Mafie e briganti teroneghi

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Messaggioda Berto » dom mar 20, 2016 6:42 pm

Mafie e briganti teroneghi
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Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Berto
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Re: Mafie e briganti teroneghi

Messaggioda Berto » dom mar 20, 2016 6:43 pm

Stendhal e il brigantaggio del primo Ottocento

http://www.nuovomonitorenapoletano.it/i ... &Itemid=28

È un piccolo gioiello di testimonianza sui briganti, operanti nello Stato Pontificio e nel Sud d’Italia durante i primi anni dell’Ottocento, l’opera del grande scrittore francese Marie-Henri Beyle, noto come Stendhal (Grenoble, 23 gennaio 1783 – Parigi, 23 marzo 1842) I briganti in Italia, pubblicato nel 1833 nel “Journal d’un voyage en Italie et en Suisse pendant l’année 1828 di Romain Colomb”.

Il vivo interesse, che Stendhal manifestava per il fenomeno del brigantaggio, veniva altresì confermato dalle vicende raccontate in uno dei suoi testi narrativi più celebri, La Badessa di Castro.

Lo scrittore raccontava del brigantaggio di inizio Ottocento con la consapevolezza che esso costituiva una realtà che aveva sempre interessato l’Italia. Il riferimento è all’Italia geografica, a quella che allora era solo una “mera espressione geografica” come la definiva sprezzantemente Metternich.

“Tutta l’Italia è stata, contemporaneamente o di volta in volta- scriveva Stendhal- , infestata dai briganti: ma è soprattutto negli Stati del papa e nel Regno di Napoli che essi hanno regnato più a lungo e hanno proceduto in maniera più metodica e costante insieme. Là essi hanno un’organizzazione, dei privilegi e la certezza dell’impunità e, se arrivano ad essere abbastanza forti da intimorire il governo, la loro fortuna è fatta. E’ dunque a questo fine che tendono costantemente per tutto il tempo in cui esercitano il loro infame mestiere. Sembra di essere ai tempi della barbarie, quando la forza era il solo arbitro, il solo potere riconosciuto.

Che governo è mai quello che è costretto a tremare dinanzi ad un pugno di malfattori! Venti o trenta uomini bastano a spargere il terrore nell’intero paese e a mettere sul piede di guerra tutti i carabinieri del papa!”

Lo scrittore francese si riferiva al brigantaggio operante nel primi anni dell’Ottocento nello Stato Pontificio, una realtà ben nota e rilevante anche quando era il Papa a regnare. Basta citare l’editto contro il brigantaggio del 13 giugno 1801, recante la firma del cardinale Giuseppe Doria.

Stendhal evidenziava altresì la fede di tipo superstizioso che caratterizzava il credo religioso dei briganti, che univano ferocia a superstizione al punto da credere che la devozione, alla Madonna soprattutto, potesse proteggerli ed assolverli da una vita intrisa di delitti e di soprusi.

Con il preciso intento di far conoscere tale triste realtà, Stendhal riportava la conversazione tra un brigante accusato di un gran numero di crimini che, davanti al suo giudice, confessava tranquillamente e spavaldamente tutto, anche reati sconosciuti alla giustizia, ma nel momento in cui gli si chiedeva se osservasse il digiuno, rispondeva risentito ed offeso: “Mi sospettate dunque di non essere cristiano?”

Al fine di evidenziare una devozione grossolana, che la Chiesa non condannava in quel tempo con decisione, Stendhal descriveva truci delitti come quelli di cui si era resa responsabile nel 1817 una banda di briganti conosciuta come “banda dell’Indipendenza”, comandata da De Cesaris, che in Calabria era nota per potere e ferocia.

Composta da trenta uomini e quattro donne, essa si rese colpevole di grassazioni, chiedendo di depositare presso un tronco di un albero o alla base di qualche colonna del danaro per riscatti o semplice quieto vivere. Il giorno che il proprietario di una fattoria ebbe l’ardire di denunciare tutto alle autorità, i briganti reagirono, uccidendo tutti i componenti delle truppa inviata e non solo.

“Tre giorni dopo, i briganti -continuava Stendhal- compirono una terribile vendetta nei confronti dello sventurato fattore. Dopo averlo catturato e condannato a morte, lo gettarono in un enorme calderone dove si faceva bollire il latte per il formaggio, di poi obbligarono ognuno dei suoi domestici a mangiare un pezzo del corpo del padrone”.

Un altro episodio, accadde nel territorio pontificio, nel 1819 nei pressi di Tivoli, dove si era stanziata una banda molto intraprendente. Un giorno, fu rapito l’arciprete di Vicovaro, dopo l’uccisione di un nipote che aveva cercato di difendersi. Il riscatto richiesto per il prete e per uno dei suoi compagni di sventura era così alto che non fu possibile pagarlo; allora i briganti spedirono alle famiglie le orecchie dei malcapitati prigionieri, e in seguito alcune loro dita.

Alla fine, stanchi di aspettare o forse irritati dai lamenti di quei disgraziati, li massacrarono.
Stendhal si mostrò, inoltre, particolarmente interessato alle vicende del brigante Gasparrone, erroneamente citato come ‘Gasperoni’, accusato di centoquarantré omicidi e detenuto in prigione a Roma. Il criminale aveva compiuto il suo primo delitto all’età di sedici anni, uccidendo il curato della sua parrocchia, che gli aveva rifiutato l’assoluzione per un furto commesso. A diciott’anni l’impavido assassino si era distinto in un combattimento contro l’esercito, ferendo o uccidendo venti persone, e tale azioni gli valsero il comando della banda di cui faceva parte.
Fra le imprese memorabili di quella banda, Stendhal citava il rapimento da un convento di monache di Monte Commodo: “trentaquattro ragazze che si trovavano nel convento furono portate via a viva forza e in pieno giorno. I briganti avevano scelto quelle i cui genitori potevano pagare il riscatto più alto; le tennero nascoste per dieci giorni sulla montagna. Il riscatto richiesto per ciascuna di esse variava dai duecento ai mille scudi romani”.

L’arresto del Gasparrone fu reso possibile grazie alla complicità di una donna con cui aveva avuto una relazione, di cui le autorità pontificie si servirono per distruggere la sua banda e “impadronirsi della sua persona, nonché di alcuni dei suoi”.

La donna non aveva saputo resistere ad una lauta ricompensa di seimila scudi romani. Architettò una trappola ed il brigante vi cadde, recandosi fiducioso ad un appuntamento in un bosco. Realizzando d’esser stato tradito riuscì comunque a strangolarla prima di finire prigioniero.

Il brigante Gasparrone, fu rilasciato dalle carceri pontificie nel 1870, dopo oltre quarantacinque anni e graziato dal governo italiano.

Bibliografia:

Stendhal, I briganti in Italia, Il Nuovo Melangolo, 2004
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Re: Mafie e briganti teroneghi

Messaggioda Berto » dom mar 20, 2016 6:45 pm

Giletti, nuove polemiche: "Regno delle Due Sicilie esempio di evasione e corruzione"
Emiliano Dario Esposito Giornalista NapoliToday14 marzo 2016 12:24 Condivisioni
Massimo Giletti

http://www.napolitoday.it/cronaca/gilet ... cilie.html

Massimo Giletti ci ricasca. Se non necessariamente in una frase discriminatoria o antistorica, quantomeno nel generare polemiche.

Dopo la vicenda di "Napoli indecorosa", per cui era peraltro stato "assolto" dall'Agcom dopo un esposto del Codacons, il conduttore dell’Arena di RaiUno ieri ha suscitato l'indignazione di molti con una frase a proposito di evasione fiscale e corruzione: "Sembra di essere tornati al Regno delle Due Sicilie".

L'episodio ha trovato una reazione particolarmente veemente da parte del Movimento Neoborbonico. "Premesso che Giletti, evidentemente, ignora la storia delle Due Sicilie e i primati che i Borbone seppero regalare ai meridionali – scrive l'associazione – premesso che Giletti, evidentemente, ignora che furono i Savoia a portare corruzioni, privilegi, saccheggi, devastazioni e massacri nel Sud dell’Italia con una colonizzazione economica e culturale che dura da oltre un secolo e mezzo; premesso che chi ama e rispetta il Sud e la sua storia non può guardare le trasmissioni di Giletti; premesso che certi personaggi forse sono a caccia di polemiche e di ascolti e le campagne di boicottaggio non sono l’unico mezzo a nostra disposizione, il Movimento Neoborbonico invita i suoi tanti simpatizzanti e chi ama la storia del Sud e dei Borbone a far sapere alle aziende che sponsorizzano la Rai e l’Arena che non compreranno più i loro prodotti e servizi".

Un boicottaggio vero e proprio diretto ad alcune aziende partner della tv pubblica e dell'Arena in particolare, accompagnato dall'invito a segnalare sia alle suddette che alla mail della trasmissione Rai il proprio disappunto.
L'episodio dell'Arena fa il paio con un'altra presunta gaffe, sempre domenica ma questa su RaiTre in "Alle falde del Kilimangiaro", da parte di un ospite che ha definito i napoletani come "un po' mariuoli".



Comenti:


Alberto Pento

Mi dispiace ma la Mafia, la Camorra, la Sacra Corona Unita, l'Andrangheta non sono state portate al sud dai Savoia, esistevano già e non si possono certo considerare organizzazioni patriottiche o partigiane di resistenti contro l'invasore savoiardo e nordico e nate per contrastare l'ingiusta e malefica unificazione forzata. Sostenere che i mali, le magagne, le pecche del sud italico siano tutte una conseguenza dell'invasione garibaldino-savoiarda e dell'unità statuale italiana è una falsità. Certo la non democrazia e la corruzione amministrativa e politica ci arrivano in parte con l'unificazione statuale italiana ma per il resto è tutta farina del sacco meridionale. Farsi passare per vittime innocenti corrotte dai nordici non mi pare proprio un buon indice di consapevolezza e responsabilità.

Anche il Veneto è stato invaso ma non si sono certo sviluppate queste organizazzioni criminali. La corruzione politico-amministrativa manifestatasi negli ultimi anni in Veneto come il caso Galan-Mose è proprio un portato dell'unificazione statuale italiana e della corruzione irresponsabile delle caste che questo stato ha prodotto, generato, alimentato. Anche gli ultimi casi delle truffe bancarie (BPV e VB) sono un portato maligno del cancro italico.

Èun fatto innegabile, confortato dai dati di decenni che le maggior evasione fiscale e corruzione si abbia nell'area meridionale della penisola, come pure i dati sulla criminalità organizzata e spontanea: omicidi, estorsioni, sequestri, rapine, traffco di droga, ... . Non si possono nascondere e negare i fatti.

Io credo che se sparisse lo stato italiano e i territori diventassero indipendenti, al sud non sparirebbero certo le organizzazioni criminali, mentre di sicuro in Veneto sparirebbe la corruzione politico-amministrativa.

La Sicilia è la regione più indipendente e vive da decenni sopra le sue possibilità grazie ai trasferimenti dalle regioni più produttive, eppure è piena di mafia, di corruzione, di parassitismo vergognosi.


Peppe Nostromo
Per la precisione riporto quanto detto dal giudice Rocco Chinnici che, negli anni 80, durante un' intervista affermò:
“prima di occuparci della mafia del periodo che va dall’unificazione del Regno d’Italia alla prima guerra mondiale e all’avvento del fascismo, dobbiamo brevemente, ma necessariamente, premettere che essa come associazione e con tale denominazione, prima dell’unificazione non era mai esistita, in Sicilia. La mafia nasce e si sviluppa subito dopo l’unificazione del Regno d’Italia”. Parole, queste, pronunciate da una persona che aveva studiato il fenomeno mafioso e che la sapeva lunga sull’argomento, molto più di tanti storici che se ne sono occupati.
Facciamo adesso un passo indietro di qualche secolo, e precisamente al tempo dei Promessi Sposi. Manzoni nel suo romanzo descrive i personaggi di Don Rodrigo, i Bravi: il Griso e il Nibbio, il conte Attilio e soprattutto l’Innominato, storicamente identificabile in Francesco Bernardino Visconti, ricco feudatario e capo di una squadra di bravacci che commetteva ogni sorta di delitti. Ma i Promessi Sposi, prima ancora di essere la storia di due giovani amanti, è un romanzo storico e come tale ritrae la società del tempo, nella fattispecie quella milanese del 1600, i cui personaggi potrebbero tranquillamente essere accomunati agli attuali boss, picciotti o al potente colluso che per ottenere favori utilizza qualsiasi mezzo.
Tornando ai fatti risorgimentali ormai è nota l’alleanza tra Garibaldi e i picciotti siciliani, l’eccidio di Bronte ne è l’esempio più lampante, e lo stesso “eroe dei due mondi” scrive nel suo diario: “E Francesco Crispi arruola chiunque: ladri, assassini, e criminali di ogni sorta, 11 maggio 1860", ma anche la decisione dei piemontesi di “istituzionalizzare” la Camorra a Napoli dandogli la gestione dell’ordine pubblico. L’artefice di tale scelleratezza fu il Prefetto Liborio Romano che scrisse a Salvatore de Crescenzo, esponente della camorra: “redimersi per diventare guardia cittadina, con quanti compagni avesse voluto, col fine di assicurare l’ordine. In cambio, i camorristi irregimentati avrebbero goduto di amnistia incondizionata e stipendio governativo”. Famose poi furono le parole del deputato repubblicano, Napoleone Colajanni, che nel 1900 affermò al Parlamento: “Per combattere e distruggere la mafia, è necessario che il Governo Italiano cessi di essere il re della mafia”.
E il dubbio sorge anche se si cita un altro protagonista indiscusso nella formazione sia dell’Unità che della Mafia: la Massoneria.
Molti fonti storiche ormai sono concordi col fatto che l’impresa dei “mille” fu decisa a tavolino dalla massoneria, escludendo la partecipazione del popolo. Il film “Noi credevamo” di Mario Martone mette proprio in evidenza tale aspetto, mentre, è accertato da sempre che Mafia e massoneria rappresentano quasi la stessa cosa.
Dunque il dubbio si infittisce e le domande si moltiplicano alquanto.
Per onestà intellettuale non sarebbe corretto far partire la storia della criminalità organizzata dall’Unità d’Italia, in quanto già esistevano germi di prepotenze e piccole organizzazioni di derivazione feudale.
Forse ciò che non è accettabile e che la storiografia sta facendo venire a galla è il fatto che tali germi siano stati innaffiati dal dopo-Unità, tanto da far nascere l’albero chiamato Mafia.
Se gli statisti di allora non avessero fatto questa scelta immonda, forse la storia del nostro Paese sarebbe stata molto diversa.
INFINE IL MERIDIONE POTREBBE VIVERE TRANQUILLAMENTE SEPARATO.....SIAMO STANCHI DI SENTIR DIRE SEMPRE: "SIETE LA NOSTRA PALLA AL PIEDE"........FATECI UN MIRACOLO: LIBERATEVI DI NOI.... VI RINGRAZIEREMO IN ETERNO............FINIREMO DI ESSERE UNA VOSTRA COLONIA...

Roberto Steele Vigilante
Alberto Pento ,si legga qualche libro e capirà che quello che le ha raccontato la storiografia patriottarda(che beninteso ci andò giù pesante anche con il Veneto e i Veneti)è palesemente basato su falsi storici volti a giustificare la barbara colonizzazione sabauda(che anche il Veneto subì nel 1866).Posso consigliarle qualche autore(Nicola Zitara,Carlo Alianello,Angela Pellicciari,Dennis Mack SMith,Lucy Riall).Fatta eccezione per la camorra,la cui nascita si attesta attorno al 1820-1830 ad opera dei massoni e carbonari partenopei(quindi non è nemmeno un fenomeno popolare),il primo documento che parla di mafia in Sicilia è il romanzo "I Mafiusi de la Vicaria"datato 1863(ad unità d'Italia in svolgimento,e in modo particolare dopo i fatti di Bronte del 1860)e della ndrangheta addirittura dopo il 1880.La Sacra Corona Unita nasce negli anni 80 del XX secolo.Ammiro i Veneti,la Storia della Serenissima,e la loro lotta per l'autodeterminazione,ma le suggerirei di informarsi meglio sulla storia del Mezzogiorno pre-1860 dato che lei è intriso di pregiudizi e falsi miti(per giunta anche smentiti da dati statistici).WSM

Vincenzo Pompeo Balzano
Alberto Pinto, chi credi che abbia sostenuto la locomotiva industriale e produttiva del nord COMPRANDO i prodotti? Chi credi che abbia contribuito con la FORZA LAVORO nelle fabbriche del nord? Ti rispondo: il sud. È logico che se lo stato investe per il 90% al nord ci si ritrova con un sud dove la criminalità organizzata domina incontrastata. Senza lavoro, senza prospettive e investimenti sfido qualsiasi società a non sfociare nell'anarchia istituzionale.

Alberto Pento
Avete presente com'era la Palestina prima che risorgesse lo stato d'Israele? Era molto ma molto peggio di come sono Gaza e la Cisgiordania arabe mussulmane oggi, era un'area arretrata, stottosviluppata e un mezzo desertica. Gli ebrei con il lavoro e la cultura l'hanno trasformata in un giardino, in un'oasi paradisiaca, in uno dei paesi più sviluppati, civili e democratici del mondo. Inoltre in Israele a parte il terrorismo arabo islamico non vi sono mafie, camorre, andranghete e corruzione politico amministrativa.
Da noi in Veneto il settore industriale si è sviluppato senza l'apporto dei migranti meridionali. I meridionali li trovavamo negli uffici pubblici a opprimerci: prefetti, questori, provveditori scolastici, generali della finanza e dei CC, a capo dei Vigili del Fuoco, del genio civile, Procuratori della RepubblIca e Presidenti dei tribunali, ... poi nelle scuole come professori e maestri a dirci che non dovevamo parlare la nostra lingua veneta e a raccontarci le storielle della retorica patriottica italiana ci insegnavano a disprezzarci e ci umiliavano. Nel Veneto mandavano i criminali mafiosi e camorristi al confino e al soggiorno obbligato e la malerba ha contagiato facendo nascere la mala de la Brenta.
Anche nel Veneto prima Napoleone e poi i Savoia hanno portato la miseria, però non abbiamo sviluppato mafie, camorre, andranghete, sacre corone unite e la corruzione amministrativa e politica che si trovano in altre aree italiche. Come mai?


Mafia attestata prima dell'unità statuale italiana
https://it.wikipedia.org/wiki/Mafia_in_Italia

La prima volta che il fenomeno viene descritto, seppure con un diverso nome, negli atti giudiziari solo nel 1838, quando il funzionario del Regno delle Due Sicilie Pietro Calà Ulloa - procuratore generale di Trapani - parlò di "unioni e fratellanze, specie di sette" dando un primo quadro agghiacciante delle complicità e delle compiacenze che consentono alla malapianta di crescere:
« Non vi è impiegato in Sicilia che non si sia prostrato al cenno di un prepotente o che non abbia pensato a tirar profitto dal suo ufficio [...] sono le "fratellanze che generano la mafia e dettano le prime norme non scritte di un'associazione formata non da "uomini d'onore" perché di questo ancora non si discute ma da "uomini di parola", con una distinzione fin troppo sottile perché semmai prevale qui l'assonanza fra "onore" e "parola"[senza fonte] »

Camorra
https://it.wikipedia.org/wiki/Mafia_in_Italia
Alcune di queste organizzazioni sono storicamente nate e sviluppatesi nei tradizionali territori dell'Italia meridionale, e quasi tutti i fenomeni documentati non vanno oltre il XIX secolo. Una singolare prospettiva è quella offerta dalla Camorra, unica vera eccezione, fenomeno malavitoso diffuso in Campania, ma che secondo alcuni autori avrebbe un'origine da ricercarsi altrove. Difatti l'uso del termine camorra sarebbe attestato già nel XVII secolo, mentre la derivazione etimologica da gamurra ribasserebbe ulteriormente la sua esistenza fino al Medioevo. Secondo Vincenzo Mortillaro si può comunque supporre che camorra fosse già sinonimo del termine mafia nella prima metà del XIX secolo e che tale fenomeno dovette essersi esteso anche in Sicilia.


Roberto Steele Vigilante
Alberto Pento mi scusi ma lei s'informa su wikipedia(enciclopedia su cui qualsiasi beone può scrivere) e per giunta senza fonte?Io le ho citato libri e autori,suvvìa.Se lei vuol vivere di pregiudizi e citazioni senza fonte,faccia pure.(Sulla mafia le consiglio qualche scritto di Rocco Chinnici,inoltre i mafiusi de la vicaria,lo può ordinare su ebay o amazon).Io personalmente,non ho alcun astio per i Veneti(perchè dovrei,me lo potrebbe spiegare?)visto che hanno avuto una storia travagliata dal 1866 e dal 1797 al 1815 e una altrettanto gloriosa fino al 1797 e dal 1815 al 1866.Ah!Ecco cosa diceva il Chinnici:http://www.ondadelsud.it/?p=7402 personalmente mi fido più di un giudice a conoscenza dei fatti ed ha esaminato le carte che di wikipedia.La pianti di prendersela con i Meridionali(posso capire l'astio verso qualche pelandrone del pubblico impiego,ma sappia che quella marmaglia ascara,è sempre stato filorisorgimental e filomafiosa,non mi stupisco se vi hanno trattato a quella maniera.Allora dovrei dire lo stesso della quasi totalità dei Veneti visto i successi dia scari quali lega,veneto fronte skinhead,tosi et compagnia cantante?Del resto da Busato o da altri Indipentisti Venetisti non ho visto astrio o veleno,in lei si,peccato) ma a rovinare il Veneto fù l'italiaunita s.p.a.(la stesa che ha rovinato il Sud.Come vede non ho pegiudizi antiveneti)La lascio con un bell'articolo sulla Ligera,malavita tipicamente Milanese che imperversò tra gli anni'70 del XIX sec. e gli anni '80 del XX sec.vi presero parte anche alcuni Veneti.Es.Francis Turatello:http://www.vice.com/.../storia-ligera-prima-malavita...
E’ nata prima la mafia o l’Unità d’Italia?


Alberto Pento
Wikipedia è la migliore enciclopedia che esista al mondo e ha il pregio che ha versioni originali in molte lingue che non sono traduzioni di una stessa pagina fornita da un grande vecchio che controlla il mondo. Tutti possono dare il loro contributo e tutti possono controllare e verificare; esiste una pagina di discussione per ogni voce ed esistono dei responsabili che controllano. Alcune voci, di ogni lingua/paese/stato, politicamente sensibili, possono subire delle derive ideologiche ma basta il raffronto con le medesime voci in altre lingue e spesso emergono le contraddizioni e le manipolazioni.


Roberto Steele Vigilante
immagino che lei non abbia mai dato un'occhiata alle pagine di cronaca locale di Milano,Bologna,Genova,le assicuro che l'amministrazione pubblica di quei posti in quanto a corruzione e malfunzionamento non sono poi tanto dissimili dagli standard meridionali(MOSE,Brebemi,Coop Rosse in Emilia che fanno il bello e il cattivo tempo,Rifuti tossici nel Bresciano e nella Piana d'Albenga,Expo,Transpolesana,A31 Vicenza-Piovene Rocchette,VFS,Credieuronord).Dica un po,è forse colpa dei Meridionali?E in buona compagnia nemmeno io vado a votare,ma suvvìa Pento,lei crede ancora alla befana


Alberto Pento
Si il MOSE almeno hanno eseguito l'opera e di sicuro senza speculare sul cemento; possiamo star certi che l'opera resisterà senza crollare a terra o al fondo della laguna. Inoltre il maltolto è tutto, interamente nostro, perché nulla di quello che spende lo statoitaliano in Veneto ci viene dalla "solidarietà nazionale", ma tutto viene dalle nostre tasse e tributi veneti.
La corruzione politico-amministrativa che c'è in Veneto è interamente un portato italico, una conseguenza dell'essere stati inglobati nello stato italiano. Sicuramente se fossimo indipendenti o magari ancora sotto Venezia o sotto l'Austria o assieme alla Svizzera, tutto questo malaffare non ci sarebbe.

Sul malaffare e sulla corruzione italica cerco di tenermi aggiornato:
viewforum.php?f=22


Antonio Ionà
....ma il romanzo " I Promessi Sposi " del nordico Manzoni non era ambientato sulla dispotica e delinquenziale famiglia lecchese ,pare tale casata degli Arrigoni nobili potenti e prepotenti, protagonisti di una lunga faida, a cui apparteneva Don Rodrigo che fu personaggio vissuto nel crimine e la cui malvagità non conobbe limiti. Dove,come scriveva il poeta, anche gli abitanti sono di pessimo carattere e tutti sono malfattori " erano omacci tarchiati e arcigni...; vecchi che perdute le zanne, parevan sempre pronti, chi nulla nulla gli aizzasse, a digrignar le gengive; donne con certe facce maschie, e con certe braccia buone nerborute ", cosa che sta a sottolineare la condizione di vita di don Rodrigo, capo di questa organizzazione.signorotto locale, potente e meschino, la cui forza non è reale ma è costituita dai bravi nient'altro che il braccio armato di questa organizzazione a delinquere che già esisteva prima del 1500 !

Alberto Pento
Da noi i bravi dei nobili locali non esistono più da almeno 2 secoli; da voi non sono mai spariti e continuano ad esistere anche senza nobili spagnoli.

Salvatore Agosta
Ma sei Italiano per grazia del Meridione che ti piaccia o no ne devi prendere atto. E ricorda la cosa più importante, non siamo tutti "bravi"!! Ma onesti lavoratori che dopo essere stati lasciati in mano ai delinquenti, soli e senza la presenza dello Stato, ci avete attribuito il marchio di Mafiosi. Adesso rubano tutti, pure i leghisti che tanto predicano il bene ma bene non sono. Ringrazia noi per essere un settentrionale dove il lavoro non è mai mancato. Ma le cose cambiano e oggi purtroppo alcuni in giacca e cravatta hanno infangato anche voi. Vedi MOSE!! CIAO.

Antonio Ionà Salvatore Agosta
Alberto Pento Da Voi oggi si chiamano colletti bianchi. Scusami ma purtroppo è così- La mafia occulta !
Bravo, noi siamo italiani di nome e di fatto. Purtroppo altri ci considerano nord africani, con disprezzo, senza sapere che siamo stati colonizzati con la tirannide e con forza disconoscendo che storicamente non ne avevamo bisogno !

Alberto Pento
No no, io non vi considero africani ma veri italiani. Nessun disprezzo, semplicemente non siamo fratelli, quando sento l'inno italico mi viene da vomitare. Io sono semplicemente veneto e non mi sento in alcun modo italiano anche se parlo italiano come i ticinesi svizzeri e quantunque mi ritrovi cittadino italiano contro la mia volontà.

Roberto Steele Vigilante
Non le do torto.Purtroppo anche noi,abbiamo le nostre responsabilità.Dal 1880 in poi(fine della guerra al brigantaggio)chi ha potuto è emigrato,gli altri o hanno subito,o sono diventati conniventi al sistema(affiliazione alla mafia,democrazia cristiana o forza italia o pd con percentuali bulgare etc.).P.S.Ho vissuto e lavorato in Liguria ed Emilia Romagna e per lavoro ho avuto a che fare anche con il Veneto.La qualità dei servizi non è dissimile dal Mezzogiorno,i servizi nella penisola funzionano solo ad Aosta e Bolzano(i quali esulano dal discorso tricolorito per particolarità etniche e culturali)

Alberto Pento
Non credo che i servizi ospedalieri siano simili: gli ospedali veneti sono pieni di pazienti meridionali; non ho mai sentito di un veneto che si sia fatto ricoverare in un'ospedale del meridione italico. Le scuole poi e le università? Tralascio il resto.

Roberto Steele Vigilante
ho lavorato in strutture sanitarie pubbliche e private Liguri o Emiliane,le posso dire,dal basso della mia esperienza,che gli standard eccezion fatta per le fondazioni di diritto pubblico(Baggiovara,Sant'Orsola,Istituto Pini)non sono tanto dissimili dal Meridione.I Settentrionali non vanno certo al Sud a farsi curare mi creda,ma preferiscono la Slovenia,la Croazia,il Montenegro oppure la Svizzera o l'Austria,immagino che lei,da neofita o da estraneo del settore,non abbia mai sentito parlare del turismo sanitario(pratica comune anche al Sud).Qualche struttura d'eccellenza ce l'abbiamo anche noi quaggiù(poche in mezzo a un mare di disfunzionalità)come l'Ospedale Oncologico di Rionero in Vulture,l'Ospedale Cardiologico Monaldi,la clinica Althea di Bari,(gruppo GVM)Agrigento Medial center(GVM),Casa Solievo della Sofferenza di San giovanni Rotondo,Ospitale Città Di Lecce(GVM).Si documenti sig.Pento,capisco che adori cullarsi in pregiudizi che l'aiutano a sentirsi più sicuro e meno impaurito,ma con me questi mezzucci non funzionano.Mi dispiace che lei abbia trovato Meridionali terribili,personalmente ho incontrato Veneti adorabili e sontuose teste di cazzo.Poi le ripeto,se a lei piace così,contenti tutti,ma non venga nelle pagine meridonaliste a sfotterci perchè troverà sempre qualcuno che le risponderà per le rime con i fatti alla mano(e anche in maniera cordiale ed educata).WSM(W San Marco e i Serenissimi)

Alberto Pento
Mi dica è vero o no che è diffusa in molti ospedali meridionali la consuetudine di allungare una monetina agli infermieri per ricevere le loro sollecite prestazioni ?
Nessun pregiudizio: al sud ci sono stato due volte e proprio nelle Puglie e ho trovato grandissime differenze nei servizi, nei comportamenti, nell'affidabilità, nell'onestà ...

Roberto Steele Vigilante
Dove ho lavorato io no(e a me francamente nessuno ha dato nulla,prendevo lo stipendio regolare stabilito dal ccnl,sarò stato un fesso,cosa vuole che le dica).Da altre può essere successo,non lo escludo,se le elencassi il numero dei primari che ho visto consigliare al paziente di venire in studio ed essere pagati senza fattura anzichè in ospedale(pratica comune in quasi tutta la penisola).Mi arresterebbero.Si è trovato così male in Puglia?Di solito siamo ospitali(vabbè io sono Dauno non faccio molto testo ne con Bari(la Puglia vera e propria)o con il Salento che Puglia non è,ma è stupendo ugualmente). Come vede non ho problemi a parlare delle dsifunzionalità del Sud e dei suoi problemi ormai diventati atavici,o a tirare per le orecchie qualche mio conterraneo furbastro.Lei mi dice da noi tutto perfetto,e se c'è qualche disfunzione la colpa è degli altri.(non mi pare un atteggiamento granchè oggettivo,anche perchè i fatti dicono tutt'altro.Es.Popolare di Vicenza).Come vede disservizi e disfunzioni non mancano in quasi nessuna zona della penisola(e non mi dica che non c'è nemmeno un veneto a lucrarci su,oppure non sapevo che i membri di veneto fronte skinhead fossero in realtà di castellammare di stabia o roseto degli abruzzi Emoticon devil )

Alberto Pento
Mai detto che da me è tutto perfetto e nemmeno che i veneti sono tutti virtuosi, onesti e santi. Io non cerco di scaricare la colpa sugli altri, assolutamente. Le magagne venete sono venete però non posso negare che buona parte del marcio in Veneto ci viene per induzione, per contatto, per ricatto, per costrizione, per corruzione sistemica: la mala del Brenta è in buona parte una conseguenza del soggiorno obbligato che ha portato in quell'area criminali napoletani e siciliani. Se avessimo la legislazione svizzera o tedesca casi come quello della BPV o di VB non ci sarebbero stati; purtroppo la legislazione e i controlli sono quelli italiani.



Alberto Pento
Un altro aspetto da considerare sono la "qualità" dei servizi pubblici e l'etica che la anima. Gli ospedali, le scuole, i rifiuti, le strade, le amministrazioni comunali, provinciali, regionali, la giustizia ... la qualità nel meridione italico non è certo un buon esempio per il resto degli italici, per l'Europa, per il mondo. E questi servizi non sono gestiti da piemontesi, da lombardi, da veneti, da emiliani, ma tuttti da autoctoni, da meridionali. Quando arriverete a prendervi le vostre responsabilità non sarà mai troppo tardi e sarà un bene per tutti.
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Re: Mafie e briganti teroneghi

Messaggioda Berto » dom mar 20, 2016 7:19 pm

Brigante
https://it.wikipedia.org/wiki/Brigante


Mafia in Italia
https://it.wikipedia.org/wiki/Mafia_in_Italia
La mafia in Italia (indicata anche come onorata società) ha origini e tradizioni secolari, ed ha avuto un ruolo importante nella storia d'Italia, prima durante e dopo l'unità d'Italia. La nascita del fenomeno è ancora oggi ritenuta incerta.
Le organizzazioni di tradizione secolare sono la camorra, la 'ndrangheta e cosa nostra (le ultime due però divenute piuttosto note solo a partire dalla seconda metà del XIX secolo). Da quest'ultima si suppone siano sorte ulteriori organizzazioni di stampo mafioso, quali la stidda nella Sicilia centro-meridionale (nelle provincie di Agrigento, Caltanissetta, Enna e Ragusa). Da ricordare anche la Sacra Corona Unita in Puglia (creata da Giuseppe Rogoli, Mario Papalia e Vincenzo Stranieri nel 1981) che sarebbe nata da una costola della Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo.


Mafia
https://it.wikipedia.org/wiki/Mafia

Camorra
https://it.wikipedia.org/wiki/Camorra

Andrangheta
https://it.wikipedia.org/wiki/'Ndrangheta

Sacra Corona Unita
https://it.wikipedia.org/wiki/Sacra_corona_unita

Stidda
https://it.wikipedia.org/wiki/Stidda
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Re: Mafie e briganti teroneghi

Messaggioda Berto » dom mar 20, 2016 7:32 pm

Eco come ke łi se gà conportava łi tałiani teroneghi entel Veneto desfà da ła goera


Ła barbarie tałiana de ła prima goera mondial
http://www.filarveneto.eu/forum/viewtop ... =139&t=528

Immagine
https://www.filarveneto.eu/wp-content/u ... talega.jpg


Il processo delle terre liberate
https://docs.google.com/file/d/0B_VoBnR ... 9RYkE/edit
Immagine


Małavita a Trevixo
https://docs.google.com/file/d/0B_VoBnR ... p5Ymc/edit
Immagine


Li tałiani dapò ver desfà ła tera veneta e copà çentenara de miłara de veneti łi ciamava el Veneto
Veneto bubbone d’Italia

https://docs.google.com/file/d/0B_VoBnR ... pTaUE/edit
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Re: Mafie e briganti teroneghi

Messaggioda Berto » dom mar 20, 2016 7:37 pm

Briganti italiani del primo Ottocento visti da Stendhal
(a cura di Davide Monda)

http://www.bibliomanie.it/briganti_otto ... _monda.htm

1

Si offre la traduzione italiana di un breve ma denso saggio di Stendhal, I briganti in Italia, che apparve peraltro anonimo, col consenso dell’autore, in un’opera del cugino Romain Colomb, ossia nel Giornale di un viaggio in Italia e in Svizzera dell’anno 1828 (1833); Colomb vi dichiarava, alludendo a Stendhal e a queste sue pagine: «L’un de mes nouveaux amis, qui paraît fort instruit de tout ce qui se rapporte au brigandage en Italie, nous a lu une notice qu’il a fait sur ce sujet intéressant; il m’a permis d’en prendre copie, et la voici». In questo, come del resto in molti altri casi, l’autore de Il rosso e il nero rappresenta l’Italia come un paese fatto di luci e d’ombre, che non manca tuttavia mai d’incuriosirlo ed ammaliarlo... Quanto poi alle fonti del presente studio, l’homme de lettres francese, oltre che sulla documentazione diretta, si è basato su taluni ricordi di Sismondi, su numerosi particolari forniti dalle Tablettes romaines di Santo Domingo, ed anche su diversi aneddoti di varia provenienza. Il vivo interesse che Stendhal manifesta per il fenomeno del brigantaggio – e specie per le sue implicazioni sociali e psicologiche – è altresì confermato dalle vicende raccontate in uno dei suoi testi narrativi più celebri, La Badessa di Castro.


In Francia e nella maggior parte degli Stati europei facilmente si concorda sulla qualifica da dare agli uomini la cui professione è quella di derubare i viandanti lungo le strade maestre: sono briganti. In Italia, sono chiamati pure assassini, ladroni, banditi, fuorusciti [1], ma sarebbe un grave errore credere che questo tipo di attività sia lì colpito da una riprovazione così viva e universale come lo è dappertutto altrove.

Tutti hanno paura dei briganti: ma, cosa strana!, ciascuno per parte sua li compiange quando essi ricevono la punizione per i loro crimini. Insomma, si ha per loro una sorta di rispetto anche di fronte all’esercizio di quel terribile diritto che essi si sono arrogati.

Il popolo, in Italia, è abitualmente dedito alla lettura dei poemetti in cui sono ricordate le circostanze notevoli della vita dei banditi più famosi: gli piace ciò che vi è in quella di eroico, ed esso finisce col nutrire per loro un’ammirazione assai vicina al sentimento che, nell’antichità, i Greci provavano per alcuni loro semidei.

Nel 1580, nel cuore della Lombardia si era formata una corporazione di assassini molto temuta: era quella dei bravi[2]. Molti grandi signori ne avevano al proprio servizio e ne disponevano a piacimento per soddisfare ogni loro capriccio, sia di odio, sia di vendetta, sia perfino d’amore. I bravi eseguivano con un’abilità e un’audacia senza pari le missioni più difficili: facevano tremare finanche le autorità. Sin dal 1583, il governatore spagnolo di Milano compì inutili sforzi per distruggere una corporazione tanto pericolosa: emanò editti su editti, che peraltro non impedirono ai bravi di continuare ad essere reclutati. Nel 1628, tale categoria era particolarmente fiorente e aveva la più spaventosa reputazione in fatto di omicidi e rapimenti.

I bravi fungevano da secondi nei duelli che i signori di cui erano al servizio potevano fare tra loro. Obbedienza cieca, discrezione e prudenza erano le qualità principali della professione di bravo.

Il brigantaggio esiste in Italia da tempo immemorabile, ma incominciò ad aver grande diffusione verso la metà del Cinquecento.

Questa professione fu inizialmente esercitata da uomini che consideravano più onorevole conservare in tal modo la propria indipendenza che non piegarsi dinanzi all’autorità pontificia. Il ricordo delle repubbliche medioevali agiva ancora potentemente sugli animi, turbava ogni mente: in poche parole, il fine sembrava giustificare i mezzi. Uomini dotati di così selvaggia energia erano animati più da un sentimento di opposizione al governo che non da una premeditata intenzione di attentare alla vita e alle sostanze di privati cittadini. Alfonso Piccolomini, duca di Montemariano, e Marco Sciarra guidarono con successo l’azione di bande contro gli eserciti del papa.

Nel 1582 il Piccolomini si trasferì in Francia, trovò da prestarvi servizio militare e vi rimase otto anni. Il 16 marzo 1591, Ferdinando, granduca di Toscana, lo fece impiccare, nonostante le proteste di Filippo II e di Gregorio XIV, nei cui Stati egli aveva sparso la desolazione. Il piccolo esercito del Piccolomini era composto da tutti i malfattori della Toscana, della Romagna, delle Marche e del Patrimonio di San Pietro.

Sciarra fu a capo di una banda numerosa e temibile che, sotto Gregorio XIII e verso la fine del Cinquecento, devastò gli Stati romani e le zone di frontiera della Toscana e del Regno di Napoli. La sua armata giunse talvolta a contare parecchie migliaia di uomini. Sisto V riuscì ad allontanarla da Roma, ma non a domarla. Clemente VIII, nel 1592, attaccò Sciarra con tanta energia che quell’illustre brigante si vide costretto a rinunciare al suo pericoloso mestiere e passò al servizio della repubblica di Venezia con cinquecento dei suoi uomini migliori. Lo mandarono in Dalmazia a combattere gli Uscocchi; ma papa Clemente si lamentò vivamente del fatto che banditi da lui ricercati si fossero in tal modo sottratti alla sua giustizia; chiese che gli fossero consegnati; il senato di Venezia si spaventò, fece assassinare Sciarra e mandò i suoi compagni a morire di peste nell’isola di Candia.

Costretti a guerreggiare di continuo con le truppe pontificie, i briganti si rifugiarono nei boschi: privi di ogni risorsa, rubarono e uccisero per vivere. Il teatro delle loro operazioni comprendeva le montagne che si estendono da Ancona a Terracina, da Ravenna a Napoli. Ma allorché l’impunità, per mancanza di strumenti di repressione o per difetto di buona volontà da parte dei governi, divenne una sorta di tacita promessa, il brigantaggio si diffuse in tutta l’Italia. Quella vita libera e avventurosa sedusse spiriti che, se ben guidati, sarebbero stati capaci di cose grandi. Darsi alla macchia era sovente, per un oppresso, il solo modo di vendicarsi della tirannia di un gran signore o di un abate importante.

I Colonna e gli Orsini possedevano la quasi totalità delle terre nei dintorni di Roma. Queste due potenti famiglie erano nemiche l’una dell’altra da circa due secoli. Facendosi una guerra accanita, cercando di distruggersi a vicenda, completavano la devastazione della campagna romana così bene avviata dai barbari, riducendola in quello stato di insalubrità e di spopolamento in cui la vediamo attualmente. Tutta la nobiltà, al seguito di temibili condottieri[3], prendeva le parti o dei Colonna o degli Orsini. Sisto V riuscì a riconciliarli legandoli a sé, il che equivaleva ad affermare sempre di più la sua autorità. Questo papa, uomo abile e intelligente, aveva due nipotine: fece sposare una di esse al primogenito di casa Colonna, e l’altra al primogenito di casa Orsini. La rivalità fra gli Orsini e i Colonna datava dal pontificato di Bonifacio VIII (1294), a cui gli Orsini avevano procurato la tiara.

Tutta l’Italia è stata, contemporaneamente o di volta in volta, infestata dai briganti: ma è soprattutto negli Stati del papa e nel regno di Napoli che essi hanno regnato più a lungo e hanno proceduto in maniera più metodica e costante insieme. Là essi hanno un’organizzazione, dei privilegi e la certezza dell’impunità e, se arrivano ad essere abbastanza forti da intimorire il governo, la loro fortuna è fatta. E’ dunque a questo fine che tendono costantemente per tutto il tempo in cui esercitano il loro infame mestiere. Sembra di essere ancora ai tempi della barbarie, quando la forza era il solo arbitro, il solo potere riconosciuto. Che governo è mai quello che è costretto a tremare dinanzi a un pugno di malfattori! Venti o trenta uomini bastano a spargere il terrore nell’intero paese e a mettere sul piede di guerra tutti i carabinieri del papa!

La città e il territorio di Brescia un tempo erano famosi per il grandissimo numero di omicidi che vi si commettevano: di solito, se ne verificavano duecento all’anno. Ai giorni nostri, la polizia militare francese, e poi le baionette austriache, hanno fatto cessare questo stato di cose.

Sarà ricordata a lungo, in Calabria, la lotta che vi sostennero i Francesi per una dozzina di anni circa (1797-1808). I briganti, sobillati dagli Inglesi, costituirono il nocciolo dell’insurrezione realista. In seguito, altri scontenti spinti dal fanatismo religioso o da quello che trae origine nell’amor di patria, si unirono a loro. Mai forse la resistenza all’oppressione straniera fu accompagnata da un furore altrettanto sanguinario. Da entrambe le parti ci si combatté fino all’ultimo sangue: tutti gli orrori e le crudeltà di una guerra civile insanguinarono quell’infelice paese. La banda di assassini comandata da Francatrippa era rinforzata dai banditi siciliani, spesso fatti sbarcare sulle coste dagli Inglesi (1807).

In Calabria, è usanza abbastanza diffusa che la famiglia di chi ha commesso un omicidio si offra di trattare con quella della vittima. Se il prezzo richiesto è troppo alto, se non si possa o non si voglia pagarlo e venga sporta denuncia, allora fra le due famiglie s’instaura un odio inestinguibile e c’è da aspettarsi una lunga serie di vendette. I contadini calabresi parlano ancora con orgoglio dei loro antenati e di Skanderberg, che, nel 1443, agitò la bandiera dell’indipendenza contro l’usurpatore del suo patrimonio e l’assassino della sua famiglia, il sultano Amurath.

Spogliati di ogni diritto civile e politico, abbandonati all’arbitrio di un potere che si pretende di origine divina, i sudditi del Santo Padre devono per di più essere rapinati e sgozzati dai briganti che infestano i domini della Chiesa.

Bisogna ammettere che il governo, con la sua condotta pusillanime e la sua vile condiscendenza verso gli assassini, con le assoluzioni, le ricompense, le pensioni, perfino gli incarichi di cui li gratifica, si rende loro complice. Che potrebbe far di più, se volesse incoraggiarli? Un papa lasciò da parte ogni decenza al punto di nominare cavaliere un celebre ladro, Ghino di Tacco, semplicemente perché ammirato del suo coraggio.

Questi briganti, d’altronde, non assomigliano affatto a ladri comuni. Come ho già detto, non è sempre il bisogno a spingerli nella carriera del crimine: sono il caso, l’ozio, e più spesso una vera e propria vocazione; ma quanti fra loro non vorrebbero altro che un campo da coltivare, pur di non fare i briganti!

Essi sottopongono a una sorta di noviziato e a prove severe quelli che aspirano a far parte della loro compagnia. Molti hanno una casa, del bestiame e sono sposati. Obbediscono a un capo il cui potere è assoluto. Ma questo capo, liberamente eletto, può essere deposto e anche messo a morte, se tradisce i compagni o viola i suoi giuramenti.

I banditi sono vestiti in modo pressoché uniforme. Il loro pittoresco costume ha qualcosa di militare: pantaloni corti di panno blu, con grosse fibbie d’argento su bretelle rosse; panciotto dello stesso tessuto ornato da due file di bottoni d’argento; giacca rotonda, anch’essa di panno blu, con tasche da entrambi i lati; mantello di panno scuro gettato sulle spalle; camicia aperta dal collo ripiegato; una cravatta, i cui due capi sono tenuti uniti dagli anelli e dalle fedi nuziali rubate; un alto cappello a punta di feltro rosso, con dei cordoni o nastri di diversi colori; calze legate alla gamba da piccole strisce di cuoio che terminano in sandali o in grosse scarpe chiuse; una larga cintura di cuoio con dei tagli per infilarvi le cartucce, allacciata da fermagli d’argento; una giberna, un budriere da cui pendono una sciabola, una forchetta, un cucchiaio e un pugnale; al collo, un nastro rosso che lascia ricadere sul petto un cuore d’argento: contiene delle reliquie e reca all’esterno, in rilievo, l’immagine della Vergine Maria col Bambino Gesù. Tale è l’equipaggiamento guerresco e religioso insieme di questi uomini che, sottoposti a una severa disciplina, non si spostano se non in bande più o meno numerose. Siccome pagano generosamente le loro spie e i loro rifornitori, raramente ne sono traditi.

La loro vita un po’ nomade si divide fra le cure da prestare alle greggi di capre, da cui traggono in parte il loro sostentamento, e il controllo delle strade principali o delle vie secondarie, sulle quali aspettano i viaggiatori. Spesso, pure, tali orde di banditi non sono altro che abitanti dei villaggi della Sabina o degli Abruzzi; per una parte dell’anno si dedicano ai lavori dei campi, ma poiché tale lavoro su quei terreni rocciosi non basta ai bisogni della famiglia, si abbandonano alla loro naturale inclinazione per l’assassinio e il saccheggio. Questa abitudine al brigantaggio non è d’altronde per loro se non un modo di vivere, a cui sanno molto bene che è connesso il rischio del patibolo. Poiché la maggioranza della popolazione è di fatto arruolata sotto le bandiere di alcuni capi, costoro hanno sempre ai loro ordini un piccolo esercito, tanto pronto a riunirsi quanto a disperdersi ad azione compiuta.

Nelle loro spedizioni i banditi sono di solito aiutati dai pastori. Gli uomini dediti alla pastorizia[4] conducono un’esistenza semi-selvaggia, che li lascia in contatto con le città, da cui possono rifornirsi di provviste, e tuttavia li scioglie da ogni legame sociale, sino a renderli indifferenti ai delitti degli altri.

Affrontare ogni pericolo, sopportare ogni privazione e ogni fatica: ecco la vita quotidiana dei briganti. Dormono perlopiù in fondo a un fosso, avvolti nel loro mantello, senz’altro riparo che la volta celeste. Da lì, quei filibustieri di terra si gettano sulle loro vittime, le trascinano nei loro rifugi e ne fanno scempio se non possono pagare il riscatto richiesto. Ecco il trattamento riservato alle persone del luogo. Quanto ai forestieri, di solito vengono soltanto spogliati di tutto, talvolta fino a rimaner nudi sul posto. Il primo ordine che i banditi intimano ai viaggiatori da loro aggrediti è quello di mettersi faccia in terra[5]. Spesso una banda compare all’improvviso in mezzo a un gregge di pecore. Allora, se la fame si fa sentire, i ladroni ordinano ai pastori di ucciderne una o più. Subito dopo le pecore sono scuoiate e fatte a pezzi che vengono arrostiti sulla punta delle bacchette da fucile, e divorati. In modi analoghi giungono il pane e il vino. Durante il pasto, i briganti hanno di solito l’abitudine di servirsi dei pastori di cui hanno decimato il gregge per far loro tagliar legna, attingere acqua, ecc. ecc.

Quando una banda sosta da qualche parte, prende tutte le precauzioni di cui fa uso un esercito in un paese nemico. Sentinelle, a cui vien dato il cambio a brevi intervalli, sono collocate nei diversi punti da cui si potrebbe esser colti di sorpresa. Fatto ciò, i banditi si dividono in gruppi; alcuni giocano a carte, altri alla morra[6]; alcuni ballano, altri ascoltano un racconto o una canzone, nella più completa tranquillità e sicurezza.

Nel corso della sua vita avventurosa, due cose, da cui non si separa mai, rassicurano il brigante italiano: il suo fucile, per salvarsi la vita, e l’immagine della Vergine Maria, per salvarsi l’anima. Nulla di più spaventoso di questo miscuglio di ferocia e superstizione! Un uomo del genere finisce per convincersi che la morte sul patibolo, preceduta dall’assoluzione datagli da un prete, gli assicurerà un posto in paradiso. Simile convinzione spesso spinge un disgraziato a commettere un delitto che gli comporterà la pena capitale allo scopo di meglio procacciarsi una felicità resa certa dal sacrificio della sua vita! Insomma, quella è gente che vi assassina come si deve, con la corona del rosario in mano, accompagnando le sue stilettate con un per amor di Dio[7].

Un bandito, accusato di un grande numero di omicidi, comparve dinanzi ai giudici: lungi dal negare di aver commesso i crimini imputatigli, ne confessò altri fino a quel momento ignorati dalla giustizia, ma quando si giunse a chiedergli se avesse sempre rispettato le giornate di digiuno, il devoto furfante si risentì. Quel dubbio era per lui la più grave delle offese. “Mi sospettate dunque di non essere cristiano?”, chiese con amarezza al magistrato che lo interrogava.

La storia di questi uomini straordinari, dopo che sono diventati famosi, sarebbe lunga e curiosa: ma, a parte il fatto che sarebbe difficile riunirne gli elementi, io non ho avuto né il tempo né l’intenzione di condurre una simile ricerca. Ma anche limitandomi a parlare di quelli su cui si possiedono informazioni precise, il mio racconto non sarà privo di un certo interesse.

Una persona degna di fede, il signor Tambroni, afferma che, durante il regno di Pio VI (1775-1800), nello Stato pontificio ci furono diciottomila omicidi. Sotto Clemente XIII erano stati diecimila, di cui quattromila nella stessa Roma. E’ noto che sotto il pontificato di Pio VII molti banditi sono diventati famosi.

Maino di Alessandria è stato uno degli uomini più notevoli di questo secolo: si faceva chiamare “imperatore delle Alpi” e con questo titolo firmava i proclami che faceva affiggere lungo le strade. Nelle sue giornate di rappresentanza o in quelle in cui passava in rivista la sua banda, compariva con uniformi e decorazioni tolte a generali e ad alti funzionari francesi[8]. Maino combatté per parecchi anni contro la gendarmeria. Alla fine, tradito da una donna, la casa in cui si trovava nel villaggio della Spinetta, suo luogo di nascita, fu improvvisamente circondata da agenti di polizia e da due brigate della gendarmeria: fra un uomo solo e una truppa di uomini armati fino ai denti s’ingaggiò un’accanita battaglia. L’eroe delle strade si difese come un leone, uccise parecchi avversari e non abbandonò il suo rifugio se non quando gli fu dato fuoco. Allora si dà alla fuga, scala un muro, riceve una fucilata che gli fracassa una coscia e finisce con l’essere ucciso in quello stesso posto mentre si dibatte fra i gendarmi. Maino aveva soltanto venticinque anni.

Un uomo del genere soccomberà sotto i ripetuti attacchi di una polizia militare molto bene organizzata, riceverà sul patibolo il premio dei suoi delitti e del suo intrepido coraggio; ma l’opinione pubblica gli attribuirà maggiore genialità e sangue freddo che non a molti generali che hanno lasciato fama di sé.

A Parella, i cui deplorevoli eccessi hanno tanto a lungo sparso il terrore nel regno di Napoli, i soldati francesi davano da tre anni la caccia. Non riuscendo a catturarlo, il ministro Salicetti mise una taglia sulla sua testa. Un contadino, che era barbiere, servitore e uomo di fiducia di Parella da una dozzina d’anni, ebbe un giorno a lamentarsi di lui; cedette all’attrattiva del guadagno e al desiderio di vendetta; una mattina, mentre gli faceva la barba, tagliò la gola al suo padrone, ne consegnò la testa e intascò quattrocento ducati come ricompensa per questa azione.

Il capo chiamato Diciannove, perché gli mancava un alluce, era più assetato di sangue che di oro: con barbaro piacere torturava a lungo le sue vittime prima di finirle. Alla fine Diciannove, più stanco che sazio della propria crudeltà, propose al governo pontificio un armistizio che questo accettò.

Una volta ottenuta la grazia come banditi e assolti come cristiani, Diciannove e i suoi compagni poterono presentarsi impunemente ai familiari delle persone che avevano assassinato. Dopo essersi seduti alla loro tavola e aver preso parte ai pasti della famiglia, quegli scellerati, andandosene, chiedevano ancora del denaro, in cambio dei riguardi che pretendevano di aver usato quando avevano esercitato il loro mestiere di ladri: nessuno osava rifiutare. In tal modo, essi conservavano i benefici del loro antico mestiere senza più correre il minimo rischio.

La banda di Corampone, dopo avere rivaleggiato in crudeltà con quella di Diciannove, ottenne le stesse immunità.

Da Terracina a Fondi, da Fondi a Itri, ci troviamo sul territorio classico del brigantaggio, la terra che ha visto nascere il celebre Giuseppe Mastrilli. Egli divenne assassino per amore: bandito dagli Stati di Roma e di Napoli, vi ricomparve più volte, sfuggì sempre alla giustizia e morì serenamente dichiarando di essere pentito dei suoi delitti. Prima di diventare capo di una banda, quest’uomo geniale aveva fatto parte di quella del vecchio Barba Girolamo.

Mastrilli rivestì un’importante funzione nella più singolare manifestazione controrivoluzionaria cui l’Europa ci abbia fatto assistere dopo il 1789. Questo brigante stava per essere impiccato per i suoi delitti a Montalbano, piccola città vicina alla punta dello stivale italiano, quando il cardinal Ruffo, generale dei sanfedisti calabresi, l’unica persona intelligente del partito legittimista, ritenne utile alla causa di Ferdinando III presentare Mastrilli ai suoi soldati e alla plebaglia come duca di Calabria, col quale in effetti egli mostrava qualche somiglianza. Il bandito si affacciò a un balcone fregiato degli ordini di San Ferdinando e del Toson d’oro: la moltitudine, ingannata dalle apparenze, fece risuonare nell’aria i suoi evviva e l’accolse col più grande entusiasmo. Quel principe di un momento porse la mano da baciare al cardinal Ruffo, e Sua Eminenza la baciò col più rispettoso degli atteggiamenti.

Prima di mettersi a capo del piccolo esercito agli ordini del Ruffo, Mastrilli prese tutte le sue misure per garantirsi la grazia e una ricompensa pecuniaria da parte del legittimo sovrano: sostenuto dal popolo, che era stato appena ingannato con tanta impudenza, il nostro eroe poté assumere un tono d’autorità e dettare al cardinale le proprie condizioni.

Verso la metà del secolo scorso un altro brigante aveva già reso celebre il nome dei Mastrilli. I delitti da lui commessi e l’abilità con cui sapeva sottrarsi alla giustizia ne fecero un uomo così pericoloso che non fu possibile liberarsene se non mettendo una taglia sulla sua testa; fu tradito e ucciso mentre era a caccia. Nel 1766 si vedeva la sua testa esposta sulla porta di Terracina che guarda verso Napoli.

Nel 1806 tutta l’Italia tremava al solo nome di Fra Diavolo. Tale brigante, nato a Itri, seminò il terrore soprattutto fra le popolazioni delle rive del Mediterraneo che facevano parte degli Stati romani e di quelli napoletani. Questo ex-monaco ed ex-galeotto, dal volto tutto brunito dal sole, uccideva i suoi simili per necessità e per divertimento, salvandoli qualche volta per capriccio o aiutandoli in un empito di bontà. Per il resto era molto devoto alla Vergine e ai santi. Da brigante diventò controrivoluzionario e ufficiale superiore nell’armata del cardinal Ruffo, e sgozzò parecchi a Napoli per devozione verso il trono e l’altare. Andava sempre coperto di amuleti e armato di pugnali. Dopo numerose azioni di un ardimento e di un coraggio stupefacenti, Fra Diavolo cadde in mezzo a un distaccamento francese: fu catturato, giudicato e impiccato.

La banda il cui quartier generale si trovava nei dintorni di Sonnino seminava il terrore tra Fondi e Roma: i suoi capi, Mazzocchi e Garbarone, erano dotati di una genialità infernale. L’astuto stratagemma con cui trasportarono sulle loro montagne tutti gli alunni del seminario di Terracina è cosa davvero incredibile.

Il degno uomo di chiesa che dirigeva l’istituto meditava da tempo sui mezzi da adottare per porre fine agli spaventosi delitti commessi da quei briganti. Un giorno, spinto da santo zelo, si mise la sua croce sulle spalle, salì sulla montagna che serviva di rifugio ai banditi, penetrò nel bel mezzo della banda e lì piantò il simbolo della nostra redenzione. Il virtuoso missionario rammentò loro tutte le malefatte che avevano commesso nella regione; li scongiurò ardentemente di abbandonare una così funesta professione; s’impegnò a far loro ottenere senza resistenza ciò che erano soliti prendersi con l’assassinio e il saccheggio; disse loro, insomma, tutto ciò che di più persuasivo gl’ispirava la sua apostolica filantropia. A poco a poco sembrò che i briganti ne fossero scossi; essi accolsero le proposte dell’ecclesiastico; di più, dimostrarono sincero pentimento e il desiderio di rientrare nel seno della Chiesa confessando i loro misfatti. Il venerando prete versò lacrime di gioia e propose ai ladroni di mettere in pratica le loro buone intenzioni accompagnandolo al seminario. Quelli lo seguono, ne ascoltano le istruzioni, assistono a tutte le funzioni religiose e assolvono insomma tutti i doveri di un buon cristiano.

Il bravo direttore ringraziava Dio tutti i giorni per quella felice conversione che riportava la pace nella contrada. La sincerità dei suoi neofiti sembrava al di là di ogni sospetto. Costretto ad assentarsi per due giorni, egli parte per Velletri dopo averli salutati amichevolmente; ognuno di quegli uomini gli baciò la mano e il degno uomo attraversò le paludi Pontine piacevolmente immerso nei dolci pensieri che accompagnano ogni buona azione.

Il prete si era appena congedato dai suoi nuovi convertiti, che questi si diedero a mandare ad esecuzione l’ardito progetto che avevano così abilmente avviato. Nella notte immediatamente successiva, i bricconi trasportarono tutti i seminaristi sulle loro montagne. Da lì, lettere scritte di pugno dei giovani, costrettivi da un pugnale sul cuore, invitavano i loro genitori a spedire senza indugio la somma richiesta per il loro riscatto.

Trascorso il termine fatale fissato per la consegna di quei tributi, tre degli sventurati ragazzi non erano stati ancora riscattati: due furono sgozzati; il terzo si gettò ai piedi degli assassini invocando sant’Antonio! Questa preghiera lo salvò: fu rispedito dai suoi genitori munito di un salvacondotto.

Nel 1813, la polizia francese, dopo cinque anni di inseguimenti, arrivò a catturare un pericoloso bandito, il Calabrese. Quest’uomo, per nobilitare la propria immagine, dava ai suoi atti parvenze politiche: voleva essere considerato come il capo della Vandea romana; si fregiava dei titoli più pomposi.

Gli uomini del Calabrese, sgomenti per il suo arresto e volendo ad ogni costo impedire che fosse giustiziato, mandarono un’ambasceria al capo della gendarmeria, a cui proposero che, dietro compenso di trenta soldi al giorno, si sarebbero incaricati di garantire la sicurezza della strada delle paludi Pontine contro tutte le altre bande. In cambio, l’autorità s’impegnava a non sottoporre a giudizio per i suoi delitti il Calabrese e, come unica pena, a deportarlo in Corsica. Il singolare patto fu concluso e ciascuna delle due parti ne rispettò scrupolosamente le condizioni.

Nel 1817, la banda dell’Indipendenza, comandata, credo, dal De Cesaris, esercitava in Calabria un potere assoluto e terribile; era composta da trenta uomini e quattro donne. Suoi principali tributari erano i fattori e i proprietari terrieri, i quali ben si guardavano dal disobbedire all’ordine di depositare presso il tronco di un albero o alla base di una colonna, in un certo giorno e a una certa ora, quanto era loro richiesto. Tuttavia, un fattore tentò di sottrarsi a quel duro vassallaggio. Anziché portare il suo tributo, dunque, egli avvertì le autorità; e truppe a piedi e a cavallo accerchiarono gli Indipendenti. Vistisi traditi, i briganti fecero una sortita, coprendo il terreno dei cadaveri dei loro nemici. Tre giorni dopo, compirono una terribile vendetta nei confronti dello sventurato fattore. Dopo averlo torturato e condannato a morte, lo gettarono in un enorme calderone dove si faceva bollire il latte per il formaggio, e i banditi obbligarono ognuno dei suoi domestici a mangiare un pezzo del corpo del padrone.
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Re: Mafie e briganti teroneghi

Messaggioda Berto » dom mar 20, 2016 7:37 pm

Briganti italiani del primo Ottocento visti da Stendhal
(a cura di Davide Monda)

http://www.bibliomanie.it/briganti_otto ... _monda.htm

2

Durante la carestia del 1817, il capo degl’Indipendenti distribuì ai poveri dei buoni, che li autorizzavano a prelevare dai ricchi razioni di una libbra e mezzo di pane per un uomo e di una libbra per una donna, oppure del doppio se questa era incinta.

Nel 1819, nei pressi di Tivoli si era stanziata una banda molto intraprendente. Un giorno, essa rapì l’arciprete di Vicovaro, dopo averne ucciso il nipote che mostrava di volersi difendere. Il riscatto richiesto per il prete e per uno dei suoi compagni di sventura era così alto che non fu possibile pagarlo; allora i briganti spedirono alle famiglie le orecchie dei malcapitati prigionieri, e in seguito alcune loro dita. Alla fine, stanchi di aspettare o forse irritati dai lamenti di quei disgraziati, li massacrarono.

Nel mese di gennaio 1825, giunse a Napoli il signor Hunt, un giovane Inglese sposato da poco con una donna assai bella. Egli si recò a visitare le rovine di Paestum accompagnato da numerosi domestici; gli fu servito il pranzo nel tempio di Nettuno. Disgraziatamente i domestici avevano portato del vasellame e una valigetta contenente pezzi d’argenteria; la Signora indossava degli anelli. Ripartito alcune ore dopo col suo seguito, a duecento passi da Paestum l’Inglese fu fermato da contadini che, con una certa rassicurante cortesia, gli fecero richiesta di tutto ciò che aveva nella carrozza. Il signor Hunt prese la cosa allegramente e gettò loro della frutta che aveva fatto parte del dessert. Mentre si chinava per raccogliere alcuni frutti caduti dentro la carrozza, i contadini, credendo che volesse prendere un’arma, fecero fuoco a bruciapelo: una pallottola, dopo aver attraversato il corpo del marito, ferì anche la moglie; li portarono ad alcune miglia dal luogo della triste vicenda, dove morirono entrambi, il marito di lì a due ore e la moglie il giorno seguente.

La faccenda non avrebbe avuto seguito se i morti fossero stati gente comune; ma poiché appartenevano a una famiglia importante, l’ambasciatore inglese fece sapere che esigeva che gli assassini fossero arrestati; tenne duro, e quei contadini furono processati e giustiziati.

Il primo novembre 1825, il capo Mezzapinta, caduto nelle mani dei carabinieri, fu rinchiuso in Castel Sant’Angelo con ventisette uomini della sua banda. Un bravo pretino li aveva fatti catturare. Quei briganti erano stati circondati dalle truppe pontificie su una delle più selvagge montagne dell’Abruzzo, ai confini dello Stato della Chiesa; avevano ancora tuttavia qualche possibilità di fuga, sia tentando di sfondare l’accerchiamento, sia attraverso qualche passaggio segreto. Col tempo e con la pazienza il sant’uomo divenne loro amico e, promettendo la concessione della grazia da parte del Santo Padre, li consegnò pacificamente, uno dopo l’altro, a un colonnello della gendarmeria, appostato col suo reggimento a poche miglia di là. Il comportamento del prete fu ammirato da molti, che pensarono dovesse essere ricompensato con un vescovado; non so se gli sia mai stato concesso.

Il brigante Gasperoni, attualmente in prigione a Roma, ha guidato una banda che è arrivata a comprendere fino a duecento uomini; egli è accusato di centoquarantatre omicidi. Compì il suo primo delitto all’età di sedici anni, uccidendo il curato della sua parrocchia che, cosa strana, gli aveva rifiutato l’assoluzione per un furto da lui commesso. A diciott’anni Gasperoni si distinse in un combattimento contro l’esercito, ove ferì o uccise venti persone, e questa clamorosa azione gli valse il comando della banda di cui faceva parte.

Fra le imprese memorabili di quella banda, si cita il rapimento da un convento di monache di Monte Commodo: trentaquattro ragazze che si trovavano nel convento ne furono portate via a viva forza e in pieno giorno. I briganti avevano scelto quelle i cui genitori potevano pagare il riscatto più alto; le tennero nascoste per dieci giorni sulla montagna; ma, per una felice eccezione agli usi dei banditi, le fanciulle furono trattate con tutti i riguardi possibili in quella triste situazione. Il riscatto richiesto per ciascuna di esse variava dai duecento ai mille scudi romani (cinquemilaquattrocento franchi).

Gasperoni, inoltre, osservava strettamente tutte le forme esteriori della religione: lui e la sua banda non avrebbero mai commesso un furto o un delitto di venerdì; in tal giorno della settimana, e in tutti gli altri periodi fissati dalla Chiesa, osservavano strettamente il digiuno; tutti i mesi chiamavano a confessarli un prete che, per paura o per qualsiasi altro motivo, non mancava mai di dar loro l’assoluzione.

Una donna con cui Gasperoni aveva una relazione diventò lo strumento di cui le autorità si servirono per distruggere la sua banda e impadronirsi della sua persona, nonché di alcuni dei suoi. La polizia romana allettò la donna, che non seppe resistere all’attrattiva di una ricompensa di seimila scudi romani (trentaduemilaquattrocento franchi); il brigante si lasciò prendere nella trappola tesagli da lei; si recò fiducioso in un bosco fissato per l’appuntamento; ma, indovinando subito di essere stato tradito dalla sua amante, Gasperoni riuscì ancora a strangolarla prima di cadere nelle mani degli sbirri. Così quella disgraziata non poté godere dei frutti della sua perfidia.

Il piemontese Rondino, che era stato sorteggiato per il servizio militare, come ricompensa per il suo coraggio e la sua intelligenza aveva ottenuto il grado di sergente. Terminato il servizio, tornò nel suo luogo di nascita e debuttò nella carriera del crimine uccidendo con un colpo di stiletto uno zio che si era impadronito, senza averne alcun diritto, della sua piccola fortuna, e che per tutta soddisfazione lo aveva ingiuriato e colpito. Una volta fatto questo primo passo, Rondino si rifugiò in mezzo alle montagne e intraprese la sua guerra privata con i gendarmi, che di tanto in tanto venivano a cercarlo. I successi da lui ottenuti contro di loro fecero sì che venisse considerato come un eroe dai contadini dei dintorni, peraltro animati da un vivissimo odio contro i persecutori dei carbonari; nell’arco di due o tre anni, Rondino ferì o uccise una quindicina di gendarmi.

Quell’uomo che un caso tanto sfortunato aveva trasformato in un criminale cambiava spesso rifugio, ma non s’allontanava mai più di sette o otto leghe dal villaggio nei pressi di Torino ove era nato. Egli non rubava: semplicemente, quando le sue munizioni o i suoi viveri erano finiti, chiedeva al primo viandante un quarto di scudo per procurarsi della polvere, del piombo e del pane; se gli si voleva dare di più, lo rifiutava.

Quest’onesto brigante provava un profondo disprezzo per i ladri e gli assassini: solo la sua condizione di proscritto giustificava ai suoi occhi il singolare mestiere da lui esercitato. Una volta lo si vide mettere generosamente in scacco una banda che gli aveva confidato le proprie intenzioni di rapinare un consigliere di Torino che trasportava nella sua carrozza quarantamila franchi. Rondino lo difese da solo contro quella banda, e poi rifiutò ogni ricompensa.

Sono ormai quasi sei mesi che il povero Rondino è caduto nelle mani della giustizia; ed ecco come: una notte, si recò a dormire in una canonica; come era sua abitudine, ne volle tutte le chiavi; ma il parroco ne conservò una, grazie alla quale poté fare uscire qualcuno e mandarlo a chiamare i carabinieri. Svegliato dall’abbaiare del suo cane, che era dotato di un istinto inaudito, Rondino riuscì ancora a salire sul campanile e a barricarvisi. Allo spuntar del giorno, incominciò una sparatoria fra lui e i carabinieri; nessun colpo lo raggiunse, mentre molti dei suoi avversari furono messi fuori combattimento. Ma essendogli venuti a mancare viveri e munizioni, fu costretto ad arrendersi; soltanto, Rondino non si volle consegnare se non agli uomini della fanteria di linea, un drappello dei quali entrava allora nel villaggio. Dopo avere rotto il calcio del fucile e affidato il suo cane all’ufficiale comandante, Rondino si lasciò condurre via senza opporre resistenza, aspettò abbastanza a lungo la sentenza, la ascoltò impassibile e affrontò il supplizio senza viltà né spacconeria.

Chi non proverebbe pietà e perfino interesse per un uomo del genere? Gettato nella carriera del crimine per una circostanza in cui gli era parso di non far uso che di un suo legittimo diritto, quell’infelice conservò sempre certi principi e un grado di lealtà di cui molte persone considerate oneste spesso sono prive.

Per concludere questa sommaria descrizione dei costumi di quegli uomini straordinari che raccolgono allori lungo le strade, ecco alcuni cenni sulla vita del famoso Barbone che, secondo alcuni, oggi è pensionante esterno o, secondo altri, custode di Castel Sant’Angelo, dove è stato recluso abbastanza a lungo.

Nato a Velletri, Barbone compì l’apprendistato del suo terribile mestiere fin dalla più tenera età; la madre, di nome Rinalda, gli fece lei stessa da maestra. Egli era il frutto di una relazione fra costei e un certo Peronti, che dall’altare era passato alla foresta. Quando quel prete rinnegato ebbe ottenuto dal governo, in virtù di qualche prodezza, un lucroso compenso con l’aggiunta della grazia, abbandonò la condizione di brigante e tornò a predicare la parola di Dio nella sua parrocchia.

La madre di Barbone, furiosa nel vedersi tradita dall’uomo che aveva amato appassionatamente, visse soltanto per vendicarsi;. pose ogni cura nel far condividere al figlio l’odio atroce che nutriva, e non aspettava altro che il momento in cui egli sarebbe stato abbastanza grande per aiutarla a soddisfarlo; Rinalda voleva immolare il traditore ai piedi dell’altare. Ma Peronti morì di morte naturale, e la disperazione che colse Rinalda per non essersi potuta vendicare portò anch’essa, poco dopo, nella tomba.

Barbone non smentì le sue origini; con una banda agguerrita, divenne il terrore dei viaggiatori, specialmente nei dintorni di Tivoli, Palestrina e Poli.

Quando questo brigante ebbe completato la serie di tutti i crimini possibili, sentì il bisogno di riposarsi; e, seguendo l’esempio di Silla, volle scendere dalle vette del potere. Offrì al papa di deporre la propria dittatura, a condizione che, a titolo di risarcimento, gli fosse concessa un’indennità e un buon numero di assoluzioni; il Santo Padre accettò questo patto, e Barbone, in pegno della sua buonafede, gli inviò le insegne della propria autorità.

Quando, nel 1818, questo celebre bandito fece il suo ingresso nella capitale del mondo cristiano, la gente si affollava al suo passaggio: era bello poter osservare senza pericolo colui che era stato il terrore del paese. D’altronde, a Roma si ha sempre una certa indulgenza, e perfino interesse per gli assassini; si rivolge solitamente all’omicida quella pietà che si dovrebbe provare per la sua vittima; e spieghi chi può questo strano sentimento! Ma è uno dei tratti caratteristici di quel popolo. Posto di fronte alle figure dell’assassino e dell’assassinato, a commuoverlo sono i pericoli corsi dal primo. Quando vede condurre in prigione un uomo che ha commesso i più atroci delitti, lo sentirete dire: “Poverino! Ha ammazzato un uomo![9]”, o anche: “Gli è capitata una disgrazia”.

Il popolo si è assuefatto alla vista di Barbone; oggi lo si vede senza stupore, ma sempre con ammirazione, passeggiare per le vie di Roma; egli le percorre con la sicurezza di un uomo dabbene e con tutta la calma di una coscienza tranquilla.

Ai nomi dei briganti che si sono procacciati una triste notorietà bisogna ancora aggiungere quelli di Stefano Spadolini, Pietro Mancino e Gobertinco che, a quanto si afferma, uccise novecentosettanta persone e morì con il rammarico di non essere vissuto abbastanza per adempiere al voto che aveva fatto di ucciderne mille; Angelo Del Duca; Oronzo Albegna, che uccise il padre, la madre, due fratelli e una sorella ancora nella culla; Veneranda Porta e Stefano Fantini di Venezia.

Eppure, la presenza dei banditi in Italia non è affatto, come si potrebbe credere, un male irrimediabile, un inconveniente del tutto intrinseco alle varie località. Gli uomini di carattere che, in epoche diverse, hanno tenuto le redini dello Stato, sono ben riusciti a reprimere il fenomeno.

Cola di Rienzo, che nel 1347 diventò padrone di Roma e fu insignito del titolo di tribuno, ripulì il paese dai briganti che già l’infestavano. Creato senatore di Roma nel 1354, quest’uomo straordinario fece giustiziare il cavaliere di Montréal, che morì da eroe dopo aver pubblicamente esercitato la professione di ladrone. A capo di una compagnia di ventura, la prima che abbia devastato l’Italia, Montréal si arricchì e divenne assai temibile; il suo denaro era depositato presso tutte le banche; solo a Padova aveva sessantamila ducati.

Sisto V agì con grande energia contro i banditi e non tollerò che nessuno all’infuori di lui disponesse della vita e dei beni dei suoi sudditi. I briganti che si sottrassero al supplizio con la fuga, i vagabondi e la gente di malaffare rifluirono presso i principi vicini. Poiché questi se ne lagnarono, Sisto V, per tutta risposta, mandò a dire loro che tutto quello che dovevan fare era imitarlo, o cedergli i loro Stati. I banditi, incalzati a tal segno, si disaffezionarono al loro mestiere e scomparvero.

Un giorno, Sisto V volle vedere da vicino i ladroni. Travestitosi da contadino, si avviò, con un asino carico di vino, verso dei boschi dove ne erano stati veduti alcuni. I banditi presto s’impadronirono di lui, dell’asino e del vino; misero Sisto a girare lo spiedo, mentre essi bevevano, mangiavano e si prendevano gioco di lui. Ma l’astuto papa nel vino aveva messo dell’oppio; a poco a poco il narcotico fece il suo effetto; Sisto attese il momento propizio, poi diede un colpo di fischietto e i suoi uomini, appostati a poca distanza, s’impadronirono senza difficoltà dell’intera banda caduta in un sonno profondo.

Verso la fine del XVII secolo, cent’anni dopo la morte di Sisto V, il marchese Del Carpio, ultimo viceré di Napoli, diede di nuovo con successo la caccia ai ladroni. Questi erano così numerosi che, per viaggiare in sicurezza in quel bel paese, bisognava riunirsi in carovane. Alcuni banditi vennero a patti col viceré, a condizione di aver salva la vita; egli ne fece morire molti, passati a fil di spada o per mano del boia, e utilizzò gli altri nei lavori pubblici.

I tre papi succeduti a Sisto V probabilmente non condividevano le sue idee nei confronti dei briganti, oppure la breve durata dei loro regni forse non consentì loro di occuparsi della polizia delle strade; sta di fatto che essi ricomparvero nei domini della Chiesa, e che fino a Pio VII, che si accorse un po’ in ritardo degli errori della sua politica nei loro confronti, e fino a Leone XII, che è giunto ad espellerli pressoché interamente dai paesi a lui soggetti, nessun papa riuscì a stroncare il fenomeno.

Sotto Napoleone, i Francesi, con misure sagge ed energiche, contennero quelle bande di assassini e, nel poco tempo che durò la loro amministrazione, consentirono ai Romani e agli altri popoli d’Italia di godere di una sicurezza loro sconosciuta da parecchi secoli.

Nel 1814, quando Pio VII fu reintegrato nei suoi diritti, il preludio all’esercizio della sua autorità consistette nell’accordare a diverse bande di ladroni un perdono totale; ad usufruirne fu anche la compagnia di Rocagorga. Tale indulgenza non fece che accrescere l’audacia dei briganti: perciò, cinque anni dopo, fu necessario ricorrere a misure terribili. Il cardinale Consalvi, sull’esempio di quanto era stato fatto sotto Paolo IV nel 1557 nei confronti della città di Montefortino, ordinò la distruzione di Sonnino[10], divenuta rifugio e punto d’incontro di un gran numero d’assassini. Nessun editto fu più severo di quello del cardinal Consalvi (18 luglio 1819): esso prevedeva la pena di morte per tutti coloro che dessero cibo, denaro o semplicemente asilo ai briganti; nessuno era escluso, nemmeno i parenti di primo grado.

Il diritto d’asilo, tante volte soppresso, reintrodotto o modificato, è stato uno dei più grandi incentivi offerti al brigantaggio. L’uomo che aveva commesso un delitto o rapinato viaggiatori lungo le strade si rifugiava nel palazzo di un cardinale, sotto il portico di una chiesa, presso la residenza di un ambasciatore o in un convento. Lì viveva in tutta sicurezza, beffandosi degli agenti della forza pubblica e rapinando i passanti quando se ne presentava l’occasione. Bande di miserabili dei due sessi si riunivano così, vivendo in una specie di comunità dedita alla crapula, abbandonandosi alla più ripugnante dissolutezza e tenendo scuola di furfanteria. Erano assassini, fratricidi, avvelenatori, incendiari, disertori, ladri, monaci cacciati dai conventi ecc. ecc., che si ritrovavano lì mescolati in uno stesso asilo; ne uscivano furtivamente per commettere nuovi furti o assassinii, poi, quando ci si metteva sulle loro tracce, rientravano in quel soggiorno che garantiva loro l’impunità.

Oltre ai luoghi d’asilo, molti palazzi di prelati, principi e signori godevano a Roma di privilegi che impedivano agli sbirri di entrarvi senza il permesso dei proprietari; insomma, c’era almeno un terzo o metà della città in cui i banditi potevano trovare un rifugio facile e al riparo da ogni rischio. Da qui si possono comprendere le difficoltà che incontrava la polizia ad acciuffare dei malviventi se, per caso, scostandosi dal suo abituale comportamento protettivo nei loro confronti, prendeva la ferma risoluzione di perseguirli.

Già presso gli antichi Romani, i criminali godevano del diritto d’asilo nei templi pagani, e a partire dall’anno 355 della nostra era un analogo privilegio veniva accordato alle chiese cristiane.

A Roma, uno dei principali luoghi d’asilo fu la grande scalinata di Trinità dei Monti. Gli amici e i parenti degli onestuomini che vi dimoravano portavano loro, durante il giorno, i viveri di cui potevano aver bisogno; la notte, i bricconi si rintanavano nei loro rifugi; in capo a qualche giorno, la faccenda era dimenticata, ed essi potevano riprendere le antiche abitudini.

Oggi, le bande di ladroni sono state quasi tutte distrutte o disperse; hanno deposto le loro uniformi. Di quando in quando, sulle grandi strade si verifica ancora qualche ardita aggressione[11]; ma, tutto sommato, bisogna riconoscere che, per quanto riguarda i rapinatori assassini, adesso in Italia si viaggia quasi con altrettanta sicurezza che in Francia.



Stendhal, Promenades dans Rome, a cura di A. Caraccio. Prefazione di H. de Regnier, Genève, Slatkine Reprints, 1986, t. III, pp. 338-361.
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Re: Mafie e briganti teroneghi

Messaggioda Berto » dom mar 20, 2016 7:40 pm

Se Stendhal tornasse a cercare i briganti
MARCELLO BENFANTE
21 maggio 2004

http://ricerca.repubblica.it/repubblica ... ganti.html

Mentre in città riesplode l' emergenza sicurezza con una serie di rapine, furti e violenze ai danni soprattutto di anziani, ma anche di studenti e immigrati, viene da chiedersi se questa recrudescenza di microcriminalità da strada non abbia piuttosto le caratteristiche di un fenomeno endemico che di tanto in tanto perviene a picchi più feroci. Il dubbio è sollecitato, oltre che dalle cronache, anche da un libello svelto e urticante come I briganti in Italia di Stendhal, recentemente pubblicato dalla casa editrice genovese Il Melangolo. Questo breve scritto, destinato all' edizione del 1827 di "Rome, Naples et Florence", apparve invece nel 1833 nel "Journal d' un voyage en Italie et in Suisse pendant l' année 1828 di Romain Colomb", cugino di Stendhal. Una breve nota d' introduzione lo attribuiva a un amico "che sembrava ben informato di tutto quanto riguarda il brigantaggio in Italia". In realtà, il rapido excursus di Stendhal si apprezza più per le sue qualità letterarie che per la precisione storica o cronachistica, talora approssimativa o deliberatamente iperbolica. Stendhal esordisce fingendosi stupito del fatto che in Italia i briganti, sebbene molto temuti, godano di "una sorta di rispetto", tanto che i poemetti a loro dedicati sono assai popolari proprio perché esaltano le virtù eroiche di criminali eletti quasi al rango dei semidei adorati dai Greci.
Appassionato tanto delle doti che dei vizi degli italiani, Stendhal, mediante la scandalizzata retorica di questa paludata premessa, sta in realtà alludendo all' attrazione che egli stesso prova per questo tema avventuroso e pittoresco. La sua analisi però pretende di essere obiettiva. Egli pone il pieno sviluppo del brigantaggio all' incirca alla metà del Cinquecento e ne individua la causa in un moto spontaneo di ribellione all' autorità pontificia. Sebbene tipico di tutto il territorio italiano, il brigantaggio gli pare allignare in modo più costante e duraturo negli Stati del Papa e nel Regno di Napoli. Lì, infatti, i briganti "hanno un' organizzazione, dei privilegi e la certezza dell' impunità se arrivano ad essere abbastanza forti da intimorire il governo". Quest' analisi sembra la precoce definizione di un fenomeno molto vicino alla camorra e alla mafia. D' altra parte, il primo esempio malavitoso riportato da Stendhal non riguarda il Meridione, bensì la Lombardia. Si tratta di quei bravi, immortalati da Manzoni, la cui "corporazione tanto pericolosa" era in grado di far "tremare le stesse autorità". Non v' è siciliano che non abbia letto I Promessi Sposi in chiave mafiologica. Giuseppe Bonaviri, in un suo saggetto intitolato I Promessi Sposi in Sicilia, si limita a stabilire un parallelo tra il romanzo e le vicende e le leggende isolane: "E a Mineo, mio paese, nel 1615 (e siamo quasi negli stessi anni della peste manzoniana) i poveri si ribellarono al conte don Antonio Requesens che non voleva più concedere i cosiddetti diritti promiscui nel suo feudo del Barchino". Ma al di là del comune denominatore costituito da fame, epidemia e dominazione spagnola, è difficile resistere alla tentazione di scorgere nella braveria un prototipo di mafiosità (a partire proprio dall' ambigua positività etimologica delle parole bravo e mafioso). Tanto che la Chiesa siciliana è stata talora tentata, a sua volta, di rapportarsi ai boss come se fossero ieratici Innominati da redimere. Ma torniamo a Stendhal, per il quale, se il Settentrione non fu immune dal brigantaggio, è soprattutto il Sud a essere infestato da una criminalità incontenibile e spesso strumentalizzata dal reazionario binomio trono-altare. In Calabria, tra il 1797 e il 1808, "i briganti, sobillati dagl' inglesi, costituirono il nocciolo dell' insurrezione realista". Gli aiuti provengono proprio da quella vicina Sicilia che Stendhal non visitò mai, sebbene immaginò e millantò di avervi soggiornato: "La banda di assassini comandata da Francatrippa era rinforzata dai banditi siciliani, spesso fatti sbarcare sulle coste dagli inglesi". L' autore de La Certosa di Parma non dimentica mai d' essere stato un ufficiale bonapartista. Ad ogni modo non nasconde troppo la sua simpatia per i briganti. Afferma che "non assomigliano affatto a dei ladri comuni". Il loro agire ha un che di artistico. Non sono mossi, infatti, tanto dal bisogno, quanto da "una vera e propria vocazione". E se ammette che molti di loro preferirebbero attendere alla coltivazione dei campi, ma sono spinti al crimine dall' aridità dei "terreni rocciosi", sottolinea tuttavia che essi "si abbandonavano alla loro naturale inclinazione per l' assassinio e il saccheggio". Più superstiziosi che devoti, i briganti confidano tanto nel fucile che nell' immagine della Vergine Maria, tutte e due inseparabili. Il celebre bandito Gasperoni si asteneva dai crimini il venerdì e pretendeva d' essere confessato e assolto dei suoi peccati da preti intimoriti o conniventi (pratica cautelativa di cui anche le cronache recenti ci hanno offerto clamorosi esempi). Alcuni briganti citati da Stendhal sono valorosi e intrepidi, come Fra Diavolo, altri sadici e vendicativi. La banda dell' Indipendenza, attiva in Calabria verso il 1817, era solita riscuotere una sorta di "pizzo" dai fattori e dai proprietari terrieri. Ma durante una carestia, alla maniera di Robin Hood, distribuì ai poveri dei buoni per il prelievo di pane. Stendhal si rifiuta illuministicamente di vedere nel brigantaggio un "male irrimediabile". Addita anzi nell' inefficienza dello Stato la causa del suo perseverare e chiude ottimisticamente la sua rassegna affermando che "adesso in Italia si viaggia quasi con altrettanta sicurezza che in Francia". Ma ancora nel 1885 Maupassant ironizzava sul fatto che in Francia "si è convinti che la Sicilia sia un paese selvaggio, difficile e persino pericoloso da visitare". Non vorremmo che oggi tali pregiudizi tornassero in voga.
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Re: Mafie e briganti teroneghi

Messaggioda Berto » lun mar 21, 2016 10:22 am

Forestali siciliani, imboscati al lavoro mafiosi e piromani. Chi li paga?
di ROBERTO BERNARDELLI

http://www.lindipendenzanuova.com/fores ... hi-li-paga


Sicilia

* – La Regione è la Sicilia. La professione è quella dei forestali. In 22 sono esperti di mafia. Altri 1.000 sono esperti di reati contro il patrimonio. Altri, ancora, in 200 sono espertissimi in incendio doloso, altri 2.000 di reati contro la pubblica amministrazione. Per non perdere il giro, altri 600 sono esperti di reati contro la persona, un centinaio di reati contro l’amministrazione giustizia.

Questo è il quadro dei santi: 3.200 forestali condannati, per reati di una gravità sconvolgente.

L’elenco del tutto tipico del sistema italiano che tutto crea e nulla distrugge, e anzi peggiora, è finito sul tavolo del presidente Crocetta che, nel 2014, aveva chiesto che gli venissero rendicontati i carichi pendenti e il casellario giudiziario dei forestali: su 25mila dipendenti (in Canada i rangers sono 4.200, giusto per non dimenticare), 3.200 lavoratori non indefessi hanno subito condanne penali. Non sappiamo se sorprenda di più che chi deve difendere il patrimonio, sia processato per averne abusato. Chi è pagato dai cittadini, ben 22 dipendenti, venga processato per il 416bis, cioè per mafia, e poi reintegrato!

Che chi deve debellare e prevenire gli incendi, sia condannato come incendiario!

Ma non facciamo prima a mandare l’esercito? Già peraltro pagato da tutti. O dobbiamo spalmare i costi di questa oscenità su tutti i cittadini onesti? Questa Italia, non ci interessa.

Se leggiamo le cronache siciliane, apprendiamo che Sicilia 3200 addetti inseriti negli elenchi della forestale risulterebbero «incompatibili con incarichi nella pubblica amministrazione». La fuoriuscita di questo personale dal comparto, secondo prime proiezioni, comporterebbe un risparmio per la Regione di circa 25 milioni di euro, che il governo Crocetta intende destinare a un fondo per finanziare misure a sostegno del reddito di cittadinanza. Giusto per intenderci: per i forestali disoccupati?

“Sono rammaricato per il fatto che non siano mai stati fatti questi controlli” ha fatto sapere il governatore in conferenza stampa a Palermo. Al momento, la Regione ha già deciso di escluderne 66. E tutti gli altri?

«In 42 hanno riportato condanne per reati gravi; mentre 22 sono stati condannati per associazione mafiosa (416 bis)». «Un caso, che mi ha fatto rabbrividire – ha detto Crocetta – riguarda un soggetto che aveva riportato condanne per spaccio di stupefacenti, tratta di schiavi, riduzione in schiavitù, violenza e stupro nei confronti di soggetti minori di 14 anni».

E chi sapeva e ha taciuto, non forse meno colpevole, signor governatore?

“Serve una bonifica storica”, dice Crocetta. Altro che bonifica. Una simile impalcatura deve finire nelle mani dell’authority dell’anticorruzione. Il resto sono blandizie, caro governatore.

Cosa ci facevano in tutti questi anni dentro la pubblica amministrazione, ” alcuni nomi eclatanti – come ricorda lo stesso Crocetta ovvero – alcuni si chiamano, Brusca, Campanella, Bagarella. Manca Siracusa perché stiamo analizzando alcuni casi”. Ecco, controllate, controllate bene. Licenziateli, ma soprattutto licenziatevi tutti, se non siete stati capaci di generare anticorpi sani!

Perché oltre alla Sicilia, c’è anche la Calabria. D’altra parte, quando parli di forestali, è sempre lì che finisci.

Il Canada 400.000 km quadrati ed ha un corpo forestale che conta, circa, 4.200 Rangers.

Calabria

La Calabria con 6.500 km quadrati di foreste ha un numero di forestali addetti a “interventi straordinari di competenza regionale nei settori della silvicoltura, della tutela del patrimonio forestale, etc, etc (*)”, pari a, circa 10.500 addetti.

Calcolatrice alla mano i forestali calabresi ci costano 240 milioni di euro (160 milioni dal Governo della Repubblica e 80 dalla Regione Calabria) oltre 2,5 volte l’intero bilancio che il Canada destina alle gestione del proprio patrimonio forestale (il più vasto al mondo).

Tradotto in pollo di Trilussa, in Calabria c’è 1 forestale ogni 191 abitanti. In Canada 1 Ranger ogni 7790 abitanti. Insomma in proporzione all’estensione, dove i Canadesi impiegano un addetto, noi ne paghiamo 120! Per non debellare gli incendi. Come in Sicilia con mafiosi e piromani assunti dallo Stato. Italiano.forestali

Mesi fa l’ennesima scoperta fatta da “l’Espresso” nella bozza della legge: 140 milioni di euro per i forestali della Calabria a decorrere dal 2017. È solo una bozza, ma “l’esercito di oltre diecimila tute verdi possono festeggiare. Puntuale, ogni anno, ecco che dal bilancio dello Stato spuntano finanziamenti cuciti su misura”.

“Una corsia preferenziale, che ha divorato una montagna di denaro pubblico, iniziata nel lontanissimo 1984. Solo nel triennio 1993-95 è arrivato «un contributo speciale di 1.340 miliardi di lire», quasi 700 milioni di euro. Una lobby che riesce, ad ogni manovra, a portare a casa il finanziamento sperato. Erano 160 milioni nel 2012 – leggiamo – come «contributo speciale alla regione Calabria per l’attuazione degli interventi straordinari di competenza regionale nei settori della silvicoltura, della tutela del patrimonio forestale».

Così il capo della protezione civile Franco Gabrielli: «La politica ha trovato consenso, collocando persone in contenitori che, lungi dal servire a qualcosa, sono un peso per la finanza pubblica e non svolgono la funzione a cui sono preposti».
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Re: Mafie e briganti teroneghi

Messaggioda Berto » mer mar 23, 2016 11:49 am

Cosenza: dieci arresti tra politici e ‘ndranghetisti
Concorso esterno in associazione mafiosa, voto di scambio e corruzione
Milano, 23 marzo 2016 - 08:08
Raggiunto dai provvedimenti della direzione distrettuale antimafia anche l’ex sottosegretario al Lavoro Sandro Principe. «Sistema collaudato da decenni»
Sandro Principe, allora sindaco di Rende (Ansa)Sandro Principe, allora sindaco di Rende (Ansa)


http://www.corriere.it/cronache/16_marz ... 9766.shtml


COSENZA - Concorso esterno in associazione mafiosa e voto di scambio. Con queste accuse sono stati arrestati mercoledì mattina l’ex sottosegretario al Lavoro e ex consigliere regionale Sandro Principe (Pd), l’ex consigliere regionale Rosario Mirabelli (Ncd), l’ex sindaco di Rende Umberto Bernaudo e l’ex assessore di Rende, Pietro Paolo Truffolo. Con loro sono finiti in carcere esponenti delle cosche Patitucci, Lanzino, Abbruzzese e Bruni. Dieci persone in tutto. Per i magistrati della direzione distrettuale antimafia di Catanzaro, i politici avrebbero fatto un «patto elettorale» con i capi delle cosche dell’Alto cosentino in cambio delle loro elezioni. Le indagini dei carabinieri hanno delineato l’«intreccio» politico-mafioso che si è sviluppato nel corso delle elezioni per il rinnovo del consiglio comunale di Rende, dal 1999 al 2011, nelle consultazioni per il rinnovo del consiglio provinciale di Cosenza (2009) e del consiglio regionale della Calabria del 2010.

«Intreccio politico-mafioso»

In virtù di questo «patto», le cosche più influenti del cosentino si sono federate per spartirsi tutte le maggiori attività derivanti dall’accordo con i politici, oggi inquisiti. Tra queste l’affidamento in gestione di locali pubblici comunali, assunzioni nelle «municipalizzate», finanziamenti pubblici per creare cooperative. In qualche caso c’era stata anche la pretesa di non licenziare affiliati alle cosche, nonostante le loro condanne. L’interessamento delle cosche a favorire il patto politico-mafioso sarebbe stato favorito da alcuni capi che, nonostante fossero al 41 bis, sono riusciti a dare il loro assenso per creare la confederazione dei clan e quindi «appoggiare» le candidature dei politici.

Un sistema collaudato

Sandro Principe negli anni Novanta era stato inquisito e poi prosciolto dall’accusa di voto di scambio in un’inchiesta della procura di Palmi che aveva ipotizzato legami tra l’ex sottosegretario e la cosca Pesce di Rosarno. Nel 2004 Principe subì un attentato a opera di un ex dipendente della Carime che sparò al volto del politico per una questione d’interessi, sempre legati al mondo della politica. Principe, colpito al volto, si salvò per miracolo, anche se ancora oggi porta i segni di quell’attentato.



'Ndrangheta, "per 15 anni favori alla cosca in cambio di voti": arrestati 4 esponenti Pd. C'è un ex sottosegretario - Il Fatto Quotidiano
di Lucio Musolino | 23 marzo 2016

http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/03 ... io/2574055


‘Ndrangheta e politica ancora insieme nelle carte della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro. Ai domiciliari sono finiti 4 esponenti del Partito democratico e del centrosinistra: l’ex sottosegretario al Lavoro dei governi Amato e Ciampi Sandro Principe (ex sindaco di Rende e ex consigliere regionale), Umberto Bernaudo (anche lui ex sindaco di Rende), l’ex consigliere provinciale Pietro Ruffolo e l’ex consigliere regionale Rosario Mirabelli, in passato vicino al Nuovo Centrodestra e all’ex presidente Giuseppe Scopelliti, ma candidato alle Regionali 2014 con il centrosinistra, nella lista Oliverio Presidente. Sono finiti tutti ai domiciliari. Le accuse sono a vario titolo concorso esterno in associazione mafiosa, voto di scambio e corruzione in un’inchiesta sulla cosca Lanzino-Rua che ha portato all’arresto di 10 persone. Secondo la Procura l’intreccio politico-mafioso ha consentito ai candidati alle elezioni comunali di Rende dal 1999 al 2011, per il rinnovo del consiglio provinciale di Cosenza del 2009 e del consiglio regionale della Calabria del 2010, di ottenere l’appoggio elettorale da parte di personaggi di rilievo del clan. “È buono però dai! così, ci sarà pane per tutti, o no?” dicevano nelle telefonate. “Buono buono ma Principe ha sfondato, compà”. L’operazione di oggi rischia di provocare un terremoto politico in tutta la Calabria. I personaggi arrestati, infatti, per anni hanno rappresentato lo zoccolo duro che ha contribuito nel 2014 alla vittoria del centrosinistra alle Regionali.

I carabinieri, coordinati dal procuratore aggiunto Vincenzo Luberto e dal sostituto procuratore della Dda Pierpaolo Bruni, hanno smantellato un sistema ultradecennale che aveva come fulcro l’amministrazione comunale di Rende. Tra le attività illecite vengono individuati l’affidamento in gestione di locali pubblici comunali a personaggi appartenenti alle cosche. In sostanza, la politica si faceva carico di assumere soggetti legati alla ‘ndrangheta nella società municipalizzata che si occupava dei servizi comunali.

Queste persone poi non venivano licenziate nonostante le condanne e, anzi, ricevevano la promessa dell’erogazione di fondi pubblici per finanziare una cooperativa creata ad hoc per la gestione dell’area mercatale di Rende che sarebbe stata affidata a un personaggio di vertice della ‘ndrangheta cosentina. Tra gli assunti anche il boss Ettore Lanzino che, con i politici arrestati, avrebbe stipulato veri e propri patti elettorali in occasione dei vari appuntamenti.

L’ex sottosegretario Principe veniva indicato come il “capo” che sceglieva anche il suo successore come sindaco di Rende. “Eh … c’era il capo che hanno fatto entrare tra gli applausi finali” dice di lui uno degli intercettati. E ancora: “Eh l’applauso, l’applauso gli fa lui … omissis… invece di sceglierlo il popolo, lo sceglie lui ogni volta. A lui i voti di famiglia glie li do perché oh, figurati e roba varia, però che…”.

Nell’inchiesta è finita anche l’ultima campagna elettorale del 2014 per le Comunali. Nonostante fosse detenuto (oggi al 41 bis), uno dei boss arrestati è stato intercettato in carcere mentre poneva le sue condizioni: chiedeva una somma di denaro, lamentando gli scarsi benefici ottenuti dalla cosca nel recente passato, nonostante si fosse occupato di monitorare l’attività politica dai principali candidati.
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