ma ora si vedono, sono visti da quei poveri kirishitan randagi. Sono lì perché sono cristiani, e qualcuno li aveva fatti cristiani.

C’è una voce fuori campo, mentre nella miserabile baracca del villaggio i due celebrano di nascosto una messa senza paramenti, ascoltano le confessioni di parole che non capiscono. La voce dice: in mezzo a immani sofferenze, questi poveri contadini si erano fatti cristiani perché per la prima volta qualcuno li aveva trattati da uomini, non da bestie o da cose. Avevano trovato il loro valore assoluto. Non l’avrebbero abbandonato mai, il loro “pariaiso”, a costo della vita. La persecuzione dei cristiani nel Giappone del Cinque e Seicento fu spietata e terribile. Qualche decennio dopo l’arrivo di Francesco Saverio i cristiani erano quasi trecentomila. Qualche decennio dopo il massacro dei martiri di Nagasaki, nel 1597, l’episodio da cui prende le mosse il film, erano rimasti poche migliaia. Braccati. Costretti all’apostasia per il sospetto nutrito dallo shogunato Tokugawa, appoggiato dalla casta dei monaci buddisti, che la diffusione del cristianesimo fosse un’arma surrettizia della penetrazione di stati stranieri. È di questo, non della dottrina, che il Potere ha paura.

Nel Giappone feudale come in altri luoghi del mondo il cristianesimo è odiato perché è venuto a disturbare, a portare “il più grande disordine che ci sia stato nel mondo. Il più grande ordine che ci sia stato nel mondo”, come direbbe Péguy. Il che insegna che i cristiani, dai tempi di Nerone, sono sempre stati perseguitati per politica, e dal potere politico. Che poi spesso ammanta se stesso di motivi religiosi. Da questo punto di vista, il buddismo non è meglio dell’islam. Il che, nell’anno centenario dell’Ottobre rosso e di Fatima, insegna anche che ogni epoca, per i cristiani, ha un Nemico assoluto che poi assoluto non era. Ce ne saranno altri. C’è una domanda che Martin Scorsese lascia sotto traccia, ma balza evidente da ogni immagine. Perché mai dei pescatori, dei contadini giapponesi del Seicento si erano fatti cristiani, e custodivano la propria fede a costo del martirio? Così come oggi a Ninive dei cristiani, forse non così ferrati in dottrina e dialettica, si sono fatto crocifiggere alle porte delle loro case? Per nessun altro motivo, forse, se non per l’essere stati raggiunti da un messaggio che ha parlato loro di salvezza. Di felicità persino. Così come non c’è altro motivo in grado di spiegare perché nel volgere di pochi decenni decine di migliaia di schiavi, di marinai, di soldatacci e disperati persi in ogni suburra o angiporto dell’impero romano abbiano abbracciato, nel mercato di tutte le religioni allora disponibili, il cristianesimo. E l’abbiano testimoniato con poche parole e molto sangue.



https://www.facebook.com/giovanni.raimo ... 8569917924

Alberto Pento
Forse non si tratta di rinnegare D-o, ma caso mai di rinnegare una interpretazione di D-o (in questo caso quella cattolica dei missionari), quindi la propria interpretazione o fede religiosa che se scambiata per D-o diventa una fede idolatra. In realtà o in verità si tratta di rinnegare un idolo, il proprio idolo, più che D-o poiché D-o (il Creatore Universale) non è rinnegabile e la sua esistenza non dipende da noi e dall'uomo. Nessuno può farci rinnegare D-o o rinnegare D-o; ciò che è rinnegabile è soltanto l'idolo delle religioni. Ho letto questo libro tanti anni fa e mi è parso che la scelta fosse tra l'amore per la vita dei giapponesi convertiti e imprigionati assieme ai missionari e l'amore per il loro idolo e la loro fede cristiano cattolico romana.

Giovanni Raimondo
Bhè, se leggi l'articolo capirai... L'articolo è chiaro. Niente idolatria e poi basta con questa cosa che non ha senso.... Dovresti argomentare con fatti storici, non con le tue convinzioni personali che non hanno niente di vero alla fine...

Alberto Pento
Caro Giovanni l'ebreo rabbino Cristo Dio è Dio solo per i cristiani; per i non cristiani, i diversamente religiosi, per gli agnostici, gli aidoli come me e per li atei Cristo non è D-o ma un'intepretazione, tra le tante, della divinità e quindi null'altro che un idolo. Non volermi troppo male per queste mie parole. Mi par di ricordare questi missionari europei in cella, tormentati dai lamenti dei giapponesi convertiti e torturati, che ad un certo momento sceglievano di abiurare per amore dell'uomo sofferente. Questa è vera e buona umanità ricca di spirito universale. Una grande lezione di vita e di spirito per questi presuntosi missionari cristiani.

Giovanni Raimondo
Non è vero. Che sei cristiano, ateo, buddista ecc, non importa. La storia parla di Gesù e di fonti storiche ce ne sono a quantità... Uno secondo me, dovrebbe essere obbiettivo ma sopratutto essere sicuro di quello che dice, cioè avere dalla sua parte, le prove che testimoniano la sua posizione...

Alberto Pento
Di che prove parli? D-o non ha bisogno di prove. Ciò di cui parli tu riguarda la retorica parabolica e teologica dell'idolatria cristiana. Confondere un personaggio storico con D-o è pura idolatra e un'assurdità spirituale, non serve nessuna prova.

Giovanni Raimondo
Parlo di analisi storica che parla di Cristo senza ma e però..

Alberto Pento
Questi missionari cristiani europei erano degli invasori del Giappone. Il shogun giapponese non può essere paragonato ai terroristi islamici che invadono le terre degli altri per conquistarle e sottomettere i popoli. Il shogun o autorità giapponese era a casa sua con il suo popolo, erano i missionari cristiani ad essere fuori luogo a provocare e a procurare rogne.

Giovanni Raimondo
Bhè, il missionario va a convertire, non a invadere. Se è entrato nel Giappone, è poichè il governo ha acconsentito... Quando la presenza cristiana è diventata scomoda per via delle conversioni che c'erano, allora misero fine alla cristianità, attuando metodi di persecuzione....

Alberto Pento
Il missionario di un tempo andava a sovvertire l'ordine politico-religioso e pertanto veniva osteggiato, perseguitato e a volte cacciato o ucciso.

Giovanni Raimondo
Non è vero almeno per quanto riguarda il Cristianesimo. Rispettavamo sempre le leggi dello stato...

Alberto Pento
Ricordo quando secoli fa vennero cacciati i gesuiti da Venezia, quanto i Papi romani scomunicavano Venezia. I missionari saveriani in Giappone vi erano entrati di frodo.

Giovanni Raimondo
Il missionario va convertire, non a fare politica...

Alberto Pento
La diffusione del cristianismo in buona parte dell'Europa è stata imposta con la violenza dal potere politico e con la persecuzione dei diversamente religiosi. Non dimentichiamo la persecuzione e lo sterminio degli ebrei che lo testimonia.
Interessante è fare un confronto di civiltà e di civismo tra il Giappone e l'Italia attuali con tutto il portato e l'influenza religiosa che rispettivamente hanno avuto, dal buddismo-shintoismo per il Giappone e il cristianismo cattolico romano per l'Italia.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
Avatar utente
Berto
Site Admin
 
Messaggi: 38318
Iscritto il: ven nov 15, 2013 10:02 pm

Missionarismo: debolezza spirituale e imperialismo religioso

Messaggioda Berto » dom mag 14, 2017 7:16 pm

Silence, venga il regno di Scorsese e sia fatta la sua volontà
Simone Tarditi
https://verocinema.com/2017/01/17/silence-scorsese

Silence di Martin Scorsese non è una celebrazione di Dio, ma dell’uomo, e allo stesso tempo è l’opera più depistante di tutta la filmografia del regista, pur nel suo rigore assoluto nella forma e nella composizione delle immagini. Forse ha ragione Irwin Winkler, mogul hollywoodiano e finanziatore del film, a definirlo il film più bello che finora Scorsese abbia fatto. Sforzo, costanza, precisa forza di volontà hanno reso possibile la realizzazione di Silence, facendolo uscire da una palude produttiva che ne ha ritardato le riprese per anni, e ora che il film può finalmente scorrere di fronte ai nostri occhi, con sé porta alla luce, nella maniera più accecante possibile, tutti quegli elementi che non solo possono essere rintracciati da sempre nella filmografia di Scorsese, ma che costituiscono prima di tutto ciò che noi esseri umani siamo: imperfette e fragili creature in lotta con Dio e in cerca di risposte.

INTROITUS

Di Silence, il romanzo scritto da Shusaku Endo da cui Martin Scorsese ha tratto il suo film, esiste già una riduzione per il grande schermo e una versione operistica. Distribuito dalla Toho, casa di produzione cinematografica giapponese famosa soprattutto per tutta la serie di film su Godzilla, il Silence diretto da Masahiro Shinoda non piacque per niente al romanziere, il quale -nonostante sia accreditato come sceneggiatore del film- non ebbe nessuna voce in capitolo sull’ultima stesura della sceneggiatura e litigò col regista che stravolse il finale del suo testo. Edito nel 1966, il libro fu oggetto di attacchi da parte della schiera di cattolici in Giappone e qualche anno più tardi, nel 1971, fu lo stesso Endo ad attaccare il film che portava quel nome e che poco aveva a che spartire con le pagine che lui aveva scritto.

Che Shusaku Endo fosse ancora dispiaciuto per il trattamento riservato al suo romanzo più famoso o che avesse semplicemente voluto far sì che una nuova generazione, più di vent’anni dopo, potesse entrare in contatto con la storia da lui narrata, decise di portare in scena un adattamento operistico di Silence da lui stesso curato insieme al compositore Teizo Matsumura: una rappresentazione in due atti avvenuta presso il Nissay Theater di Tokyo nel novembre del 1993, filmata e trasmessa dalla NHK, il corrispettivo giapponese della nostra RAI. Pare che Matsumura ed Endo abbiano lavorato per oltre tredici anni all’opera e d’allora è spesso stata riportata in scena, ottenendo sempre un grande successo.

In quegli stessi anni, per la precisione nel 1988, il reverendo Paul Moore, ai tempi vescovo dell’Arcidiocesi di New York, diede una copia del romanzo di Shusaku Endo a Martin Scorsese, che iniziò a sviluppare un’ossessione per quella storia che da quel momento l’avrebbe accompagnato per tutta la vita. Senza entrare nei dettagli della causa legale intentata dalla Cecchi Gori Group ai danni del regista per non aver rispettato il contratto di realizzare una nuova versione del film sotto quella casa di produzione o senza addentrarsi nella ridda di attori che si sono succeduti nel corso dei decenni nel cast, da Daniel Day-Lewis a Ken Watanabe, basti solo sapere che Scorsese c’ha messo una vita a realizzare Silence.

Shusaku Endo, nel frattempo, è morto nel 1996. Silence di Martin Scorsese, uscito esattamente vent’anni dopo, con una lavorazione lunga quasi quanto quella della versione operistica curata dal romanziere e da Matsumura, non solo può essere considerato finalmente un adattamento fedele del romanzo di Endo, ma ha ridato voce ad una dolorosa, spirituale e formativa esperienza umana che non deve e non può essere categorizzata all’interno della semplice parabola religiosa. Silence è un percorso di perdita e di rinnovamento, d’illusione e di svelamento, di scoperta e di accettazione le cui ramificazioni, tanto in Endo quanto in Scorsese, sono così profonde da rendere possibile e chiaro solo ciò che si manifesta in superficie. Ed è già abbastanza.

Shusaku Endo

QUAESIVI ET NON INVENI

Lett.: “(Ti) ho cercato e non (ti) ho trovato”. L’arrivo in Giappone di Garrpe (Adam Driver) e Rodrigues (Andrew Garfield), i due preti gesuiti che da Macao salpano per andare alla ricerca di Cristóvão Ferreira (Liam Neeson), è paragonabile a quello di due bestioline strappate dalla loro terra e gettate in un mondo a loro completamente sconosciuto. Il poster del film sfiora, in tal senso, la perfezione: la figura sagomata di Ferreira si erge nera come la pece, fuoriesce da un banco di nebbia e ingloba dentro di sé le minuscole figure dei due preti mentre sullo sfondo il cielo minaccia tempesta.

In questa mission, che Garrpe e Rodrigues hanno profondamente voluto, sono guidati dalla Fede e si devono fidare di una guida, l’ubriacone e tormentato Kichijiro (Yôsuke Kubozuka). Fin dal loro sbarco in terra nipponica, l’ansia di essere scoperti e il terrore del non sapere nulla su quel luogo li spinge a trovare rifugio l’uno nell’altro: i due uomini si stringono tra loro, si abbracciano nel buio della notte, si confortano in preghiere rassicuranti, sono come due cuccioli tolti per loro stessa richiesta -il “superiore”, padre Valignano (Ciarán Hinds), era contrario a questa spedizione- dal caldo ventre materno della Chiesa, che imparano a camminare per la prima volta da soli. L’apparizione di Ichizo (Yoshi Oida) nella grotta, capo spirituale del villaggio di Tomogi dove viene segretamente praticato il Cristianesimo, darà di fatto inizio al vero percorso esistenziale e spirituale dei due preti.

Silence dissemina numerosi interrogativi: il Giappone è una terra in grado di ospitare il Cristianesimo? Come poter contrastare le persecuzioni ai danni dei cristiani? Dio come può permettere le atrocità del mondo? Dio è in grado di ascoltare le suppliche dei fedeli? Dio può perdonare un credente che abbandona la Fede? Ma la domanda che sembra pervadere più di tutte il cuore dei protagonisti è anche quella più immediata e alla base di tutto: Dio esiste davvero?

Che il dialogo con Dio sia solo un soliloquio tra un credente e se stesso e che le preghiere si perdano nel silenzio oppure che non sia così, rimane comunque sotto gli occhi di Garrpe e Rodrigues che migliaia di cristiani giapponesi perseguitati ed incapaci di rinnegare il nome di Dio, vengono torturati crudelmente fino a quando non sopraggiunge la morte o giustiziati pubblicamente, in modo che serva da lezione per quelli che invece sono stati risparmiati, senza che nessuno possa efficacemente fermare questo massacro. Perché Dio, di fronte a tutto questo, non cala la sua manina e salva i suoi figli?

Ecco che la Fede dei due gesuiti inizia a vacillare. Il primo che sembra cedere è Garrpe, che già nei giorni trascorsi nascosti nella capanna del carbone inizia a mostrare segni d’insofferenza e a dubitare sul senso della loro missione e, senza mai portare i suoi ragionamenti all’estreme conseguenze, sulla presenza di Dio su quella terra. Rodrigues, invece, sembra reggere meglio i colpi e resiste più a lungo, spinto da un desiderio di scoperta della verità per far luce sulla scomparsa di padre Ferreira, anche a costo di accantonare la Fede per qualche attimo in vista di un pericolo mortale: emblematico il momento di rottura tra i due preti quando Rodrigues dice ai contadini giapponesi che “calpestare il fumie va bene”, fiducioso che Dio li perdonerà per un gesto che non intacca il loro credere, ma appena finisce la frase Garrpe lo fulmina con lo sguardo dicendogli che no, non va bene.

Va a finire che i poveri abitanti di Tomogi il fumie lo calpestano come Rodrigues ha detto di fare (tra l’altro, l’efficace scelta di registica di non far sporcare l’immagine sacra nonostante il fango attaccato ai loro geta conferma quanto detto poc’anzi: la Fede autentica non può essere corrotta da un gesto compiuto, ma non sentito), ma quando viene intimato loro di sputare a turno su una croce, questi -tranne Kichijiro- non riescono a farlo e vengono puniti con l’affogamento della marea dopo essere stati messi su di una croce.

Grosso modo da questo punto in avanti, Silence diventa quasi totalmente un film su Rodrigues e sul suo rapporto con la Fede. Se nelle prime ore in Giappone lo spaesamento era dovuto al non conoscere quel luogo, dal momento in cui i due preti prendono vie separate, lo smarrimento di Rodrigues diventa quello nei confronti della Fede, un’ossessione che va oltre la sofferenza fisica (sua, ma soprattutto quella inflitta agli altri). Il prete è tormentato, si sente tradito, sembra perdere ogni punto di riferimento e semplicemente non è pronto a quello che sta vivendo, e come potrebbe esserlo d’altronde. Non riesce a credere che Ferreira abbia potuto abiurare, dubita dell’esistenza del Paradiso (la favoletta di un luogo migliore, senza tasse e senza lavoro, riescono a bersela i cristiani giapponesi: si nutrono degli insegnamenti biblici senza rendersi conto che il veleno insito in essi li sta prematuramente portando alla morte), ma soprattutto inizia a realizzare che le radici del Cristianesimo possono solo marcire in quella terra paludosa, che giorno dopo giorno lo sta risucchiando dentro di sé.

INQUISITIO

Con denti da Provolino e un’artrite che ingessa i movimenti del corpo, il volto del Male in Silence è quello di Inoue Masashige (Issei Ogata), vecchio samurai e ora governatore persecutore di tutti i giapponesi convertiti al Cristianesimo. La mostruosità e il sadismo di Inoue sono al servizio dello shogun, che ha decretato l’annientamento di ogni forma religiosa estranea al buddismo. L’attuazione di questo piano avviene con una modalità simile a quella del go, un gioco da tavolo di origine cinese che in Giappone ha goduto di enorme successo (Yasunari Kawabata ne ha fatto l’argomento principale di uno dei suoi romanzi più importanti: Il maestro di go). Obiettivo del go non è la distruzione dell’avversario tramite eliminazione dei suoi pezzi, cosa che invece avviene negli scacchi o nella dama, ma il progressivo “soffocamento” delle sue pedine attraverso conquiste territoriali lungo il tavoliere utilizzato (goban), utilizzando strategie complesse e partite che possono durare giorni interi.

Quando al temibile governatore viene riferito della presenza dei due preti e poi quando questi vengono fatti prigionieri, Inoue né li uccide né sembra avere intenzione di farlo, ma li sottopone ad una tortura psicologica inaudita: decapita, fa crocifiggere, fa affogare alcuni cristiani per spingere quei due rappresentanti di Dio all’abiura, un atto che può far interrompere (e, di fatto, lo farà) quella sfilza di omicidi. La morte di Garrpe non può essere considerata come un atto deliberatamente voluto da Inoue, ma come una conseguenza (quasi) imprevista in grado di produrre in Rodrigues l’effetto sperato. Ampiamente nutrito, ben vestito, tenuto all’interno di una cella singola e da solo, Rodrigues diventa pedina immobile sulla scacchiera di Inoue fino all’apice dell’insopportazione di quella condizione e alla scelta dell’abiura.

Un’immediata esecuzione di Rodrigues non avrebbe significato la stessa cosa. La vittoria di Inoue si realizza giorno dopo giorno, a piccole mosse, come quei tagli dietro le orecchie che portano ad una lentissima morte per dissanguamento. C’è la volontà di annientare lo spirito dell’avversario e nient’altro che quello. La ferocia e la crudeltà non sono gli unici strumenti utilizzati per ottenere questo scopo. Il modo stesso con cui vengono denominati i cristiani sembra volutamente essere una tentativo di deformare la loro fede religiosa: i credenti vengono chiamati Kirishitans, invece che Christians. È possibile che questa modificazione nella pronuncia tra le due lingue sia dovuta al fatto che in quella giapponese il ch venga addolcito in una sorta di ci, ma non sarebbe comunque un unicum assistere nella storia dell’umanità ad una storpiatura lessicale del vocabolario di un popolo al fine di farlo sentire inferiore. Privare qualcosa della sua identità è un’arma di un’efficacia spaventosa.

Al di là dell’orrore descritto in Silence, è possibile a tutti gli effetti dare torto alla decisione di estirpare ogni focolare di Cristianesimo in Giappone? Gli stessi cristiani, in altre epoche e in altri territori, non sono stati protagonisti a loro volta di stermini e soggiogamenti di popoli di diversa fede? La Chiesa non si è resa colpevole di altrettanti spaventosi episodi con l’Inquisizione? La storia delle religioni non conosce pace, né ieri, né oggi, né mai. Sia Endo sia Scorsese non prendono una posizione che stia da una parte o da un’altra semplicemente perché non è il loro intento, nonostante entrambi provengano da un’educazione cattolica. La componente spiritual-religiosa, che apparentemente sembra sfociare qua e là in didascaliche forme di stretta partecipazione alle vicende, va inquadrata all’interno delle due opere di finzione (romanzo e film), senza interpretativi voli pindarici attorno al mistero della fede, che forse è bene rimanga tale, riguardante le due figure di Endo e Scorsese.

SI CUM JESUITIS, NON CUM JESU ITIS

Lett.: “Se andate con i gesuiti, non andate con Gesù”. Un gioco di parole in latino sui gesuiti la dice lunga su quanto e soprattutto su come in passato venisse giudicato l’ordine religioso fondato da Ignazio da Loyola. Un sistema ermetico come quello della Chiesa, nel quale non sembra entrare e dal quale non sembra uscire nulla, si autodifende creando le sue regole, slegandosi quanto più è possibile dal mondo circostante e finendo con l’esistere fluttuando all’interno di un’infrangibile bolla governata da una forma di potere in grado di dettare legge all’esterno e di essere sorda allo stesso tempo. Non stupisce, ma è quantomeno curioso che la première mondiale di Silence sia avvenuta nella Città del Vaticano di fronte ad un pubblico composto da quattrocento gesuiti.

Lo stupore è relativo visto che Francesco I è il primo Papa gesuita e ha dato finora prova di una qualche eccentricità in più di un’occasione (qualche mese fa, tra qualche sparata buonista e una telefonata ad Uno Mattina, ha trovato tempo per benedire Rodrigo Santoro che ha interpretato il ruolo di Gesù Cristo nel recente ed abominevole remake di Ben-Hur), ma ciò che incuriosisce è che cinquant’anni fa il romanzo di Shusaku Endo era stato giudicato proprio dalla Chiesa come un libro che andava contro la dottrina cattolica e pertanto ogni buon credente era esortato a non leggerlo. Si sa, gli anni passano e le cose cambiano e può anche succedere che si finisca col far propri anche quegli elementi in passato attaccati e criticati, inglobandoli dentro di sé. In fondo, la coerenza è qualcosa di suscettibile agli eventi in corso.

DEFORMATIO

Nel pomeriggio il cielo, che si era rischiarato, rifletteva le nubi nelle pozze di acqua bianca e azzurrina che restavano sul suolo. Accovacciato, agitavo l’acqua per bagnarmi il collo ora inondato di sudore. Le nubi sono scomparse dall’acqua ed è comparso invece il volto di un uomo. Sì, lì, riflesso nell’acqua c’era un volto stanco e incavato. Non so perché, ma in quel momento ho pensato al volto di un altro uomo. Quello era il volto di un uomo crocifisso, un uomo che per tanti secoli aveva ispirato gli artisti. L’uomo che nessuno di quegli artisti aveva visto con i proprio occhi e di cui tuttavia ritraevano il volto: il più puro, il più bello che mai abbia ispirato la preghiera nell’uomo e abbia corrisposto alle sue più elevate aspirazioni. Non v’è dubbio che il suo vero volto fosse più bello di qualunque cosa essi abbiano immaginato. Eppure il volto riflesso in quella pozza di acqua piovana era appesantito dal fango e dalla barba incolta e ispida; era magro e sporco; era il volto di un uomo braccato dall’angoscia e dalla stanchezza. Le sembra possibile che in una circostanza simile un uomo possa essere all’improvviso colto da un accesso di risa? Ho abbassato il volto sull’acqua, ho contorto le labbra come un pazzo, ho roteato gli occhi e ho continuato a fare smorfie e facce buffe nell’acqua. Perché ho fatto una cosa simile? Perché? Perché?

(Shusaku Endo, Silence, Milano, Casa Editrice Corbaccio, p. 75)

In maniera molto più silenziosa e senza farsi troppo notare, nel 2016 è stato presentato a Cannes ed è recentemente uscito in home-video Dog Eat Dog, il nuovo film diretto da Paul Schrader, storico sceneggiatore di Martin Scorsese anni addietro, soprattutto per due pietre miliari della cinematografia mondiale come Taxi Driver e Raging Bull. Di famiglia calvinista e spesso interessato a tematiche religiose all’interno dei suoi film, Schrader non lavora da quasi vent’anni con Scorsese e non ha collaborato in nessun modo alla stesura di Silence.

Tuttavia, in Dog Eat Dog e in Silence ci sono due scene che si somigliano talmente tanto che è impossibile non notare un continuum non tanto tra i due film, quanto tra i due sceneggiatori-registi. Nei primi minuti del film di Schrader si può vedere Mad Dog (Willem Dafoe, che è stato il Gesù de L’ultima tentazione di Cristo, scritto da Schrader e diretto da Scorsese) in preda agli effetti dell’eroina sparata in vena specchiarsi in bagno, nella casa della donna con cui vive, una fervente cattolica che ha tappezzato l’abitazione con croci e immagini di Cristo, e la sua immagine riflessa si sforma assumendo aspetti mostruosi: sembra lo specchio deformante di un luna park su cui scorre dell’acqua sopra, l’effetto è straniante quasi quanto quello che succede poco dopo.

In Silence invece, dopo essersi recato al villaggio di Goto e averlo trovato devastato, senza i suoi abitanti e pieno di gatti, Rodrigues s’incammina nell’entroterra e dopo aver ritrovato Kichijiro, beve da una fonte e inizia a delirare guardando il suo volto rispecchiarsi nell’acqua e assumere smorfie grottesche e innaturali fino a fondersi e diventare un tutt’uno con il ritratto di Cristo dipinto dal pittore El Greco (l’opera è Il Velo di Santa Veronica). A questo punto occorre fare un passo indietro e tornare a Dog Eat Dog: nonostante non abbia mai recitato in nessun’altra pellicola in tutta la sua carriera, il regista Paul Schrader si è ritagliato una particina neanche tanto piccola nel suo ultimo film interpretando un malavitoso soprannominato -udite udite- proprio El Greco.

Probabilmente anche questo è solo un caso, ma sempre nel 2016 Schrader ha scritto la sceneggiatura di un film (non diretto da lui) intitolato The Jesuit, che -è giusto sottolinearlo- nulla a che vedere con le vicende narrate in Silence. Qui, più che di mistero della fede, sarebbe il caso di parlare di quanto questi due amabili settantenni, anche se su binari diversi, ci stiano comunicando qualcosa che non siamo ancora in grado di decifrare completamente. D’altronde, anche i testi sacri sono ancora pieni di significati da scoprire, ma forse è meglio non trovare tutte le risposte perché comunque alla fine della fiera, che lo si voglia o meno, sulla schiena di ognuno c’è una croce e ogni testa è cinta con una corona di spine.


Alberto Pento
Lo lessi 30 anni fa questo romanzo che ha ispirato Scorsese e mi aiutò a capire meglio tante cose sulla spiritualità e sulle credenze religiose che portano le persone a morire per degli idoli.
L'esito del romanzo è che i missionari cristiani si convertirono alla religiosità giapponese, preferendo la vita alla morte, rinunciando al martirio e accettando umilmente il rispetto per la diversità religiosa dei giapponesi.




Di Silence, il romanzo scritto da Shusaku Endo
https://it.wikipedia.org/wiki/Silenzio_ ... _End%C5%8D)
Silenzio (沈黙 Chinmoku?) è un romanzo dello scrittore giapponese Shūsaku Endō pubblicato nel 1966. Ambientato nel XVII secolo (periodo Tokugawa), ha come soggetto le persecuzioni contro i cristiani seguite alla rivolta di Shimabara.
...
Rodrigues e Garrpe, dopo un breve periodo trascorso nascosti con l'aiuto dei locali, vengono infine catturati a seguito della denuncia di un informatore, e costretti ad assistere al sacrificio di quei cristiani giapponesi che preferiscono morire piuttosto che rinnegare la propria fede. Nel loro martirio non c'è la gloria, come aveva sempre pensato Rodrigues, ma solo crudeltà.
Il giovane gesuita, inizialmente animato da entusiasmo e buona volontà, lentamente vacilla: egli è disposto a soffrire piuttosto che abiurare per il bene della propria fede, ma nutre dubbi sulle conseguenze di tale scelta, visto che, se rinnegasse la sua fede, potrebbe porre fine alle sofferenze di molti cristiani. Le forti convinzioni che prima aveva ora sono messe in crisi, anche a causa del silenzio di Dio, che non risponde alle sue invocazioni.
Nel momento culminante della storia, Rodrigues sente i lamenti di coloro che hanno già abiurato, ma sono costretti a rimanere all'interno della fossa finché lui non deciderà di calpestare l'immagine di Cristo, per ricordargli che fintantoché si rifiuta altri continueranno a soffrire al suo posto. E quando dunque considera di abiurare a sua volta calpestando l'immagine sacra, sente la voce di Cristo, che finalmente rompe quel silenzio che l'ha tanto tormentato: "Calpesta! Calpesta! Io più di ogni altro so quale dolore prova il tuo piede. Calpesta! Io sono venuto al mondo per essere calpestato dagli uomini! Ho portato la croce per condividere il dolore degli uomini". Udendo quelle parole Rodrigues infine fa la sua scelta calando il piede sull'immagine. Molto tempo dopo, il magistrato che tiene in custodia Ferreira e Rodrigues, coi loro nuovi nomi di Sawano Chuan e Okada San'emon, dice a Rodrigues: "Padre, lei non è stato sconfitto da me. Lei è stato sconfitto da questa palude che è il Giappone".


La rivolta di Shimabara
https://it.wikipedia.org/wiki/Rivolta_di_Shimabara
(島原の乱 Shimabara no ran?) fu una rivolta scoppiata nel 1637, durante il periodo Edo, nel Giappone sud-occidentale, che vide i cattolici giapponesi, in gran parte contadini, insorgere contro il governo dello shogunato Tokugawa che aveva attuato una forte persecuzione religiosa nei confronti dei cristiani cattolici.
Lo shogunato inviò un contingente di oltre 125.000 uomini per sopprimere la ribellione e dopo un lungo assedio contro i ribelli nel castello di Hara riuscì a sconfiggerli.
A seguito della rivolta, il leader dei ribelli Shiro Amakusa fu decapitato e la persecuzione anticristiana si fece molto più aspra terminando solo nel 1850. Fu a seguito di questa rivolta che in Giappone si adottò una politica di isolamento nazionale (sakoku) che andò avanti per oltre due secoli.
...
Inizialmente le autorità giapponesi, soprattutto durante il governo di Oda Nobunaga, non ostacolarono l'opera dei missionari europei, che anzi videro favorevolmente perché gli permetteva di avere relazioni economiche con la Spagna e il Portogallo e perché riduceva il potere dei monaci buddisti. La situazione cambiò con la salita al potere di Toyotomi Hideyoshi, preoccupato per il crescente numero di convertiti, soprattutto tra i daimyo, che divenuti cattolici ebbero anche dei vantaggi nei rapporti con gli europei.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
Avatar utente
Berto
Site Admin
 
Messaggi: 38318
Iscritto il: ven nov 15, 2013 10:02 pm

Missionarismo: debolezza spirituale e imperialismo religioso

Messaggioda Berto » dom mag 14, 2017 7:19 pm

Se facciamo un confronto tra il Giappone religiosamente shintoista/buddista e l'Italia cristiano-cattolca-romana di oggi, mi viene da chiedermi ma chi è che dovrebbe essere evangelizzato/civilizzato di questi due paesi e a cosa mai è servita l'evengelizazzione cristiana all'Italia se è divenuta uno dei paesi più incivile dell'occidente?


I primati dello stato italiano e dell'Italia in Europa e nel mondo
viewtopic.php?f=22&t=2587

Parassitismo economico italico-romano
viewtopic.php?f=22&t=2663

Mafie e briganti terronici
viewtopic.php?f=22&t=2259

Il sud della penisola italica - i meridionali
viewtopic.php?f=139&t=2581



https://it.wikipedia.org/wiki/Criminali ... n_Giappone
La criminalità in Giappone è tra le più basse in confronto agli altri paesi industrializzati.


Giappone, luci e ombre della giustizia. Il reato più frequente? E' il furto della bici
di Pio d'Emilia | 3 luglio 2013

https://www.ilfattoquotidiano.it/2013/0 ... ici/644083

Uno degli aspetti più positivi del Paese è la sicurezza. Un sistema di prevenzione e repressione che funziona soprattutto in virtù di ragioni culturali, sociali ed economiche di antica origine. Dall'altra parte però, fanno da contraltare, lo strapotere della polizia e della magistratura

Spesso vengo accusato di andare a frugare sempre negli angoli sporchi del Giappone, denunciando gli aspetti negativi e a volte – quanto meno per noi “occidentali”– un tantino bizzarri di un paese che invece ha molto da insegnarci. Verissimo. Oggi parliamo allora di uno degli aspetti più positivi del Giappone: la sicurezza. Il Giappone, compresa Tokyo, la metropoli più “sicura” e organizzata del mondo, è un Paese dove si vive tranquilli, circondati da persone oneste ed educate, dove difficilmente si viene aggrediti o derubati e dove le donne possono camminare tranquillamente per le strade, anche in piena notte, senza alcun timore. Una realtà che oltre a poggiare su un efficace – forse un po’ “paternalistico” – sistema di prevenzione e repressione (che ha, come vedremo, i suoi costi) ha origini e motivazioni culturali, sociali ed economiche. Il fatto, ad esempio, che i giapponesi siano tra i popoli più educati e istruiti al mondo, che vengano sin da piccoli educati a un’etica di gruppo in base al quale chi sbaglia e/o delinque infanga e danneggia l’intera famiglia /azienda/comunità cui appartiene, e che, almeno finora (ma la situazione sta peggiorando) non ci siano sacche di povertà, degrado sociale, emarginazione e conflitti etnici/religiosi paragonabili ad altri paesi industrializzati.

Fatto sta che il Giappone – e forse ce ne rendiamo più conto noi stranieri che ci viviamo che gli stessi giapponesi, per i quali la “sicurezza”, basta vedere lo stupore e la frequenza con cui restano vittime di reati all’estero, è una condizione scontata – è uno dei Paesi più sicuri al mondo, certamente il più sicuro tra quelli appartenenti al G20. Lo dicono le statistiche, tutte positive, da primi della classe. Dal numero (e tipo) di reati commessi (un milione e mezzo quelli denunciati nel 2012, quello più comune è il furto di biciclette, metà delle quali vengono anche ritrovate), alla popolazione carceraria (“appena” 54 detenuti su 100mila persone, in Italia è di 108 e negli Usa oltre 700), al tasso di recidività (38%, metà di quello Usa). Un dato, in particolare, fa davvero, e positiva, impressione. Il numero di cittadini che, nel giro di anno, restano vittime di un reato: negli Usa è il 39%, in Australia (che detiene il record dei paesi industrializzati) il 54%, uno su due, in Giappone il 16%.

Non sono riuscito a trovare dati omogenei per l’Italia, ma immagino siano vicini a quelli Usa, o di poco inferiori. Se prendiamo in considerazione solo i reati violenti, in Giappone la percentuale scende al 2%. A Tokyo il rischio di essere derubati, aggrediti, violentati o ammazzati è rispettivamente di 80, 200, 700 e 2000 volte minore che a New York. E va tenuto presente che in Giappone tutti, ma proprio tutti i reati, vengono denunciati e regolarmente indagati. In Italia dubito che si denunci il furto di una bicicletta e anche nel caso dei veicoli a motore la denuncia la si fa solo a scopo assicurativo, per ottenere un eventuale risarcimento. In Giappone no: la gente si aspetta, e spesso viene soddisfatta in questa sua giusta speranza, di ritrovare i beni sottratti e anche quelli, evento molto più comune, semplicemente dimenticati o smarriti. Le polizze furto in Giappone, per i veicoli, hanno un costo irrisorio, e comunque pochissimi le sottoscrivono. Pensate che le autorità, visto il relativo aumento dei furti in casa, ha avviato da tempo una campagna di “sensibilizzazione”, con spot televisivi e cartellonistica stradale, invitando i cittadini a “chiudere” casa. Molti giapponesi, compresi gli abitanti di Tokyo, non lo fanno. E comunque si usano serrature simboliche, che un qualsiasi ragazzino farebbe saltare in pochi secondi, con un temperino.

Tutto questo ha un costo, denunciano Amnesty international e altre organizzazioni che difendono i diritti umani come Human rights watch, che al sistema giudiziario e carcerario giapponese ha dedicato, tempo fa, un’accurata e controversa pubblicazione nella quale si denunciano sia lo strapotere della polizia (che dispone di un “fermo” che può durare sino a 23 giorni, durante il quale i diritti alla difesa sono molto limitati se non assenti) che quello della magistratura: in Giappone vige infatti il principio di discrezionalità dell’azione penale (per tutti i reati, anche i più efferati), principio che spesso sconfina nell’assoluta arbitrarietà e che “produce” il vistoso, ma variamente interpretabile, effetto dell’alto tasso di condanna nei processi. Il 99.8% dei quali finisce, infatti, con la condanna dell’imputato.

“Questo non perché polizia, pubblici ministeri e giudici siano particolarmente bravi ed efficienti – spiega l’avvocato Yuichi Kaido, presidente dell’ordine forense di Tokyo – ma perché il sistema è tale per cui il rinvio a giudizio avviene solo in caso di preaccertata, o comunque presunta, colpevolezza. So che è un concetto pericoloso e per noi avvocati inaccettabile, ma è così e nonostante piccoli, lentissimi passi avanti, il sistema non è destinato a cambiare. Anche perché dà i suoi frutti: l’ampia discrezionalità consente di valutare in fase istruttoria una serie di opzioni alternative, anche per i rei confessi, che in altri ordinamenti possono essere adottati, e solo dopo dispendio di tempo, energie e costi, da un tribunale”.

In sostanza, la “sentenza” in Giappone, viene decisa già durante il fermo di polizia. Un comportamento “convincente” e “collaborativo” (leggi: confessione) da parte di un accusato anche di reati gravi, può portare al non luogo a procedere, all’archiviazione, seguita da una sorta di “informale”, ma efficacissima, “libertà vigilata”. Viceversa, “arroganza” e “mancanza di collaborazione” (leggi: richiesta di assistenza legale) significa rinvio a giudizio e condanna sicura. Cui segue quasi sempre, la prigione. Dove la vita è dura, molto dura. Per tutti. Nessun privilegio, disciplina ferrea, obbligo di lavoro non retribuito, al punto che anche il Giappone, come la Cina, ha provocato censure da parte dell’Onu per l’utilizzazione di lavoro forzato nella produzione di beni di consumo. Ma anche assoluta sicurezza. Non ci sono rivolte, proteste organizzate, violenze tra detenuti o contro le guardie carcerarie. Al massimo, qualche volta, ci scappa qualche gesto di autolesionismo, magari un suicidio. Due, stando ai dati ufficiali, negli ultimi 3 anni, su 118 carceri per un totale di circa 50mila detenuti. Il rapporto detenuti – guardie (che sono armate solo di un piccolo manganello) è di 70 a 1, un record.

Laddove le nostre carceri sono sovrappopolate, sporche, rumorose e pericolose qui sono pulite, ordinate, sicure. Al punto da non sembrare prigioni, ma caserme. Dove gli “ospiti” non sono vengono “temprati” nello spirito, ma anche obbligati a lavorare. Luoghi di addestramento, lavoro e riabilitazione sociale improntati a una disciplina ferrea, dove guardie e detenuti si salutano inchinandosi l’un l’altro, ma senza mai guardarsi in faccia, dove non si fuma e tanto meno si beve, dove non è possibile acquistare o ricevere cibo aggiuntivo, e non si può parlare tranne che per un’ora al giorno e dove si è puniti con lunghi periodi di isolamento e razioni di cibo ridotte per ogni minima infrazione, compresa quella, considerate grave, di incrociare lo sguardo con le guardie. Ai detenuti, soprattutto quelli stranieri che qui sono quasi la metà degli “ospiti”, appena entrati viene consegnato un libretto stampato in varie lingue (c’è anche l’italiano) e le prime due settimane si passano, in assoluto isolamento, a imparare oltre un centinaio di minuziosissime regole (da come e quando lavarsi i denti alle posizioni da assumere durante i pasti, il riposo e perfino il sonno) e memorizzare una sorta di “pentalogo” che i detenuti sono costretti a urlare a squarciagola ogni volta che si spostano, marciando o correndo, da un posto all’altro del carcere. E che recita più o meno così: “D’ora in poi sarò onesto, sincero, educato e rispettoso. Collaborerò e rispetterò le regole e mi pentirò profondamente. E sarò riconoscente”.

“Il carcere in Giappone è dove il sistema cerca di riparare le macchine difettose, o quelle che si sono rotte – spiega l’avvocato Kaido – nella speranza di poterle riutilizzare”. E in un certo senso è vero: la vita in carcere è dura sì, con ritmi e regole asfissianti e talvolta crudeli. Ma una volta usciti, a parte i mafiosi locali, gli yakuza, e i poveracci che commettono appositamente reati per poter avere un alloggio e pasti assicurati il fenomeno è in pericoloso aumento, soprattutto tra gli anziani) difficilmente ci si ritorna. Il tasso di recidività, come abbiamo già indicato, è tra i più bassi del mondo industrializzato (38%) ed esiste un efficace sistema di reinserimento nel tessuto sociale. Spesso è la direzione del carcere che si impegna a trovare un lavoro agli ex detenuti. Ed esistono enti ed associazioni, sia pubblici che privati, che “seguono” questa delicata fase di reinserimento. Come in Italia, insomma.



Italia e Giappone a confronto
Italia e Giappone, paesi più vecchi del mondo, crescita bassa e debito pubblico boom, unico dato divergente , l’occupazione
di Nicola Cacace,1/1/2017

https://www.altrimediaedizioni.com/ital ... -confronto


Shinzo Abe, primo ministro giapponese da oltre un decennio è salito agli onori della cronaca per aver dato il suo nome ad una nuova teoria, Abenomics, consistente nella massiccia iniezione di capitali pubblici nell’economia, senza risultati apprezzabili sulla crescita. Anche l’Italia può lamentare decenni di risultati negativi sulla crescita pur avendo aumentato il debito pubblico. Due paesi geograficamente e culturalmente lontani, appaiono vicini per risultati socio-economici, fatta eccezione per l’occupazione che il Giappone ha mantenuto ad alti livelli malgrado la “decrescita”, a differenza del’Italia.

Quali sono i paesi col più basso indice di natalità? Giappone, 1,3 figli per donna e Italia, 1,4 contro una media mondiale di 2,0.

Quali sono i paesi più vecchi del mondo? Giappone, 46 anni di età media ed Italia 45, contro una età media mondiale di 30 anni.

Quali sono i grandi paesi dall’economia più stagnante da decenni? Italia la cui crescita media è stata zero% dal 2000 al 2015 e Giappone, la cui crescita media è stata dello 0,8% nello stesso periodo. Contro una crescita mondiale media del 3,5%.

Quali sono i grandi paesi col più alto debito pubblico al mondo? Giappone col 240% del Pil ed Italia col 130%.

Quali sono i paesi col più basso livello di IDE, investimenti diretti esteri? Nell’ultimo decennio sia in Italia che in Giappone gli IDE in entrata ,sono stati inferiori all’1% dei rispettivi Pil.

Quali sono i grandi paesi industriali col più basso numero di stranieri immigrati? Giappone col 2% ed Italia con 8,3%, contro valori medi molto più alte di altri grandi paesi, S.U, Canada, Germania, G.Bretagna, Francia, Spagna, tutti superiori al 13%.

Giappone ed Italia differiscono solo per il dato occupazionale. Mentre il Giappone ha il più basso tasso di disoccupazione dei paesi OCSE,4%, l’Italia ha il più alto dopo la Spagna, 12%, mentre il Giappone ha un tasso di occupazione (rapporto tra occupati e popolazione 15-64 anni) tra i più alti 72%, l’Italia ha il più basso, 56%. Cioè all’Italia mancano 6 milioni di occupati per avere un tasso di occupazione simile a quello giapponese. Come è stato possibile questo miracolo occupazionale? In Giappone l’obiettivo piena occupazione è una priorità del governo e delle imprese, perseguita con molte procedure, dal lifetime employment, occupazione a vita alla seniority, salari che aumentano con l’anzianità più che con i soli meriti. Poiché quasi metà dell’occupazione opera in tali regimi, e più della metà in regimi più precari, part time, lavori occasionali, etc., nei periodi di crisi si attivano tutte le misure pro occupazione da parte delle imprese e dello Stato, con abolizione degli straordinari, riduzioni di orario, pensionamenti anticipati (in Giappone l’età pensionabile è tra le più basse 60 anni) il tutto agevolato con generosi contributi del Governo, il cui debito pubblico è infatti il più alto del mondo (da notare che il debito pubblico giapponese è tutto in mano ai giapponesi che si contentano di un interesse bassissimo, a differenza di quello italiano, largamente in mani straniere).

In sintesi la mia tesi è semplice, la stagnazione economica ed occupazionale dell’Italia ha molte cause, a cominciare dalla inefficienza della pubblica amministrazione e della Giustizia, per finire ad un capitalismo industriale familiare ed asfittico, ma la causa numero uno è la bassa natalità ed il conseguente invecchiamento che danneggia sia la domanda che l’offerta e quindi il Pil e l’occupazione.

Dal lato della domanda il Pil è fatto per l’80% di consumi ed i consumi degli ultrasessantacinquenni, abitazioni, abbigliamento, mobilità, alimentari, con l’eccezione dei farmaci, sono meno della metà di quelli della popolazione più giovane. Dal lato dell’offerta nella società digitale la maggioranza delle innovazioni è fatta dai giovani ed infatti l’Italia è un paese a bassa innovazione che non riesce a dar lavoro neanche ai suoi giovani che sono la metà di trent’anni fa. Da tutti i dati emerge con chiarezza che l’eccessivo invecchiamento mette in crisi l’economia di un paese, a meno di non compensarla con flussi immigratori paralleli ed intelligenti, come ha fatto ad esempio un altro paese a bassa natalità e molto vecchio , la Germania (45 anni di età media) che ha migliorato la condizione demografica prima con massicce immigrazioni di italiani, spagnoli e turchi, poi di siriani, afgani, africani ed oggi ha una quota di immigrati superiore al 15% della popolazione. E a meno di non ridurne i danni sociali con politiche pro labor, riduzioni di orario e simili. L’Italia invece marcia in direzioni contrarie, con la precarietà crescente dei giovani senza futuro e senza figli e con le paure anti immigrati che non si abbassano neanche davanti al fatto che 4000 Comuni su 8000 sono in via di spopolamento e destinati a divenire Comuni fantasma?

Il futuro demografico del paese è addirittura peggiore del presente, perché la natalità sembra ulteriormente – quest’anno sono nati meno di 500mila bambini, meno di un anno fa – e perché un forte sentimento anti immigrazione avanza sotto la spinta degli sbarchi continui dal Mediterraneo che impauriscono la gente, anche per la propaganda di odio anti immigrati diffusa dai partiti populisti. Il tutto favorito dal fatto che pochi conoscono i danni che un invecchiamento della popolazione da bassa natalità e bassa immigrazione, producono sul sistema produttivo e previdenziale. Sono uscite di recente due “previsioni demografiche al 2050 a migrazioni zero” elaborate da Eurostat e dal prof. Livi Bacci che non hanno avuto circolazione mediatica. Il quadro che ne esce è nero non tanto per le riduzioni di popolazione di 10 milioni, da 60 a 50, quanto per l’ulteriore invecchiamento. L’Italia, paese ad alta intensità abitativa, potrebbe vivere benissimo con 10 milioni di cittadini in meno, ma non con 12 milioni di giovani in meno e 2 milioni di anziani in più

L’età media della popolazione passerebbe dall’attuale 45 a 53 anni e l’indice di dipendenza anziani (rapporto tra popolazione di 65 anni e più e popolazione di 15-64 anni) passerebbe dall’attuale 34% al 43%, che decreterebbe il tracollo definitivo dell’assetto socio-economico e previdenziale del paese.



Tokyo è la città più onesta del mondo

https://www.ilfoglio.it/esteri/2017/03/ ... ndo-125277

È Tokyo la città più onesta del mondo. O meglio, secondo Bloomberg, “may be”. Non è una classifica in salsa grillina e nemmeno un'agiografia dei giapponesi, ma un bel titolo che poggia su un dato probabilmente unico: l'anno scorso 3,67 miliardi di yen (32 milioni di dollari) di contanti perduti sono stati consegnati all'ufficio oggetti smarriti della polizia di Tokyo, e tre quarti di quel denaro è tornato in mano ai legittimi proprietari. Peraltro la portata dei soldi che fa questo particolare giro è in costante aumento dal 2009.

Il dato spiega due cose: la devozione al contante dei giapponesi e il loro innegabile senso civico. Nel 2015 circolavano circa 103 miliardi di yen cash, più o meno 900 milioni di dollari, il livello più alto tra le 18 nazioni e regioni sviluppate prese in esame dalla Bank of Japan per un report pubblicato lo scorso febbraio. I fatti messi in fila da Bloomberg, al di là delle analisi macroeconomiche e della mitologica sovranità monetaria che non c'entra nulla in questo contesto, suggeriscono che avere grandi quantità di contanti in Giappone non comporta chissà quali rischi: c'è poca criminalità e praticamente nessuna paura di essere derubati.

A Tokyo, una delle città con la più alta densità del mondo, non è inusuale lasciare incustoditi gli iPhone nuovi sulle sedie dei locali per andare a ordinare al banco. E anche gli oggetti personali apparentemente più inutili vengono messi da parte dai gestori nell'eventualità che qualcuno torni per riprenderseli. Culture and ethics education, stupid: “Le scuole giapponesi propongono corsi di etica e morale grazie ai quali gli studenti imparano a immaginare i sentimenti di chi perde soldi o beni, per cui non è raro vedere bambini che portano una moneta da 10 yen in un ufficio della polizia”, spiega Toshinari Nishioka, ex poliziotto che oggi insegna alla Kansai University of International Studies.

In più c'è l'ulteriore riprova che premiare è meglio di punire per orientare i comportamenti. La legge giapponese prevede che chi trova del denaro deve consegnarlo alla polizia, dopodiché ha diritto a ricevere una ricompensa tra il 5 e il 20 per cento dei soldi se il proprietario viene a riprenderseli, e addirittura tutto il denaro se nessuno li reclama entro tre mesi.




La povertà in Giappone diventa un problema
La stima sui venti milioni di poveri era stata tenuta nascosta dal precedente governo
L'economia del paese è in stallo e un giapponese su sei rientra nella fascia di povertà

https://www.ilpost.it/2010/04/22/giappone-poveri-asia

La povertà in Giappone continua a crescere. L’economia del paese orientale è rimasta sostanzialmente ferma per molti anni, portando a sensibili differenze tra gli stipendi. Secondo le ultime stime, riprese dal New York Times, un giapponese su sei rientra nella fascia di povertà e le ultime rilevazioni indicano 20 milioni di poveri nel 2007.

I dati hanno sorpreso i giapponesi, che non ricevevano notizie ufficiali sul livello di povertà in Giappone da tempo. Il governo ha candidamente ammesso di aver nascosto per anni le statistiche sui nuovi poveri nel paese. Il problema è stato negato per quasi dieci anni dal Partito Liberal Democratico, sconfitto nell’ultima tornata elettorale da Yukio Hatoyama (Partito Democratico) che ha spinto per una maggiore trasparenza della burocrazia.

La soglia di povertà è stata ricalcolata e collocata intorno a un reddito annuo di 22mila euro per una famiglia di quattro persone. Per gli analisti, il tasso di povertà in Giappone è raddoppiato rispetto ai livelli calcolati negli anni Novanta, quando iniziò una grave crisi economica legata al mercato immobiliare e al collasso dei mercati.

Identificare con precisione l’effettivo numero di poveri non è però facile. Autorità e assistenti sociali segnalano che i giapponesi in ristrettezze economiche cercano di nascondere la loro condizione, ritenuta spesso un’onta e vissuta in primo luogo come un fallimento personale. Chi riesce cerca di svolgere più lavori, ma il denaro non sempre è sufficiente per pagare l’affitto, le bollette o i medicinali. Del resto, l’80% delle persone che vivono in povertà sono “impiegati poveri”, donne e uomini con paghe basse e lavori temporanei senza tutele.

Gli stipendi sono sufficienti per sopravvivere, ma le altre attività sociali come uscire con gli amici o andare al cinema restano precluse. «La povertà in una società ricca non significa vestirsi di stracci o vivere su un pavimento sporco. Queste sono persone con cellulari, auto, ma sono isolate dal resto della società» osserva la sociologa Masami Iwata (Japan Women’s University, Tokyo).

Il crescente numero di poveri potrebbe portare a seri problemi nel lungo termine. Secondo gli analisti, un’ampia porzione della famiglie non avrà presto le risorse per offrire ai propri figli un’istruzione di qualità, dando così vita a un «ciclo permanente di lavori poco pagati».


Giappone, la corruzione politica passava dai lingotti. Ma ora bastano i ventaglietti
Pio d'Emilia
24 ottobre 2014

https://www.ilfattoquotidiano.it/2014/1 ... ti/1167176

Poco più di vent’anni fa, in leggero ritardo rispetto alla nostra Tangentopoli, la magistratura giapponese uscì per un attimo dal letargo in cui si era adagiata (e nel quale è subito dopo tornata a crogiolarsi) lanciando una breve ma intensa battaglia contro la corruzione. Nel giro di pochi mesi mezzo parlamento venne inquisito e Shin Kanemaru, uno sorta di Andreotti a mandorla (così evitiamo di dovergli dedicare dieci righe di presentazione) venne arrestato all’alba, mentre era ancora in pigiama e mentre cercava di nascondere parte dei lingotti d’oro che teneva sotto il futon, il “materasso” giapponese.

Tra casa e ufficio gliene sequestrarono circa mezzo quintale, in lingotti di varie dimensioni. Nessuno ha mai saputo da dove provenissero: qualcuno dice dalla premiata ditta Inagawa (terza cosca mafiosa del Giappone), qualcuno sospettò addirittura una poco probabile origine nordcoreana. Una cosa sembrava certa: non erano il frutto di onesti risparmi. Comunque sia, l’accusa era di evasione fiscale e violazione della legge elettorale, che all’epoca era molto più permissiva di oggi: privati e aziende potevano tranquillamente finanziare i politici (non i partiti!) anche in modo anonimo, a patto che pagassero sulle donazioni il 37% di tasse.

Vent’anni fa la lotta alla corruzione: finì indagato mezzo Parlamento

Il termine giapponese per questo tipo di “donazioni” era shitofumeikin (letteralmente: “spese varie”), oggi vietate. All’epoca, pare che il 70% delle aziende giapponesi prevedesse nei loro bilanci questa voce, e che in totale venissero “donate” cifre attorno a 5 miliardi di dollari l’anno. Più altrettanti che venivano “donati” direttamente, senza passare dai bilanci e senza pagarci le tasse: si consegnavano direttamente avvolti nel cosiddetto furoshiki, l’elegante foulard, di solito bianco e blu, che i giapponesi usano per avvolgerci un po’ di tutto. Dal pranzetto che si portano da casa alle tangenti. È tutt’ora considerato più sicuro di un bonifico off-shore.

Altri tempi, comunque. L’iniziativa della magistratura, risoltasi in pochi mesi e senza alcuna condanna esemplare (in Giappone vige l’azione penale discrezionale e la magistratura è saldamente controllata dal governo, attraverso il ministro dell’Interno: un procuratore solerte fa poca strada) spianò la strada ad una legge elettorale rigorosissima, tra le più restrittive del mondo. E oggi, pensate un po’, per finire nei guai, basta distribuire durante un comizio gli uchiwa (sorta di ventaglietti di carta, con stampata la faccia del candidato) o regalare dei biglietti per il teatro scontati.

È quanto è successo, rispettivamente, a Midori Matsushima, fino a qualche giorno fa ministro della giustizia, e a Yuko Obuchi, ministro dell’Industria del governo “rosa” inventato dal sempre più nero (in tutti i sensi) Shinzo Abe. Il cui indice di gradimento, iniziato due anni fa circa a livelli record (68%, il più alto del dopoguerra) è negli ultimi giorni sceso per la prima volta sotto il 50%. E con l’aumento ulteriore dell’Iva (dall’8 al 10%) e l’ennesima, annunciata riattivazione di alcune centrali nucleari, entrambe decisioni estremamente impopolari, non è certo destinato a risalire. Particolarmente disastrosa, non solo per l’interessata che potrebbe anche farcela, prima o poi, a riemergere sulla scena politica (era tra le più probabili candidate a diventare la prima donna premier del Giappone) in un paese dove bastano le scuse sincere ed un congruo periodo di riflessione per “purificarsi” e ripresentarsi al giudizio degli elettori, ma per Abe ed il suo governo è appunto l’uscita di scena di Yuko Obuchi.

Abe sulle ministre dimissionarie: “È colpa mia, dovevo essere più oculato”

Figlia dell’ex premier Kenzo Obuchi, colto da malore durante una discussione politica con Ichiro Ozawa (ex segretario del già citato Kanemaru, guarda caso) e deceduto pochi giorni dopo. Alla bella, popolare e soprattutto giovane politica Abe aveva affidato il compito di rilanciare l’immagine del nucleare. Ed infatti la Obuchi aveva già cominciato a girare il Giappone per convincere le donne e le mamme, secondo i sondaggi le più convinte oppositrici del minacciato ritorno al nucleare.

“È colpa mia – ha ammesso Abe, che nel giro di poche ore ha reso noti i nomi dei successori (un uomo e una donna, rispettivamente) – dovevo essere più oculato nelle mie scelte”. In effetti, non è che abbia eccelso, nello scegliersi le sue “donne”. Nella sua amministrazione ce ne sono almeno altre tre al centro di pesanti polemiche che potrebbero portare, almeno in un caso, ad altre imminenti dimissioni. Si tratta di Sanae Takaichi, ministro degli interni, di Tomomi Inada, responsabile del programma politico del partito e di Eriko Yamatani, responsabile della Commissione per la Sicurezza Nazionale, che in Giappone comprende anche la polizia. Tutte e tre fanno a gara per accreditarsi come strenue patriote: le prima due si sono fatte fotografare con il leader del partito neonazista, la terza con tale Makoto Sakurai (video*), un pazzo neorazzista che gira per i quartieri coreani di Tokyo e Osaka insultando chi ci abita e intimando loro di tornarsene a casa. Peccato che la maggior parte siano nati qui, figli e nipoti dei coreani che vennero costretti ad emigrare in Giappone durante l’occupazione, per lavorare nelle fabbriche dell’impero.

Insieme ad Haruko Arimura, ministro di stato per le pari opportunità, queste tre signore hanno guidato la folta delegazione di parlamentari che ha effettuato il solito, provocatorio pellegrinaggio al tempio Yasukuni, dove sono venerati gli spiriti di tutti i giapponesi morti per la patria, criminali di guerra compresi. Il bello è che Shinzo Abe, fedele frequentatore del luogo, questa volta non ci è andato. Vista la fine che sta facendo la sua Abenomics, sta disperatamente cercando udienza a Pechino.

*Anche se è in giapponese, ecco un bell’esempio del suo stile. Il video si riferisce ad un pubblico dibattito con Toru Hashimoto, il sindaco di Osaka che l’ha invitato a “sparire” dalla città.



La classifica della corruzione nel mondo
La pagella di Transparency International dà all'Italia solo 44 su 100: nella Ue peggio di noi solo la Bulgaria

http://espresso.repubblica.it/inchieste ... o-1.247660

Japan 20esimo posto come minor corruzione 75 di trasparenza su 100
Italy 61esimo posto come minor currruzione e 44 di trasparenza su 100
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
Avatar utente
Berto
Site Admin
 
Messaggi: 38318
Iscritto il: ven nov 15, 2013 10:02 pm

Prossimo

Torna a Spiritualità e religione

Chi c’è in linea

Visitano il forum: Nessuno e 1 ospite

cron