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è il paese della raccomandazione, dell'irresponsabilità, dell'immeritocrazia, dei privilegi, della violazione dei diritti, delle caste e delle clientele parassitarie;
È inutile negarlo, la pratica della raccomandazione è la sola che funziona perfettamente nel nostro Paese, anche perché coinvolge ognuno di noi in maniera democratica senza distinzione di genere. Ci sono gli italiani che raccomandano e gli italiani che si fanno raccomandare, una sorta di catena di Sant’Antonio che prosegue all’infinito.
http://www.panorama.it/news/politica/li ... mandazione
Almeno una volta nella vita bisogna provare l’ebbrezza della spintarella, anche quando si è coscienti che questa non servirà a nulla per raggiungere l’ambita destinazione, qualsiasi essa sia (il posto di lavoro, la visita medica, l’esame all’università) e non importa se alla meta arriverà un altro, perché la nostra osservazione sarà “chissà chi lo ha raccomandato…!” E poi ci sentiamo a posto con la coscienza per due motivi, il primo perché, comunque, il tentativo lo abbiamo fatto, il secondo perché la volta successiva non ci faremo trovare impreparati, anzi ci organizzeremo meglio cercando una spinta più potente. Forse un giorno potremo anche inserirla nel curriculum vitae.
La Raccomandazione
Alberto Moravia nel suo racconto breve intitolato guarda caso La raccomandazione narrava di un disoccupato sfinito che di raccomandazione in raccomandazione si ritrovava alla fine davanti alla persona a cui per primo si era rivolto, constatando di persona il fallimento di ogni suo tentativo, come nel gioco dell’Oca dove, se si capita nella casella sbagliata, si finisce al punto di partenza per ricominciare daccapo.
Anche in questo argomento, la Storia italica è piena di precedenti sin da prima della sua Unità (come non avrebbe potuto essere altrimenti dal momento che fa parte del nostro DNA). Il re delle Due Sicilie, Ferdinando II, durante il suo soggiorno proprio in Sicilia per salutare i suoi sudditi, ricevette in un mese ben 28mila raccomandazioni. All’epoca il 90% della popolazione era analfabeta, ma in questa arte i nostri antenati avevamo dimostrato di essere ben istruiti.
A dimostrazione della sua endecimità è la perseveranza con cui resiste a ogni regime politico Monarchia, Dittatura o Democrazia. In alcuni casi si è anche cercato di legalizzarla come riportava il Foglio di Disposizione datato 8 febbraio 1933 in cui Achille Starace scriveva “è superfluo rinnovare il tentativo di sradicarlo, anche perché, alla fin fine, quando le raccomandazioni sono fatte a scopo di disinteressata assistenza, nulla vieta che siano accolte ed esaminate benevolmente”. Ma anche il Segretario del Partito Nazionale Fascista tentava di porre un freno quando il 21 agosto dello stesso anno ammoniva “accade che i meno raccomandabili riescono a procurarsi delle raccomandazioni. Quando si verifichino inconvenienti del genere è bene mettere il raccomandato in condizioni di non nuocere”. Facile a dirsi, difficile a farsi diremmo oggi leggendo le cronache di queste ore con l’erede dei Lupi che chiede “legittimamente” la sua parte di spintarella.
Proviamo a immaginare, anche solo per un istante, che il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, faccia uno dei suoi annunci via Twitter e proclamasse urbi et orbi che le raccomandazioni sono bandite definitivamente dall’Italia. Quale potrebbe essere la reazione in ognuno di noi? Probabilmente avremmo allo stesso tempo più disoccupati e un maggior numero di depressi.
Dalla Monarchia alla Dittatura alla Democrazia
Per esempio nel maggio del 1959 il ministro dell’Interno, Mario Scelba, tentò una simile mossa e inoltrò a tutti i grandi uffici pubblici, ministri e burocrati, una circolare di questo tenore “Ho dovuto rilevare che, purtroppo, sussiste ancora, nei candidati ai pubblici concorsi, il convincimento che elemento indispensabile per la riuscita sia quello di procurarsi una raccomandazione. In pratica, come è noto, il valore delle segnalazioni è nullo, ma se pure la raccomandazione non costituisca un danneggiamento per i terzi, non conferisce all’educazione dei cittadini”. Ovviamente l’invito cadde nel vuoto.
Potremmo suggerire all’attuale ministro dell’Interno Angelino Alfano di recuperare quella circolare, che sicuramente è stata protocollata, e, apportando i dovuti aggiornamenti, in questo caso solo la data, inoltrarla ai colleghi. Ma, siamo certi che qualcuno commenterà “da quale pulpito!”.
Il 25 giugno del 1969 l’agenzia Adn Kronos riferì una dichiarazione fatta dal ministro del lavoro Giacomo Brodolini, quello che si batté con tutte le sue forze per lo Statuto dei Lavoratori, “per le duemila assunzioni previste dall’Inps, ho ricevuto oltre 40mila lettere di raccomandazioni. Non si contano poi le telefonate e i messaggi personali”.
Già perché come dicevamo all’inizio, ogni partito ha le sue clientele e dispone, non per legge ma per consuetudine, di un certo numero di poltrone dove far atterrare le natiche dei relativi clienti. Naturalmente i più sfortunati sono i comuni cittadini che bussano alla porta dei deputati per qualsiasi motivo. Pensate che alle ultime elezioni per il Presidente della Repubblica, i mille Grandi Elettori hanno ricevuto telefonate e messaggi da parte di parenti, amici, conoscenti e anche parroci che chiedevano di scrivere il proprio nome sulla scheda. Che giocherelloni che siamo.
Tuttavia, proprio per non perdere la speranza ci piace concludere con le parole sempre sagge del grande giornalista Vittorio Gorresio che definiva l’Italia “la Repubblica dei raccomandati” aggiungendo che “questa grande istituzione nazionale ha le stesse origini della massoneria (come la si intende nel senso volgare) della mafia e della camorra”.
L’Italia rovinata dai raccomandati di ItaliaDall'Estero | 6 ottobre 2012
In cerca di lavoro nell’Europa afflitta dalla crisi economica? Basta avere le conoscenze giuste!
Testata: The Washington Post
Data di pubblicazione: 24 settembre 2012
Traduzione di Grazia Ventrelli e Chiara Lo Faro per italiadallestero.info
http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/10 ... ati/374618
ROMA – Maria Adele Carrai ha due Master conseguiti presso università italiane, in economia e in lingue asiatiche, e ora sta completando un dottorato di ricerca in diritto internazionale a Hong Kong. Le sue credenziali linguistiche sono formidabili. Oltre all’italiano, lingua madre, Maria Adele conosce l’inglese alla perfezione, una rarità in Italia, e poi francese, arabo, giapponese e mandarino.
Ma la ventiseienne, figlia di medici di un paesino vicino l’Adriatico, non possiede una chiave fondamentale per accedere al mondo del lavoro in Italia: la raccomandazione. Si tratta della parola giusta detta dalla persona giusta per ottenere un impiego, anche se magari per quell’impiego non si è tagliati.
Mentre la crisi economica che ha investito l’Europa offusca il futuro di milioni di giovani, la cultura delle conoscenze che sottende alle pratiche di assunzione nella gran parte del continente si sta radicando sempre di più, danneggiando qualsiasi prospettiva di ripresa. Questo malcostume chiude le porte ai giovani talenti o li spinge all’estero e contribuisce ad alimentare un circolo vizioso stagnante che minaccia di lasciare l’Europa indietro nella partita della globalizzazione.
“Ciò che conta non è la preparazione che hai ma chi conosci”, accusa Carrai, secondo quanto dichiarato ad AP in una testimonianza rilasciata su “Class of 2012” in merito alla devastante fuga di cervelli dal continente. A dirla tutta, avere delle buone conoscenze non fa mai male. Tuttavia, in gran parte dell’Europa, soprattutto nel Sud martoriato dalla crisi, si tratta spesso della carta vincente per un’opportunità economica. Secondo alcuni giovani ed esperti, senza questa chiave la prospettiva di una carriera promettente è scarsa.
Marco Pacetti, Rettore del Politecnico di Ancona, la mette così: “Negli Stati Uniti la rete di conoscenze è sì importante, ma bisogna soprattutto essere in gamba. In Italia invece, nessuno crede che coloro che si affidano alla raccomandazione abbiano anche competenza e merito.” “È questa la differenza fra una lettera di raccomandazione e una “raccomandazione”, aggiunge Pacetti con riso beffardo. In America, “chi scrive la lettera di referenze, si prende la responsabilità di segnalare una persona preparata, non un idiota.”
L’esempio dello scandalo che ha scosso la Sapienza di Roma, una delle più antiche e note università d’Italia, cade a fagiolo. In un caso denominato “parentopoli”, la moglie, la figlia e il figlio del Rettore della Sapienza sono riusciti a procurarsi posti di insegnamento prestigiosi pur non avendo le qualifiche richieste. Ma il peggio è avvenuto quando è emerso che il figlio del Rettore aveva superato l’esame di cardiologia davanti a una commissione d’esame composta da tre dentisti e due igienisti dentali.
Anche la Spagna ha il proprio sistema di reti di conoscenze profondamente radicato, chiamato “enchufismo”. Proprio come in Italia, si tratta del prodotto di una cultura mediterranea che affonda le radici in una fitta rete familiare in cui i membri del clan si preoccupano l’uno dell’altro. Sono molti i cittadini dell’Europa meridionale che nutrono una mancanza di fiducia praticamente innata verso lo Stato, spesso sinonimo di corruzione. In questa prospettiva, la famiglia è l’unica istituzione su cui poter contare.
In Spagna, la rete delle conoscenze ha assunto un ruolo secondario durante il boom economico che ha interessato il Paese dalla fine degli anni ’90 fino al 2008, ma ha riconquistato una posizione di primo piano ora che la disoccupazione ha toccato punte che sfiorano il 25%.
“In Spagna il fenomeno dell’enchufismo non è nuovo, tuttavia, negli anni del boom era possibile accedere a un colloquio e ottenere un impiego, anche senza ricorrere alla rete delle conoscenze,” sostiene Maria Astilleros, insegnante disoccupata di Madrid. “Da quando la crisi ci ha travolti, i colloqui sono sfumati e siamo ritornati punto e d’accapo all’enchufismo”.
Maria Astilleros di recente è stata convocata per un colloquio per la prima volta in due anni presso una società di relazioni pubbliche poiché il titolare, non a caso, è un cliente di suo zio.
Secondo Gayle Allard, professore americano di Economia Manageriale presso la IE Business School di Madrid, circa il 95% degli impieghi in Spagna sono il frutto di conoscenze. “È una delle cose che più mi hanno colpito della Spagna”, sostiene Gayle Allard. “Per cambiare lavoro, devi avere la tua rete di contatti”.
Secondo il professore, una cultura del nepotismo così radicata produce un effetto corrosivo sulla crescita economica, tanto più cruciale tenuto conto che la Spagna vacilla sotto il peso di un elevato tasso di disoccupazione giovanile che si aggira intorno al 53%. Un fatto è certo, la Spagna “non è una meritocrazia,” aggiunge Allard. “Il candidato che scegli molto probabilmente non è quello più qualificato. Il candidato che scegli è quello con la rete di conoscenze migliore.”
Moira Koffi, membro di “Class of 2012”, recentemente laureata alla prestigiosa Università Sorbonne di Parigi, dice la sua sull’importanza delle conoscenze in Francia. “Se sei raccomandato, lo dici subito: è così che si ottiene un lavoro.”
Anche se Moira Koffi, vendiduenne laureata in comunicazioni, ha tratto vantaggio da questo sistema, ma vorrebbe che la rete di conoscenze non fosse così decisiva per trovare un impiego. “Negli Stati Uniti”, sostiene, “ti viene data un’opportunità per quello che sei.”
Secondo Jean-Francois Amadieu, professore di sociologia alla Sorbonne, il 70% della popolazione francese trova un impiego grazie alle reti di conoscenze personali o a uno stage, a cui comunque si accede solo se si conosce la persona giusta. “I giovani di famiglia modesta hanno grandi difficoltà ad accedere a uno stage rispetto ai giovani di famiglie agiate o di classe media proprio a causa delle reti familiari più ristrette”, aggiunge.
In Italia, la cultura delle conoscenze “si è imposta ancora di più a causa dell’acuirsi della crisi economica,” sostiene l’economista Emiliano Mandrone. E chi parla è un esperto: ogni anno, Mandrone collabora alla preparazione di un’indagine telefonica sovvenzionata dallo Stato e rivolta a circa 40 mila cittadini per capire il modo in cui gli italiani trovano un impiego.
“Il problema delle raccomandazioni non si riduce solo all’opportunità di trovare o meno un impiego,” sostiene Mandrone. “Piuttosto, il problema risiede nel fatto che in questo modo si sottrae lavoro a una persona più preparata.” Secondo Mandrone, il prezzo del sistema raccomandazione nella società e nell’economia italiane non è stato quantificato in termini finanziari, ma è chiaramente “enorme”.
In Italia, la cultura delle conoscenze è stata additata da tempo come principale responsabile della fuga di cervelli dei cittadini più preparati e più brillanti. L’Istituto per la Competitività, un comitato di esperti italiano no profit, recentemente ha stimato che la fuga di cervelli costa annualmente all’Italia qualcosa come 1,2 miliardi di euro (oltre $1,5 miliardi) se si tiene conto dei brevetti perduti e di altre royalty frutto di invenzioni che emigranti italiani altamente qualificati hanno sviluppato durante la loro permanenza lavorativa all’estero.
In Grecia, punto di partenza della crisi finanziaria in Europa, la macchina politica, basata sulla fitta rete di conoscenze, è ritenuta uno dei fattori principali dell’implosione economica. In cambio di voti, i partiti della maggioranza hanno piazzato nelle mani di persone inesperte e con poche qualifiche, ma con conoscenze politiche influenti, lavori nell’apparato aministrativo facili facili. Risultato: quando, verso la fine del 2009, è scoppiata la crisi finanziaria, il governo non aveva la più pallida idea di quante persone impiegasse, né quanto sborsasse per i loro stipendi.
La Germania potrebbe rappresentare un’eccezione al trend dei talenti europei che prendono il volo o che vengono ostacolati nella realizzazione dei loro sogni professionali. Nella ex Germania dell’Est, conoscere la persona giusta nell’apparato del partito era una carta vincente per poter progredire economicamente. Ma nella Germania unita, la rete di conoscenze non viene vista come un elemento cruciale della cultura aziendale.
Il ventisettenne Lutz Hentschel, membro di “Class of 2012”, completato un Master in ingegneria elettronica all’inizio dell’anno, ha dovuto inviare circa 40 domande prima di aggiudicarsi un impiego a Berlino, dove oggi sviluppa circuiti elettrici per ascensori. Durante la ricerca del lavoro, ricorda di aver sostenuto un colloquio per un impiego che alla fine è andato a un candidato meno preparato, ma che conosceva la persona con cui ha sostenuto il colloquio.
Tutto sommato in Germania, sostiene Hentschel, “se hai le qualifiche giuste, un lavoro alla fine lo trovi.”
Da tempo la Gran Bretagna è alle prese con un altro sistema di clientelismo che si fonda sulla rete di quel salotto bene della società che ha ricevuto un’istruzione elitaria e che evoca immagini di uomini vestiti di tutto punto con divise scolastiche, o che si intrattengono amichevolmente in esclusivi club per gentiluomini. Benché la Gran Bretagna abbia fatto passi da gigante per diventare più meritocratica, c’è chi lamenta che l’accesso a impieghi prestigiosi spesso rimane una prerogativa del fior fiore di quella parte della società che ha goduto di un’istruzione privilegiata.
Nell’Europa meridionale, tuttavia, la cultura delle raccomandazioni permea tutte le classi e i settori, da un impiego in banca alla vincita di appalti di costruzione.
Carrai, la linguista e aspirante esperta in diritto internazionale, ha imparato a sue spese quanto contino le conoscenze giuste anche nell’esclusivo mondo accademico. Ad Hong Kong si è trasferita per sottrarsi alla soffocante atmosfera del nepotismo universitario: “Ho visto come funziona. Non volevo rimanere in Italia e assecondare questo sistema.”
“Il sistema delle raccomandazioni può essere una pratica normale, umana, ma fino a un certo punto”, sostiene, superato il quale, “diventa corruzione”.
Meritocrazia: siamo ultimi in Europa. Si va avanti solo con la raccomandazione
La classifica stilata da tre professori universitari della Cattolica. L’81 per cento degli italiani convinti che per la carriera servono amicizie e non merito.
http://www.nonsprecare.it/meritocrazia- ... ne-europea
MERITOCRAZIA IN ITALIA -
Siamo il Paese del merito sommerso. Non riconosciuto, non valutato, non incentivato. Tre professori universitari della Cattolica, Paolo Balduzzi, Giorgio Neglia e Alessandro Rosina, sul sito La voce.info hanno calcolato il valore del “meritometro” all’interno degli stati membri dell’Unione europea. In pratica hanno assegnato una pagella, con base 100, ai sistemi che valorizzano il merito, e dunque un’uguaglianza di opportunità, innanzitutto di studio e di lavoro, che premia le doti e la capacità di progetto di ciascuno. L’Italia è in fondo alla classifica con appena 23,3 punti, meno della metà della Finlandia (67,7 punti), ma anche dieci punti più in basso rispetto alla Spagna (34,9) e alla Polonia (38,8). “È la fotografia di un Paese ingiusto, che scoraggia la ricerca del talento, favorisce i soliti noti, e non riesce a riprendere la strada della crescita economica” commenta il professore Rosina.
RACCOMANDAZIONI PER TROVARE LAVORO IN ITALIA -
Una società a un livello così basso di tasso di meritocrazia, infatti, si blocca e il suo ascensore sociale risulta fermo. Il contrario degli anni del boom, quando appunto erano proprio le capacità individuali, spinte da un’energia collettiva, a schiacciare l’acceleratore del motore del riscatto e della crescita. Il figlio del contadino, studiando con profitto, poteva aspirare a un posto di impiegato, di libero professionista, con un salto significativo nella scala sociale tra una generazione e l’altra. Così l’operaio che sognava di mettersi in proprio, l’artigiano che si trasformava in piccolo imprenditore. Adesso l’81 per cento degli italiani sono convinti che per affermarsi servono rapporti, relazioni, amicizie. Cioè raccomandazioni. Il lavoro, quando c’è, si tramanda di padre in figlio, come nella giungla delle cattedre universitarie o in buona parte dell’universo professionale: Almalaurea ha calcolato che 4 laureati su 10 ereditano l’attività del padre.
Poco merito significa stipendi e guadagni meno consistenti, e un livellamento delle retribuzioni verso la fascia bassa della scala. Qui il paradigma è il pubblico impiego dove valutare il merito e poi gratificarlo anche sul piano monetario è da sempre impossibile, grazie alla granitica e corporativa resistenza del sindacato. Un bravo insegnante che ama la sua scuola, guadagna come il collega fannullone (non a caso il 22 per cento dei docenti, ogni anno, cambia scuola); il vigile urbano assenteista a Roma, con certificati medici falsi, si ritrova con una busta paga uguale a quella del piedipiatti che ogni giorno suda in strada; il magistrato, come il professore universitario, fanno carriera esclusivamente in base all’anzianità. Se sono asini, pazienza. Con questo meccanismo del “tutto a tutti” il livello medio di un insegnante scolastico è scandaloso, 24.846 euro l’anno, e vale la metà del collega tedesco che con i bonus legati appunto ai risultati, e quindi al merito, intasca mediamente 44.823 euro.
La carriera e lo stipendio che partono dalla raccomandazione e si appiattiscono nella parte bassa della curva, scoraggiano i giovani a cercare lavoro. “Le nostre ricerche dimostrano, dati alla mano, che il principale motivo che spinge le nuove generazioni a una forma di emigrazione di massa è proprio la mancanza di meritocrazia in Italia. Di fronte a un Paese bloccato, dove non posso giocamela con pari opportunità, non resta che la fuga” commenta Rosina. La fuga degli italiani all’estero, ormai milioni, non riguarda solo i meno preparati, ma al contrario si sta gonfiando tra quelli che hanno studiato con migliori risultati. In pratica formiamo forza lavoro di qualità con i soldi dei contribuenti italiani, poi la perdiamo a vantaggio dei paesi stranieri. Intanto la raccomandazione elevata a metodo (4 milioni e 200mila cittadini sono ricorsi alla raccomandazione, nell’ultimo anno, per accelerare una pratica nella pubblica amministrazione, secondo una ricerca del Censis), rischia di premiare i meno capaci, che non hanno bisogno di emigrare grazie alle spintarelle sulle quali possono sempre contare.
Infine, senza il merito assistiamo impotenti a una costante perdita di qualità dell’intero sistema della formazione ed a quello che il governatore Ignazio Visco, nel suo libro Investire in conoscenza, definisce “l’impoverimento del capitale umano”. È come se un giovane dicesse: ma se il merito non serve per trovare un lavoro e per guadagnare bene, perché dovrei sbattermi nello studio? Spiega Rosina: “Si tratta di un circolo vizioso, che spinge a investire sempre meno nella formazione, il fattore oggi essenziale della crescita e della produttività dell’economia”. Ecco perché ci ritroviamo con una quota di laureati nella popolazione di età compresa tra i 25 e i 64 anni pari all’11 per cento contro il 25 per cento della media dei paesi dell’Ocse e il 23 per cento dei 19 paesi dell’Unione europea che sono anche membri dell’Ocse.
QUALITÀ DEL SISTEMA DI FORMAZIONE IN ITALIA -
Si può fare qualcosa per invertire la tendenza e bloccare la deriva della meritocrazia? E da dove partire? Diciamo subito che non è un governo, anche il più efficiente possibile, che può modificare uno scenario sul quale bisogna combattere in primo luogo una battaglia culturale. Certo, dall’esecutivo di Renzi ci aspettavamo più coraggio nell’affermare il merito all’interno della pubblica amministrazione (a partire dai contratti e dalla parte variabile delle retribuzioni) e nell’imporre il diritto-dovere alla valutazione, premessa per riconoscere e premiare i più capaci, di scuole, università e uffici. Ma i valori del “meritometro” potranno cambiare in modo sostanziale quando tutti saremo convinti che rinunciare all’ombrello della raccomandazione, sfidare il concorrente sulla base delle competenze e non delle conoscenze, distinguere il familismo da sane e utili relazioni, restituire una gerarchia alle doti individuali, sono scelte che convengono. Aprono una società, rendendola più giusta, favoriscono una solida crescita economica, danno luce al futuro. E magari spingono i nostri figli a non lasciare in massa l’Italia.