Ençeveltà tałega, sasini e straji

Re: Ençeveltà tałega, sasini e straji

Messaggioda Berto » mer apr 30, 2014 12:57 pm

Arrestato, ex calciatore Riccardo Magherini muore di infarto a San Frediano, Firenze: "L'hanno preso a calci"

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La tragedia a Borgo San Frediano (Firenze): dopo la morte per un arresto cardiaco, sui social network gli amici di Riccardo Magherini vogliono sapere se ci sono responsabilità da imputare

http://www.today.it/citta/morto-riccard ... diano.html


IRENZE - Si è spento per un arresto cardiaco Riccardo Magherini. Quarantenne, ex viola, con la Fiorentina nel 1992 vinse il torneo di Viareggio, conosciutissimo a San Frediano. Il decesso - l’uomo è stato dichiarato morto alle 2 e 45 - è sopraggiunto per un infarto mentre veniva arrestato. Il quarantenne era stato immobilizzato dai carabinieri che nella notte tra domenica e lunedì l’avevano bloccato a terra in Borgo San Frediano. Erano in quattro. Riccardo era in palese stato confusionale. Gli stessi militari sono rimasti feriti nel tentativo di tenerlo fermo.

LA DINAMICA - Era da poco passata l'una di notte quando Riccardo stava camminando sul Ponte Vespucci, dopo esser stato in compagnia di amici. Era sconvolto. Ha fermato un’auto: "Ho paura, portatemi dai carabinieri, mi stanno inseguendo". L'uomo, evidentemente scosso, forse per un violento attacco di panico, ha spiegato di essere appena uscito da un albergo. Poi si è allontanato. Quindi è sceso dalla macchina provando a salire su una seconda vettura. Ha desistito e ha imboccato Borgo San Frediano. Qui ha sfondato la vetrina di un locale, "Borgo la Pizza", prendendo il cellulare di uno dei presenti. Poi è entrato in una seconda pizzeria. Le urla si sentivano a distanza. Inevitabile la telefonata al 112. I militari l’hanno bloccato con difficoltà. Tutti e quattro i carabinieri hanno riportato ferite guaribili tra i 2 e i 10 giorni. Quindi, alle 1 e 23, la chiamata al 118.

LE TESTIMONIANZE - Proprio sulle operazioni di fermo si concentra il quotidiano La Repubblica: “Hanno fatto quello che dovevano, l’uomo era completamente fuori controllo e loro si sono limitati a tenerlo a terra. Nessuno ha alzato le mani”. Versione contrapposta a quanto raccontato da una studentessa di 26 anni, Bianca Ruta, che ha assistito alla scena dalla finestra: “La prima pattuglia non è riuscita a fermarlo, così sono arrivati altri due carabinieri e alla fine ci sono riusciti. Era su un fianco, ho visto chiaramente tre di loro che lo colpivano con alcuni calci in pancia. Non credo sia morto per questo, ma sono cose che non devono succedere. Andrò alla polizia a denunciare i fatti”. Quando sul posto sono giunti i soccorritori, chiamati dagli stessi militari, Magherini era in arresto cardiaco. Per una quarantina di minuti gli operatori hanno continuato le manovre di rianimazione. Poi la corsa all'ospedale di Santa Maria Nuova, ma il quarantenne non ce l'ha fatta.

Non si esclude che l'uomo possa aver fatto uso di sostanze stupefacenti. Il pm Luigi Bocciolini ha disposto l’autopsia, prevista per oggi. L’esito dell’esame potrebbe far o meno scattare una denuncia, anche se al momento non risultano indagati. L’ex promessa della Fiorentina era sposato e aveva un bambino di due anni.

ADDIO - Molti dei suoi amici hanno dato l'addio al "Maghero" con alcuni messaggi su Facebook. C’è anche chi sul social ha lanciato un appello: “A tutti coloro che volevano bene a Ricky, se conoscono persone che vivono o che si trovavano lì per i più svariati motivi, dove Ricky ci ha lasciato, che siano stati testimoni di come siano andate le cose o ne siano parzialmente a conoscenza...”. E chi vuole sapere altro: “Era per te un periodo molto difficile con la paura di perdere tuo figlio. Hanno detto che eri fuori a cena e che sei uscito di testa... esagerando... Dicono che eri agitato... di certo non eri un violento. Dicono che ti hanno bloccato facendo quello che doveva essere fatto, quello che era necessario... Dicono che ti sei fatto male da solo... Voglio sapere quello che è successo. Voglio sapere se chi deve difendere ha offeso... Voglio sapere”. (da FirenzeToday)
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Re: Ençeveltà tałega, sasini e straji

Messaggioda Berto » mer apr 30, 2014 7:22 pm

L'oror tałego! Mi no ghe bato łe man, łi metaria en prexon direti sti luridi.

29 aprile 2014
Aldrovandi, lungo applauso ad agenti condannati al sindacato di polizia
"E' terrificante, mi si rivolta lo stomaco", ha commentato la madre del 18enne morto nel 2005 durante un controllo a Ferrara. Interviene Renzi: "Vicenda indegna". Pansa: "Comportamenti offensivi". Alfano: "Gesto gravissimo"

http://www.tgcom24.mediaset.it/cronaca/ ... 1919.shtml

23:31 - Cinque minuti di applausi hanno accolto tre dei quattro agenti condannati in via definitiva per la morte del 18enne Federico Aldrovandi, al Congresso nazionale del Sap, il sindacato autonomo di polizia. Davanti a loro, Paolo Forlani, Luca Pollastri ed Enzo Pontani, i delegati presenti sono scattati in piedi. Aldrovandi morì durante un controllo a Ferrara, il 25 settembre del 2005.

Gli agenti sono stati condannati dalla Cassazione a 3 anni e 6 mesi.
Malditi sasini!

La mama co la somexa del fiolo morto, el ghea 18 ani:

http://www.agi.it/cronaca/notizie/20130 ... mele_marce


http://www.beppegrillo.it/2008/02/omici ... sta_1.html

El video:
http://www.youtube.com/watch?v=dCk2i4h0GS0&gl=IT&hl=it

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Caso Aldrovandi, la madre: «Ora provvedimenti». Alfano annulla incontro con il Sap

http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/ ... d=ABo68fEB

Il ministro dell'Interno Angelino Alfano ha annullato l'incontro previsto martedì al Viminale con il Sindacato autonomo di polizia (Sap). Lo ha annunciato al Gr1 lo stesso Alfano, dopo gli applausi dei delegati del Sap agli agenti condannati per la morte di Federico Aldrovandi. Il ministro ha poi reso noto che il capo della Polizia Alessandro Pansa incontrerà oggi pomeriggio Patrizia Moretti, madre di Federico Aldrovandi, che in una conferenza stampa al Senato ha chiesto al governo «di prendere provvedimenti». Ieri Pansa ha telefonato alla donna, per esprimerle «vicinanza e solidarietà». E sempre ieri è arrivata alla madre di Federico Aldrovandi la telefonata di solidarietà del premier Matteo Renzi . Ma intanto le polemiche non si placano. Non arretra il segretario del Sap Gianni Tonelli, che a Radio 24 dichiara: «Ho applaudito anch'io». Mentre il presidente del Senato Piero Grasso, dopo aver incontrato Patrizia Moretti afferma: «Quegli applausi provocano rabbia e sdegno, gettando discredito anche su chi porta con onestà la divisa»

Alfano revoca incontro con Sap al Viminale
Il caso insomma è tutt'altro che chiuso. «Revoco l'appuntamento che avevo dato al Sindacato autonomo di polizia per martedì a Roma, al Viminale», ha annunciato al Gr1 il ministro dell'Interno Angelino Alfano dopo gli applausi dei delegati al congresso del Sap agli agenti condannati per la morte di Federico Aldrovandi. «È stato un gesto gravissimo e inaccettabile» ha aggiunto il ministro, «ancora più grave perchè compiuto da uomini che con la loro divisa rappresentano lo Stato e non possono disconoscere il senso di una sentenza passata in giudicato».

Oggi Pansa incontra madre Federico Aldrvandi
Il ministro ha poi fatto sapere che il capo della Polizia Alessandro Pansa incontrerà oggi pomeriggio la mamma di Federico Aldrovandi. Alfano ha auspicato di poter partecipare anche lui all'incontro, compatibilmente con il Cdm previsto per il pomeriggio.

Patrizia Moretti: ora provvedimenti, via la divisa
«La politica non può più chiudere gli occhi». Ne è convinta Patrizia Moretti, la madre di Federico Aldrovandi, il giovane ucciso da agenti di polizia, che in una conferenza stampa al Senato con Luigi Manconi (Pd), ha chiesto alle istitizioni di «prendere i provvedimenti adeguati», altrimenti «la solidarietà delle istituzioni, della politica, non si esaurisca in parole vuote».
Cosa chiederà al capo della polizia? «Di togliere la divisa ed espellere dalla polizia» i quattro poliziotti responsabili della morte di Federico. «È la cosa giusta da fare».

Tonelli (Sap) a Radio 24: «Ho applaudito anch'io, sentenza errata»
Ma intanto le polemiche non si placano. Non arretra di un millimetro Gianni Tonelli, rappresentante nazionale del Sap, intervenuto stamattina a "24 Mattino" su Radio 24 dopo le polemiche per gli applausi ai quattro agenti di polizia condannati per la morte di Federico: «C'è un ragazzo morto? Tutti i giorni muoiono persone giovani sulle strade ma non per questo la colpa è delle strade. Se uno legge gli atti giudiziari si rende conto che le causa della morte di Federico Aldrovandi siano altre, non quelle stabilite dalla sentenza».
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Re: Ençeveltà tałega, sasini e straji

Messaggioda Berto » sab mag 03, 2014 3:27 pm

L'onto del leghista Salvini el sta co i polisioti ke li ga copà Aldrovandi:

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http://www.huffingtonpost.it/2014/04/30 ... 37715.html

Applausi poliziotti condannati per la morte di Federico Aldrovandi, Matteo Salvini su facebook: "Io sto con loro"

Matteo Salvini questa volta l'ha sparata davvero grossa. Dopo i cinque minuti di applausi e la standing ovation per tre dei quattro poliziotti condannati per la morte di Federico Aldrovandi al Congresso Sap e le polemiche scatenate dall'episodio, il leader del Carroccio ha preso le difese degli agenti: "Polemiche contro i POLIZIOTTI del Sap che hanno osato applaudire dei loro colleghi condannati. IO STO CON I POLIZIOTTI, con i Carabinieri, e con chiunque rischia la vita per difendere i Cittadini". Così, mentre arrivavano le condanne per l'accaduto del premier Renzi, del ministro Alfano e del Capo della Polizia Pansa, Salvini ha scatenato un'ondata di indignazione e a tratti di insulti: "Sono una poliziotta - commenta un'utente - ma non difendo chi ha una condanna per omicidio colposo". Un altro va meno per il sottile: "Quindi se domani degli uomini in divisa pestano a morte tuo figlio tu stai dalla parte dei poliziotti?".

Che l'abbia fatta fuori dal vaso, Salvini lo capisce leggendo i tantissimi commenti di persone che prendono le distanze dal suo post: "Matteo, sono sempre stato dalla tua parte ma questa volta hai sbagliato, gli assassini di un ragazzo devono sempre essere condannati, soprattutto se in divisa". Il leader della Lega Nord si vede costretto a spiegare il suo intervento e prova a correre ai ripari: "Chi sbaglia deve pagare, ma chi porta la divisa non può essere insultato come se niente fosse". E, aggiunge, "rispetto le opinioni di tutti, rispetto il dolore dei famigliari di quel ragazzo, rispetto il sentimento dei tanti poliziotti che sono stufi di essere chiamati 'assassini' e fanno al meglio il loro lavoro".

Ma le spiegazioni servono a poco: "Questo tuo post è davvero vergognoso. Davvero hai il coraggio di difendere quei 4 assassini e accomunarli a tutte le forze dell'ordine? Il fatto che abbiano una divisa, rende doppiamente grave il loro gesto e gli applausi qualificano, una volta di più, la banda di squadristi che ammazzato un ragazzo di 18 anni. Ti ricordo che hai un figlio anche tu. Sono allibito". E ancora: "Era meglio che stavi zitto stavolta"; "Salvini hai perso un voto, i poliziotti sono cittadini come tutti gli altri, se sbagliano pagano"; "Sono sempre al tuo fianco, ma questa volta hai toppato"; " Stai con chi ammazza un ragazzo di 18 anni senza motivo e con chi l'applaude? No mi sorprende: sei senza vergogna. Barbaro".

Comenti===============================================================================================================================

Ci
sta con loro? non avevamo dubbi.
Lui sta con chiunque rischia la vita per difendere i cittadini. In quale momento Federico Aldrovandi ha smesso di essere un cittadino smettendo anche di essere un essere umano? In quale momento uomini in divisa diventano giudici e carnefici? In quale situazione è prevista la pena do morte?
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Re: Ençeveltà tałega, sasini e straji

Messaggioda Berto » lun mag 05, 2014 7:07 am

IL CAPO DELLA POLIZIA VUOLE CAMBIARE LE NORME DISCIPLINARI
«L’applauso non era contro Aldrovandi»
Il Sap chiede scusa a Napolitano
«Siamo stati travisati»: ma il sindacato della polizia è isolato

http://www.corriere.it/cronache/14_magg ... 38b8.shtml

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ROMA - Adesso il Sap fa marcia indietro e chiede scusa. Travolto dalle polemiche per quell’applauso agli agenti condannati per aver ucciso Federico Aldrovandi, il segretario del sindacato autonomo di polizia Gianni Tonelli invia una lettera «di ammenda pubblica» al capo dello Stato. Un modo per cercare di abbassare i toni dello scontro, ma soprattutto per tentare di allontanare da sé e dagli iscritti l’accusa di aver «disonorato la divisa», sottolineata anche dal presidente del Consiglio Matteo Renzi. E per questo nel plico spedito al presidente Giorgio Napolitano - che aveva scritto una lettera alla mamma del ragazzo definendo «indegna» la vicenda - inserisce anche «la registrazione di tutto l’evento per dimostrare che l’applauso dura appena 38 secondi», ma soprattutto che «non è in alcun modo riconducibile alla tragica morte del giovane e al dolore della famiglia verso la quale nutriamo sinceri sentimenti di deferente rispetto».

La spaccatura
Gli applausi contestati al congresso del Sap (Ansa)

Sono trascorsi due giorni dalla riunione dei delegati in un hotel di Rimini e la tensione per quanto è accaduto non si è ancora sopita. Soprattutto non è passata l’emozione per il dolore di Patrizia Moretti, la mamma di Federico, che ha mobilitato lo Stato e continua a chiedere che non possa più succedere quello che lei e la sua famiglia hanno dovuto subire. Non a caso gli altri sindacati maggioritari hanno preso le distanze dal Sap e lo stesso hanno fatto il ministro dell’Interno Angelino Alfano e il capo della polizia Alessandro Pansa incontrando la donna mercoledì pomeriggio al Viminale e promettendo modifiche normative che in futuro possano consentire di impedire il rientro in servizio di chi viene condannato per gravi reati.

Ieri è intervenuto nuovamente sul caso il segretario della Silp-Cgil Daniele Tissone per ribadire che «una cosa è difendere i diritti dei lavoratori in relazione agli strumenti dati dalla nostra Costituzione, dallo sblocco contrattuale al ripristino degli automatismi individuali, altra cosa è una deriva corporativa che non rende giustizia alle migliaia di donne e uomini in divisa che con sacrificio svolgono correttamente il proprio dovere». Mentre Felice Romano del Siulp e Lorena La Spina dell’Associazione Funzionari pur negando «una spaccatura all’interno della polizia perché quanto accaduto a Rimini va ascritto solo alle persone presenti», ripetono che «l’istituzione è e resta sana, efficiente e sempre pronta a servire il Paese».

«Travisate le nostre azioni»
Di fronte a un isolamento evidente, i vertici del Sap hanno deciso di rivolgersi direttamente a Napolitano per chiedere una «riabilitazione» perché, scrive Tonelli, «la sua autorevole e perentoria censura rappresenta per la mia persona un marchio di infamia e un fardello di vergogna e sofferenza dai quali non riuscirò mai ad affrancarmi».
In realtà nella missiva il segretario del Sap sostiene che «le nostre azioni sono state artatamente travisate» e spiega che «l’applauso incriminato si è sviluppato spontaneamente al termine della presentazione di una campagna di “verità e giustizia” in favore di tutti i colleghi che tutti i giorni sulle strade con dedizione, professionalità e mal corrisposti, chiedono solamente di poter tutelare i diritti dei cittadini, la legalità, la pacifica convivenza e l’ordine costituzionale».
Nei prossimi giorni il problema legato ai procedimenti disciplinari nei confronti dei poliziotti condannati con sentenza definitiva sarà nuovamente affrontato dal prefetto Pansa che si è impegnato affinché si arrivi a una modifica del regolamento di disciplina. In particolare per quanto riguarda i reati di natura colposa, di fronte ai quali non è possibile al momento adottare alcun provvedimento relativo al licenziamento. L’intenzione espressa dal capo della polizia al momento dell’insediamento era quella di individuare alcuni comportamenti gravi che fossero puniti con il massimo della sanzione. Un’iniziativa che comunque dovrebbe rientrare in una revisione più generale delle regole relative ai cortei e dunque anche alle modifiche di legge che consentano di poter intervenire in maniera più incisiva contro i manifestanti violenti.
3 maggio 2014 | 06:50
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Re: Ençeveltà tałega, sasini e straji

Messaggioda Berto » mar ott 28, 2014 9:02 am

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Re: Ençeveltà tałega, sasini e straji

Messaggioda Berto » mar ott 28, 2014 9:03 am

Stato-mafia: dal Quirinale al retroscena con l’omicidio Dalla Chiesa

http://www.lindipendenzanuova.com/tratt ... retroscena


d i PIERO LA PORTA

DALLA CHIESA: UN INTRECCIO DI SEGRETI LUNGO TRENT'ANNI / SPECIALE

Cominciamo da Pio La Torre e da Carlo Alberto Dalla Chiesa e dalla trattativa fra Stato e mafia per Comiso, mentre Francesco Cossiga era capo del Governo, certificata dal generale Carlo Jean, ascoltato consigliere di Cossiga.
Giorgio Napolitano apparve più che altro preoccupato della trattativa degli anni ’90 tra Stato e Mafia. Non di meno quella non fu la prima né la più importante, visto quanto intercorse fra Stato e Mafia per schierare gli euromissili a Comiso. La trattativa su Comiso è a sua volta collegata all’assassinio di Carlo Alberto Dalla Chiesa.
Molte verità sono in due archivi: quello dei servizi segreti a Forte Braschi e quello dei Carabinieri. La traccia qui svelata sarebbe inesorabilmente divenuta evidente agli occhi dei martiri Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Lo stesso filo passò nel telaio infetto di Vito Ciancimino, il cui figlio tuttavia sembra non sapere nulla, finora. Andiamo con ordine, facendo attenzione alle date.
Prima del martirio di Pio La Torre
Trent’anni fa, primavera del 1982, s’acuì lo scontro tra pacifisti e Partito Comunista Italiano (Pci), i primi contrari allo schieramento degli euromissili a Comiso, il Pci favorevole ma con pesanti ambiguità. L’anima del movimento pacifista antimissili fu Pio La Torre, a dispetto della sua qualità di carismatico dirigente del Pci. Il Pci tuttavia non parve condividere il fervore di La Torre, visto che il partito dette via libera ai missili a primavera 1980, quando il Parlamento approvò la “doppia decisione” della NATO.
Chiara Valentini, biografa di Enrico Berlinguer, dichiarò più tardi che Pio La Torre nell’ultimo periodo era in crisi con la destra del Pci: ebbe divergenze con Napolitano che tendeva a rassicurare l’Occidente sulla politica estera del Pci e non s’intese più nemmeno con Paolo Bufalini (mentore politico di La Torre della prima ora) che di lui disse: «Prendiamo con prudenza le parole di Pio perché è uno che è abituato a esagerare un po’, dalla mafia è ormai ossessionato».
La “doppia decisione” fu resa pubblica a luglio 1980. Il governo italiano dette a intendere di schierare i missili in Veneto. Fu una manovra diversiva di Francesco Cossiga; gli americani avevano già deciso per la Sicilia, a Comiso, in provincia di Ragusa, sulla costa meridionale dell’isola. La “doppia decisione” della Nato poneva Mosca davanti a due alternative: smantellare tutti i propri missili a breve e medio raggio; oppure, se il Patto di Varsavia non avesse accettato, l’Alleanza avrebbe schierato gli euromissili.
Il denaro suggella gli accordi
I giganteschi lavori cominciarono. Lo sgangherato e vecchio aeroporto Magliocco di Comiso diventò base per i sofisticati missili statunitensi e le relative tecnologie. Si resero necessari, anzi indispensabili, considerevoli lavori stradali, affinché fosse possibile ridislocare senza limiti logistici gli autocarri coi missili, portandoli sulle basi di lancio, sparse per l’Isola.
Agli inizi degli anni ’80 piovvero migliaia di miliardi di lire, tra finanziamenti nazionali e statunitensi. L’ammontare definitivo è incalcolabile; un “diluvio di denaro”. Gli appalti per la base furono conferiti direttamente dalle autorità statunitensi col benestare della loro Intelligence.
Chiunque abbia avuto parte in questa vicenda, traendone vantaggio economico o di posizione, sotto qualunque forma, deve averlo negoziato cogli Stati Uniti d’America. Questo valse anche per il Pci che ai missili dette il proprio consenso. È appena il caso di ricordare che la trattativa si impose anche con la mafia, come vedremo.
Il punto unificante del consenso tra Democrazia Cristiana e Partito Comunista Italiano, al di là delle convergenze atlantiche più o meno dichiarate, il collante inconfessato non poté che essere il denaro.
D’altronde la composizione del consenso fra Pci e Dc doveva passare e passò, come s’è detto, attraverso l’indispensabile consenso della mafia, la cui sensibilità per il denaro è incontrovertibile e dirimente.
La convergenza fra Pci e Dc non potè quindi passare che attraverso il medesimo denaro cui era interessata la mafia.
La politica e gli Euromissili
Il dibattito sugli Euromissili fu acceso dal cancelliere tedesco Helmut Schmidt, a primavera del 1977. Meno d’un anno dopo Giorgio Napolitano guidò la delegazione del Pci a Washington – 4 al 19 aprile del 1978 – per garantire l’affidabilità atlantica del Pci. Erano i primi giorni di prigionia del presidente Aldo Moro, rapito per essere ucciso per mano delle Brigate Rosse.
Il tentativo della Democrazia Cristiana di far negare il visto da Washington alla delegazione del Pci fu un clamoroso fallimento. L’ambasciata statunitense a Roma, d’intesa col dipartimento di Stato, garantì il visto. Essa individuò evidentemente un preciso tornaconto per scontentare la Dc, apparentemente il partito più vicino agli Usa in quel momento. Era ancora davvero così vicina? Lo era anche dopo la dichiarazione di affidabilità atlantica del Pci, di due anni prima?
Quattro giorni prima delle elezioni politiche di giugno 1976, Enrico Berlinguer rilasciò un’importante intervista a Giampaolo Pansa del Corriere della Sera. «No, siamo in un’altra area del mondo» rispose a Pansa che domandava se Mosca gli avrebbe fatto fare la stessa fine di Alexander Dubcek [il leader della Primavera di Praga, NdR].
«Insomma – insistette Pansa – il Patto atlantico può anche essere uno scudo utile per costruire il socialismo nella libertà?»
Berlinguer diede una risposta inaspettata:«Io voglio che l’Italia non esca dal Patto atlantico anche per questo e non solo perché la nostra uscita sconvolgerebbe l’equilibrio internazionale. Mi sento più sicuro stando di qua, sotto l’ombrello della NATO, ma vedo che anche di qua ci sono seri tentativi di limitare la nostra autonomia». Queste parole stravolsero il quadro politico, italiano e NATO.
Un tale passo non poté essere compiuto senza una preventiva azione esplorativa circa il favore che avrebbe incontrato negli Stati Uniti. In caso contrario, l’intervista di Enrico Berlinguer a Giampaolo Pansa sarebbe stato un inutile atto temerario, in conseguenza del quale il segretario generale del Pci sarebbe potuto rimanere in mezzo al guado se la risposta di Washington fosse stata tiepida, ufficialmente o ufficiosamente. È logico pertanto presumere che la linea Berlinguer avesse sostegni ben concordati a Washington e forse non solo lì.
La riflessione e le caute esplorazioni iniziarono dopo il fallito attentato a Sofia nel 1973, o prima?
L’attentato a Berlinguer
Il 3 ottobre 1973 Berlinguer tenne una veloce visita a Sofia. Nella capitale bulgara incontrò i vertici del partito comunista e quella stessa sera stava tornando in Italia. Sulla strada per l’aeroporto, nella coda del traffico, un camion militare carico di pietre, proveniente dalla corsia opposta, si staccò dalle altre auto e colpì violentemente la vettura su cui viaggiava Berlinguer.
Il segretario del Pci si salvò miracolosamente; l’interprete morì e gli altri due funzionari erano in condizioni critiche. Berlinguer decise di tornare subito a Roma e non passare la notte in ospedale come gli fu proposto.
L’attentato fu tenuto accuratamente nascosto dal 1973 al 1991. Neppure la morte di Berlinguer, nel 1984, indusse a sciogliere il segreto.
Un segreto così ben custodito ebbe e tuttora ha un significato univoco: quello di custodire un ulteriore segreto, ben più solido e inconfessabile più dello stesso attentato. Quale? Dopo tanti anni non c’è che un segreto possibile, l’accordo con gli Usa certamente prima del 1976, anzi ancor prima del 3 ottobre 1973, quando il tentativo di ucciderlo è segno che Berlinguer ha tradito i suoi compagni del Patto di Varsavia.
Solo il tradimento politico e operativo poteva giustificare l’attentato. Solo se il leader del Pci avesse mutato gli equilibri di alleanza politica e militare con Mosca – e non per semplici teorizzazioni politiche, peraltro comuni a quel tempo in molti partiti comunisti in Europa occidentale e orientale – solo un tale tradimento giustificava la sua condanna a morte.
Pietro Secchia, il più pericoloso e occhiuto controllore di Berlinguer per conto di Mosca, morì a luglio del 1973. In quei mesi quindi si creò una situazione favorevole per uno strappo operativo con Mosca, un tradimento vero e proprio dell’alleanza con Mosca da parte di Berlinguer, tale da giustificare l’attentato del successivo 3 ottobre, con una severità significativa.
In precedenza si era manifestata una analoga condanna contro Imre Nagy, presidente del governo ungherese che si era ribellato a Mosca nel 1956. Invece ciò non avvenne con Alexander Dubček, leader della Primavera di Praga nel 1968, il quale mise in discussione l’equilibrio Est-Ovest. Cinque anni dopo, Mosca, attraverso Sofia, tentò invece di uccidere Enrico Berlinguer, il quale apparentemente non aveva fatto nulla di neppure comparabile a quanto imputato a Dubček. Quale fu il tradimento di Berlinguer, tale da indurre Mosca di decidere di ucciderlo nel 1973?
Emanuele Macaluso fu depositario di tale pesantissimo segreto sino al 1991 quando lo svelò in un’intervista.
Mentre il presidente Aldo Moro era prigioniero per essere ucciso e Giorgio Napolitano era negli Stati Uniti, inviatovi da Berlinguer, a fare non si sa che cosa, Emanuele Macaluso partecipò a un convegno a Roma; tema:”Chi sono i padri delle Brigate Rosse?”. Sarebbe stato, quel convegno, un’eccellente occasione per ricordare l’attentato a Berlinguer. Macaluso non se ne ricordò.
Emanuele Macaluso non se ne ricordò neppure quando fu direttore de l’Unità, tre anni dopo, ai tempi dell’attentato a Giovanni Paolo II, quando Alì Agca accusò i bulgari, a maggio 1982.
Emanuele Macaluso non poteva sapere che il turco poi avrebbe smentito. Eppure l’Unità attaccò la pista bulgara, mentre Emanuele Macaluso dimenticava ancora una volta l’attentato a Sofia del 1973. È lo stesso giornale, l’Unità, che in quella primavera del 1982 non s’accorge dell’isolamento pericoloso verso il quale scivola il povero Pio La Torre.
Il dibattito parlamentare sulla “doppia decisione” della NATO si svolse a giochi fatti da tempo, che piacesse o meno all’ala moscovita del Pci, che fosse gradito o meno al fastidioso Pio La Torre.
«No. Siamo in un’altra area del mondo» Berlinguer aveva risposto a Pansa, sei anni prima, quando erano passati tre anni dall’attentato di Sofia. Il giornalista gli aveva chiesto se Mosca gli avrebbe fatto fare la stessa fine di Alexander Dubcek. «No» rispose, ma come faceva a esserne così sicuro?
Era stato raggiunto un altro equilibrio tra Washington e Mosca, nel quale il Pci aveva una differente collocazione rispetto al partito di Palmiro Togliatti.
La contropartita
La base di Comiso fu un enorme affare in forniture militari ma anche una cuccagna di appalti e di traffici d’ogni genere. Claudio Fava scrisse anni dopo: “Tutto questo, naturalmente, non è passato su Comiso e dintorni senza lasciare traccia: anzi; si è probabilmente avverata nel corso degli ultimi tre anni la “profezia” di Pio La Torre, il deputato comunista ucciso dalla mafia: «…Si vedrà presto a Comiso lo scatenarsi della più selvaggia speculazione, dal traffico di droga al mercato nero, alla prostituzione, con il degrado più triste della nostra cultura e della nostra tradizione»”.

(continua su http://www.pierolaporta.it/dalla-chiesa-torre)
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Re: Ençeveltà tałega, sasini e straji

Messaggioda Berto » dom nov 02, 2014 8:55 am

Cucchi, il legale: "Azione contro il ministero".
Il presidente della Corte: "No alla gogna mediatica"
Il presidente della Corte d'Appello di Roma replica alle polemiche dopo la sentenza di assoluzione di medici, infermieri e agenti per la morte di Stefano Cucchi: "Il giudice valuta le prove". Ilaria Cucchi: "Mi devono uccidere per fermarmi". La frase choc del sindacato di polizia Sap: "Se disprezzi la tua salute ne paghi le conseguenze". Indignazione sui social
Sabato, 1 novembre 2014 - 18:00:00
http://www.affaritaliani.it/roma/cucchi ... refresh_ce

"Mi devono uccidere per fermarmi". Così Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, all'indomani della sentenza della Corte d'appello di Roma che ha assolti tutti gli imputati accusati della morte del fratello, Stefano Cucchi. "Non ce l'ho con i giudici di appello - aggiunge - ma adesso da cittadina comune mi aspetto il passo successivo e cioè ulteriori indagini, cosa che chiederò al procuratore capo Pignatone". Ilaria Cucchi spiega che "il prossimo passo è la Cassazione e la Corte europea. Non è finita qui. Se lo Stato non sarà in gradi di giudicare se stesso, faremo l'ennesima figuraccia davanti alla Corte europea. Sono molto motivata".

Intanto, il legale della famiglia Cucchi, Fabio Ansemlo, annuncia che: "Aspetteremo le motivazioni della sentenza per preparare il nostro ricorso per Cassazione ma intraprenderemo anche un'azione legale nei confronti del ministero della Giustizia affinchè si possa riconoscerne la responsabilità rispetto alla morte di Stefano". Secondo la difesa della famiglia Cucchi da entrambi i processi emerge che comunque un pestaggio nelle celle del Tribunale c'è stato e quindi si chiama ora in causa il ministero della Giustizia affinchè riconosca la sua responsabilità dal punto di vista di un risarcimento danni.

IL PRESIDENTE DELLA CORTE D'APPELLO DI ROMA - "Il giudice penale deve accertare se vi sono prove sufficienti di responsabilità individuali e in caso contrario deve assolvere. E' quello che i miei giudici hanno fatto anche questa volta". Lo afferma il presidente della Corte d'Appello di Roma, Luciano Panzani. "Questo è il suo compito per evitare di aggiungere orrore ad obbrobrio e far seguire ad una morte ingiusta la condanna di persone di cui non si ritiene provata la responsabilità", aggiunge invitando a evitare la "gogna mediatica".

IL COMMENTO CHOC DEL SINDACATO DI POLIZIA - "Tutti assolti, come è giusto che sia". Gianni Tonelli, segretario generale del Sap, uno dei sindacati di polizia, nel commentare la sentenza sulla morte di Stefano Cucchi non fa sfoggio di diplomazia. Tutt’altro. "In questo Paese - scrive in una nota - bisogna finirla di scaricare sui servitori dello Stato le responsabilità dei singoli, di chi abusa di alcol e droghe, di chi vive al limite della legalità. Se uno ha disprezzo per la propria condizione di salute, se uno conduce una vita dissoluta, ne paga le conseguenze. Senza che siano altri, medici, infermieri o poliziotti in questo caso, a essere puniti per colpe non proprie". Indignazione sui Social.

LA SENTENZA: NESSUN COLPEVOLE - Sono stati tutti assolti per insufficienza di prove gli imputati per la morte di Stefano Cucchi il geometra di 31 anni, arrestato il 15 ottobre del 2009 e deceduto una settimana dopo al reparto di medicina protetta dell’ospedale Sandro Pertini. Lo ha deciso la I Corte d'Assise d'Appello concludendo così il processo di secondo grado nei confronti di 12 tra medici (sei), infermieri (tre) e agenti della polizia penitenziaria (tre). Il procuratore generale aveva chiesto la condanna per tutti gli imputati.

"Prima o poi qualcuno ci dovrà spiegare come è morto il giovane Stefano. Vicino alla famiglia." Lo scrive il vicepresidente della Regione Lazio, Massimiliano Smeriglio, sul suo profilo Facebook. Parla di "omicidio" Nichi Vendola, presidente di Sinistra Ecologia Libertà: "Una ferita aperta di fronte al bisogno di verita' e giustizia. Una ferita insopportabile".

Se la sentenza in primo grado aveva lasciato profondamente delusa la famiglia di Stefano tanto da far parlare la sorella Ilaria di una "pietra tombale" sulla morte del ragazzo, la reazione alla nuova assoluzione anche in Corte d'Appello fa gridare rabbia e amarezza alla famiglia: "La giustizia ha ucciso Stefano Cucchi - denuncia la sorella Ilaria - e la giustizia ancora una volta non è stata giusta. In primo grado si ammetteva il pestaggio e mi aspettavo che almeno in appello si individuassero i colpevoli".
E' stato ucciso tre volte". Così Giovanni Cucchi, padre di Stefano. "Lo stato si è autoassolto - ha commentato invece la madre, Rita Cucchi - l'unico colpevole, per lo Stato, sono quattro mura. Andremo avanti fino alla fine per avere giustizia per Stefano". L'avvocato della famiglia Cucchi ha già annunciato il ricorso in Cassazione.

La sentenza infatti scagiona i tredici imputati, agenti penitenziari, medici ed infermieri dell'ospedale Pertini, coinvolti a vario titolo nel processo per la morte giovane il 19 ottobre del 2009. Già in primo grado la corte aveva stabilito che Stefano Cucchi non sarebbe morto per le violenze denunciate dalla famiglia. Secondo l’originaria imputazione infatti, Stefano sarebbe stato picchiato nelle celle del Palazzo di Giustizia di piazzale Clodio poco prima dell’udienza di convalida del suo arresto, poi abbandonato dai medici e dagli infermieri che lo ebbero in cura nel reparto detenuti del Pertini.

Il primo grado di giudizio si era concluso con la condanna per omicidio colposo del primario dell’ospedale Aldo Fierro, dei medici Stefania Corbi, Flaminia Bruno, Luigi De Marchis Preite e Silvia Di Carlo, con la condanna di Rosita Caponetti per falso ideologico e con l’assoluzione degli infermieri Giuseppe Flauto, Elvira Martelli, Domenico Pepe, e degli agenti di polizia penitenziaria Nicola Minichini, Corrado Santantonio e Antonio Domenici. Secondo le 188 pagine della sentenza depositata il 3 settembre dello scorso anno, infatti, il ragazzo morì per “sindrome di inanizione”, ovvero per malnutrizione, vittima dunque di una inadeguata condotta dei medici ''contrassegnata da imperizia, imprudenza e negligenza".



Non è successo nulla di CONCITA DE GREGORIO
http://www.repubblica.it/cronaca/2014/1 ... /?ref=fbpr

QUINDI non è stato nessuno. Quindi, come dice sua madre guardandoti diritto negli occhi, "visto che non è successo niente stasera torniamo a casa e lo troviamo vivo che ci aspetta".

Perché la questione è molto semplice, ed è tutta qui. Non c'è da ripercorrere le indagini, sostituirsi a chi le ha fatte, commentare la sentenza provare a indovinarne le ragioni. Meno, molto meno. Quello che rende la storia di Stefano Cucchi la storia di tutti è nelle semplicissime parole di sua madre: c'era un giovane uomo di 31 anni e non c'è più, era nelle mani dei custodi della Legge lo hanno ammazzato ma non è stato nessuno dunque non è successo niente.

Vada a casa signora, ci dispiace. Suo figlio è morto mentre era nelle strutture dello Stato, una caserma poi un'altra, una cella di sicurezza poi un'altra, un ospedale poi un altro. È stato picchiato, è vero. Aveva le vertebre rotte gli occhi tumefatti: lo sappiamo, le perizie lo confermano, non potremmo d'altra parte certo negarlo. Le sue foto avete deciso un giorno di renderle pubbliche e da allora le vediamo ogni volta, anche oggi qui, ingigantite, in tribunale. Un ragazzo picchiato a morte. Ma chi sia stato, tra le decine e decine di carabinieri e agenti, pubblici ufficiali e dirigenti, medici infermieri e portantini che in quei sei giorni hanno disposto del suo corpo noi non lo sappiamo. Dalle carte non risulta. Nessuno, diremmo. Anzi lo diciamo: nessuno.

Dunque vada a casa, è andata così. Dimentichi, si dia pace. Questo è un esercizio più facile per chi voglia provare a mettersi nei panni: nessuna madre, né padre, né sorella può dimenticare né darsi pace del fatto che un figlio debole, infragilito dalla droga come migliaia di ragazzi sono, ma deciso a uscirne, un figlio amato, smarrito, accudito possa essere arrestato una sera al parco con 20 grammi di hashish, portato in caserma e restituito cadavere una settimana dopo. È anche difficile sopportare in aula l'esultanza e il giubilo dei medici e degli infermieri assolti, perché comunque quel ragazzo stava male, è morto che pesava 37 chili e quando è entrato ne pesava venti di più. Sembra impossibile poter perdere 20 chili in sei giorni ma se non mangi e non bevi perché pretendi un legale che non ti danno, se hai un problema al cuore e vomiti per le botte forse succede, di fatto è successo e qualcuno deve aiutarti a restare in vita. Uno a caso, dei cento che sono passati davanti ai tuoi occhi in quei giorni e hanno richiuso la cella. È difficile per un padre leggere il comunicato di polizia Sap che con soddisfazione dice "se uno conduce una vita dissoluta ne paga le conseguenze senza che altri, medici o poliziotti, paghino per colpe non proprie". Perché, ricorda sommessamente Giovanni Cucchi, "ho rispetto per tutti, ma vorrei precisare che chi ha perso il figlio siamo noi".

Delle immagini di ieri, sentenza di assoluzione, restano le grida di esultanza degli imputati le lacrime dei familiari e i volti chiusi dei magistrati tra cui molte donne, volti rigidi. Dicono, da palazzo di giustizia, che le prove fossero "scivolose", le perizie e le consulenze decine, tutte contraddittorie. Dev'essere stato difficile anche per i magistrati, è lecito e necessario supporre, prendere una decisione così. Ci si augura che sia stato un rovello terribile, una via per qualche ragione patita e obbligata. Perché altrimenti diventa difficilissimo per ciascuno di noi continuare ad esercitare con scrupolo e dovizia la strada impopolare e impervia, ma giusta, della responsabilità individuale e personale. Quella che se non paghi una multa ti pignorano casa, ed è giusto, se dimentichi una scadenza sei fuori dalle graduatorie, ed è giusto, se commetti un'imprudenza o violi una norma sei sottoposto a giudizio, ed è naturalmente giusto.

Bisogna però essere certissimi, ma proprio certissimi, che non esista un'omertà di Stato per cui se è chi veste una divisa o ricopre un pubblico ufficio, a violare le norme, nessuno saprà mai come sono andate le cose perché si coprono fra loro nascondendo le carte e le colpe. Bisogna essere sicuri che se sono io ad ammazzare di botte una persona inerme prendo l'ergastolo e che se lo fa un esponente dello Stato in nome del diritto prende l'ergastolo lo stesso. Perché altrimenti, se così non è, viene meno in un luogo remoto e profondissimo il senso del rispetto delle regole e le conseguenze non si possono neppure immaginare. Altrimenti vale la legge del più forte e non si sa domani in quale terra di nessuno ci potremmo svegliare, tutti e ciascuno di noi, in quale selva che ci conduce dove. Disorienta e mina le fondamenta del vivere in comunità, una sentenza così. Servirebbe un gesto forte e simbolico, comprensibile a tutti. Ci sono giorni che chiamano all'appello l'umanità e l'intelligenza di chi, sovrano, incarna le istituzioni. Questo è uno.


Sentenza Cucchi, Il sindacato di polizia: 'Vita dissoluta, ne paga le conseguenze'
L'immagine dei diti medi alzati in aula. Ripresa da Skytg24. Riportata da Repubblica. E le frasi del sindacato di Polizia Sap
DI FRA. SI.
31 ottobre 2014

http://espresso.repubblica.it/attualita ... e-1.186229

Sentenza Cucchi, Il sindacato di polizia: 'Vita dissoluta, ne paga le conseguenze'
I diti medi alzati in aula (da Repubblica.it)
«In questo Paese bisogna finirla di scaricare sui servitori dello Stato le responsabilità dei singoli, di chi abusa di alcol e droghe, di chi vive al limite della legalità», ha commentato in una nota il segretario generale del sindacato di polizia Sap Gianni Tonelli, commentando la sentenza di assoluzione in secondo grado della Corte d'Assise d'Appello di Roma per i medici, gli infermieri e gli agenti di penitenziaria imputati per la morte di Stefano Cucchi: «Se uno ha disprezzo per la propria condizione di salute, se uno conduce una vita dissoluta, ne paga le conseguenze. Senza che siano altri, medici, infermieri o poliziotti in questo caso, ad essere puniti per colpe non proprie». Per questo, scrive: «Esprimo piena soddisfazione per la sentenza: tutti assolti, come è giusto che sia».

«Il processo d’appello per la morte di Stefano Cucchi ha confermato l’assoluzione per i poliziotti penitenziari coinvolti loro malgrado nella triste vicenda», scrive più moderatamente in una nota Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe: «Avevamo ragione quando, in assoluta solitudine, sostenemmo di non si dovevano trarre affrettate conclusioni prima dei doverosi accertamenti giudiziari. Abbiamo avuto ragione nel confidare nella Magistratura perchè la Polizia penitenziaria non aveva e non ha nulla da nascondere».

«Chi ha seguito il doloroso caso di Stefano Cucchi sapeva bene che per quanto riguarda gli agenti di custodia non poteva che esserci che l'assoluzione, non essendoci stato il pestaggio», ha commentato infine il senatore Carlo Giovanardi: «Per quanto riguarda i medici ribadisco quello che ho detto fin dall'inizio della vicenda: Stefano Cucchi doveva essere curato e alimentato anche coattivamente, in quanto non in grado di gestirsi a causa delle patologie derivanti dal suo complesso rapporto con il mondo della droga. Se la Corte d'Assise ha escluso responsabilità penali rimangono però le responsabilità morali rispetto ad una persona che è stata lasciata morire di fame e di sete».

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Re: Ençeveltà tałega, sasini e straji

Messaggioda Berto » lun nov 03, 2014 9:12 pm

Cucchi, Pignatone “rivedrà gli atti” ma elogia i pm. Famiglia: “Abbiamo perso tempo”

http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/11 ... to/1188303

La famiglia ha incontrato Pignatone negli uffici di piazzale Clodio.
Il procuratore: "Procederemo ad un'attenta rilettura di tutte le carte".
Il sindacato di polizia penitenziaria Sappe: "Illazioni contro la divisa, quereliamo Ilaria"

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“Il procuratore si è impegnato a rivedere l’indagine”, aveva annunciato Ilaria Cucchi uscendo dalla Procura di Roma dopo aver incontrato Giuseppa Pignatone, che domenica aveva definito “inaccettabile” la morte di Stefano Cucchi perché avvenuta mentre il ragazzo “era affidato allo Stato”. Poco dopo il capo della procura ribadiva: “Procederemo ad una rilettura di tutte le carte dell’inchiesta”. Ma aggiungeva che i pm “hanno fatto un lavoro egregio e hanno, come ho detto, la mia estrema fiducia“. L’apprezzamento mandava su tutte le furie la famiglia: “I casi sono due – legge in una nota diramata in serata da Ilaria, sorella del 31enne morto il 22 ottobre del 2009 all’ospedale Pertini dopo un arresto per droga – o il dottor Pignatone è riuscito in nemmeno due ore a studiare alla perfezione tutto il fascicolo relativo alla morte di Stefano Cucchi, oppure forse oggi abbiamo perso tutti del tempo“.

Ilaria: “Pignatone si è impegnato a rivedere l’indagine”

Nel primo pomeriggio Ilaria e i genitori Giovanni e Rita hanno incontrato nei suoi uffici di piazzale Clodio, a Roma, il procuratore della Repubblica Giuseppe Pignatone, che ieri, nel ritenere “inaccettabile” una morte come quella del 31enne, ha espresso la disponibilità, di fronte a fatti nuovi, a riaprire le indagini. “Il procuratore Pignatone si è impegnato a rivedere tutti gli atti sin dall’inizio – ha detto Ilaria Cucchi dopo l’incontro con il capo della Procura durato una decina di minuti – è stato un incontro positivo. Pignatone si è impegnato a rileggere le carte senza preclusioni. Gli abbiamo anche mostrato le foto di Stefano e ora dopo cinque anni abbiamo l’impressione che si possa giungere a chiarire questa vicenda”. Prima di entrare in Procura, la donna aveva mostrato una gigantografia che ritrae il fratello morto: “Questa è l’insufficienza di prove – aveva detto Ilaria – lo Stato non ha saputo garantire i diritti di mio fratello da vivo, ed ora non è in grado di dire chi l’ha ridotto così. Basta guardare questa foto e riflettere”.

Pignatone: “Rivedere chi non fu oggetto di indagine”

“Con animo sereno e senza pregiudizi, né positivi né negativi, procederemo ad una rilettura di tutte le carte dell’inchiesta con riferimento alle posizioni che non sono state oggetto di indagine. Lette anche le motivazioni della corte di assise di appello prenderemo le nostre decisioni”, ha detto il procuratore Giuseppe Pignatone sul caso Cucchi. Spiegando quale sarà il lavoro della Procura per “rileggere” gli atti del processo il procuratore Pignatone ha espresso la massima fiducia nei procuratori Vincenzo Barba e Maria Francesca Loy che hanno svolto l’indagine. “Hanno fatto un lavoro egregio e hanno, come ho detto, la mia estrema fiducia”. Pignatone ha ricordato che all’esito dell’esame degli atti sarà fatta una valutazione e si deciderà che cosa si debba fare. Ogni decisione comunque sarà presa dopo avere esaminato anche la motivazione della sentenza della Corte d’Appello che sarà depositata entro 90 giorni. “Cominceremo a rileggere le pagine della vicenda, poi ci dedicheremo ad esaminare quelle che potranno essere le decisioni”.

Famiglia: “Forse oggi abbiamo perso tempo”

L’apprezzamento espresso dal procuratore nei confronti dei pm ha mandato su tutte le furie la famiglia di Stefano Cucchi: “Oggi il dottor Pignatone, procuratore capo del repubblica di Roma, ha ricevuto me ed miei genitori e ci ha garantito che avrebbe studiato tutto il fascicolo senza pregiudizi: Non sono passate nemmeno due ore e il procuratore capo della repubblica di Roma, dottor Pignatone, ha già capito che i PM Barba e Loi hanno fatto un ottimo lavoro – si legge in una nota diramat in serata da Ilaria Cucchi – i casi sono due: o il dottor Pignatone è riuscito in nemmeno due ore a studiare alla perfezione tutto il fascicolo relativo alla morte di Stefano Cucchi, oppure forse oggi abbiamo perso tutti del tempo“, conclude Ilaria.

Sappe: “Illazioni contro di noi, quereliamo Ilaria”

Un querela contro Ilaria Cucchi che “istiga all’odio e al sospetto nei confronti dell’intera categoria di soggetti operanti nell’ambito del comparto sicurezza”. L’ha depositata a Roma il sindacato di polizia penitenziaria Sappe nei confronti della sorella di Stefano. “Dopo essersi improvvisata aspirante deputato, prendiamo atto che Ilaria Cucchi vorrebbe ora vestire i panni di pm – si legge in una nota della sigla sindacale – magari consegnando quelli da giudice al suo difensore per confezionare una sentenza sulla morte del fratello Stefano che più la soddisfi“.

“Bisogna finirla con essere garantisti a intermittenza, rispettando le sentenze solo quando queste fanno comodo”, afferma Donato Capece, segretario generale del Sappe. “Bisognerebbe mostrare pubblicamente anche le 250 fotografie fatte prima dell’esame autoptico (che dimostrano che sul corpo di Stefano Cucchi non c’era nulla) e non sempre e solo quella, terribile, scattata dopo l’autopsia e che presenta i classici segni del livor mortis. E quali sono le presunte nuove prove sulla morte del giovane che non sono state portate in dibattimento”. Capece, nel sottolineare che il Sappe per scelta ha avuto fino ad oggi un “profilo basso” sulla vicenda, non accetta “giudizi e illazioni contro la Polizia Penitenziaria, i cui appartenenti sono stati assolti due volte dalle gravi accuse formulate nei loro confronti”, trova pretestuosa anche la proposta di intitolare una strada di Roma a Stefano Cucchi: “E’ una proposta demagogica e strumentale”.

“L’insieme delle dichiarazioni diffuse da Ilaria Cucchi – aggiunge Capece, rendendo noto che nei giorni scorsi il Sappe ha presentato querela contro Ilaria Cucchi – pare, con ogni evidenza, voler istigare all’odio e al sospetto nei confronti dell’intera categoria di soggetti operanti nell’ambito del comparto sicurezza, con particolare riferimento a chi, per espressa attribuzione di legge, si occupa della custodia di soggetti in stato di arresto o detenzione. Questo non lo possiamo accettare. Proprio per questo abbiamo deciso di adire le vie legali nei confronti della signora Cucchi: a difesa dell’onore e del decoro della Polizia Penitenziaria”.

Sappe contro Celentano: “Ignorante, dice stupidaggini”

Il Sappe, poi, punta il dito contro Adriano Celentano: “Celentano è tanto ignorante da non sapere che in Italia non esistono guardie carcerarie ma, soprattutto, che i poliziotti penitenziari, coinvolti nella vicenda giudiziaria sulla morte di Stefano Cucchi, sono stati assolti due volte dalle gravi accuse formulate nei loro confronti. Lo preferiamo come cantante, Celentano: almeno evita di dire stupidaggini“, ha detto Donato Capece in merito alla lettera scritta dal Molleggiato a Stefano Cucchi, sul blog, “Il mondo di Adriano”. Celentano, “che ci aveva regalato un’altra perla del suo garantismo a intermittenza qualche tempo fa, quando chiese la grazia per Fabrizio Corona”, sappia che, “da sempre, l’impegno del Sappe è quello di rendere il carcere una ‘casa di vetro’, cioè un luogo trasparente dove la società civile può e deve vederci chiaro”. “Giusto per la cronaca – continua Capece – negli ultimi vent’anni anni, dal 1992 al 2012, abbiamo salvato la vita, in tutta Italia, ad oltre 17mila detenuti che hanno tentato il suicidio ed ai quasi 119mila che hanno fatto atti di autolesionismo: altro che le gravi accuse e illazioni di un cantante che evidentemente non ha più nulla da dire”.



Cucchi, tutti gli incredibili errori di Giovanni Bianconi

Domiciliari mancati e divieti alla famiglia. I militari dell’Arma scrissero che era nato in Albania ed era senza fissa dimora

http://roma.corriere.it/notizie/cronaca ... 3651.shtml

ROMA La sentenza di assoluzione è il nuovo anello della catena di eventi relativi alla morte di Stefano Cucchi, non ancora l’ultimo. Altri se ne aggiungeranno, con il ricorso in Cassazione e i nuovi sviluppi giudiziari. Per adesso la Corte d’assise d’appello ha ritenuto insufficienti le prove raccolte contro tre guardie carcerarie e tre infermieri (per la seconda volta) e sei medici (ribaltando il giudizio di primo grado), dopo un’indagine che forse poteva essere condotta diversamente e di un’impostazione dell’accusa cambiata più volte in corsa.

Tuttavia le cause della drammatica fine di quel giovane entrato vivo e uscito cadavere dalla prigione in cui era stato rinchiuso risalgono a comportamenti precedenti a quelli finiti sotto processo, responsabilità di strutture statali che non sono mai state giudicate. Fin dalla sera dell’arresto di Cucchi, 15 ottobre 2009. Lo sorpresero con qualche dose di erba e cocaina, lo accompagnarono in una caserma dei carabinieri e Stefano ha cominciato a morire lì, prima stazione di una via crucis dalla quale non s’è salvato.

Nel verbale d’arresto i militari dell’Arma scrissero che Cucchi era «nato in Albania il 24.10.1975, in Italia senza fissa dimora»; peccato che fosse nato a Roma in tutt’altra data, e che l’abitazione in cui risultava ufficialmente residente fosse appena stata perquisita, senza esito, alla presenza sua e dei genitori.
Evidentemente il verbalizzante aveva utilizzato, sul computer, il modello riempito in precedenza con i dati di un albanese, senza preoccuparsi di modificarli: una sciatteria che ebbe conseguenze fin dalla mattina successiva, visto che il giudice che convalidò l’arresto negò i domiciliari per la «mancanza di una fissa dimora risultante con certezza dagli atti».
Fosse tornato a casa, sia pure da detenuto, probabilmente Stefano sarebbe ancora vivo.

Incredibile, ma vero.
Nello stesso provvedimento venne anche scritto che «il prevenuto, interpellato, dichiara di non voler dare notizia del suo avvenuto arresto ai propri familiari»; in realtà i genitori l’avevano visto quasi in diretta, perché dopo il fermo e la perquisizione i carabinieri gliel’avevano comunicato. E al papà che chiedeva se dovesse avvisare l’avvocato, risposero che non c’era bisogno, avevano già provveduto loro.
La mattina dopo, però, Stefano non trovò in aula il difensore di fiducia che voleva, ma uno d’ufficio.

Quel giorno, nei sotterranei del tribunale, Cucchi è stato picchiato come risulta dalle stessa sentenza che, in primo grado, non era riuscita a individuare le prove per condannare i responsabili (in quella d’appello si vedrà, ma è verosimile che sia avvenuta la stessa cosa). La morte del trentenne però - che certamente aveva un fisico gracile ma sano, tanto che poche ore prima di finire in gattabuia era stato nella palestra che frequentava regolarmente - non dipende solo dalle botte.
È dovuta al viavai tra il carcere di Regina Coeli (dove a un medico che aveva constatato i segni delle percosse disse che era caduto dalle scale, tipica giustificazione dei detenuti che non si fidano di denunciare gli aggressori) e l’ospedale dove si decise di non farlo restare per evitare i piantonamenti, fino al ricovero nel reparto penitenziario del Pertini: un pezzo di carcere trasferito dentro un policlinico.

Anche qui si sono susseguiti eventi che hanno contribuito alla tragica fine di Stefano: l’assurdo divieto per i genitori che non solo non poterono incontrarlo prima di ottenere il permesso del giudice - e siccome c’era di mezzo il fine settimana, il via libera arrivò solo il giorno della morte -, ma per loro era vietato anche ricevere informazioni sul suo stato di salute. Avevano avuto la comunicazione del ricovero, ma era impossibile conoscerne il motivo: una regola talmente incredibile che dopo la morte di Stefano fu cancellata dalla burocrazia penitenziaria.
In quei giorni di isolamento - con papà e mamma lasciati dietro una porta blindata, ai quali fu concesso solo di lasciare un cambio per il figlio, rimasto però integro perché nessuno si preoccupò di aiutarlo a cambiarsi visto che non si poteva muovere dal letto - Cucchi chiese inutilmente di parlare col suo avvocato o con un assistente del centro per tossicodipendenti che frequentava in passato. Richiesta che non è mai uscita dal chiuso dell’ospedale Pertini, nonostante fosse annotata sul diario clinico, visto che per quel motivo Stefano rifiutava il cibo e le cure. Con la calligrafia ormai malferma per lo stato di sofferenza in cui versava, aveva perfino scritto una lettera all’operatore sociale, per chiedergli aiuto: qualcuno la spedì dopo che era morto.

Per tutta questa incredibile catena di fatti e misfatti, e altri ancora, Stefano Cucchi «ha concluso la sua vita in modo disumano e degradante», come scrisse il magistrato Sebastiano Ardita, all’epoca funzionario dell’amministrazione carceraria, nella relazione ispettiva del dicembre 2009. Cinque anni dopo quella fine è rimasta senza colpevoli, ma il problema non è certo - o non solo - l’ultima sentenza.

2 novembre 2014 | 08:20

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Re: Ençeveltà tałega, sasini e straji

Messaggioda Berto » gio gen 22, 2015 6:50 pm

Cosenza, “bimbo fatto nascere prematuro e lasciato morire per indennizzi”

http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/01 ... zi/1361055

L'operazione Medical Market ha portato all'esecuzione di 7 misure cautelari e all'iscrizione nel registro degli indagati di 144 persone. Secondo le indagini, nel 2012 una donna in avanzato stato di gravidanza simulò un incidente stradale e, con il suo consenso, venne indotta a partorire. Nonostante il piccolo fosse nato vivo, non gli sarebbero state fornite le cure necessarie

di Lucio Musolino | 22 gennaio 2015

Un incidente stradale simulato per riscuotere l’assicurazione. Il dramma – hanno ricostruito gli inquirenti – è che la protagonista della truffa era una donna incinta che ha raccontato al Pronto Soccorso di essere rimasta ferita e ha provocato, deliberatamente, la morte del nascituro. Riscossi i soldi della polizza, la madre del bambino e il medico che ha effettuato il parto prematuro hanno diviso a metà.

È avvenuto a Corigliano Calabro, provincia di Cosenza, dove stamattina è scattato il blitz “Medical Market”. La Guardia di Finanza ha eseguito 7 ordinanze di custodia cautelare: 4 indagati agli arresti domiciliari, due sottoposti all’obbligo di firma e un avvocato è stato interdetto dall’attività professionale. In tutto gli indagati sono 144.

L’indagine ha, inoltre, smascherato 45 falsi invalidi e riguarda numerosi casi di falsi incidenti stradali. Tra questi anche il sinistro che ha portato alla morte di un bambino nascituro. Ai domiciliari è finita la madre di 37 anni (R.S. le iniziali) e un medico (G.S. di 54 anni), dipendente all’epoca dei fatti dell’Azienda ospedaliera di Corigliano Calabro.

Stando all’indagine delle fiamme gialle e della polizia stradale, nel 2012 la donna si trovava in avanzato stato di gravidanza (oltre la ventiquattresima settimana), e sarebbe stata indotta al parto prematuro dopo il falso incidente stradale. Secondo i pm della Procura di Castrovillari, che hanno coordinato l’inchiesta, la donna invece avrebbe partorito con la tecnica del “pinzamento”.

Una volta estratto il bambino ancora in vita, quindi, con il suo consenso, i sanitari dell’ospedale lo avrebbero lasciato morire senza prestare alcuna assistenza.
 Questo sarebbe avvenuto grazie alla complicità del medico del Pronto soccorso di Corigliano Calabro. 
Una volta riscosso l’indennizzo, medici e pazienti si sarebbero divisi i soldi del risarcimento ottenuto dall’assicurazione. Il sospetto degli investigatori è che la donna fosse rimasta incinta di proposito per ottenere il risarcimento simulando il sinistro, e che lo avesse fatto in fase avanzata di gestazione per ottenere un risarcimento maggiore. “Il caso contestato è uno ma dalle indagini emergono altre situazioni sulla quale si sta indagando”, hanno confermato gli investigatori.

“Non è stato fatto nulla per tenere in vita questo bambino, non è stato neppure tagliato il cordone ombelicale, quindi si parla a tutti gli effetti di omicidio. Ammazzare un bambino a scopo assicurativo non mi era mai capitato di sentirlo in trent’anni di attività in polizia, anzi non mi è capitato in nessun contesto” ha affermato il questore di Cosenza Luigi Liguori.

“Sarebbe bastata una boccata d’ossigeno – ha aggiunto il dirigente della sezione di polizia stradale di Cosenza Domenico Provenzano – e il bimbo oggi sarebbe vivo”. In quel caso, però, il risarcimento dell’assicurazione sarebbe stato inferiore.
“Di falsi incidenti stradali ce ne sono tanti – spiega il procuratore di Castrovillari Franco Giacomantonio – Ma questa è la storia che fa più impressione.
Innanzitutto perché il medico avrebbe completamente messo da parte il giuramento d’Ippocrate venendo meno ai suoi doveri minimi. Quello che ha fatto la madre, infine, non merita alcun commento”.

Nell’inchiesta sono coinvolti anche altri medici che avrebbero rilasciato certificati per numerosi falsi incidenti stradali e per inesistenti patologie di dipendenti pubblici e falsi invalidi.
Nell’operazione “Market Medical” sono indagati anche il responsabile di un patronato di Corigliano Calabro ed un avvocato specializzato in cause previdenziali e assistenziali che prodotto dei falsi certificati medici per documentare false patologie per il loro clienti in modo da ottenere le indennità dall’Inps.
Un danno per l’Istituto di previdenza sociale che ammonta a circa due milioni di euro.
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Re: Ençeveltà tałega, sasini e straji

Messaggioda Berto » sab ago 22, 2015 7:11 am

DUE PESI E DUE SCHIAVITÙ - FELTRI: “SE LA SIGNORA PAOLA CLEMENTE, MORTA DI STENTI NEI CAMPI FOSSE STATA, ANZICHÉ BARESE, SIRIANA O AFRICANA, IL PAESE SI SAREBBE COMMOSSO MA PER SUA DISGRAZIA ERA UNA TERRONA MISERABILE E DISGRAZIATA”

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“Cosa vuoi che importi alla Cgil e alla Cisl di una donna priva di tessera, che non sciopera, non conta niente, che vale zero nelle quotazioni politiche? Crepare di fatica non merita l'intervento né delle confederazioni né dei carabinieri né della magistratura né del clero distratto dalle prediche delle sue elevate gerarchie. Paola non c' è più. Non hanno applaudito al suo funerale. Le sia almeno lieve la terra su cui ha sudato sangue”
21 ago 2015 12:21

http://www.dagospia.com/rubrica-3/polit ... 107226.htm

In Italia è così: finché non ci scappa il morto, nessuno si muove. Adesso una donna ha perso la vita nei campi, uccisa dalla fatica e dai raggi cocenti del sole, allora per un paio di settimane si indaga, si accerta, si aprono inchieste, si cercano responsabilità. Poi basta. La vittima è una donna di 49 anni, Paola Clemente, bracciante agricola soggetta ai cosiddetti caporali (reclutatori di manodopera a tariffe stracciate), stroncata da un malore mentre sgobbava come una schiava: retribuzione, 2-3 euro l' ora.

Le sue mansioni erano le stesse di tanti altri diseredati che per campare sopportano sacrifici disumani: raccogliere frutta dall' alba al tramonto, sfidando temperature equatoriali. Poca acqua e tanto sudore al punto da lasciarci le penne: mancanza di sali nell' organismo, per integrare i quali sarebbe stata sufficiente una bustina di Polase, che però non viene somministrato (né vi è alcuno che ne imponga l' assunzione).

È un miracolo che finora sia andata al Creatore soltanto Paola. Numerose, però, sono le persone candidate a subire la medesima sorte. Già. Nell' era delle tecnologie avanzate, l' agricoltura in Puglia, e non solo in Puglia, non è cambiata rispetto agli anni Cinquanta, quando i braccianti crepavano come mosche per una manciata di spiccioli, compenso misero elargito dal padrone del feudo in cambio di lavoro massacrante in campagna, nelle masserie e nelle vigne. Leggere Francesco Jovine, autore della Signora Ava e Le terre del Sacramento , per citarne due opere, allo scopo di saperne di più.

Ora ci occupiamo di Paola Clemente perché ha tirato le cuoia, ma, come costei, in varie zone del Mezzogiorno sono numerosi le donne e gli uomini che si piegano all' avidità del caporalato. Lo fanno per sopravvivere, non certo per amore della zolla. Si alzano in piena notte, alle 3, si vestono in qualche modo, salgono sul pullman messo a disposizione dai negrieri, viaggiano assonnati un paio d' ore, anche di più, e raggiungono il luogo in cui sono richieste le loro braccia. Un compito duro, riempire ceste e ceste di prodotti raccattati su campi che non conoscono l' ombra, ore e ore di attività senza soste, vietato rifocillarsi.

All' imbrunire, la schiera degli sfruttati risale sulla corriera che li riporta al paesello. Una cena frugale, un breve riposo, e l'indomani si ricomincia. Il tutto per una paga mensile che non supera 600 euro, da cui bisogna detrarre la spesa delle quotidiane trasferte, soldi da versare al caporale che agisce allo scoperto, sicuro che nessuno lo fermerà anche se è fuori legge, anche se è noto che delinque.

Ecco cosa stupisce e indigna: non c' è anima che combatta lo schiavismo, che tenti di stroncarlo assicurando alla giustizia coloro che lo praticano senza freni e senza pudore. Paola abitava nei dintorni di Bari, che non è in Nigeria, ciò nonostante manco un cane si è interessato alla sua condizione di schiava antica in questo mondo moderno che vanta un welfare protettivo per chi non ne ha bisogno e trascura i poveracci, quelli che si spaccano giovani la schiena per non morire giovanissimi di fame.

Tragedie di questo tipo avvengono all' insaputa dei media e nell' indifferenza generale. Recentemente, a dire il vero, la Rai ha dedicato un servizio ai derelitti di Puglia obbligati a sottostare alle regole bieche dei caporali e di chi li manovra (padroni crudeli e spietati), ma è andato in onda in terza serata, quando la maggioranza di noi borghesucci dormiva della grossa. Cosicché la fine di Paola è passata di fatto sotto silenzio, liquidata in poche righe, anche dai giornali.

Una connazionale che crepa di stenti per sostentare la famiglia non fa notizia per i mezzi di comunicazione, per i sindacati (che se ne impipano degli ultimi) e neppure per i preti, non dico i cardinali, ma nemmeno i parroci e i curati. Lo stesso Papa si preoccupa degli immigrati e dei profughi e sorvola sugli italiani spremuti e gettati al cimitero come rifiuti solidi.

Se la signora Clemente fosse stata, anziché una barese del contado, una siriana, una libanese o un' africana, il Paese si sarebbe commosso, avrebbe gridato all' iniquità sociale, alla mancanza di solidarietà. Ma per sua disgrazia era una terrona miserabile e disgraziata. Cosa vuoi che importi alla Cgil e alla Cisl di una donna priva di tessera, che non sciopera, non conta niente, che vale zero nelle quotazioni politiche?

Crepare di fatica non merita l' intervento né delle confederazioni né dei carabinieri né della magistratura né del clero distratto dalle prediche delle sue elevate gerarchie. Paola non c' è più. Non hanno applaudito al suo funerale. Le sia almeno lieve la terra su cui ha sudato sangue.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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