Taglio delle spese e del debito - per il nuovo governo

Re: Taglio delle spese - per il nuovo governo

Messaggioda Berto » gio lug 05, 2018 8:36 pm

Nono taglio: riduzione drastica e graduale alle pensioni d'oro, d'argento e doppie con eliminazione di quelle false; riduzione dei vitalizi.
In particolare alle pensioni d'oro a cui mancano del tutto o in parte le contribuzioni.
Riduzione del numero dei graduati e degli ufficiali nelle varie armi e divieto dell'avanzamento ai fini pensionistici la cui pensione va calcolata in modo da rendere inutili le furberie italiche.



Pensioni d'oro | Legge Fornero | Aumenti minimi
i09 febbraio 2018 i

http://www.today.it/economia/pensioni-l ... ovita.html

È possibile tagliare le pensioni d’oro? Quale sarebbe il risparmio per le casse dello Stato? E ancora: con il taglio degli assegni più alti si riuscirebbero a finanziare altre misure previdenziali, ad esempio l’abolizione/superamento della legge Fornero o l’aumento delle pensioni più basse? Cominciamo col dire che il taglio alle pensioni d’oro è una delle proposte elettorali del M5s, come ribadito anche nel loro programma.

Boeri blinda la Fornero: "Via la Riforma? Sarebbe alluvione di tasse"

Non molto tempo fa, in un’intervista a Radio Anch’io, Di Maio ha detto che l’abbassamento dell’età pensionabile sarebbe stato reso possibile anche grazie ai fondi ottenuti dai tagli alle pensioni d’oro. “Vogliamo superarla, a partire dai lavori usuranti e poi gradualmente allargarla a tutti e riportare l’età pensionabile all’epoca pre Fornero. Per farlo ci concentreremo sulle pensioni d’oro (che ci costano 12 miliardi) e sui 50 miliardi di sprechi dello stato”. Di Maio era stato poi smentito dai fatti: per raggiungere la cifra auspicata dal candidato pentastellato, servirebbe infatti tagliare le pensioni già sopra i 2300 euro. E neanche il M5s sembra aver intenzione di farlo.

Pensioni d'oro e legge Fornero

La proposta dei 5 Stelle è infatti mettere un tetto massimo a 5.000 euro netti al mese. Nei “20 punti per la qualità della vita degli italiani” si parla inoltre di abolizione di vitalizi, privilegi, sprechi della politica e opere inutili. E ancora: riorganizzazione delle partecipate, spending review della spesa improduttiva. Tutto ciò dovrebbe fruttare alle casse dello Stato ben 50 miliardi di euro. Non è chiaro però quanto i 5 Stelle contano di risparmiare sul taglio alle pensioni d’oro. Ma torniamo alla domanda iniziale: è fattibile tagliare gli assegni più alti? E quanto si potrebbe risparmiare?

Pensioni, bollo e bonus per le famiglie: tutte le promesse elettorali
Pensioni d’oro e diritti acquisiti

Cominciamo col dire che l’ostacolo principale sarà quasi sicuramente essere di natura giuridica. Già in passato la Corte Costituzionale si è espressa contro la legittimità di misure che andavano a toccare i così detti “diritti acquisiti”.

Nel aprile 2015 la Consulta bocciò ad esempio l'adeguamento degli assegni al costo della vita per i trattamenti superiori di tre volte il minimo (1.423 euro lordi al mese) : secondo i Supremi giudici quella sentenza valicava “i limiti della ragionevolezza e proporzionalità, con conseguente pregiudizio per il potere d’acquisto del trattamento stesso”. La Corte ha però più volte rimarcato che spetta al legislatore stabilire la misura dei trattamenti pensionistici ed eventuali variazioni, purché si rispetti il criterio della ragionevolezza. Fatto che sta che il sì al provvedimento proposto da Di Maio (per certi versi sacrosanto) è tutt’altro che scontato.

Focus pensioni: cosa prevedono Quota 41 e Quota 100 nel dettaglio
Quanto si risparmierebbe con i tagli

Non molto secondo i calcoli di Franco Mostacci su Lavoce.info. In sostanza, fissando un tetto massimo di 5mila euro lordi all’anno e “tagliando l’eccedenza ai pensionati che hanno un reddito complessivo superiore ai 100 mila euro, si otterrebbe un risparmio stimabile in 490 milioni di euro”. Non molto per la verità, considerando che il superamento della Legge Fornero costerebbe sicuramente svariati miliardi alle casse dello Stato. Inoltre, come spiega ancora Lavoce, da questa cifra andrebbero sottratti i mancati incassi del’Irpef, per cui il risparmio si assottiglierebbe ancora: 280 milioni. Ciò non toglie che quella proposta dal M5s sia una riforma che va in direzione dell’equitàe a vantaggio dei ceti più deboli.

Legge Fornero e aumenti alle minime

Va detto, per correttezza, che in un articolo comparso sul blog delle Stelle e relativo alle coperture del programma, il M5s non indica come fonte primaria di risparmio i tagli alle pensioni d’oro. Secondo i pentastellati, i 10,5 miliardi necessari per superare la Fornero e garantire la staffetta generazionale, saranno coperti “a regime, per 4 miliardi con la spending review e per circa 6,5 miliardi con le tax expenditures sul settore lavoro (disponibili fino a 10 miliardi annui). Si possono utilizzare pure le risorse legate a mancette poco influenti come l’ape social, che viene inglobata”. Non è chiaro invece in che modo il M5s intenderà finanziare gli aumenti alle pensioni minime che Di Maio vuole portare a 780 euro, in linea con il reddito di cittadinanza.


Vitalizi, ex deputati contro Fico: "Class action per dire no ai tagli". Ma Casellati frena: "Soluzioni condivise"
Di Maio: "Ricorsi? Schiaffo alla miseria". Il progetto al vaglio dei vertici di Montecitorio: risparmi per 40 milioni. "Se c'è l'ok, via dal primo novembre". Ma gli ex parlamentari protestano: "Chiederemo i danni ai membri dell'ufficio di presidenza della Camera"
di TOMMASO CIRIACO
27 giugno 2018

http://www.repubblica.it/politica/2018/ ... -200162993

ROMA - Il presidente della Camera Roberto Fico ha illustrato durante la riunione dell'ufficio di presidenza di Montecitorio il testo della delibera per il superamento dei vitalizi degli ex deputati. Ma in serata, la presidente del Senato, Elisabetta Casellati, frena, auspicando "soluzioni condivise", spiegando - da Washington - di avere "qualche perplessità sul fatto di poter incidere sui diritti acquisiti". Il taglio dei vitalizi, ha sottolineato la Seconda carica dello Stato, "significa incidere sullo status di persone che magari oggi possono avere anche un'età rilevante e che si trovano improvvisamente ad avere uno stipendio magari inferiore al reddito di cittadinanza". Il tema, ha aggiunto, "deve essere ripreso anche al Senato perchè sarebbe stravagante che la Camera operasse in un modo e che la stessa situazione non si verificasse nell'altro ramo del Parlamento".

Se il testo di Montecitorio passerà com'è, tuttavia, il nuovo sistema che ricalcola tutti i vitalizi finora percepiti sulla base del sistema contributivo, entrerà in vigore alla Camera dal prossimo primo novembre. La delibera verrà votata nella settimana tra il 9 ed il 13 luglio, e gli emendamenti potranno essere presentati entro giovedì. Secondo Fico, la delibera consentirebbe alla Camera un risparmio di circa 40 milioni di euro.

Ma subito scatta la protesta di chi verrà colpito dal provvedimento (gli ex deputati) o teme di esserlo (gli ex senatori, nel caso in cui Palazzo Madama adottasse lo stesso criterio taglia-pensioni). Il presidente della Associazione degli ex parlamentari, Antonello Falomi, annuncia infatti annuncia una pioggia di ricorsi, se non addirittura una vera e propria class action (ossia un'azione legale collettiva).

Ma non basta, l'Associazione ha inviato a tutti i membri dell'Ufficio di presidenza della Camera una diffida extragiudiziale a non approvare la delibera taglia-vitalizi, con la minaccia di un'azione civile e amministrativa per danni rispetto alla quale risponderebbe personalmente e patrimonialmente ciascun membro dell'ufficio di Presidenza, compreso il presidente Fico. "Non si può applicare retroattivamente una legge. È un'operazione vergognosa ma l'obiettivo è chiarissimo: noi siamo solo un 'cavallo di troia', questi nuovi arrivati vogliono applicare i dettami dei poteri forti che gli chiedono di mettere mano alle pensioni degli italiani".

Pesante la replica del vicepremier grillino Luigi Di Maio. "A queste minacce siamo abituati dagli ultimi sei anni - ha dichiarato il ministro del Lavoro - quelli sono privilegi rubati non diritti acquisiti e la smettano con le minacce, è uno schiaffo alla miseria fare ricorsi e protestare perchè ti tolgo un vitalizio di 6-7000 euro quando sei stato tre giorni in Parlamento".

Secondo la proposta dell'ufficio di presidenza, alla quale ha lavorato con particolare attenzione il ministro dei Rapporti con il Parlamento Riccardo Fraccaro praticamente dall'inizio della legislatura, il "vitalizio minimo" sarà di 980 euro al mese, e andrà a chi ha fatto una sola legislatura. Il minimo per chi subirà una decurtazione superiore al 50% del vitalizio sarà di 1.470 euro. I vitalizi erogati a ex deputati dalla Camera sono in tutto 1.405: di questi, 1.338 saranno ricalcolati e dunque abbassati, mentre i restanti 67 non verranno ritoccati. In base alla delibera, quelli percepiti da ex deputati che hanno sulle spalle almeno quattro legislature si fermeranno al valore del 31 ottobre prossimo, alla vigilia dell'applicazione della delibera ove venga approvata.

E arrivano anche le reazioni politiche. Il dem Ettore Rosato, vicepresidente della Camera, si dice d'accordo con la revisione del sistema, ma aggiunge: "Mi preoccupa l'impostazione della delibera, perchè è molto molto fragile e temo che non possa resistere ai possibili ricorsi". E l'altra vicepresidente, l'azzurra Mara Carfagna: "Sì al ricalcolo dei vecchi vitalizi per eliminare un privilegio, no alla rapina di Stato contro le vecchiette rimaste vedove. I totem si possono abbattere, ma con intelligenza, senza pretendere lo scalpo del, presunto, incolpevole, nemico".




Taglio vitalizi, la Casta minaccia rappresaglie contro Fico e l'ufficio di presidenza: "Chiederemo i danni a voi"
di F. Q. | 27 giugno 2018

https://www.ilfattoquotidiano.it/2018/0 ... oi/4455488

Lo avevano detto chiaramente e pubblicamente a dicembre scorso in un incontro con Tito Boeri: “I parlamentari non sono uguali agli altri cittadini”. E partendo da quel presupposto oggi che il loro privilegio viene toccato dopo anni di polemiche, minacciano di chiedere i danni direttamente a chi approverà il provvedimento. Insomma la Casta minaccia rappresaglie. Sono gli ex parlamentari che ancora ricevono i vitalizi calcolati su base retributiva e non contributiva come tutti gli altri e che, alla notizia della presentazione della delibera che impone la stretta, dichiarano guerra: “È una vendetta politica”, hanno detto in una conferenza stampa, “un attacco frontale allo Stato di diritto”. L’associazione degli ex ha infatti inviato a tutti i membri dell’Ufficio di presidenza della Camera una diffida stragiudiziale a non approvare la delibera, con la minaccia di un’azione civile e amministrativa per danni rispetto alla quale risponderebbero personalmente e patrimonialmente ciascun membro dell’ufficio di Presidenza, compreso il presidente Roberto Fico. Il provvedimento che prevede un risparmio circa di 40 milioni all’anno, è stato incardinato a Montecitorio mentre è bloccato a Palazzo Madama. “Ho visto che già chi sta minacciando”, ha replicato il vicepremier Luigi Di Maio, “ma noi a queste minacce siamo abituati dagli ultimi sei anni. Quelli sono privilegi rubati non diritti acquisiti e la smettano con le minacce, è uno schiaffo alla miseria fare ricorsi e protestare perché ti tolgo un vitalizio di 6-7000 euro quando sei stato tre giorni in Parlamento”.

La pensano diversamente gli ex parlamentari. L’obiettivo finale del provvedimento, ha detto il presidente Antonello Falomi, “è mettere mano alle pensioni degli italiani”: “Ci batteremo in tutte le sedi per impedire che questo obbrobrio costituzionale venga perpetrato”. Secondo l’ex parlamentare “sventolare lo scalpo dei vitalizi” in vista di futuri appuntamenti elettorali rappresenta “una gigantesca presa in giro degli italiani, a cui si sta vendendo una merce propagandistica avariata“. La delibera illustrata dal presidente della Camera, ha spiegato, “è un monumento alla illegalità costituzionale” perché “non si può applicare retroattivamente” il metodo contributivo introdotto dalla legge Dini del 1996 “a persone che sono andate in pensione prima di questa legge”. Falomi ha aggiunto: “Siamo stati ricevuti dal presidente della Camera e dai collegi dei questori di Camera e Senato” ma “con una interlocuzione pari a zero: i nostri argomenti sono stati semplicemente ignorati”. “Abbiamo chiesto di disporre di tutta la documentazione istruttoria” ma, ha lamentato l’ex esponente di Rifondazione Comunista, “non ci è stato dato il più piccolo pezzo di carta. La ‘scatoletta di tonno’ che doveva essere aperta è rimasta ben chiusa”. Tuttavia, ha proseguito, “abbiamo saputo del parere negativo degli uffici parlamentari competenti” sul tentativo di ricalcolo dei vitalizi col metodo contributivo. La delibera, ha rincarato Falomi, “è peggio della legge Richetti” ed è stata scritta “sotto la dettatura del presidente dell’Inps Boeri”: “Un’operazione vergognosa che interviene nella vita delle persone in un’età fragile”, ha sottolineato citando i casi di alcuni ex parlamentari ultranovantenni che, in caso di via libera finale alla delibera, si vedranno decurtare drasticamente l’assegno. Per Falomi l’obiettivo dei promotori della delibera (su tutti il M5s, che ha fatto dell’abolizione dei vitalizi il proprio cavallo di battaglia) “è chiarissimo: mettere mano alle pensioni degli italiani. Noi siamo solo il cavallo di Troia. Stanno eseguendo alla lettera i dettami dei poteri forti”.

A Falomi si è accodato Giuseppe Gargani, il quale ha comunicato di aver inviato ai membri dell’Ufficio di Presidenza di Montecitorio una diffida formale stragiudiziale per “mettere in chiaro” le loro responsabilità “personali e patrimoniali” in caso di approvazione del provvedimento: “Faremo ricorso in sede interna”, ha detto Gargani, ma “valuteremo anche altre strade” perché “l’Ufficio di Presidenza risponde personalmente delle sue decisioni”.


Magdi Cristiano Allam
28/06/2018

https://www.facebook.com/MagdiCristiano ... 3928414520

Il Presidente del Senato Fico vuole tagliare i vitalizi degli ex parlamentari alimentando l’invidia e lo scontro sociale. Ma è incostituzionale. Ciò che serve agli italiani è il lavoro

Buongiorno amici. Il Movimento 5 Stelle immagina di cambiare l’Italia togliendo ai ricchi e dando ai poveri. Solo che i Robin Hood all’Italiana dimenticano che un conto è fare giustizia in seno a una piccola comunità primordiale dove la gente si accontenta del minimo necessario per sopravvivere, un altro conto è governare uno Stato di 60 milioni di abitanti. I grillini o pentastellati vorrebbero farci credere che l’economia italiana si risanerà e lo sviluppo decollerà togliendo i vitalizi agli ex parlamentari e elargendo il reddito di cittadinanza pari a 780 euro al mese a milioni di italiani disoccupati, inoccupati, esodati o pensionati in difficoltà. Taglio dei vitalizi e reddito di cittadinanza sono solo delle manovre elettorali che raggirano gli italiani per carpirne il voto alle prossime elezioni. L’unica soluzione credibile per il rilancio dello sviluppo è la creazione di milioni di nuovi posti di lavoro che si traducano nella produzione di beni e servizi reali. Per farlo non c’è alternativa che riscattare la nostra sovranità monetaria, legislativa, giuridica, sul piano della sicurezza e della difesa.

Ebbene di tutto ciò non c’è traccia nel cosiddetto “Contratto di governo” sottoscritto dal Movimento 5 Stelle e Lega. Ciò che ci danno in pasto sono dei surrogati delle soluzioni reali, un vero e proprio inganno dei cittadini che loro si vantano di rappresentare. Innanzitutto non si era mai visto un Presidente della Camera, qual è Roberto Fico, che dopo aver offeso la Patria assistendo con le mani in tasca e senza cantare l’inno nazionale nella commemorazione della strage di Capaci e mostrando il pugno chiuso alla Festa della Repubblica, opera come se fosse un rappresentante del Movimento 5 Stelle anziché il rappresentante di tutta la Camera dei deputati e la terza carica dello Stato. Non dovrebbe spettare a lui promuovere la legge sul taglio dei vitalizi con una modalità arbitraria sul piano procedurale e incostituzionale sul piano giuridico. I vitalizi sono stati aboliti nel 2012, ma quelli già assegnati giustamente non sono stati toccati. Ebbene il Movimento 5 Stelle ha lanciato una crociata contro i vitalizi già assegnati. Dato che il Presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati, non è d’accordo, Fico ha preso l’iniziativa di avviare una delibera per il taglio dei vitalizi soltanto agli ex deputati. Si tratta di 1338 ex deputati che si vedrebbero ricalcolare l'assegno mensile in base al sistema contributivo, che è in vigore dal 2012 per i parlamentari delle ultime legislature. Altri 67 ex membri della Camera, che hanno al loro attivo più di 4 legislature, saranno invece esonerati dai tagli, che arriveranno fino al 50% dell'importo. Il risparmio, annunciato dallo stesso Fico, sarà di 40 milioni di euro: «Quaranta milioni di risparmi, un ulteriore passo per il superamento definitivo dei privilegi». Ma la proposta è di fatto incostituzionale sia perché verrebbe applicata in modo retroattivo ledendo dei diritti acquisiti sia perché si applicherebbe solo a un ramo del Parlamento, alla Camera, e non al Senato.

Cari amici, in uno Stato che ha un Pil di 1600 miliardi di euro e dove la metà del Pil, circa 800 miliardi di euro, sono il costo della pubblica amministrazione, 40 milioni di euro non cambiano nulla. Voler far credere che il taglio dei vitalizi di 1338 ex deputati per risparmiare 40 milioni di euro sarebbe la battaglia di civiltà che ristabilirebbe la giustizia e risanerebbe il bilancio pubblico, significa prendere in giro gli italiani. L’unico rischio reale è di innescare un conflitto intestino con la rivolta di tutti coloro che giustamente temeranno per la perdita di diritti acquisiti. Uno Stato serio non prende in giro i cittadini, non toglie loro ciò che è stato concesso legalmente. In ogni caso le leggi varate oggi non possono essere retroattive. Il Movimento 5 Stelle sta pericolosamente alimentando l’invidia e lo scontro sociale, mentre ciò di cui gli italiani hanno bisogno è ben altro: lavoro, lavoro, lavoro.



Vitalizi, Di Maio spaventa gli ex parlamentari: «Ve li togliamo anche se piangete»

https://ilmessaggero.it/primopiano/poli ... 28118.html
Sale lo scontro sui vitalizi.

«Oggi ho letto un articolo divertentissimo sul Corriere della sera. Raccoglie le lamentele di alcuni ex parlamentari a cui toglieremo i vitalizi tra pochi giorni», ha scritto sul Blog delle stelle il vicepremier
Luigi Di Maio, che precisa: «Uno piange miseria perché da 4.700 euro al mese grazie alla nostra delibera prenderà 2.500 e parla di atto illiberale. Ma dico io: ma se hai versato contributo per avere una pensione di 2.500 euro perché te ne davo dare il doppio? Questa è giustizia, altro che illiberalità. Un altro dice che da 2.000 passerà a 400 ed è una rapina. Quindi parliamo di un ex parlamentare che ha versato contributi solo per avere una pensione minima.

Capite questa gente?

Quando erano in parlamento non hanno mosso un dito per alzare le pensioni minime perché tanto loro avevano il vitalizio che valeva 5 volte tanto. Adesso lo Stato se ne frega di difendere chi ha i privilegi e pensa a proteggere i più deboli. Potete piangere e strepitare quanto volete, tanto non si torna indietro.
Noi i vitalizi ve li togliamo. Mettetevi l'anima in pace» ha concluso Di Maio.

L'ennesimo affondo del leader grillino arriva subito dopo quello che poche ore prima aveva affidato a Twitter: «I vitalizi non sono diritti acquisiti, ma privilegi rubati. I privilegi rubati non possono esistere nel nostro governo».

Parole che, per molti, erano una risposta neanche tanto indiretta alla presidente del Senato, Maria Alberta Elisabetta Casellati, che da Washington si era mostrata piuttosto fredda e tentennante sul taglio dei vitalizi previsto dalla delibera presentata dal presidente della Camera Roberto Fico.

«Ho chiesto agli uffici di effettuare una simulazione degli effetti finanziari che deriverebbero dall'applicazione dei criteri recati dalla proposta di deliberazione - ha puntualizzato Fico -. In proposito - ha continuato - è emerso che la rideterminazione dei trattamenti diretti e di quelli pro rata determinerebbe un risparmio annuo superiore a 30 milioni di euro; la rideterminazione dei trattamenti di reversibilità, effettuata sempre secondo le previsioni della proposta di deliberazione che vi sottopongo, determinerebbe una minore spesa annua pari a circa 10 milioni di euro. Il risparmio complessivo sarebbe dunque superiore a 40 milioni di euro annui».

Sul tema è intervenuto anche il presidente dell'Inps, Tito Boeri: «Il ragionamento simbolico conta tantissimo», ma «non devono esserci intenti punitivi», ha detto Boeri, secondo il quale i risparmi dal taglio «non sono briciole. Secondo le nostre stime, tagliando anche quelli dei senatori e di altre cariche elettive, come i consiglieri regionali, l'intervento poteva portare fino a 200 milioni, che sono niente rispetto al debito pubblico, ma sono importanti».
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Taglio delle spese - per il nuovo governo

Messaggioda Berto » gio lug 05, 2018 8:40 pm

Attaccare fortemente la Corte Costituzionale, il suo ruolo di cupola mafiosa delle caste parassitarie irresponsabili italiane che impediscono il cambiamento radicale del paese e l'eliminazione degli immondi privilegi e delle immonde rendite a danno della maggioranza dei cittadini, della civiltà, della giustizia, del futuro del paese.
E attaccare fortemente la magistratura rossa.


I diritti acquisiti non esistono!
2017/05/09
Leonardo Stiz

http://www.linkiesta.it/it/blog-post/20 ... tono/25613

Il bello del diritto, nel parere di uno che ha provato a impararlo, è proprio questo: di “acquisito”, assoluto, incontrovertibile non c’è proprio un bel niente. Nessun diritto gode di tutela assoluta e intaccabile, nemmeno quelli più alti e sacri. Ogni diritto si scontra con un diritto opposto, si limitano a vicenda. Persino il diritto alla vita trova un limite nel diritto all’autodeterminazione (presente l’infinita discussione sull’aborto?). Ed è proprio qui il bello del lavoro del giurista: bilanciare, decidere di volta in volta fino a dove si estende un diritto affinchè inizi la tutela di un diritto opposto. Non a caso il simbolo della giustizia è una bilancia.

Se nemmeno il diritto alla vita è assoluto, figuriamoci i diritti in materia di trattamento pensionistico. Peccato però che, non appena si sconfina nel campo dei “diritti acquisiti” così cari a questo Paese, iniziano le giravolte concettuali e, con queste, le iniquità. Mettiamo le cose in chiaro: il principio di irretroattività, nel nostro ordinamento, esiste solo per le leggi in materia penale (articolo 25 Cost.): non posso essere punito successivamente per una condotta che, all’epoca, non costituiva reato. Nelle altre materie invece, il legislatore può emanare leggi i cui effetti modifichino retroattivamente rapporti sorti in passato. Secondo la Corte Costituzionale, infatti, questo è possibile a patto che non si violino i principi generali di ragionevolezza, disparità di trattamento oppure l'affidamento del cittadino nella certezza del diritto. Tali vincoli hanno sicuramente una portata rilevante, che però non toglie al legislatore spazi di manovra a volte ampi. Dipende da cosa c’è sull’altro piatto della bilancia.

Ora, andando al nocciolo della questione, il discorso non è diverso per quanto riguarda i “diritti acquisiti” del trattamento pensionistico. Dire che sono ormai maturati e che nessuno li può toccare, semplicemente, non tiene a livello sistematico. Le argomentazioni utilizzate dalla giurisprudenza costituzionale a favore dei diritti acquisiti si basano principalmente sull’articolo 36 Cost., dove è disposto che i salari debbano essere, giustamente, proporzionati alla quantità e qualità del lavoro e sufficienti ad assicurare un'esistenza libera e dignitosa, e sull’articolo 38, che enuncia il principio di adeguatezza dei mezzi di sostentamento in caso (tra gli altri) di vecchiaia. Le pensioni vengono equiparate a tutti gli effetti a un reddito differito, i due articoli vengono interpretati sistematicamente et voilà, lo Stato non può, tendenzialmente, ridurre successivamente l’entità delle pensioni senza violare il principio di ragionevolezza, di affidamento e di adeguatezza del trattamento rispetto al lavoro prestato (principio interpretato piuttosto rigidamente dalla Corte, in questo senso è esemplificativa la sentenza n. 70/2015). Tuttavia, come detto sopra, bisogna sempre guardare a quello che c’è sull’altro piatto della bilancia.

A scanso di equivoci, è bene dire che non ce l’abbiamo con le pensioni da 1000 euro al mese di buona parte dei nostri nonni, ma con quelle ben più consistenti di cui abbiamo già parlato, e soprattutto con quelle assai sproporzionate rispetto a quanto versato. I diritti devono essere sostenibili, e l’attuale sistema non lo è. Il risultato di decenni di pensioni sensibilmente troppo alte rispetto alle contribuzioni è che adesso un’intera classe di lavoratori più giovani deve pagare di più per mantenere quelle pensioni. E che quegli stessi lavoratori, a parità di potere d’acquisto del reddito da lavoro, percepiranno una pensione molto più ridotta (e molto più tardi) rispetto ai pensionati di oggi, come rimedio alle storture del passato. In una situazione di conti pubblici così disastrata, bisogna avere il coraggio di dire che è acquisito solo quel che si può. Che è profondamente iniquo spremere soltanto le tasche dei giovani per rimediare agli sperperi a favore di alcuni vecchi, mentre questi continuano a godere di un trattamento che non era evidentemente sostenibile e che ha largamente contribuito alla formazione di un debito che, ora, stanno pagando altri.

Fatto sta che nessuno, ad oggi, ha speso energie per cercare di spiegare perché questa non è una violazione del principio di uguaglianza. Oppure perché è conforme al principio di proporzionalità e ragionevolezza il tutelare pienamente la dignità e l’adeguatezza di alcune pensioni sproporzionate, ma, per poterlo fare, comprimere al contempo lo stesso diritto in capo ai giovani. Da quale giustificabile principio esce fuori questo standard?

Forse il problema è, appunto, che siamo poco avvezzi a guardare sull’altro piatto della bilancia. Questo peraltro, nel dibattito pubblico, ci porta ad abusare di alcuni concetti come quello di diritto, tanto sacrosanto quanto ingannevole: è estremamente facile, infatti, scivolare da un’accezione corretta del termine nelle premesse ad una errata nelle conclusioni. E proprio perché i diritti non sono assoluti, spesso il loro bilanciamento pende dalla parte di chi sbatte più forte i pugni sul tavolo. A noi giovani ci hanno forse tagliato le mani?


I diritti quesiti in Previdenza e la Sentenza della Corte Costituzionale n. 124/2017
www.avvocatirandogurrieri.it
Avvocato Paolo Rosa

https://www.avvocatirandogurrieri.it/I- ... 242017.htm

Ci attende un anno caldissimo sul versante previdenziale. È bene allora sgombrare il campo da troppi equivoci che si diffondono sul tema dei diritti quesiti.

In mancanza di una definizione normativa di ´diritto quesito´, appare necessario fare ricorso ai principi generali dell´ordinamento e all´elaborazione giurisprudenziale in materia.

Irretroattività delle leggi.

Sotto il primo profilo, rileva in particolare, il principio dell´irretroattività delle leggi, sancito a chiare lettere dall´art. 11 delle pre-leggi.

Si legge, infatti, che ´la legge non dispone che per l´avvenire: essa non ha effetto retroattivo´.

Tale principio, evidentemente ispirato all´esigenza superiore della certezza del diritto, esclude (in linea generale) che una norma giuridica possa applicarsi ad atti, fatti, eventi o situazioni verificatesi prima della sua entrata in vigore, per i quali si suole parlare di ´diritti quesiti´.

In verità, poiché il principio dell´irretroattività delle leggi, pur costituendo un fondamentale valore di civiltà e principio generale dell´ordinamento, non è stato elevato a dignità costituzionale (ad eccezione della previsione dell´art. 25 Cost. limitatamente all´irretroattività della legge penale incriminatrice), può in teoria essere derogato.

Il legislatore, infatti, fermo restando il predetto limite dell´irretroattività della legge penale, può emanare norme con efficacia retroattiva ´a condizione che la retroattività trovi adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza e non si ponga in contrasto con altri valori e interessi costituzionalmente prodotti´ (Corte Costituzionale, sentenza n. 263/02; 136/01; 374/00 e 229/99).

La teoria del ´fatto compiuto´.

In pratica, dunque, è sempre risultato problematico individuare diritti effettivamente quesiti per via delle numerose eccezioni previste da legislazioni più o meno transitorie.

Proprio a causa dell´indeterminatezza della nozione, che ha trovato affermazione la diversa teoria del ´fatto compiuto´ (facta praeterita), in virtù della quale le nuove norme non estendono la loro efficacia ai fatti compiuti sotto il vigore della legge precedente, benché dei fatti stessi siano pendenti gli effetti.

In altre parole, se può ragionevolmente affermarsi che una nuova disposizione non può trovare applicazione nei riguardi di rapporti giuridici che hanno esaurito i propri effetti, altrettanto non può dirsi con riferimento ai rapporti di durata (Cassazione, sez. lavoro, sentenza n. 19351/07 laddove si afferma che ´l´unico limite in materia è dato dall´intangibilità di quei diritti che siano già entrati a far parte del patrimonio del lavoratore, quale corrispettivo di una prestazione già resa o di una fase del rapporto già esaurita. Ne consegue – aggiunge la Suprema Corte – che la tematica dei diritti quesiti attiene unicamente a queste ultime posizioni´).

Il diritto pensionistico.

E´ consolidato l´orientamento giurisprudenziale secondo cui il diritto pensionistico diventa ´quesito´, nella accezione e con i limiti sopra detti , solo nel momento in cui l´interessato perfeziona il diritto alla pensione , maturando i requisiti necessari per essere collocato a riposo. Ciò determina il nascere di un vero e proprio diritto soggettivo con applicazione del conseguente trattamento di quiescenza secondo le norme in vigore in detto momento. Precedentemente l´interessato può vantare solo un´aspettativa ad un determinato trattamento di quiescenza e non può dolersi di eventuali modifiche in peius delle disposizioni previdenziali incidenti anche sul proprio trattamento, ma solo il rispetto del principio del pro rata temporis!

Il problema dunque è capire fino a che punto la legge possa disporre per il passato, specie laddove venga a impattare sull´erogazione di prestazioni per le quali vengano in rilievo ´altri valori e interessi costituzionalmente protetti´, come nel caso della corresponsione della retribuzione o, per quanto qui rileva, delle prestazioni previdenziali (´I limiti costituzionali alla revisione delle pensioni: le prospettive per il futuro´, di Antonella Valeriani in Working Paper ADAPT, 19 marzo 2014, n. 152).

Dire quindi che il trattamento pensionistico è ormai maturato e che nessuno lo può più toccare, semplicemente è un non senso a livello sistematico.

Le argomentazioni utilizzate dalla giurisprudenza costituzionale a favore dei diritti acquisiti si basano principalmente sull´art. 36 Cost. e sull´art. 38 Cost. che enuncia il principio di adeguatezza dei mezzi di sostentamento in caso di vecchiaia.

Le pensioni vengono dalla giurisprudenza equiparate a tutti gli effetti a un reddito differito dove lo Stato non potrebbe, tendenzialmente, ridurre successivamente l´entità delle pensioni senza violare il principio di ragionevolezza, di affidamento e di adeguatezza del trattamento.

A questo punto bisogna però fare una distinzione assolutamente fondamentale tra le prestazioni pensionistiche che sono state finanziate dal montante contributivo versato e quelle che sono risultate più generose rispetto alla contribuzione versata.

Le prime sono le uniche effettivamente intangibili mentre tutte le altre, per la parte non finanziata dalla contribuzione versata possono essere ridotte a equità di fronte all´insostenibilità finanziaria del sistema previdenziale e in un contesto di risorse limitate.

La recente sentenza n. 124/17 della Corte Costituzionale ha ribadito la correttezza di questa impostazione.

Ed infatti la Corte Costituzionale ha dichiarato non fondante le questioni di legittimità costituzionale prospettate in relazione a diversi parametri costituzionali, sottolineando che la disciplina del tetto massimo di € 240.000,00 annui si iscrive in un contesto di risorse limitate, che devono essere ripartite in maniera congrua e trasparente.

Il limite delle risorse disponibili, scrive la Corte, vincola il legislatore a scelte preordinate a bilanciare molteplici valori di rango costituzionale, tra i quali spiccano non solo il diritto dei funzionari a una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro svolto e a un´adeguata tutela previdenziale, ma anche la solidarietà tra le diverse generazioni che interagiscono nel mercato del lavoro, in una prospettiva volta a garantire un equo ed effettivo accesso alle opportunità di occupazione che si presentano.

In questo contesto il legislatore gode di un´ampia discrezionalità nel bilanciare i diversi valori coinvolti, purché la disciplina non sia manifestamente irragionevole.

Ma quali sono i criteri per determinare se una disciplina sia o meno manifestamente irragionevole?

Anzitutto occorre valutare quali siano le finalità perseguite.

Non è irragionevole che, in presenza di risorse limitate, il legislatore ponga in essere misure di contenimento e di complessiva razionalizzazione della spesa pubblica.

In secondo luogo l´intervento del legislatore non può essere discriminatorio nel senso che gli interventi debbono avere una valenza generale, per esempio, per l´intero comparto pubblico.

La lezione che si ricava dalla sentenza n. 124/17 della Corte Costituzionale è che i trattamenti retributivi e quelli previdenziali, cosi come qualsiasi altra prestazione attribuita nell´ambito di un rapporto di durata, com´è tipicamente quello previdenziale, ben possono essere oggetto di una rivalutazione ponderata degli effetti di lungo periodo che prevalgono su altri interessi generali.

In un quadro di politiche economiche e sociali in perenne evoluzione, spetta quindi al legislatore elaborare soluzioni diverse e modulare le posizioni di vantaggio anche in rapporto alle mutevoli esigenze di riassetto complessivo della spesa e di riqualificazione delle risorse in favore delle nuove generazioni.

Unico limite all´intervento riduttivo del legislatore è dato dalle sole prestazioni pensionistiche interamente finanziate dal montante contributivo versato.



Pensioni e legge Fornero: ma cosa ha detto realmente la Corte Costituzionale?
Luigi Pecchioli

https://scenarieconomici.it/blocco-pens ... ituzionale

La Corte Costituzionale

I pensionati sono tornati nel centro del mirino.

Dopo la famosa o famigerata sentenza della Corte Costituzionale che ha dichiarato invalido il blocco degli adeguamenti per gli anni 2012 e 2013 delle pensioni superiori a tre volte il trattamento minimo INPS si è scatenato il finimondo: la maggior parte dei commentatori si sono scagliati contro i Giudici per aver voluto difendere un sistema pensionistico, quello retributivo, considerato ingiusto, parlando di sentenza “sbagliata”, di difesa di “rendite di posizione insostenibili”, di una tutela illogica ed ideologica dei c.d. “diritti acquisiti” che per qualcuno sono “la corda che sta ormai serrando il collo del Paese”, per altri una “favola” che “crea una categoria privilegiata di cittadini”. Sui social si è poi scatenato il livore contro chi gode del vecchio sistema retributivo, considerato una specie di parassita che vive comodamente alle spalle di chi adesso lavora, con una pensione ingiustamente superiore ai contributi versati, misto ad attacchi espliciti alla Corte come questo:

o anche:

che trascende in considerazioni come queste:

Ma siamo sicuri che tutti questi commentatori abbiano realmente capito cosa ha detto la Consulta? E poi sarà vero che la Corte Costituzionale abbia dichiarato l’intangibilità dei “diritti acquisiti” dei pensionati (quelli che simpaticamente Seminerio, alias Phastidio, nel suo blog chiama “detriti acquisiti”)?

Innanzitutto, cosa sono i diritti acquisiti? Nel linguaggio legale i diritti acquisiti, detti tecnicamente “diritti quesiti”, sono quei diritti o posizioni soggettive che il soggetto, per il decorso del tempo, ha ormai acquisito in maniera immutabile nella sua sfera giuridica. Questi diritti nascono dal fatto che la situazione giuridica che li ha generati si è ormai esaurita e consolidata, per cui essi sono intoccabili da qualsiasi determinazione successiva: l’esempio classico è il diritto alla retribuzione del lavoratore per l’attività già svolta; è chiaro che nessuna regolamentazione successiva potrebbe togliere il diritto di costui ad essere pagato. Ma è vero che questi diritti sono immodificabili? No, e proprio in tema di pensioni ce lo dice una sentenza della Cassazione:

In ambito pensionistico e relativamente ai diritti quesiti del pensionato, non possono essere incisi in peius per alcuna ragione i trattamenti in atto, se non in forza di una legge od un atto avente forza di legge, il quale comunque deve essere ispirato a criteri di oggettiva ragionevolezza (Cass. 12.12.2014 n. 26102)

Ed è proprio il criterio di “oggettiva ragionevolezza” che la Corte Costituzionale dichiara violato: non quindi l’astratta possibilità che vi possa essere per legge una limitazione al diritto all’adeguamento delle pensioni al costo della vita previsto e tutelato dalla L. 448/98, ma come in concreto essa è stata effettuata dalla c.d. Legge Fornero. La Consulta addirittura compie una cronistoria dei provvedimenti che nel tempo hanno limitato o bloccato questo adeguamento automatico, mostrando come essi, differentemente dalla Legge Fornero, siano riusciti a rimanere nell’ambito della ragionevolezza e della proporzionalità fra diritto e limitazioni imposte per ragioni di contenimento della spesa. Anche il blocco dell’adeguamento stabilito per il 2008, a seguito dell’innalzamento della soglia di accesso al trattamento pensionistico (il cosiddetto “scalone”), fu dichiarato costituzionalmente legittimo dalla Corte, perché colpiva solo i trattamenti pensionistici di importo complessivo superiore ad otto volte il minimo INPS e valeva per un singolo anno; ma proprio in quella sede i Giudici avvertirono il legislatore che la sospensione a tempo indeterminato del meccanismo perequativo, o la frequente reiterazione di misure intese a paralizzarlo, sarebbero potuto entrare in collisione con gli invalicabili principi di ragionevolezza e proporzionalità.

Tale monito è stato totalmente ignorato dal Governo Monti e dalla Fornero. La legge ora dichiarata incostituzionale, non solo bloccava ogni tipo di adeguamento per due anni (2012 e 2013), ma prevedeva tale misura per tutte le pensioni superiori solo al triplo del trattamento minimo INPS, ovvero superiori ad appena € 1.217,00 netti, senza possibilità di recupero successivo. E senza fornire adeguata motivazione! Vale la pena riportare due passi della sentenza (il grassetto è mio):

La disposizione concernente l’azzeramento del meccanismo perequativo, contenuta nel comma 24 dell’art. 25 del d.l. 201 del 2011, come convertito, si limita a richiamare genericamente la «contingente situazione finanziaria», senza che emerga dal disegno complessivo la necessaria prevalenza delle esigenze finanziarie sui diritti oggetto di bilanciamento, nei cui confronti si effettuano interventi così fortemente incisivi.

ed ancora:

L’interesse dei pensionati, in particolar modo di quelli titolari di trattamenti previdenziali modesti, è teso alla conservazione del potere di acquisto delle somme percepite, da cui deriva in modo consequenziale il diritto a una prestazione previdenziale adeguata. Tale diritto, costituzionalmente fondato, risulta irragionevolmente sacrificato nel nome di esigenze finanziarie non illustrate in dettaglio.

E sapete perché il Governo non ha fornito dettagliate spiegazioni della necessità di bloccare gli adeguamenti? Perché le ragioni palesate non c’erano, e quelle che realmente c’erano non potevano essere palesate!

Le ragioni addotte, ovvero trovare risorse per sanare un debito pubblico insostenibile, erano totalmente false e, ironia della sorte, questa falsità l’aveva svelata pochi mesi prima proprio la Commissione Europea in uno studio pubblicato nel settembre del 2011! Secondo questo rapporto il debito italiano a medio/lungo termine era perfettamente sostenibile, anzi, in Europa, era l’unico perfettamente sostenibile, insieme a quello della Lettonia!! Ecco il grafico relativo tratto dallo studio:

sost.debito

anche l’economista Bernd Raffelhüschen, professore di Scienze finanziarie presso l’Università di Friburgo, in Germania aveva compiuto uno studio, considerando oltre al debito esplicito, quello implicito, ovvero gli impegni già presi dallo Stato per i decenni a venire e legati in particolare all’invecchiamento della popolazione: dunque le pensioni in maturazione nei prossimi anni e la spesa sanitaria che dovrà essere sopportata da una popolazione più anziana. Il risultato era sempre lo stesso: l’Italia era il Paese più sostenibile in assoluto. Ecco il grafico esplicativo:

grafico-nzz1

La sostenibilità a breve, immediata, è la barra blu, mentre quella a lungo termine è la barra celeste: i Paesi che hanno un debito sostenibile sono quelli che hanno l’andamento della barra negativo (verso sinistra) gli altri sono quelli più o meno insostenibili. Quanti ne vedete sostenibili? Solo uno: l’Italia.

E sapete perché? Perché le riforme le avevamo già fatte! Riforma pensioni, razionalizzazione spesa sanitaria e contenimento stipendi pubblici noi le avevamo bene o male già fatte negli anni passati ed il risultato è che il nostro debito era perfettamente sostenibile.

Ma le ragioni (inconfessabili) erano altre…

Le vere ragioni hanno a che fare con l’arrivo di Monti, con la nostra situazione verso l’estero e con gli impegni presi con l’Unione Europea. Monti arrivò al governo con due precisi scopi: riequilibrare la nostra bilancia dei pagamenti e far sì che l’Italia versasse quanto dovuto al Fondo Salva Stati, EFSF poi MES, senza il rischio di vedere sospesi i pagamenti per ragioni legati all’emergenza della crisi economica. Egli ed il suo esecutivo ha compiuto perfettamente tali compiti, semplicemente distruggendo i nostri redditi, caricandoci di tasse, IMU in testa, e bloccando gli adeguamenti pensionistici, creando così un gruzzoletto con il quale abbiamo adempiuto ai nostri obblighi europei e, per tale via, contribuito a salvare le banche tedesche e francesi. Ricordo che ad ottobre 2012, nel pieno della ricerca spasmodica di un miliardo per evitare l’aumento dell’IVA (che poi avvenne) il nostro Governo versò senza fiatare due miliardi e quattrocento milioni per la rata del MES all’Europa! Naturalmente togliendoci buona parte del reddito Monti ha anche drasticamente limitato la nostra spesa per consumi, tra cui il nostro import, e per tale via riequilibrato velocemente la nostra bilancia dei pagamenti, come si può vedere:
Fonte: www.vincitorievinti.com

ciò naturalmente ha portato alla spaventosa contrazione del mercato interno, con la chiusura di attività produttive e la relativa contrazione/stagnazione economica che ancora ci affligge. Ma di questo a Monti ed al suo governo interessava poco…

Capite quindi che attaccare la Corte Costituzionale e la sua sentenza, disquisendo su presunti diritti quesiti intoccabili, fonte di intollerabile privilegio e retaggio di un diritto quasi medioevale da abbattere (tutte cose dette che abbiamo visto non essere vere) serve a mascherare l’unica realtà che la sentenza evidenzia: la Legge Fornero non aveva alcun motivo di essere ed era illegittimamente punitiva.

Ma mostrare il Re nudo è sempre rischioso…
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Taglio delle spese - per il nuovo governo

Messaggioda Berto » gio lug 05, 2018 8:40 pm

Corte Costituzionale
SENTENZA N. 70 - ANNO 2015

https://www.cortecostituzionale.it/acti ... &numero=70


REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Alessandro CRISCUOLO; Giudici : Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Paolo GROSSI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 24, comma 25, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 22 dicembre 2011, n. 214, promossi dal Tribunale ordinario di Palermo, sezione lavoro, con ordinanza del 6 novembre 2013, dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Emilia-Romagna, con due ordinanze del 13 maggio 2014, e dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Liguria, con ordinanza del 25 luglio 2014, rispettivamente iscritte ai nn. 35, 158, 159 e 192 del registro ordinanze 2014 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, nn. 14, 41 e 46, prima serie speciale, dell' anno 2014.

Visti gli atti di costituzione di C.G. e dell’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), nonché gli atti di intervento di T.G. e del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 10 marzo 2015 il Giudice relatore Silvana Sciarra;

uditi gli avvocati Riccardo Troiano per C.G., Luigi Caliulo e Filippo Mangiapane per l’INPS e l’avvocato dello Stato Giustina Noviello per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1.– Il Tribunale ordinario di Palermo, sezione lavoro, con ordinanza del 6 novembre 2013, (r.o. n. 35 del 2014), la Corte dei Conti, sezione giurisdizionale per la Regione Emilia-Romagna, con due ordinanze del 13 maggio 2014 (r.o. n. 158 e r.o. n. 159 del 2014), e la Corte dei Conti, sezione giurisdizionale per la Regione Liguria, con ordinanza del 25 luglio 2014, (r.o. n. 192 del 2014) hanno sollevato questione di legittimità costituzionale del comma 25 dell’art. 24, del decreto-legge del 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dall’ art. 1, comma 1 della legge 22 dicembre 2011, n. 214, nella parte in cui prevede che «In considerazione della contingente situazione finanziaria, la rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici, secondo il meccanismo stabilito dall’art. 34, comma 1, della legge 23 dicembre 1998, n. 448, è riconosciuta, per gli anni 2012 e 2013, esclusivamente ai trattamenti pensionistici di importo complessivo fino a tre volte il trattamento minimo INPS, nella misura del 100 per cento», in riferimento agli artt. 2, 3, 23, 36, primo comma, 38, secondo comma, 53 e 117, primo comma, della Costituzione.

Il Tribunale ordinario di Palermo, sezione lavoro, premette di essere stato adito per la condanna dell’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) a corrispondere al ricorrente i ratei di pensione maturati e non percepiti nel biennio 2012-2013, maggiorati di interessi e rivalutazione monetaria fino all’effettivo soddisfo, previa dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’azzeramento della perequazione automatica delle pensioni superiori a tre volte il trattamento minimo INPS introdotto dalla norma censurata.

Il giudice rimettente rileva che la discrezionalità di cui gode il legislatore nella scelta del meccanismo perequativo diretto all’adeguamento delle pensioni, fondata sul disposto degli artt. 36 e 38 Cost., ha trovato il proprio meccanismo attuativo nel sistema di perequazione automatica dei trattamenti pensionistici, introdotto dall’art. 19 della legge 30 aprile 1969, n. 153 (Revisione degli ordinamenti pensionistici e norme in materia di sicurezza sociale). Aggiunge che il blocco introdotto dalla normativa censurata reitera, rendendola più gravosa, la misura di interruzione del sistema perequativo già a suo tempo sancita dalla legge 24 dicembre 2007, n. 247 (Norme di attuazione del Protocollo del 23 luglio 2007 su previdenza, lavoro e competitività per favorire l’equità e la crescita sostenibili, nonché ulteriori norme in materia di lavoro e previdenza sociale), che era limitata ai soli trattamenti pensionistici eccedenti otto volte il trattamento minimo INPS, nonostante il monito rivolto al legislatore dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 316 del 2010, teso a rimuovere il rischio della frequente reiterazione di misure volte a paralizzare il meccanismo perequativo.

Con la misura censurata, secondo il rimettente, si sarebbe violato l’invito della Corte, mediante azzeramento della perequazione per i trattamenti pensionistici di più basso importo, per due anni consecutivi e senza alcuna successiva possibilità di recupero.

Il giudice a quo richiama la giurisprudenza costituzionale (in particolare la sentenza n. 223 del 2012) secondo cui la gravità della situazione economica, che lo Stato deve affrontare, può giustificare anche il ricorso a strumenti eccezionali, con la finalità di contemperare il soddisfacimento degli interessi finanziari con la garanzia dei servizi e dei diritti dei cittadini, nel rispetto del principio fondamentale di eguaglianza.

Deduce, quindi, la violazione dell’art. 38, secondo comma, Cost., poiché l’assenza di rivalutazione impedirebbe la conservazione nel tempo del valore della pensione, menomandone l’adeguatezza e dell’art. 36, primo comma, Cost., in quanto il blocco della perequazione lederebbe il principio di proporzionalità tra la pensione, che costituisce il prolungamento della retribuzione in costanza di lavoro, e il trattamento retributivo percepito durante l’attività lavorativa.

Sostiene, altresì, la lesione del combinato disposto degli artt. 36, 38 e 3 Cost., poiché la mancata rivalutazione, violando il principio di proporzionalità tra pensione e retribuzione e quello di adeguatezza della prestazione previdenziale, altererebbe il principio di eguaglianza e ragionevolezza, causando una irrazionale discriminazione in danno della categoria dei pensionati. Deduce, inoltre, la violazione del principio di universalità dell’imposizione di cui all’art. 53 Cost. e di quello di non discriminazione ai fini dell’imposizione e di parità di prelievo a parità di presupposto di imposta di cui al combinato disposto degli artt. 3, 23 e 53 Cost., poiché, indipendentemente dal nomen iuris utilizzato, la misura adottata si configurerebbe quale prestazione patrimoniale di natura sostanzialmente tributaria, in quanto doverosa, non connessa all’esistenza di un rapporto sinallagmatico tra le parti e collegata esclusivamente alla pubblica spesa in relazione ad un presupposto economicamente rilevante.

2.– La Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Emilia - Romagna, che ha sollevato con due distinte ordinanze la questione di legittimità costituzionale del comma 25 dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011, come convertito, riferisce che il ricorrente nel giudizio principale lamentava la mancata rivalutazione automatica del proprio trattamento pensionistico in applicazione della norma oggetto di censura, per effetto della esclusione del meccanismo di perequazione per le pensioni di importo superiore a tre volte il trattamento minimo INPS.

Evidenzia, alla luce della giurisprudenza costituzionale, l’illegittimità delle frequenti reiterazioni di misure intese a paralizzare il meccanismo perequativo, sottolineando, altresì, il carattere peggiorativo della norma censurata rispetto all’art.1, comma 19, della legge n. 247 del 2007, così determinando il blocco dell’adeguamento dei trattamenti superiori a tre volte, anziché a otto volte, rispetto al trattamento minimo INPS, avuto anche riguardo alla vicinanza temporale rispetto all’ultimo azzeramento attuato, nonché alla mancata previsione di un meccanismo di recupero.

In particolare, secondo il giudice a quo, il vizio della norma censurata emerge ove si consideri che la natura di retribuzione differita delle pensioni ordinarie è stata ormai definitivamente riconosciuta dalla Corte costituzionale (viene richiamata la sentenza n. 116 del 2013). Il maggior prelievo tributario rispetto ad altre categorie risulta, con più evidenza, discriminatorio, poiché grava su redditi ormai consolidati nel loro ammontare, collegati a prestazioni lavorative già rese da cittadini che hanno esaurito la loro vita lavorativa, rispetto ai quali non risulta più possibile ridisegnare sul piano sinallagmatico il rapporto di lavoro, con conseguente lesione degli artt. 3 e 53 Cost.

Ad avviso della Corte rimettente, il mancato adeguamento delle retribuzioni equivale a una loro decurtazione in termini reali con effetti permanenti, ancorché il blocco sia formalmente temporaneo, non essendo previsto alcun meccanismo di recupero, con conseguente violazione degli artt. 3, 53, 36 e 38 Cost. Tale blocco incide sui pensionati, fascia per antonomasia debole per età ed impossibilità di adeguamento del reddito, come evidenziato dalla Corte costituzionale, secondo la quale i redditi derivanti dai trattamenti pensionistici non hanno, per questa loro origine, una natura diversa e minoris generis rispetto agli altri redditi presi a riferimento, ai fini dell’osservanza dell’art. 53 Cost., che non consente trattamenti in peius di determinate categorie di redditi da lavoro (viene richiamata ancora la sentenza n. 116 del 2013).

La Corte dei conti aggiunge che l’introduzione di un’imposta speciale, sia pure transitoria ed eccezionale, viola il principio della parità di prelievo a parità di presupposto d’imposta economicamente rilevante e che, quindi, il blocco della perequazione si traduce in una lesione del combinato disposto di cui agli artt. 3 e 53 Cost., in quanto la norma censurata limita i destinatari della stessa soltanto ad una “platea di soggetti passivi”, cioè ai percettori del trattamento pensionistico, in violazione del principio della universalità della imposizione.

Essa sottolinea, inoltre, come l’intervento legislativo evidenzi il carattere sempre più strutturale del meccanismo di azzeramento della rivalutazione e non quello di misura eccezionale, non reiterabile, senza osservare il monito espresso dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 316 del 2010, con riguardo ai gravi rischi di irragionevolezza e violazione della proporzionalità derivanti dalla frequente reiterazione delle misure volte a paralizzare il meccanismo di perequazione automatica, in quanto le pensioni, anche di maggior consistenza, potrebbero non essere sufficientemente difese in relazione ai mutamenti del potere di acquisto della moneta.

Deduce, poi, come la norma censurata si presenti lesiva anche del principio di affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica, garantito dall’art. 3 Cost., giacché i pensionati adeguano i programmi di vita alle previsioni circa le proprie disponibilità economiche, con conseguente pregiudizio per le aspettative di vita di questi ultimi .

Sostiene, quindi, la palese irragionevolezza del provvedimento censurato e l’irrazionalità dello stesso per eccedenza del mezzo rispetto al fine, dovendo provvedersi ad esigenze quali la «contingente situazione finanziaria» richiamata dal legislatore mediante la fiscalità ordinaria, secondo il disposto di cui all’art. 53 Cost.

Invoca, infine, sulla base dell’art. 117, primo comma, Cost., quale parametro interposto, la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma 4 novembre 1950 (CEDU), ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, richiamando poi il principio della certezza del diritto, quale patrimonio comune degli Stati contraenti, nonché il diritto dell’individuo alla libertà e alla sicurezza di cui all’art. 6 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, il diritto di non discriminazione che include anche quella fondata sul patrimonio (art. 21), il diritto degli anziani di condurre una vita dignitosa e indipendente (art. 25), il diritto alla protezione della famiglia sul piano giuridico, economico e sociale (art. 33) ed il diritto di accesso alle prestazioni di sicurezza sociale e ai servizi sociali di cui all’art. 34 della medesima Carta.

3.– La Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Liguria, premette che la ricorrente nel giudizio principale era titolare di pensione diretta e di pensione indiretta del Fondo dipendenti INPS e che l’importo complessivo dei due trattamenti era stato mantenuto fermo anche negli anni 2012 e 2013, in applicazione della norma impugnata, aggiungendo che la parte aveva agito per la condanna dell’INPS al pagamento delle quote di trattamento non corrisposte, previo promovimento della questione di legittimità costituzionale della norma censurata.

Nel merito, osserva la Corte rimettente che, pur avendo la Corte costituzionale ammesso, in linea di principio, la compatibilità costituzionale di disposizioni legislative che incidano su situazioni soggettive attinenti ai rapporti di durata, facendosi carico di esigenze di contenimento della spesa pubblica, la stessa ha, al contempo, invitato il legislatore a salvaguardare il principio di ragionevolezza nelle manovre economiche adottate, a tutela degli interessi dei cittadini (viene richiamata la sentenza n. 316 del 2010).

Nel caso del comma 25 dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011, come convertito, secondo il giudice a quo difetterebbero i presupposti segnalati dalla giurisprudenza costituzionale, atteso che, in primo luogo, l’intervento non avrebbe il carattere realmente temporaneo voluto dal giudice delle leggi, perché esteso per un arco temporale di due anni. Inoltre, esso non riguarderebbe soltanto le pensioni più alte, incidendo, invece, sui trattamenti pensionistici di più basso importo, superiori ad euro 1.405,05 lordi per il 2012 ed a euro 1.441,56 lordi per il 2013. Per tali trattamenti, secondo la Corte rimettente, la pressante esigenza di rivalutazione sistematica del correlativo valore monetario, che garantisce il soddisfacimento degli stessi bisogni alimentari, sarebbe irrimediabilmente frustrata.

In particolare, lo sganciamento dai meccanismi di adeguamento automatico dei trattamenti pensionistici superiori a tre volte il minimo INPS, per un tempo considerevole, minerebbe il sistema di adeguamento costituzionalmente rilevante, con violazione dei principi di cui agli artt. 36 e 38 Cost.

Come ricordato dal giudice rimettente, la Corte costituzionale ha affermato (viene citata la sentenza n. 497 del 1988) che la protezione così garantita ai lavoratori postula requisiti di effettività, tanto più che essa si collega alla tutela dei diritti fondamentali della persona sanciti dall’art. 2 Cost., mentre il perdurante necessario rispetto dei principi di sufficienza ed adeguatezza delle pensioni impone al legislatore, pur nell’esercizio del suo potere discrezionale di bilanciamento tra le varie esigenze di politica economica e le disponibilità finanziarie, di individuare un meccanismo in grado di assicurare un reale ed effettivo adeguamento dei trattamenti di quiescenza alle variazioni del costo della vita (il richiamo è alla sentenza n. 30 del 2004).

Il Collegio rimettente osserva, quindi, che la Corte costituzionale, pur avendo riconosciuto, con la sentenza n. 316 del 2010, la legittimità di temporanee sospensioni della perequazione, anche se limitate alle pensioni di importo più elevato, ha, al contempo, precisato che la ragionevolezza complessiva del sistema dovrà essere apprezzata nel quadro del contemperamento di interessi di rango costituzionale, alla luce dell’art. 3 Cost. Con ciò si intende evitare che una generalizzata esigenza di contenimento della finanza pubblica possa risultare sempre e comunque valido motivo per determinare la compromissione «di diritti maturati o la lesione di consolidate sfere di interessi, sia individuali, sia anche collettivi» (viene citata la sentenza n. 92 del 2013).

Deduce, poi, il contrasto con gli artt. 3, 23, 53 Cost., sollevando d’ufficio la relativa questione, per essere stato imposto con la norma censurata un sacrificio cospicuo ad una sola categoria di cittadini, incorrendo nella violazione del principio di eguaglianza, a causa della disparità di trattamento che può essere ravvisata nella differente previsione di prestazioni patrimoniali a carico di soggetti titolari di redditi analoghi.

4.– Si è costituito in giudizio (r.o. n. 35 del 2014) C.G., ricorrente nel giudizio principale pendente dinanzi al Tribunale ordinario di Palermo, sezione lavoro, instando per la declaratoria di illegittimità costituzionale della disposizione legislativa censurata. Sostiene, in particolare, il pregiudizio per l’adeguatezza delle prestazioni previdenziali, la quale imporrebbe la costante perequazione della pensione al mutamento dei valori monetari. Aggiunge il difetto di qualsivoglia modalità di recupero della somma oggetto di blocco della perequazione per il biennio 2012-2013 e la conseguente violazione degli artt. 3, 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost., in quanto il criterio adottato sarebbe irragionevole, lesivo del principio di proporzionalità tra pensione e retribuzione, nonché del principio di adeguatezza di cui all’art. 38 Cost.

5.– Si è, altresì, costituito in tutti i giudizi, (r.o. n.n. 35, 158, 159 e 192 del 2014), l’INPS, chiedendo che siano dichiarate manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate, alla luce della giurisprudenza costituzionale secondo cui spetta alla discrezionalità del legislatore, in conformità a un ragionevole bilanciamento dei valori costituzionali, dettare la disciplina di un adeguato trattamento pensionistico alla stregua delle risorse disponibili, fatta salva la garanzia di salvaguardia delle esigenze minime di protezione della persona.

L’Istituto osserva, al riguardo, che la norma censurata si limita a sospendere l’operatività del meccanismo rivalutativo esistente per un breve orizzonte temporale e a salvaguardare le posizioni più deboli sotto il profilo economico, evidenziando, altresì, come la Corte, con la sentenza n. 316 del 2010, abbia già deciso, respingendola, analoga questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 19, della legge n. 247 del 2007 ed aggiungendo che la mancata perequazione per un tempo limitato della pensione non incide sulla sua adeguatezza, in particolare per le pensioni di importo più elevato.

6.– Ha proposto intervento ad adiuvandum T.G., premettendo di essere iscritto al Fondo pensioni del personale delle Ferrovie dello Stato spa, di non aver goduto, in forza dell’applicazione della norma di cui al comma 25 dell’art. 24, del d.l. n. 201 del 2011, come convertito, degli aumenti di perequazione automatica per la parte di pensione superiore a tre volte il trattamento minimo e di aver depositato analogo ricorso per le proprie pretese pensionistiche dinanzi alla sezione giurisdizionale del Tribunale amministrativo regionale del Lazio, allo scopo di sentir dichiarato il proprio diritto alla perequazione automatica.

Assume, in particolare, a sostegno dell’ammissibilità del proprio intervento, il difetto di tutela per chi non abbia partecipato al giudizio principale, ma versi nelle medesime condizioni delle parti e, nel merito, la violazione degli artt. 38, secondo comma, 36, primo comma, e 3 Cost., nonché, infine, dell’art. 53 e del combinato disposto degli artt. 2, 23 e 53 Cost.

7.– E’ intervenuto nei giudizi il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, instando per l’inammissibilità o, comunque, per la manifesta infondatezza della questione sollevata.

La difesa dello Stato eccepisce preliminarmente il difetto della previa domanda amministrativa, presupposto dell’azione, la cui mancanza renderebbe la domanda improponibile e adduce l’esistenza di una temporanea carenza di giurisdizione, rilevabile in qualsiasi stato e grado del giudizio.

L’Avvocatura generale rileva, in ogni caso, la manifesta infondatezza della questione riguardo a tutti i parametri segnalati e richiama la giurisprudenza costituzionale, nonché il principio dalla stessa espresso, secondo cui la mancata perequazione della pensione per un periodo contenuto non incide sull’adeguatezza del trattamento pensionistico.

8.– All’udienza pubblica, le parti costituite hanno insistito per l’accoglimento delle conclusioni formulate nelle difese scritte.

Considerato in diritto

1.– Il Tribunale ordinario di Palermo, sezione lavoro, con ordinanza del 6 novembre 2013 (r.o. n. 35 del 2014), la Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Emilia–Romagna, con due ordinanze del 13 maggio 2014 (r.o. n. 158 e n. 159 del 2014) e la Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Liguria, con ordinanza del 25 luglio 2014 (r.o. n. 192 del 2014), dubitano della legittimità costituzionale del comma 25 dell’art. 24, decreto-legge del 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 22 dicembre 2011, n. 214, nella parte in cui, per gli anni 2012 e 2013, limita la rivalutazione monetaria dei trattamenti pensionistici nella misura del 100 per cento, esclusivamente alle pensioni di importo complessivo fino a tre volte il trattamento minimo INPS, in riferimento, nel complesso, agli artt. 2, 3, 23, 36, primo comma, 38, secondo comma, 53 e 117, primo comma della Costituzione, quest’ultimo in relazione alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 (CEDU), ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848.

Tutti i giudici rimettenti ritengono che il comma 25 dell’art. 24 sarebbe costituzionalmente illegittimo per violazione degli artt. 3, 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost., in quanto la mancata rivalutazione, violando i principi di proporzionalità e adeguatezza della prestazione previdenziale, si porrebbe in contrasto con il principio di eguaglianza e ragionevolezza, causando una irrazionale discriminazione in danno della categoria dei pensionati.

La norma censurata recherebbe anche un vulnus agli artt. 2, 23 e 53 Cost., poiché la misura adottata si configurerebbe quale prestazione patrimoniale di natura sostanzialmente tributaria, in violazione del principio dell’universalità dell’imposizione a parità di capacità contributiva, in quanto posta a carico di una sola categoria di contribuenti.

La sola Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Emilia - Romagna censura, infine, la predetta disposizione, anche con riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione alla CEDU, richiamando, poi, gli artt. 6, 21, 25, 33 e 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007.

2.– I giudizi hanno ad oggetto la stessa norma, censurata in relazione a parametri costituzionali, per profili e con argomentazioni in larga misura coincidenti.

Deve, pertanto, esser disposta la riunione dei giudizi al fine di un’unica pronuncia (ex plurimis, sentenza n. 16 del 2015, ordinanza n. 164 del 2014).

Nel giudizio promosso dal Tribunale ordinario di Palermo, sezione lavoro, ha spiegato intervento ad adiuvandum T.G., che non è parte nel procedimento principale, assumendo di aver proposto analogo ricorso dinanzi alla Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Lazio, allo scopo di sentir riconosciuto il proprio diritto alla perequazione automatica del trattamento pensionistico, per gli anni 2012 e 2013, negato dall’INPS.

Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte (per tutte, sentenza n. 216 del 2014), possono intervenire nel giudizio incidentale di legittimità costituzionale le sole parti del giudizio principale ed i terzi portatori di un interesse qualificato, immediatamente inerente al rapporto sostanziale dedotto in giudizio e non semplicemente regolato, al pari di ogni altro, dalla norma o dalle norme oggetto di censura.

La circostanza che l’istante sia parte in un giudizio diverso da quello oggetto dell'ordinanza di rimessione, nel quale sia stata sollevata analoga questione di legittimità costituzionale, non è sufficiente a rendere ammissibile l'intervento (ex plurimis, ordinanza n. 150 del 2012).

Conseguentemente, poiché T.G. non è stato parte del giudizio principale nel corso del quale è stata sollevata la questione di legittimità costituzionale oggetto dell'ordinanza iscritta al n. 35 del reg. ord. 2014, né risulta essere titolare di un interesse qualificato, inerente in modo diretto e immediato al rapporto sostanziale dedotto in giudizio, l’intervento dallo stesso proposto va dichiarato inammissibile.

3.– La Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Emilia-Romagna, nelle due ordinanze di rimessione, dubita della legittimità costituzionale del comma 25 dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011, come convertito dalla legge n. 214 del 2011, in riferimento, fra l’altro all’art. 117, primo comma, Cost. e invoca genericamente, quale parametro interposto, la CEDU, per poi richiamare, più specificamente, una serie di disposizioni contenute nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

In particolare, sono evocati, oltre al principio della certezza del diritto quale «patrimonio comune agli Stati contraenti», anche « gli altri diritti garantiti dalla Carta: il diritto dell’individuo alla libertà e alla sicurezza (art. 6), il diritto di non discriminazione, che include anche quella fondata sul “patrimonio”, (art. 21), il diritto degli anziani di condurre una vita dignitosa ed indipendente (art. 25), il diritto alla protezione della famiglia sul piano giuridico, economico e sociale (art. 33), il diritto di accesso alle prestazioni di sicurezza sociale e ai servizi sociali (art. 34)».

La questione, come prospettata, è inammissibile.

Va preliminarmente rilevato che questa Corte ritiene configurarsi un’ipotesi di inammissibilità della questione, qualora il giudice non fornisca una motivazione adeguata sulla non manifesta infondatezza della stessa, limitandosi a evocarne i parametri costituzionali, senza argomentare in modo sufficiente in ordine alla loro violazione (ex plurimis, ordinanza n. 36 del 2015).

In tale ipotesi, il difetto nell’esplicitazione delle ragioni di conflitto tra la norma censurata e i parametri costituzionali evocati inibisce lo scrutinio nel merito delle questioni medesime (fra le altre, ordinanza n. 158 del 2011), con conseguente inammissibilità delle stesse.

Nel caso di specie, la Corte rimettente si limita a richiamare l’art. 117, primo comma, Cost., per violazione della CEDU «come interpretata dalla Corte di Strasburgo»

senza addurre alcun elemento a sostegno di tale asserito vulnus, in particolare con riferimento alle modalità di incidenza della norma oggetto di impugnazione sul parametro costituzionale evocato.

Inoltre il richiamo alla CEDU si rivela, nella sostanza, erroneo, atteso che esso risulta affiancato dal riferimento a disposizioni normative riconducibili alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Quest’ultima fonte, come risulta dall’art. 6, comma 1 del Trattato sull’Unione europea, come modificato dal Trattato di Lisbona, firmato il 13 dicembre 2007, ratificato e reso esecutivo con la legge 2 agosto 2008, n. 130, ha lo stesso valore giuridico dei trattati.

Pertanto, l’esame dell’ordinanza di rimessione non consente di evincere in qual modo le norme della CEDU siano compromesse, per effetto dell’applicazione della disposizione oggetto di censura.

Una tale carenza argomentativa costituisce motivo di inammissibilità della questione di legittimità costituzionale, in quanto preclusiva della valutazione della fondatezza.

Il giudice a quo non fornisce sufficienti elementi che consentano di vagliare le modalità di incidenza della norma censurata sul parametro genericamente invocato ed omette di allegare argomenti a sostegno degli effetti pregiudizievoli di tale incidenza, richiamando erroneamente disposizioni normative afferenti al diritto primario dell’Unione europea.

4.– La questione di costituzionalità per violazione degli artt. 2, 3, 23 e 53 Cost., in relazione alla presunta natura tributaria della misura in esame, non è fondata.

Tutte le ordinanze di rimessione affermano che, nel caso di specie, indipendentemente dal nomen iuris utilizzato, la misura di azzeramento della rivalutazione automatica per gli anni 2012 e 2013, relativa ai trattamenti pensionistici superiori a tre volte il trattamento minimo INPS, configurerebbe una prestazione patrimoniale di natura tributaria, lesiva del principio di universalità dell’imposizione a parità di capacità contributiva, in quanto posta a carico di una sola categoria di contribuenti. Nell’imporre alle parti di concorrere alla spesa pubblica non in ragione della propria capacità contributiva, essa violerebbe il principio di eguaglianza.

I rimettenti richiamano, in particolare, le decisioni n. 116 del 2013 e n. 223 del 2012 nella parte in cui si afferma che la Costituzione non impone una tassazione fiscale uniforme, con criteri assolutamente identici e proporzionali per tutte le tipologie di imposizione tributaria, ma esige un indefettibile raccordo con la capacità contributiva, in un quadro di sistema informato a criteri di progressività, come svolgimento ulteriore, nello specifico campo tributario, del principio di eguaglianza (in tal senso, fra le più recenti, sentenza n. 10 del 2015). Ciò si collega al compito di rimozione degli ostacoli economico-sociali che di fatto limitano la libertà e l’eguaglianza dei cittadini-persone umane, in spirito di solidarietà politica, economica e sociale di cui agli artt. 2 e 3 della Costituzione (ordinanza n. 341 del 2000, ripresa sul punto dalla sentenza n. 223 del 2012).

L’azzeramento della perequazione automatica oggetto di censura, tuttavia, sfugge ai canoni della prestazione patrimoniale di natura tributaria, atteso che esso non dà luogo ad una prestazione patrimoniale imposta, realizzata attraverso un atto autoritativo di carattere ablatorio, destinato a reperire risorse per l’erario.

La giurisprudenza di questa Corte (ex plurimis, sentenze n. 219 e n. 154 del 2014) ha costantemente precisato che gli elementi indefettibili della fattispecie tributaria sono tre: la disciplina legale deve essere diretta, in via prevalente, a procurare una (definitiva) decurtazione patrimoniale a carico del soggetto passivo; la decurtazione non deve integrare una modifica di un rapporto sinallagmatico; le risorse, connesse ad un presupposto economicamente rilevante e derivanti dalla suddetta decurtazione, devono essere destinate a sovvenire pubbliche spese.

Un tributo consiste in un «prelievo coattivo che è finalizzato al concorso alle pubbliche spese ed è posto a carico di un soggetto passivo in base ad uno specifico indice di capacità contributiva» (sentenza n. 102 del 2008). Tale indice deve esprimere l’idoneità di ciascun soggetto all’obbligazione tributaria (fra le prime, sentenze n. 91 del 1972, n. 97 del 1968, n. 89 del 1966, n. 16 del 1965 e n. 45 del 1964).

Il comma 25 dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011, come convertito, che dispone per un biennio il blocco del meccanismo di rivalutazione dei trattamenti pensionistici superiori a tre volte il trattamento minimo INPS, non riveste, quindi, natura tributaria, in quanto non prevede una decurtazione o un prelievo a carico del titolare di un trattamento pensionistico.

In base ai criteri elaborati da questa Corte in ordine alle prestazioni patrimoniali, in assenza di una decurtazione patrimoniale o di un prelievo della stessa natura a carico del soggetto passivo, viene meno in radice il presupposto per affermare la natura tributaria della disposizione. Inoltre, viene a mancare il requisito che consente l’acquisizione delle risorse al bilancio dello Stato, poiché la disposizione non fornisce, neppure in via indiretta, una copertura a pubbliche spese, ma determina esclusivamente un risparmio di spesa.

Il difetto dei requisiti propri dei tributi e, in generale, delle prestazioni patrimoniali imposte, determina, quindi, la non fondatezza delle censure sollevate in riferimento al mancato rispetto dei principi di progressività e di capacità contributiva.

5.– La questione prospettata con riferimento agli artt. 3, 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost. è fondata.

La perequazione automatica, quale strumento di adeguamento delle pensioni al mutato potere di acquisto della moneta, fu disciplinata dalla legge 21 luglio 1965, n. 903 (Avviamento alla riforma e miglioramento dei trattamenti di pensione della previdenza sociale), all’art. 10, con la finalità di fronteggiare la svalutazione che le prestazioni previdenziali subiscono per il loro carattere continuativo.

Per perseguire un tale obiettivo, in fasi sempre mutevoli dell’economia, la disciplina in questione ha subito numerose modificazioni.

Con l’art.19 della legge 30 aprile 1969, n. 153 (Revisione degli ordinamenti pensionistici e norme in materia di sicurezza sociale), nel prevedere in via generalizzata l’adeguamento dell’importo delle pensioni nel regime dell’assicurazione obbligatoria, si scelse di agganciare in misura percentuale gli aumenti delle pensioni all’indice del costo della vita calcolato dall’ISTAT, ai fini della scala mobile delle retribuzioni dei lavoratori dell’industria.

Con l’art. 11, comma 1, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503, recante «Norme per il riordinamento del sistema previdenziale dei lavoratori privati e pubblici, a norma dell’art. 3 della legge 23 ottobre 1992, n. 421», oltre alla cadenza annuale e non più semestrale degli aumenti a titolo di perequazione automatica, si stabilì che gli stessi fossero calcolati sul valore medio dell’indice ISTAT dei prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati. Tale modifica mirava a compensare l’eliminazione dell’aggancio alle dinamiche salariali, al fine di garantire un collegamento con l’evoluzione del livello medio del tenore di vita nazionale. L’art. 11, comma 2, previde, inoltre, che ulteriori aumenti potessero essere stabiliti con legge finanziaria, in relazione all’andamento dell’economia.

Il meccanismo di rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici governato dall’art. 34, comma 1, della legge 23 dicembre 1998, n. 448 (Misure di finanza pubblica per la stabilizzazione e lo sviluppo) si prefigge di tutelare i trattamenti pensionistici dalla erosione del potere di acquisto della moneta, che tende a colpire le prestazioni previdenziali anche in assenza di inflazione. Con effetto dal 1° gennaio 1999, il meccanismo di rivalutazione delle pensioni si applica per ogni singolo beneficiario in funzione dell’importo complessivo dei trattamenti corrisposti a carico dell'assicurazione generale obbligatoria. L’aumento della rivalutazione automatica opera, ai sensi del comma 1 dell’art. 34 citato, in misura proporzionale all’ammontare del trattamento da rivalutare rispetto all’ammontare complessivo.

Tuttavia, l’art 69, comma 1, della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2001), con riferimento al meccanismo appena illustrato di aumento della perequazione automatica, prevede che esso spetti per intero soltanto per le fasce di importo dei trattamenti pensionistici fino a tre volte il trattamento minimo INPS. Spetta nella misura del 90 per cento per le fasce di importo da tre a cinque volte il trattamento minimo INPS ed è ridotto al 75 per cento per i trattamenti eccedenti il quintuplo del predetto importo minimo. Questa impostazione fu seguita dal legislatore in successivi interventi, a conferma di un orientamento che predilige la tutela delle fasce più deboli. Ad esempio, l’art. 5, comma 6, del decreto-legge 2 luglio 2007, n. 81 (Disposizioni urgenti in materia finanziaria), convertito, con modificazioni, dall’art.1, comma 1, della legge 3 agosto 2007, n. 127, prevede, per il triennio 2008-2010, una perequazione al 100 per cento per le fasce di importo tra tre e cinque volte il trattamento minimo INPS.

In conclusione, la disciplina generale che si ricava dal complesso quadro storico-evolutivo della materia, prevede che soltanto le fasce più basse siano integralmente tutelate dall’erosione indotta dalle dinamiche inflazionistiche o, in generale, dal ridotto potere di acquisto delle pensioni.

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Re: Taglio delle spese - per il nuovo governo

Messaggioda Berto » gio lug 05, 2018 8:44 pm

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6.– Quanto alle sospensioni del meccanismo perequativo, affidate a scelte discrezionali del legislatore, esse hanno seguito nel corso degli anni orientamenti diversi, nel tentativo di bilanciare le attese dei pensionati con variabili esigenze di contenimento della spesa.

L’art. 2 del decreto-legge 19 settembre 1992, n. 384 (Misure urgenti in materia di previdenza, di sanità e di pubblico impiego, nonché disposizioni fiscali) previde che, in attesa della legge di riforma del sistema pensionistico e, comunque, fino al 31 dicembre 1993, fosse sospesa l’applicazione di ogni disposizione di legge, di regolamento o di accordi collettivi, che introducesse aumenti a titolo di perequazione automatica delle pensioni previdenziali ed assistenziali, pubbliche e private, ivi compresi i trattamenti integrativi a carico degli enti del settore pubblico allargato, nonché aumenti a titolo di rivalutazione delle rendite a carico dell’INAIL. In sede di conversione di tale decreto, tuttavia, con l’art. 2, comma 1-bis, della legge 14 novembre 1992, n. 438 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 19 settembre 1992, n. 384, recante misure urgenti in materia di previdenza, di sanità e di pubblico impiego, nonché disposizioni fiscali), si provvide a mitigare gli effetti della disposizione, che dunque operò non come provvedimento di blocco della perequazione, bensì quale misura di contenimento della rivalutazione, alla stregua di percentuali predefinite dal legislatore in riferimento al tasso di inflazione programmata.

In seguito, l’art. 11, comma 5, della legge 24 dicembre 1993, n. 537 (Interventi correttivi di finanza pubblica), provvide a restituire, mediante un aumento una tantum disposto per il 1994, la differenza tra inflazione programmata ed inflazione reale, perduta per effetto della disposizione di cui all’art. 2 della legge n. 438 del 1992. Conseguentemente, il blocco, originariamente previsto in via generale e senza distinzioni reddituali dal legislatore del 1992, fu convertito in una forma meno gravosa di raffreddamento parziale della dinamica perequativa.

Dopo l’entrata in vigore del sistema contributivo, il legislatore (art. 59, comma 13 della legge 27 dicembre 1997, n. 449, recante «Misure per la stabilizzazione della finanza pubblica») ha imposto un azzeramento della perequazione automatica, per l’anno 1998. Tale norma, ritenuta legittima da questa Corte con ordinanza n. 256 del 2001, ha limitato il proprio campo di applicazione ai soli trattamenti di importo medio - alto, superiori a cinque volte il trattamento minimo.

Il blocco, introdotto dall’art. 24, comma 25, come convertito, del d.l. n. 201 del 2011, come convertito, ora oggetto di censura, trova un precedente nell’art. 1, comma 19, della legge 24 dicembre 2007, n. 247 (Norme di attuazione del Protocollo del 23 luglio 2007 su previdenza, lavoro e competitività per favorire l’equità e la crescita sostenibili, nonché ulteriori norme in materia di lavoro e previdenza sociale) che, tuttavia, aveva limitato l’azzeramento temporaneo della rivalutazione ai trattamenti particolarmente elevati, superiori a otto volte il trattamento minimo INPS.

Si trattava – come si evince dalla relazione tecnica al disegno di legge approvato dal Consiglio dei ministri il 13 ottobre 2007 – di una misura finalizzata a concorrere solidaristicamente al finanziamento di interventi sulle pensioni di anzianità, a seguito, dell’innalzamento della soglia di accesso al trattamento pensionistico (il cosiddetto “scalone”) introdotto, a decorrere dal 1° gennaio 2008, dalla legge 23 agosto 2004, n. 243 (Norme in materia pensionistica e deleghe al Governo nel settore della previdenza pubblica, per il sostegno alla previdenza complementare e all’occupazione stabile e per il riordino degli enti di previdenza ed assistenza obbligatoria).

L’azzeramento della perequazione, disposto per effetto dell’art. 1, comma 19, della legge n. 247 del 2007, prima citata, è stato sottoposto al vaglio di questa Corte, che ha deciso la questione con sentenza n. 316 del 2010. In tale pronuncia questa Corte ha posto in evidenza la discrezionalità di cui gode il legislatore, sia pure nell’osservare il principio costituzionale di proporzionalità e adeguatezza delle pensioni, e ha reputato non illegittimo l’azzeramento, per il solo anno 2008, dei trattamenti pensionistici di importo elevato (superiore ad otto volte il trattamento minimo INPS).

Al contempo, essa ha indirizzato un monito al legislatore, poiché la sospensione a tempo indeterminato del meccanismo perequativo, o la frequente reiterazione di misure intese a paralizzarlo, entrerebbero in collisione con gli invalicabili principi di ragionevolezza e proporzionalità. Si afferma, infatti, che «[…] le pensioni, sia pure di maggiore consistenza, potrebbero non essere sufficientemente difese in relazione ai mutamenti del potere d’acquisto della moneta».

7.– L’art. 24, comma 25, del d.l. n. 201 del 2011, come convertito, oggetto di censura nel presente giudizio, si colloca nell’ambito delle “Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici” (manovra denominata “salva Italia”) e stabilisce che «In considerazione della contingente situazione finanziaria», la rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici, in base al già citato meccanismo stabilito dall’art. 34, comma 1, della legge n. 448 del 1998, è riconosciuta, per gli anni 2012 e 2013, esclusivamente ai trattamenti pensionistici di importo complessivo fino a tre volte il trattamento minimo INPS, nella misura del cento per cento.

Per effetto del dettato legislativo si realizza un’indicizzazione al 100 per cento sulla quota di pensione fino a tre volte il trattamento minimo INPS, mentre le pensioni di importo superiore a tre volte il minimo non ricevono alcuna rivalutazione. Il blocco integrale della perequazione opera, quindi, per le pensioni di importo superiore a euro 1.217,00 netti.

Tale meccanismo si discosta da quello originariamente previsto dall’art. 24, comma 4, della legge 28 febbraio 1986, n. 41 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 1986) e confermato dall’art. 11 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503 (Norme per il riordinamento del sistema previdenziale dei lavoratori privati e pubblici, a norma dell’articolo 3 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), che non discriminava tra trattamenti pensionistici complessivamente intesi, bensì tra fasce di importo.

Secondo la normativa antecedente, infatti, la percentuale di aumento si applicava sull'importo non eccedente il doppio del trattamento minimo del fondo pensioni per i lavoratori dipendenti. Per le fasce di importo comprese fra il doppio ed il triplo del trattamento minimo la percentuale era ridotta al 90 per cento. Per le fasce di importo superiore al triplo del trattamento minimo la percentuale era ridotta al 75 per cento.

Le modalità di funzionamento della disposizione censurata sono ideate per incidere sui trattamenti complessivamente intesi e non sulle fasce di importo. Esse trovano un unico correttivo nella previsione secondo cui, per le pensioni di importo superiore a tre volte il trattamento minimo INPS e inferiore a tale limite incrementato della quota di rivalutazione automatica spettante, l’aumento di rivalutazione è comunque attribuito fino a concorrenza del predetto limite maggiorato.

La norma censurata è frutto di un emendamento che, all’esito delle osservazioni rivolte al Ministro del lavoro e delle politiche sociali (Camera dei Deputati, Commissione XI, Lavoro pubblico e privato, audizione del 6 dicembre 2011), ha determinato la sostituzione della originaria formula. Quest’ultima prevedeva l’azzeramento della perequazione per tutti i trattamenti pensionistici di importo superiore a due volte il trattamento minimo INPS e, quindi, ad euro 946,00. Il Ministro chiarì nella stessa audizione che la misura da adottare non confluiva nella riforma pensionistica, ma era da intendersi quale «provvedimento da emergenza finanziaria».

La disposizione censurata ha formato oggetto di un’interrogazione parlamentare (Senato della Repubblica, seduta n. 93, interrogazione presentata l’8 agosto 2013, n. 3 – 00321) rimasta inevasa, in cui si chiedeva al Governo se intendesse promuovere la revisione del provvedimento, alla luce della giurisprudenza costituzionale.

Dall’excursus storico compiuto traspare che la norma oggetto di censura si discosta in modo significativo dalla regolamentazione precedente. Non solo la sospensione ha una durata biennale; essa incide anche sui trattamenti pensionistici di importo meno elevato.

Il provvedimento legislativo censurato si differenzia, altresì, dalla legislazione ad esso successiva.

L’art. 1, comma 483, lettera e), della legge di stabilità per l’anno 2014 (legge 27 dicembre 2013, n. 147, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato-legge di stabilità») ha previsto, per il triennio 2014-2016, una rimodulazione nell’applicazione della percentuale di perequazione automatica sul complesso dei trattamenti pensionistici, secondo il meccanismo di cui all’art. 34, comma 1, della legge n. 448 del 1998, con l’azzeramento per le sole fasce di importo superiore a sei volte il trattamento minimo INPS e per il solo anno 2014. Rispetto al disegno di legge originario le percentuali sono state, peraltro, parzialmente modificate.

Nel triennio in oggetto la perequazione si applica nella misura del 100 per cento per i trattamenti pensionistici di importo fino a tre volte il trattamento minimo, del 95 per cento per i trattamenti di importo superiore a tre volte il trattamento minimo e pari o inferiori a quattro volte il trattamento minimo del 75 per cento per i trattamenti oltre quattro volte e pari o inferiori a cinque volte il trattamento minimo, del 50 per cento per i trattamenti oltre cinque volte e pari o inferiori a sei volte il trattamento minimo INPS. Soltanto per il 2014 il blocco integrale della perequazione ha riguardato le fasce di importo superiore a sei volte il trattamento minimo. Il legislatore torna dunque a proporre un discrimen fra fasce di importo e si ispira a criteri di progressività, parametrati sui valori costituzionali della proporzionalità e della adeguatezza dei trattamenti di quiescenza. Anche tale circostanza conferma la singolarità della norma oggetto di censura.

8.– Dall’analisi dell’evoluzione normativa in subiecta materia, si evince che la perequazione automatica dei trattamenti pensionistici è uno strumento di natura tecnica, volto a garantire nel tempo il rispetto del criterio di adeguatezza di cui all’art. 38, secondo comma, Cost. Tale strumento si presta contestualmente a innervare il principio di sufficienza della retribuzione di cui all’art. 36 Cost., principio applicato, per costante giurisprudenza di questa Corte, ai trattamenti di quiescenza, intesi quale retribuzione differita (fra le altre, sentenza n. 208 del 2014 e sentenza n. 116 del 2013).

Per le sue caratteristiche di neutralità e obiettività e per la sua strumentalità rispetto all’attuazione dei suddetti principi costituzionali, la tecnica della perequazione si impone, senza predefinirne le modalità, sulle scelte discrezionali del legislatore, cui spetta intervenire per determinare in concreto il quantum di tutela di volta in volta necessario. Un tale intervento deve ispirarsi ai principi costituzionali di cui agli artt. 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost., principi strettamente interconnessi, proprio in ragione delle finalità che perseguono.

La ragionevolezza di tali finalità consente di predisporre e perseguire un progetto di eguaglianza sostanziale, conforme al dettato dell’art. 3, secondo comma, Cost. così da evitare disparità di trattamento in danno dei destinatari dei trattamenti pensionistici. Nell’applicare al trattamento di quiescenza, configurabile quale retribuzione differita, il criterio di proporzionalità alla quantità e qualità del lavoro prestato (art. 36, primo comma, Cost.) e nell’affiancarlo al criterio di adeguatezza (art. 38, secondo comma, Cost.), questa Corte ha tracciato un percorso coerente per il legislatore, con l’intento di inibire l’adozione di misure disomogenee e irragionevoli (fra le altre, sentenze n. 208 del 2014 e n. 316 del 2010). Il rispetto dei parametri citati si fa tanto più pressante per il legislatore, quanto più si allunga la speranza di vita e con essa l’aspettativa, diffusa fra quanti beneficiano di trattamenti pensionistici, a condurre un’esistenza libera e dignitosa, secondo il dettato dell’art. 36 Cost.

Non a caso, fin dalla sentenza n. 26 del 1980, questa Corte ha proposto una lettura sistematica degli artt. 36 e 38 Cost., con la finalità di offrire «una particolare protezione per il lavoratore». Essa ha affermato che proporzionalità e adeguatezza non devono sussistere soltanto al momento del collocamento a riposo, «ma vanno costantemente assicurate anche nel prosieguo, in relazione ai mutamenti del potere d’acquisto della moneta», senza che ciò comporti un’automatica ed integrale coincidenza tra il livello delle pensioni e l’ultima retribuzione, poiché è riservata al legislatore una sfera di discrezionalità per l’attuazione, anche graduale, dei termini suddetti (ex plurimis, sentenze n. 316 del 2010; n. 106 del 1996; n. 173 del 1986; n. 26 del 1980; n. 46 del 1979; n. 176 del 1975; ordinanza n. 383 del 2004). Nondimeno, dal canone dell’art. 36 Cost. «consegue l’esigenza di una costante adeguazione del trattamento di quiescenza alle retribuzioni del servizio attivo» (sentenza n. 501 del 1988; fra le altre, negli stessi termini, sentenza n. 30 del 2004).

Il legislatore, sulla base di un ragionevole bilanciamento dei valori costituzionali deve «dettare la disciplina di un adeguato trattamento pensionistico, alla stregua delle risorse finanziarie attingibili e fatta salva la garanzia irrinunciabile delle esigenze minime di protezione della persona» (sentenza n. 316 del 2010). Per scongiurare il verificarsi di «un non sopportabile scostamento» fra l’andamento delle pensioni e delle retribuzioni, il legislatore non può eludere il limite della ragionevolezza (sentenza n. 226 del 1993).

Al legislatore spetta, inoltre, individuare idonei meccanismi che assicurino la perdurante adeguatezza delle pensioni all’incremento del costo della vita. Così è avvenuto anche per la previdenza complementare, che, pur non incidendo in maniera diretta e immediata sulla spesa pubblica, non risulta del tutto indifferente per quest’ultima, poiché contribuisce alla tenuta complessiva del sistema delle assicurazioni sociali (sentenza n. 393 del 2000) e, dunque, all’adeguatezza della prestazione previdenziale ex art. 38, secondo comma, Cost.

Pertanto, il criterio di ragionevolezza, così come delineato dalla giurisprudenza citata in relazione ai principi contenuti negli artt. 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost., circoscrive la discrezionalità del legislatore e vincola le sue scelte all’adozione di soluzioni coerenti con i parametri costituzionali.

9.– Nel vagliare la dedotta illegittimità dell’azzeramento del meccanismo perequativo per i trattamenti pensionistici superiori a otto volte il minimo INPS per l’anno 2008 (art. 1, comma 19 della già citata legge n. 247 del 2007), questa Corte ha ricostruito la ratio della norma censurata, consistente nell’esigenza di reperire risorse necessarie «a compensare l’eliminazione dell’innalzamento repentino a sessanta anni a decorrere dal 1° gennaio 2008, dell’età minima già prevista per l’accesso alla pensione di anzianità in base all’articolo 1, comma 6, della legge 23 agosto 2004, n. 243», con «lo scopo dichiarato di contribuire al finanziamento solidale degli interventi sulle pensioni di anzianità, contestualmente adottati con l’art. 1, commi 1 e 2, della medesima legge» (sentenza n. 316 del 2010).

In quell’occasione questa Corte non ha ritenuto che fossero stati violati i parametri di cui agli artt. 3, 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost. Le pensioni incise per un solo anno dalla norma allora impugnata, di importo piuttosto elevato, presentavano «margini di resistenza all’erosione determinata dal fenomeno inflattivo». L’esigenza di una rivalutazione costante del correlativo valore monetario è apparsa per esse meno pressante.

Questa Corte ha ritenuto, inoltre, non violato il principio di eguaglianza, poiché il blocco della perequazione automatica per l’anno 2008, operato esclusivamente sulle pensioni superiori ad un limite d’importo di sicura rilevanza, realizzava «un trattamento differenziato di situazioni obiettivamente diverse rispetto a quelle, non incise dalla norma impugnata, dei titolari di pensioni più modeste». La previsione generale della perequazione automatica è definita da questa Corte «a regime», proprio perché «prevede una copertura decrescente, a mano a mano che aumenta il valore della prestazione». La scelta del legislatore in quel caso era sostenuta da una ratio redistributiva del sacrificio imposto, a conferma di un principio solidaristico, che affianca l’introduzione di più rigorosi criteri di accesso al trattamento di quiescenza. Non si viola il principio di eguaglianza, proprio perché si muove dalla ricognizione di situazioni disomogenee.

La norma, allora oggetto d’impugnazione, ha anche superato le censure di palese irragionevolezza, poiché si è ritenuto che non vi fosse riduzione quantitativa dei trattamenti in godimento ma solo rallentamento della dinamica perequativa delle pensioni di valore più cospicuo. Le esigenze di bilancio, affiancate al dovere di solidarietà, hanno fornito una giustificazione ragionevole alla soppressione della rivalutazione automatica annuale per i trattamenti di importo otto volte superiore al trattamento minimo INPS, «di sicura rilevanza», secondo questa Corte, e, quindi, meno esposte al rischio di inflazione.

La richiamata pronuncia ha inteso segnalare che la sospensione a tempo indeterminato del meccanismo perequativo, ovvero la frequente reiterazione di misure intese a paralizzarlo, «esporrebbero il sistema ad evidenti tensioni con gli invalicabili principi di ragionevolezza e proporzionalità», poiché risulterebbe incrinata la principale finalità di tutela, insita nel meccanismo della perequazione, quella che prevede una difesa modulare del potere d’acquisto delle pensioni.

Questa Corte si era mossa in tale direzione già in epoca risalente, con il ritenere di dubbia legittimità costituzionale un intervento che incida «in misura notevole e in maniera definitiva» sulla garanzia di adeguatezza della prestazione, senza essere sorretto da una imperativa motivazione di interesse generale (sentenza n. 349 del 1985).

Deve rammentarsi che, per le modalità con cui opera il meccanismo della perequazione, ogni eventuale perdita del potere di acquisto del trattamento, anche se limitata a periodi brevi, è, per sua natura, definitiva. Le successive rivalutazioni saranno, infatti, calcolate non sul valore reale originario, bensì sull’ultimo importo nominale, che dal mancato adeguamento è già stato intaccato.

10.– La censura relativa al comma 25 dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011, se vagliata sotto i profili della proporzionalità e adeguatezza del trattamento pensionistico, induce a ritenere che siano stati valicati i limiti di ragionevolezza e proporzionalità, con conseguente pregiudizio per il potere di acquisto del trattamento stesso e con «irrimediabile vanificazione delle aspettative legittimamente nutrite dal lavoratore per il tempo successivo alla cessazione della propria attività» (sentenza n. 349 del 1985).

Non è stato dunque ascoltato il monito indirizzato al legislatore con la sentenza n. 316 del 2010.

Si profila con chiarezza, a questo riguardo, il nesso inscindibile che lega il dettato degli artt. 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost. (fra le più recenti, sentenza n. 208 del 2014, che richiama la sentenza n. 441 del 1993). Su questo terreno si deve esercitare il legislatore nel proporre un corretto bilanciamento, ogniqualvolta si profili l’esigenza di un risparmio di spesa, nel rispetto di un ineludibile vincolo di scopo «al fine di evitare che esso possa pervenire a valori critici, tali che potrebbero rendere inevitabile l’intervento correttivo della Corte» (sentenza n. 226 del 1993).

La disposizione concernente l’azzeramento del meccanismo perequativo, contenuta nel comma 24 dell’art. 25 del d.l. 201 del 2011, come convertito, si limita a richiamare genericamente la «contingente situazione finanziaria», senza che emerga dal disegno complessivo la necessaria prevalenza delle esigenze finanziarie sui diritti oggetto di bilanciamento, nei cui confronti si effettuano interventi così fortemente incisivi. Anche in sede di conversione (legge 22 dicembre 2011, n. 214), non è dato riscontrare alcuna documentazione tecnica circa le attese maggiori entrate, come previsto dall’art. 17, comma 3, della legge 31 dicembre 2009, n. 196, recante «Legge di contabilità e finanza pubblica» (sentenza n. 26 del 2013, che interpreta il citato art. 17 quale «puntualizzazione tecnica» dell’art. 81 Cost.).

L’interesse dei pensionati, in particolar modo di quelli titolari di trattamenti previdenziali modesti, è teso alla conservazione del potere di acquisto delle somme percepite, da cui deriva in modo consequenziale il diritto a una prestazione previdenziale adeguata. Tale diritto, costituzionalmente fondato, risulta irragionevolmente sacrificato nel nome di esigenze finanziarie non illustrate in dettaglio. Risultano, dunque, intaccati i diritti fondamentali connessi al rapporto previdenziale, fondati su inequivocabili parametri costituzionali: la proporzionalità del trattamento di quiescenza, inteso quale retribuzione differita (art. 36, primo comma, Cost.) e l’adeguatezza (art. 38, secondo comma, Cost.). Quest’ultimo è da intendersi quale espressione certa, anche se non esplicita, del principio di solidarietà di cui all’art. 2 Cost. e al contempo attuazione del principio di eguaglianza sostanziale di cui all’art. 3, secondo comma, Cost.

La norma censurata è, pertanto, costituzionalmente illegittima nei termini esposti.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

1) dichiara inammissibile l’intervento di T.G.;

2) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 24, comma 25, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 22 dicembre 2011, n. 214, nella parte in cui prevede che «In considerazione della contingente situazione finanziaria, la rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici, secondo il meccanismo stabilito dall’art. 34, comma 1, della legge 23 dicembre 1998, n. 448, è riconosciuta, per gli anni 2012 e 2013, esclusivamente ai trattamenti pensionistici di importo complessivo fino a tre volte il trattamento minimo INPS, nella misura del 100 per cento»;

3) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 24, comma 25, del d.l. n. 201 del 2011, come convertito, sollevata, in riferimento agli artt. 2, 3, 23 e 53, della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Palermo, sezione lavoro, dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Emilia-Romagna e dalla Corte dei Conti, sezione giurisdizionale per la Regione Liguria, con le ordinanze indicate in epigrafe;

4) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 24, comma 25, del d.l. n. 201 del 2011, come convertito, sollevata, in riferimento all’art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Emilia-Romagna, con le ordinanze indicate in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 marzo 2015.

F.to:

Alessandro CRISCUOLO, Presidente

Silvana SCIARRA, Redattore

Gabriella Paola MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 30 aprile 2015.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: Gabriella Paola MELATTI
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Taglio delle spese - per il nuovo governo

Messaggioda Berto » gio lug 05, 2018 8:45 pm

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Re: Taglio delle spese - per il nuovo governo

Messaggioda Berto » gio lug 05, 2018 8:46 pm

10) Decimo taglio, finanziamenti alla stampa e all'editoria



Taglio dei finanziamenti all'editoria

https://www.ilpost.it/2017/03/27/giorna ... i-pubblici

Come cambiano i contributi pubblici ai giornali

Il 24 marzo il Consiglio dei ministri ha approvato un decreto legislativo che contiene le nuove regole per la distribuzione dei contributi diretti all’editoria, cioè i fondi con cui il governo finanzia alcune categorie di giornali. La novità più importante è che i fondi non potranno più essere ricevuto da «imprese editrici di organi d’informazione dei partiti, dei movimenti politici e sindacali». Tramite alcuni meccanismi, il nuovo sistema di distribuzione cercherà anche di incentivare il passaggio al digitale: per esempio potranno ricevere il finanziamento solo le imprese che pubblicheranno un’edizione digitale, oltre a quella cartacea, del loro periodico. Inoltre:

Per quanto riguarda i criteri di calcolo dei contributi, come nell’attuale sistema, i contributi sono calcolati in parte come rimborso di costi e in parte in base al numero di copie vendute. Vengono riconosciuti in percentuale più alta i costi connessi all’edizione digitale, al fine di sostenere la transizione dalla carta al web. Si prevedono parametri diversi a seconda del numero di copie vendute e si introduce un limite massimo al contributo, che non potrà in ogni caso superare il 50% dei ricavi conseguiti nell’anno di riferimento.

Non è ancora chiaro quanto sarà destinato a questo fondo nel corso del 2017. L’anno scorso, le risorse effettivamente disponibili sono state circa una decina di milioni di euro. Nel decreto legislativo approvato dal governo sono definite le sette categorie di imprese editoriali che possono chiedere il sostegno pubblico, e sono:

Cooperative giornalistiche che editano quotidiani e periodici;
Imprese editrici di quotidiani e periodici il cui capitale è detenuto in misura maggioritaria da cooperative, fondazioni o enti senza fini di lucro, limitatamente ad un periodo transitorio di cinque anni dall’entrata in vigore della legge di delega;
Enti senza fini di lucro ovvero imprese editrici di quotidiani e periodici il cui capitale è interamente detenuto da tali enti;
Imprese editrici che editano quotidiani e periodici espressione di minoranze linguistiche;
Imprese editrici, enti ed associazioni che editano periodici per non vedenti e ipovedenti;
Associazioni dei consumatori che editano periodici in materia di tutela del consumatore, iscritte nell’elenco istituito dal Codice del consumo;
Imprese editrici di quotidiani e di periodici italiani editi e diffusi all’estero o editi in Italia e diffusi prevalentemente all’estero.

Questa lista esclude tutti i grandi gruppi editoriali e i principali quotidiani, come Repubblica e il Corriere, che non hanno mai goduto di finanziamenti diretti. Come ha scritto Prima Comunicazione sono escluse anche «le imprese editoriali quotate in Borsa, le imprese editrici di organi d’informazione dei partiti, dei movimenti politici e sindacali, nonché le pubblicazioni specialistiche». È stato cambiato un precedente limite che consentiva l’accesso ai contributi alle imprese editoriali che esistevano da almeno cinque anni; ora quel limite è stato portato a due anni. Sono però stati aggiunti alcuni requisiti che prima non erano previsti, come alcuni obblighi relativi ai contratti di lavoro dei dipendenti.

Parlando dei criteri di calcolo dei contributi, il Consiglio dei ministri ha spiegato che «come nell’attuale sistema, i contributi sono calcolati in parte come rimborso di costi e in parte in base al numero di copie vendute. Vengono riconosciuti in percentuale più alta i costi connessi all’edizione digitale, al fine di sostenere la transizione dalla carta al web. Si prevedono parametri diversi a seconda del numero di copie vendute e si introduce un limite massimo al contributo, che non potrà in ogni caso superare il 50% dei ricavi conseguiti nell’anno di riferimento». Sono stati cambiati anche i meccanismi di calcolo dei contributi di «quotidiani e periodici in lingua italiana prevalentemente diffusi all’estero».

Il decreto non modifica invece i contributi indiretti, un’altra forma di sostegno all’editoria che consiste in sconti fiscali e agevolazioni sugli acquisti di carta. I contributi indiretti sono stati ridotti moltissimo nel corso degli ultimi anni e oggi ammontano a pochi milioni di euro. Quasi tutti i grandi gruppi editoriali sfruttano questa forma di contributi, anche se non sono particolarmente rilevanti per i loro bilanci. Nell’ultimo bilancio del gruppo RCS, che pubblica il Corriere della Sera, i contributi sono indicati allo 0,5 per cento del totale dei ricavi.

Il decreto legislativo è stato approvato in attuazione della legge 198 del 2016 che istituiva un fondo per il pluralismo e l’innovazione dell’informazione e dava deleghe al governo per la ridefinizione, tra le altre cose, della disciplina del sostegno pubblico per il settore dell’editoria. L’obiettivo del decreto è ridefinire – attraverso il fondo creato con la legge del 2016 – il sistema dei contributi a quotidiani e periodici e «misure per gli investimenti delle imprese editrici, l’innovazione del sistema distributivo e il finanziamento di progetti innovativi, di processi di ristrutturazione e di riorganizzazione». Prendendo atto della «crisi del mercato editoriale» il decreto si propone quindi di «assicurare il sostegno pubblico necessario alle voci informative autonome e indipendenti, in particolare a quelle più piccole e legate alle comunità locali».

Il decreto legislativo è stato approvato in esame “preliminare” perché, come spiega il comunicato stampa pubblicato dopo il Consiglio dei ministri, «dopo l’approvazione preliminare, il provvedimento sarà trasmesso al Consiglio di Stato ed alle Commissioni parlamentari competenti per l’acquisizione dei rispettivi pareri». Una volta approvato in via definitiva il decreto sarà direttamente trasformato in legge, senza bisogno di ulteriori votazioni. Il parere delle Commissioni non è vincolante per quanto riguarda le modifiche da attuare ai decreti legislativi. Il decreto è stato proposto dal presidente del Consiglio Paolo Gentiloni e da Luca Lotti, che è ministro dello Sport ma ha la delega all’Editoria.


http://www.lettera43.it/it/articoli/med ... ani/213241

http://www.ilcaffe.tv/articolo/31208/1- ... -non-leggi

https://www.facebook.com/permalink.php? ... 0239253643




La Casta dei giornali/ Il Sole 24 Ore

http://www.ilblogdellestelle.it/2008/01 ... _gi_6.html

La Confindustria vuole il libero mercato. Il taglio della spesa pubblica. L'allontanamento degli statali fannulloni. Vuole la legge 30/Maroni, il precariato. E, come è ovvio, anche il profitto di impresa. Il suo giornale, Il Sole 24 Ore, ha ricevuto contributi pubblici per 19.222.787 euro nel 2006. Un quotidiano liberista/statalista che fa utili con le nostre tasse. Un esempio di coerenza contro lo spreco.

"La bibbia del libero mercato in Italia è – o dovrebbe essere – il nostro più grande quotidiano economico, Il Sole 24 Ore. Uno splendido prodotto editoriale e un’impresa che fa utili. Fondato nel 1865, è tra i nostri quotidiani più diffusi (347 mila copie al giorno nel marzo 2007). Per l’esattezza il terzo, dopo il Corriere della Sera (660 mila) e La Repubblica (629 mila), quasi a pari quota con la Gazzetta dello Sport (343 mila). Ha fama di testata autorevole e rigorosa, non solo per le ricche e impeccabili informazioni di servizio che quotidianamente fornisce alle imprese e agli imprenditori. Quotidianamente dalle sue colonne si documentano le interferenze dello Stato nel mercato, le politiche assistenziali e le numerose anomalie che si registrano in Italia nel rapporto fra istituzioni pubbliche ed economia. Ma c’è una notizia – una cosa, diciamo così, abbastanza rilevante e certamente anomala nel panorama internazionale dell’informazione, dell’economia e della politica – che Il Sole 24 Ore non ha mai fornito ai propri lettori: i contributi erogati dallo Stato al Sole 24 Ore.

Trattasi di un apporto annuo agli utili degli azionisti di questo giornale, in definitiva alla Confindustria – sotto forma d’integrazioni per l’acquisto della carta e di agevolazioni tariffarie – che ha raggiunto, come si è scoperto nel 2006, la bella cifra di oltre 19.222.787 euro (di un contributo pubblico di 257.448 euro gode anche Radio 24 - Il Sole 24 Ore).
Solo con le agevolazioni per la spedizione postale, Il Sole 24 Ore, il giornale italiano che in assoluto ha più abbonati, “risparmia” 11 milioni e mezzo di euro l’anno. Per ogni copia spedita ai propri abbonati, invece di 26 centesimi, ne sborsa 11. Il resto ce lo mette lo Stato.
«Da liberista», lo stimato e bravo direttore del Sole 24 Ore, Ferruccio De Bortoli, si dichiara «contrario agli incentivi pubblici». E allora? «In linea di principio, credo che se ci fossero le condizioni di competizione più aperta ed anche condizioni di distribuzione più capillare, credo che naturalmente si potrebbe discutere in termini di mercato».
Nel frattempo, evidentemente, se ne può fare a meno. Una cosa sono i principi, un’altra sono i dané." Beppe Lopez, La Casta dei giornali, ed. Nuovi Equilibri


Sole 24 Ore, "le perdite del quotidiano mascherate nei bilanci, le spese di Napoletano e l'operazione 'folle' costata milioni"
di Chiara Brusini e Giovanna Trinchella | 24 marzo 2017

https://www.ilfattoquotidiano.it/2017/0 ... ni/3473180

I testimoni sentiti dagli investigatori nell'ambito dell'inchiesta per false comunicazioni e appropriazione indebita sono concordi: i dati venivano presentati in forma aggregata per non far capire da dove derivava il rosso. Emerge poi il caso della Gpp Business Media, che nel 2013, essendo in perdita, fu ceduta con una "dote" per l'acquirente. Quello con cui aveva trattato il direttore finanziario si accontentava di 7 milioni, ma il presidente Benedini "in un pomeriggio" decise di venderla alla Tecniche nuove mettendo sul piatto oltre 11 milioni

C’era un motivo ben preciso dietro la scelta degli ex vertici del gruppo 24 Ore di non fornire al mercato i dati su ricavi e margini delle singole divisioni aziendali: nessuno doveva sapere che la causa principale del rosso di bilancio era il quotidiano rosa salmone. A non volerlo era in primo luogo l’ex direttore Roberto Napoletano, le cui spese personali – dall’auto a noleggio alle spese di viaggio – erano una voce di costo non indifferente per i conti del giornale e non erano soggette all’approvazione del management. Affogando le perdite in un rendiconto aggregato, che comprendeva anche i risultati della radio e dell’area “tax & legal”, era più semplice mascherarle. Nel frattempo Napoletano beneficiava anche (fino al 2015) di un bonus legato all’andamento delle vendite, dato che però veniva gonfiato attraverso falsi abbonamenti digitali e copie cartacee mandate al macero o regalate. Sono gli aspetti su cui, a indagini ancora in corso e in via di sviluppo, concordano tutti i principali testimoni sentiti dagli investigatori della Guardia di Finanza che indagano sullo stesso Napoletano, l’ex presidente Benito Benedini e l’ex ad Donatella Treu, accusati di false comunicazioni sociali, mentre ad altre sette persone, tra cui l’ex direttore finanziario Massimo Arioli, la procura di Milano contesta l’appropriazione indebita.

Nei giorni in cui, dopo la presentazione di un piano industriale che prevede nuovi tagli all’organico e alle collaborazioni, si attende la convocazione del cda che ufficializzerà l’aumento di capitale indispensabile per la sopravvivenza , è impietoso il quadro che risulta dalle dichiarazioni di Gabriele Del Torchio – amministratore delegato del gruppo dal giugno al novembre 2016 – dell’ex consigliere indipendente Nicolò Dubini e dell’ex direttore finanziario Valentina Montanari. E’ l’immagine di un gruppo editoriale che secondo quanto riferito dall’ex ad perdeva 4 milioni l’anno solo come differenza tra il corrispettivo pagato alle società Di Source, Johnson e Edifreepress per la vendita di copie digitali e cartacee del Sole e quello che versava alle stesse società per il “supporto nel marketing“. Un gruppo in cui, come già emerso, il direttore “travalicava il perimetro delle proprie competenze”, “causando”, stando alle dichiarazioni di Dubini, “seri problemi di governance“. E in cui l’allora direttore finanziario, di fronte a un’operazione da lei stessa definita a verbale “una follia” perché determinava per il gruppo un esborso superiore di almeno 4 milioni rispetto al dovuto, non sollevava alcuna perplessità in cda né nella relazione trasmessa al collegio sindacale.

“Non si doveva far comprendere che la causa delle perdite stava nel quotidiano” – Per Dubini, uscito dal cda il 15 novembre 2016 dopo aver tentato di fare chiarezza sulla situazione finanziaria del gruppo e sentito come testimone dal pm di Milano Gaetano Ruta il 27 febbraio scorso, non ci sono dubbi sul fatto che “la causa principale delle perdite derivava dalla gestione del quotidiano, aggravatasi nel tempo”. Una realtà che all’esterno non traspariva proprio perché “i dati afferenti alle varie business unit componenti il gruppo sono stati sempre caratterizzati da pochissima trasparenza, non consentendo di accertare quali attività fossero in attivo e quali in passivo e, di conseguenza, impedendo di agire in maniera proficua sull’eventuale miglioramento delle casse aziendali”. A confermarlo è l’ex cfo Valentina Montanari, che sentita come persona informata sui fatti mette a verbale il 2 marzo scorso: “Sui ricavi e margini era importante secondo me spacchettare per area di business, cosa che nel tempo non è mai stata recepita”. Per quale motivo? “La verità, a mio avviso, è che non si dovevano dare informazioni di dettaglio né all’interno del consiglio di amministrazione né tantomeno all’esterno perché non si doveva far comprendere che la causa delle perdite maggiori stava nel quotidiano (anche se, devo dire, pure la parte corporate era molto costosa rispetto alle dimensioni dell’azienda)”. In questo “tutti assecondavano senza particolari riserve o domande quello che riferivano gli organi delegati”. Nessuno, “ad eccezione di Dubini, faceva domande o ha posto quesiti analitici e precisi rispetto all’andamento aziendale”.

Le spese di Napoletano? “Non venivano approvate, si riteneva una figura apicale riconducibile a Confindustria” – Nel frattempo il gruppo “non produceva cassa bensì la mangiava“. E a questa tendenza contribuivano anche le spese del direttore, che secondo l’ex consigliere “ha speso impropriamente molti soldi della società”. Per esempio, ricorda la Montanari, “stato siglato un contratto con una società di noleggio auto di Roma, Red Carpet, che metteva a disposizione una macchina per il direttore che risultava molto dispendiosa. Anche le spese di viaggio del direttore, a carico della società, erano molto elevate. Insomma, in una situazione in cui occorreva fare dell’economia di spese, queste uscite mi sembravano molto elevate”. Del resto Dubini racconta come Del Torchio, al suo arrivo, avesse chiesto conto delle spese: “Domanda che non ha mai ricevuto risposta, visto che tali spese non venivano approvate da nessuno. Lo stesso Napoletano si riteneva una figura apicale riconducibile a Confindustria”.

Oltre alle copie fittizie c’erano anche quelle gratuite ma senza la scritta “Omaggio” – Nel frattempo, ha raccontato Del Torchio al pm Ruta, “il sistema di vendite delle copie” attraverso Di Source, Johnson e Edifreepress consentiva di inserire nei documenti contabili “vendite fittizie”. “Addirittura”, ha riferito il manager, “ho letto nei verbali” (delle audizioni fatte dal collegio sindacale, ndr) che “venivano retroattivamente imputate copie vendute per raggiungere gli obiettivi diffusionali del direttore Napoletano”, secondo cui le vendite del Sole erano paragonabili solo a quelle di Financial Times e del Wall Street Journal. “L’aspetto che ho trovato molto anomalo”, aggiunge l’ex ad, “è dato dal fatto che delle copie vendute, che dovrebbero costituire un profilo molto rilevante del conto economico, nei cda non si parlava”. Dalle risposte date al nucleo speciale Polizia valutaria della Gdf da Massimiliano Massimi, amministratore della Edifreepress, sentito in quanto persona informata sui fatti, emerge poi un altro dettaglio tutt’altro che secondario sulle copie cartacee: “Le copie distribuite a titolo gratuito” nell’ambito del servizio pagato dal gruppo “non avevano la dicitura “Omaggio”; era invece indicato il prezzo di copertina, fatto che mi porta a pensare che Il Sole 24 Ore non aveva interesse a discernere le copie distribuite gratuitamente da quelle effettivamente vendute”.

Il caso Business Media: ceduta a Tecniche nuove con una “dote” da oltre 11 milioni. 4 in più rispetto alla cifra chiesta da Lswr – Dal verbale dell’ex direttore finanziario emergono inoltre altri aspetti della gestione finanziaria che meriteranno probabilmente ulteriori approfondimenti da parte degli investigatori. In particolare il caso della cessione del ramo di azienda Gpp Business media (riviste tecniche), che l’azienda editoriale di Confindustria aveva acquisito nel 2006. L’operazione, andata in porto nel 2013, “è stata accompagnata da una “dote” riconosciuta da noi all’acquirente”, ricorda Montanari. In pratica, essendo la società in perdita il gruppo 24 Ore ha deciso che pur di liberarsene avrebbe pagato una remunerazione all’acquirente. “La grande anomalia di questa operazione”, ricostruisce la dirigente, “è legata al fatto che le trattative erano originariamente partite con diverse società interessate all’asset e si erano poi concentrate con una società denominata LSWR“, che dopo circa un mese di trattative aveva concordato su una “dote” di 7 milioni. Poi il colpo di scena: “Improvvisamente e senza che io ne avessi alcuna cognizione, il ramo d’azienda è stato trasferito ad un’altra società denominata Tecniche nuove“, di cui è legale rappresentante e presidente Giuseppe Nardella. Montanari riferisce di ricordare “una riunione presso la sede di Mediobanca ove si è giunti alla sottoscrizione di una lettera di intenti che per me ha dell’incredibile“. Il motivo dell’incredulità è presto detto: “Gli acquirenti pretendevano la corresponsione di 11 milioni di euro, molto di più quindi delle somme di cui si discuteva con Lswr”. Nella relazione al bilancio 2015 del cda di Tecniche nuove, consultata da ilfattoquotidiano.it, si legge però che “la società venditrice ha riconosciuto un avviamento negativo di euro 7.800.000“.

Il cambio in corsa deciso da Benedini “in un pomeriggio” – A decidere fu il presidente Benedini, “nell’arco di un pomeriggio”. “Io ricordo che presi la Treu, la portai in una stanza separata da quella dove si stava tenendo l’incontro, e le dissi apertamente che era una follia. Lei rispose laconicamente: “Il presidente ha deciso così”. E, stando al suo racconto, anche il capo dell’ufficio legale del gruppo, l’avvocato che seguiva la trattativa e i consulenti di Mediobanca commentarono “in maniera molto negativa questa scelta”. Gli investigatori hanno chiesto alla Montanari se non si sia sentita in dovere di informare gli altri consiglieri della scelta di Benedini e delle ragioni del suo dissenso, considerato che l’operazione “impegnava pesantemente il gruppo”. “Ne ho parlato con qualche consigliere, non ricordo neppure con chi, non ricordo in ogni caso di avere preso posizione sul punto in sede di CdA”, è stata la sua risposta. Quanto alla spiegazione da lei fornita al collegio sindacale, stando alla quale “proposta formulata da Lswr non è stata negoziata perché è stato ritenuto che non offrisse garanzie di continuità aziendale a causa della sua debolezza economico-finanziaria”, Montanari si limita a dire che traeva origine “esclusivamente dal contenuto dei verbali del Consiglio di Amministrazione, a cui mi sono attenuta”.

Secondo Dubini, che conferma come la vendita “venne curata in prima persona dall’ex presidente Benedini”, la dote fu “di circa 12 milioni”. Peraltro la Lswr avrebbe “restituito al gruppo negli anni successivi” quei soldi, mentre l’accordo con Tecniche nuove – firmato nonostante il contratto di cessione fosse “già stato predisposto il giorno prima della firma con l’indicazione di Edra Lswr” – prevedeva un versamento a fondo perduto. “Inoltre”, conclude Dubini, “mi è stato riferito che il sig. Nardella è amico del Benedini”.

I bilanci dal 2007 a oggi sotto la lente dei consulenti – Così, tra ipotesi di irregolarità nel computo delle copie vendute e di spese senza controllo, si arriva ai 61,6 milioni di perdite e al patrimonio netto sceso a 16,4 milioni (-70,8 sul dato 2015) che risultano dal resoconto intermedio sulla gestione al 30 settembre 2016 (il cda per l’approvazione del bilancio dell’intero esercizio è stato nei giorni scorsi rinviato a data da destinarsi). Ora peraltro, alla luce di quello che è emerso sulle copie gonfiate, i bilanci sono sotto la lente dei consulenti degli investigatori, che hanno intenzione di procedere a ritroso nell’analisi della documentazione contabile fino al 2007, anno della quotazione in Borsa del gruppo. I cui titoli, collocati all’epoca a 5,75 euro l’uno, da allora hanno lasciato sul terreno oltre l’87% del valore.


Come funziona in Italia e in Europa
Chi ha diritto oggi al finanziamento pubblico ai giornali? Come funziona in Europa, tra nuovi imprenditori, testate online e guerra a Google?

https://www.giannellachannel.info/finan ... lia-europa

Chi prende i contributi per l’editoria in Italia. In Italia la stragrande maggioranza dei quotidiani, a partire da quelli più noti e venduti, non riceve contributi diretti da parte dello Stato. Tutti – Repubblica, Corriere, Sole 24 Ore, La Stampa – possono su richiesta usufruire di tariffe agevolate, telefoniche e per le spedizioni con Poste Italiane. In più, grazie alla legge di stabilità per il 2011, è stato istituito un fondo di 30 milioni di euro per rifinanziare – su richiesta – il credito d’imposta del 10% per l’acquisto della carta a imprese editoriali iscritte al ROC ed editori di libri. Lo scorso anno un articolo di Libero riportò la notizia che Giorgio Poidomani, allora amministratore delegato del Fatto Quotidiano (che da sempre rivendica di non ricevere “alcun finanziamento pubblico”), avesse fatto domanda, tra gli altri, per il credito d’imposta sulla carta per un importo totale di 162mila euro.

A far discutere, comunque, sono i contributi diretti alla stampa: 150 milioni di euro nel 2010 (tra i destinatari anche L’Avanti di Valter Lavitola con 2 milioni e mezzo), 120 del 2012, 96 per l’anno in corso per disposizione del governo tecnico di Mario Monti. Contributi che, se dovessero saltare, non provocherebbero praticamente alcun effetto in edicola: perché ad essere finanziati sono una miriade di più o meno piccole testate tra politica ed “enti morali”.

Chi può accedere ai fondi pubblici

I dati sui contributi erogati alla stampa negli anni sono reperibili sul sito della presidenza del Consiglio, dipartimento dell’editoria. Da quest’anno possono presentare richiesta di accesso ai fondi gli editori di testate che arrivano a vendere almeno il 25% delle copie distribuite per la stampa nazionale (ad esclusione dei quotidiani editi e distribuiti all’estero) e il 35% per la stampa locale. Una testata nazionale, per essere definita tale ai sensi del decreto legge 63/2012, deve essere distribuita almeno in tre regioni e in ogni regione in cui è presente per non meno del 5% del totale della distribuzione.
La soglia di accesso quindi si è alzata rispetto agli anni precedenti, quando bastava il 15%. Non solo: i dati relativi alla tiratura, alla distribuzione e alla vendita, devono essere comprovati da una società di revisione iscritta alla Consob. I giornali venduti, almeno in teoria, sono tracciabili dagli edicolanti, e nel computo non possono essere inserite le copie messe in vendita “attraverso strillonaggio, quelle oggetto di vendita in blocco, da intendersi quale vendita di una pluralità di copie ad un unico soggetto, nonché quelle per le quali non sia individuabile il prezzo di vendita”.

I quotidiani che prendono i fondi pubblici

finanziamento-pubblico-ai-giornali-contributi-editoria-edicolaVentiquattro sono stati nel 2011 i quotidiani editi da cooperative di giornalisti che hanno avuto accesso ai fondi pubblici. Tra questi spiccano nomi come Il Manifesto, che per il 2011 ha ricevuto poco più di 2 milioni e mezzo di euro, Il Foglio di Giuliano Ferrara, con € 2.251.696,55 e Il Denaro con € 1.261.583,66, ma c’è anche Il Romanista, con € 691.110,82, il quotidiano sportivo dedicato alla società calcistica Roma nato nel 2004 sotto l’allora direzione di Riccardo Luna. Una quindicina sono invece i “quotidiani editi da imprese editrici la cui maggioranza del capitale sia detenuta da cooperative, fondazioni o enti morali”. Tra questi L’Avvenire, che nel 2011 ha ricevuto quasi 4 milioni di euro (€ 3.796.672,83), Conquiste del lavoro – il quotidiano della Cisl fondato nel 1948 da Giulio Pastore, il primo segretario nazionale del sindacato oggi guidato da Raffaele Bonanni – con € 2.181.144,63 e Italia Oggi che ha ricevuto € 3.162.411,49.

I quotidiani di partito

Dieci sono i quotidiani di organi di partiti e movimenti politici finanziati dalle casse pubbliche. Liberal, nato nel 2008, solo in un secondo momento diventato organo ufficiale dell’Udc (con Rocco Buttiglione, presidente del partito, che siede del comitato di redazione) e da giugno dello scorso presente esclusivamente sul web, nel 2011 ha ricevuto € 1.650.094,84. Il quotidiano del Partito Democratico, Europa, ha preso € 2.343.678,28, e sempre nel 2011 Liberazione ha ricevuto poco più di 2 milioni di euro. Per l’organo di Rifondazione Comunista quello successivo è stato l’annus horribilis: con l’assottigliarsi dei fondi per l’editoria decisi dall’esecutivo, a gennaio il quotidiano a gennaio ha deciso di sospendere le pubblicazioni cartacee restando solo sul web e mandando in cassa integrazione e in mobilità buona parte della redazione. Dall’inizio di quest’anno Liberazione è di nuovo quotidiano ed esce in versione elettronica dal lunedì al venerdì.
Tra i quotidiani politici finanziati dai cittadini c’è poi la Padania con i suoi € 2.682.304,80 per il 2011, Terra con € 1.581.514,51, L’Unità € 3.709.854,40. Non manca il Secolo d’Italia (€ 1.795.148,57), storico giornale della destra italiana i cui destini sono stati negli ultimi anni al centro della diatriba seguita al “divorzio politico” tra Gianfranco Fini e Silvio Berlusconi. Oggi il giornale è solo online e versa in pessime acque, con un rosso che supera i 2 milioni di euro, e le ipotesi sul tavolo sono di prepensionamenti, stato di crisi e trasformazione in cooperativa di giornalisti.

A completare il quadro ci sono poi sono sei quotidiani italiani editi e diffusi all’estero e quattro editi in lingua francese, ladina, slovena e tedesca nelle regioni autonome della Valle d’Aosta, del Friuli Venezia Giulia e del Trentino Alto Adige.


I periodici che prendono i fondi pubblici

Lo Stato elargisce contributi a trentaquattro periodici editi da cooperative di giornalisti: tra questi spiccano per notorietà Left, con € 286.334,84, Il Salvagente con € 367.900,79 e Tempi, € 354.757,76. Ben 136 sono le “imprese editrici di periodici esercitate da cooperative, fondazioni, enti morali” senza scopo di lucro: nella stragrande maggioranza cattoliche – come le Edizioni Paoline con Famiglia Cristiana, che incassa più di 208mila euro dallo Stato – raramente intervallate da altre realtà come ad esempio “Buddismo e società”, edito dall’Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai (€ 21.141,50). Alla stampa periodica italiana all’estero va un totale complessivo di poco più di 2 milioni di euro.

Le radio

finanziamento-pubblico-ai-giornali-contributi-editoria-radioLo Stato finanzia anche cinque emittenti radiofoniche di partiti politici: Ecoradio, Veneto Uno, Radio Galileo, Radio Città Futura e Radio Radicale, quest’ultima periodicamente al centro di un dibattito avvelenato per i 4 milioni di euro che incassa dal governo come organo della lista Pannella cui va ad aggiungersi il finanziamento pubblico (dagli 8 ai dieci milioni di euro) per la convenzione – in scadenza quest’anno – con lo Stato per la trasmissione delle sedute del Parlamento.

Fondi per l’editoria nella legge di stabilità

La legge di stabilità prevede al momento interventi per 27,3 miliardi di euro nel triennio 2014-2016: 11,6 miliardi solo per il prossimo anno. Nel ddl 1120 c’è anche un “Fondo straordinario per gli interventi di sostegno all’editoria”: 50 milioni di euro per il 2014, 40 per il 2015 e 30 nel 2016. 120 milioni in tre anni per “l’innovazione tecnologica e digitale dell’editoria”: metà del totale dovrebbe essere destinata a pensionamenti, cassa integrazione e mobilità, mentre gli altri 60 milioni costituirebbero i fondi per l’editoria intesi in senso classico.

Crisi profonda del sistema editoriale italiano

Le risorse previste dalla legge di stabilità verranno ripartite entro il 31 marzo di ogni anno sotto la guida del sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri con delega all’editoria, Giovanni Legnini, in quota PD. Interventi definiti “urgenti”, dato il momento negativo vissuto dal settore che, insieme alla “rapida trasformazione del mercato dei media”, sta “esponendo l’intero sistema editoriale italiano a una crisi profonda, con conseguenze che non potranno che essere sistemiche”. I risultati di bilancio delle imprese editrici stanno peggiorando, mentre va in scena “una caduta degli investimenti pubblicitari” dalle cifre significative: nel primo trimestre di quest’anno i quotidiani registrano un -26,1% in termini di pubblicità e il -9% nei ricavi, i periodici rispettivamente il -22,3% e il – 9,5%. I soldi non saranno a fondo perduto, spiega Legnini: “Le aziende editoriali ci devono dire se e quanti giovani assumeranno”.

Il Washington Post raggiunse fama internazionale nei primi anni settanta grazie all’indagine sul caso Watergate condotta dai due suoi giornalisti Bob Woodward e Carl Bernstein, i quali giocarono un ruolo di primo piano nelle dimissioni del presidente Richard Nixon.

Cosa accade nel resto del mondo?

Il fondatore di eBay Pierre Omidyar (che aveva messo gli occhi sul Washington Post, poi acquistato per 250 milioni di dollari dal fondatore e Ceo di Amazon Jeff Bezos), continuerà a coltivare il suo interesse per il mondo dell’informazione finanziando lo startup di Glenn Greenwald. Il giornalista, sulle prime pagine di tutto il mondo per aver pubblicato le rivelazioni della talpa Edward Snowden sulle attività di sorveglianza dell’americana National Security Agency, lascia così il Guardian sulle cui colonne ha fatto deflagrare lo scandalo Prism e si mette in proprio con un sito di news. Rinascita del giornalismo grazie alla nuova imprenditorialità o perdita dell’innocenza?

Finanziamenti pubblici ai giornali: come funziona in Europa

Certo è che l’Italia non è l’unico paese in Europa a dare soldi alla stampa. Come si legge nel dossier di marzo della Camera dei deputati dal titolo “Contributi all’editoria di partito nei principali paesi europei”, in Germania, ad esempio, non sono previsti contributi diretti, ma i giornali possono fruire di tariffe postali agevolate e agevolazioni fiscali (“riduzione dell’imposta sul valore aggiunto al 7% sulle singole copie vendute e sugli abbonamenti”). In più le fondazioni vicine ai partiti hanno diritto a “finanziamenti globali” decisi ogni anno dal Bundestag. “Nella Legge di bilancio per il 2013 i finanziamenti globali ammontano a circa 98 milioni di euro” e vengono usati per “congressi, seminari e incontri di formazione politica; pubblicazioni e mostre; progetti di ricerca e documentazione, gestione degli archivi sulla storia dei movimenti e dei partiti di riferimento; spese amministrative relative al personale, alle strutture e agli investimenti”.
Anche il Regno Unito prevede esclusivamente contributi indiretti come l’esenzione dal prelievo dell’imposta sul valore aggiunto su vendite e abbonamenti, per un totale di 748 milioni di sterline nel 2011. Nessun finanziamento diretto è previsto per la stampa di partito e politica. Lo stesso principio vale anche in Spagna, dove oggi la stampa periodica “non gode di forme di finanziamento a livello nazionale”.
Infine la Francia. Da settembre è operativo l’accordo tra Google e i giornali francesi per il Fondo per l’innovazione digitale della stampa: 60 milioni di euro (e un massimo di 2 milioni a testata) per tre anni per portare i giornali a digitalizzarsi e implementare nuovi progetti per il web. Più che una sconfitta per Google, accusato di fare ricavi pubblicitari con le news che indicizza, l’accordo è per molti l’epicfail finale della stampa a livello internazionale.

Lo Stato francese elargisce intorno 1,2 miliardi di euro l’anno al settore, tra contributi diretti e indiretti. Il Fondo di Sviluppo Strategico della stampa è stato ridotto quest’anno a 30,9 milioni di euro, ed è rivolto sia a testate cartacee che online. Agence France-Press – al secolo AFP – tra le principali agenzie di stampa di tutto il mondo, ha un budget fornito dalle casse pubbliche di ben 123 milioni di euro. E Libération, quotidiano di riferimento della sinistra francese (e non solo) fondato tra gli altri da Jean-Paul Sartre, ha ricevuto nel 2012 quasi tre milioni di euro.
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Re: Taglio delle spese - per il nuovo governo

Messaggioda Berto » gio lug 05, 2018 8:47 pm

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Re: Taglio delle spese - per il nuovo governo

Messaggioda Berto » dom lug 08, 2018 7:46 pm

11) Taglio al finanziamento dei sindacati
...
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Re: Taglio delle spese - per il nuovo governo

Messaggioda Berto » sab set 29, 2018 8:10 pm

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Re: Taglio delle spese - per il nuovo governo

Messaggioda Berto » sab set 29, 2018 8:12 pm

Taglio dei vitalizi, i ricorsi sono 1176. Gli ex parlamentari: «Non siamo parassiti»
venerdì 28 settembre 2018

http://www.secoloditalia.it/2018/09/tag ... -parassiti

A 11 giorni dalla scadenza per la presentazione, sono 1176 i ricorsi contro i tagli dei vitalizi, fatti pervenire da ex deputati contro la delibera dell’ufficio di presidenza della Camera. Si tratta, ha spiegato il presidente della Associazione ex parlamentari, Antonello Falomi, in una conferenza stampa a Montecitorio, di un «fatto senza precedenti» nella storia delle due assemblee legislative.

«Non è la prima volta negli ultimi 15 anni – ha aggiunto Falomi – che i vitalizi degli ex parlamentari subiscono decurtazioni, anche significative. Nel 2005, ad esempio, è stato sospeso il meccanismo che legava il vitalizio parlamentare alle retribuzioni dei presidenti di sezione di Cassazione e questo ha comportato, di fatto, una riduzione netta del 30% dell’importo dei vitalizi. Ricordo, inoltre, due contributi consecutivi di solidarietà versati negli ultimi sei anni dai membri del Parlamento». Nonostante i tagli, ha detto ancora il presidente dell’associazione ex parlamentari, finora «il livello del contenzioso si era sempre mantenuto piuttosto modesto, 40-50 persone al massimo. Stavolta, invece, sono 1176 le persone che hanno scelto di reagire». Un numero che, per Falomi, «segnala l’indignazione e la protesta di chi, per il solo fatto di essere un ex parlamentare, è stato oggetto, in questi ultimi anni, di una violenta a arrogante campagna politica che lo ha dipinto come un delinquente, un ladro o un parassita al quale, come ha esplicitamente detto Luigi Di Maio, si vuole perfino negare il sacrosanto diritto di rivolgersi a un giudice».

«Qualcuno – ha concluso Falomi – vuole riscrivere la storia democratica e delle istituzioni come fosse una storia di guardie e ladri, mentre noi abbiamo servito con lealtà, dignità e onore il nostro Paese. Non ci stiamo a essere processati. Non vogliamo sottostare inerti all’attacco allo stato di diritto, messo in discussione da logiche retroattive che cancellano la certezza del diritto e patti che i cittadini, anche se parlamentari, hanno stipulato con lo Stato». Di numeri ha parlato anche Felice Besostri, ex senatore e giurista in prima linea nella battaglia contro la riforma costituzionale del governo Renzi, che come avvocato rappresenta una parte dei ricorrenti. Sono 712 – ha scritto in un comunicato – i ricorsi depositati al Consiglio di giurisdizione della Camera. Altri 40 ricorsi circa sono attesi in giornata. «Alcuni di questi – ha precisato – sono collettivi, il che fa salire il numero totale a 1165 parlamentari, 66 dei quali sono superstiti e al 90% si tratta di vedove o di alcuni orfani inabili al lavoro», ha spiegato ancora Besostri, difensore di circa 50 ex parlamentari e dei loro familiari che hanno presentato ricorso contro la delibera. «Per 88 di loro è stata fatta richiesta di sospensiva che vuol dire che si chiede di sospendere il provvedimento limitatamente a chi lo richiede», ha proseguito il legale, spiegando che «questi casi vengono giudicati prima degli altri ricorsi, alcune udienze sono state già fissate e in ogni caso vengono esaminati tutti prima del 31 dicembre, ovvero prima di quando entrerà in vigore il provvedimento».
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