Il Consiglio Superiore di Sanità dà ragione al prof. Mazzone dell'ospedale di Legnano 22 novembre 2021
https://www.legnanonews.com/salute/2021 ... o/1004685/Chi è guarito dal COVID-19 deve vaccinarsi? La domanda ricorre da oltre un anno ed ancora oggi è di estrema attualità. In questi giorni, una risposta di spessore nazionale arriva dal prof. Paolo Gasparini, membro esperto del Consiglio Superiore di Sanità, direttore di Genetica Medica dell’università di Trieste. Così, in una intervista rilasciata al giornale Il Tempo alla domanda se la protezione immunitaria acquisita dai guariti è superiore a quella acquisita con i vaccini, il medico risponde: «I guariti sono immuni contro tutte le porzioni del virus a differenza dei vaccinati che sono stati immunizzati solamente contro la proteina Spike, vale a dire una parte del virus. Diverse pubblicazione scientifiche inoltre dimostrano chiaramente che l’immunità naturale è maggiore e di più lunga durata di quella determinata dai vaccini».
«Penso che dovremmo agire come abbiamo sempre fatto sinora per altre malattie virali: in presenza di anticorpi circolanti non si vaccina ma al massimo, trattandosi di una forma nuova di virosi, si monitora nel tempo la quantità di anticorpi per valutarne l’andamento», prosegue il prof. Gasparini che poi conclude «Normalmente nei soggetti guariti da un’infezione virale e con anticorpi circolanti non si procede ad una vaccinazione. Non si capisce qual è il razionale per fare un’eccezione a quanto praticato nella medicina sinora e cambiare strategia nel caso del Covid19».
Una tesi che, a dir il vero, a Legnano, già un anno fa era stata manifestata con fermezza dal prof. Antonino Mazzone, direttore del Dipartimento Area medica dell’Asst Ovest Milanese. Infatti, in un intervento diffuso il 3 dicembre 2020 dalla agenzia di stampa Adnkonos, il medico legnanese si era battuto per evitare la vaccinazione ai guariti dal virus, in presenza di anticorpi.
«Nelle persone che si sono ammalate possiamo dosare gli anticorpi anti-Covid e quantificarli – affermava un anno fa il dott. Maazzone – . Pertanto è come se si fossero immunizzati o avessero fatto il vaccino. Con le conoscenze attuali il vaccino non va fatto a chi ha avuto la malattia. Sono necessari anni di osservazione per verificare se una persona perde l’immunità umorale e/o cellulare».
Argomento questo di particolare rilievo anche in prospettiva del green pass, sulla cui necessità per combattere la diffusione del virus l’ambiente sanitario continua a battersi.
Covid-19 ed immunità: quanto a lungo può durare la protezione? Mario Negri
https://www.marionegri.it/magazine/covi ... a-immunitaIl tema della durata dell’immunità nelle persone risultate positive al Covid-19 è uno dei più discussi a livello scientifico e, ad oggi, non si ha ancora una risposta definitiva ed univoca a riguardo.
Quello che sappiamo è che, a seguito dell’infezione primaria, oltre il 90% dei pazienti sviluppa una positività per gli anticorpi contro SARS-CoV-2, anche quelli così detti neutralizzanti che hanno, cioè, la capacità di bloccare il virus ancor prima che questo infetti le nostre cellule. Ciò nonostante, diversi studi hanno rilevato, in modo abbastanza consistente, che gli anticorpi neutralizzanti tendono a diminuire nei primi mesi dopo l'infezione. Il tasso di diminuzione degli anticorpi risulta molto variabile tra i 6 e i 10 mesi e questo sembrerebbe dipendere da due fattori:
gravità della malattia, più la malattia è grave e più i livelli di anticorpi sono alti e duraturi;
fattori individuali a livello del singolo paziente.
Nonostante la durata dell'immunità rimanga per lo più sconosciuta, sappiamo che le persone che si sono ammalate di Covid-19 presentano un minor rischio di reinfezione rispetto a chi non è mai venuto a contatto con il SARS-CoV-2. Addirittura, diversi studi hanno stimato che le persone precedentemente positive hanno un rischio di poco inferiore all'1% di contrarre nuovamente la malattia.
È possibile quindi che ci siano altri fattori oltre agli anticorpi che ci permettono di non ammalarci più di Covid-19 qualora incontrassimo nuovamente il SARS-CoV-2?
Per rispondere a questa domanda approfondiamo ancora come funziona il sistema immunitario, uno strumento di difesa potentissimo e molto efficace.
Il sistema immunitario: risposta innata e risposta adattiva
Durante l’infezione causata da un nuovo virus, il nostro organismo è in grado di riconoscere l’agente "estraneo" ed eliminarlo attraverso due compartimenti diversi del sistema immune: la risposta immunitaria definita ‘innata’ e una definita ‘adattativa’.
Il sistema innato rappresenta la prima linea di difesa, quella più antica e primitiva, che permette all’organismo di rispondere in modo generalizzato e aspecifico ad un nuovo patogeno. Fanno parte del sistema immunitario innato diversi tipi di cellule (mastociti, eosinofili, basofili, macrofagi, neutrofili e cellule dendritiche) che hanno meccanismi di funzionamento molto diversi tra di loro, ma che sono tutti in grado di identificare e/o di eliminare gli agenti patogeni.
In seguito alla risposta innata, entra in gioco la risposta adattativa, un sistema relativamente più lento nella risposta ma in grado di specializzarsi in maggior misura ed attaccare in modo altamente specifico il nuovo patogeno. Questo secondo sistema si basa sull’attivazione dei linfociti B e T, capaci di riconoscere in modo molto mirato alcune parti della struttura del nuovo patogeno.
Nel caso di SARS-CoV-2, i linfociti B e T sono in grado di riconoscere diverse proteine del virus, in particolare la proteina Spike presente sulla sua superficie. Quando i linfociti B e T incontrano il coronavirus, si specializzano rispondendo solo a questo determinato virus.
Le cellule B produrranno anticorpi contro SARS-CoV-2, che saranno rilasciati nel sangue, tra cui i famosi anticorpi neutralizzanti contro la proteina Spike, mentre le cellule T specifiche contro il SARS-CoV-2 saranno in grado di perlustrare tutto il nostro corpo alla ricerca di cellule infettate dal virus, che dovranno essere quindi eliminate.
La particolarità del sistema immunitario adattativo è che presenta una memoria immunologica ovvero esistono particolari tipi di cellule B e T, dette appunto cellule della memoria, che sono in grado di annidarsi all’interno del nostro midollo osseo e restare in una sorta di letargo (definito stato di quiescenza). In realtà queste sono sempre pronte a risvegliarsi e a compiere le loro funzioni qualora lo stesso patogeno, verso cui sono programmate, dovesse reinfettare il nostro organismo.
Buone notizie sulla durata dell’immunità da Covid-19Lo studio su Nature
La domanda che in tanti si fanno oggi è: il nostro organismo è in grado di rispondere a successivi attacchi da parte del SARS-CoV-2 anche in assenza di misurabili livelli di anticorpi, sviluppati in seguito al Covid-19?
In un recente lavoro Jackson Turner, insieme ai suoi colleghi, ha provato a rispondere a questa domanda, caratterizzando a fondo le risposte immunitarie innescate nell’uomo in seguito all’infezione virale.
Lo studio, pubblicato su Nature, dimostra che l'infezione da SARS-CoV-2 induce una robusta risposta immunitaria di lunga durata. Gli autori hanno infatti confermato che i pazienti che si sono ammalati di Covid-19, possiedono anticorpi anti-SARS-CoV-2 rilevabili fino a 11 mesi dopo l'infezione. Il monitoraggio delle concentrazioni di anticorpi nel sangue degli individui effettuato in un anno intero, ha mostrato che durante la risposta immunitaria acuta, cioè al momento dell'infezione iniziale, le concentrazioni di anticorpi erano elevate. Successivamente, come previsto, questi hanno iniziato a diminuire ma dopo alcuni mesi le loro concentrazioni si sono stabilizzate rimanendo più o meno costanti.
Gli autori poi hanno voluto identificare nel midollo osseo anche la presenza di cellule B della memoria contro la proteina virale Spike, ritrovate in ben 15 individui convalescenti su 19 pure a infezione superata. La cosa positiva, affermata da Turner e colleghi, è che questa risposta immunitaria di lunga durata viene sviluppata anche in seguito ad un’infezione da SARS-CoV-2 lieve.
Mediante un'analisi più approfondita delle cellule B della memoria, i ricercatori hanno dimostrato che queste erano effettivamente “quiescenti”: non si moltiplicavano più e non producevano molti anticorpi, ma erano pronte a svegliarsi nel momento del bisogno. Infine, calcolando il loro numero hanno identificato che circa il 10-20% delle cellule B che si generano in una reazione immunitaria acuta contro un particolare patogeno, si trasforma in cellule B della memoria. Questo è coerente con quanto ci si aspettava e, a conferma di questa evidenza, gli autori hanno quantificato che il numero di cellule B della memoria contro SARS-CoV-2 era uguale a quello delle cellule B della memoria trovate negli individui dopo la vaccinazione contro il tetano o la difterite. La speranza è che, come avviene per la memoria immunitaria per questi vaccini, anche la durata delle cellule B contro il SARS-CoV-2 possa essere stabile per decenni o addirittura per tutta la vita.
La conferma di un gruppo australiano su Science Immunology
Al lavoro di Turner si aggiunge la conferma di uno studio di un gruppo australiano. Anche loro hanno riportato che un calo degli anticorpi sierici durante la convalescenza potrebbe non riflettere il declino dell'immunità, ma piuttosto una contrazione della risposta immunitaria, con lo sviluppo e la persistenza di cellule B della memoria di lunga durata nel midollo osseo. In questo studio eseguito su 25 persone positive al SARS-CoV-2, gli autori hanno dimostrato che in tutti gli anticorpi sierici raggiungono il picco 20 giorni dopo l'infezione per poi iniziare una fase declino. Le cellule B della memoria specifiche del virus sono state identificate già dalle prime fasi della convalescenza e persistevano per oltre 242 giorni dopo l'insorgenza dei sintomi.
La risposta delle cellule B generata dal SARS-CoV-2: doppia difesa
Quello che appare evidente da questi due importanti lavori è che il meccanismo alla base della risposta immunitaria prevede una prima risposta canonica condotta dalle cellule B con produzione transitoria di anticorpi nelle fasi iniziali della malattia, che diminuiscono poi abbastanza rapidamente. A questa fase seguono livelli più stabili di anticorpi, supportati da cellule B della memoria di lunga durata che si rifugiano nel midollo osseo molto tempo dopo l’infezione primaria. Queste ultime offrono una fonte durevole di anticorpi protettivi, necessari per mantenere nel tempo una protezione immunitaria.
La risposta delle cellule T generata dal SARS-CoV-2: ulteriore fonte di difesa?
Ma non è finita qui. Gli incoraggianti dati sulle cellule B possono portare a pensare che la stessa cosa valga per le cellule T, l’altro sistema di difesa dell’immunità adattativa. Anche questo particolare tipo di linfociti, come le cellule B, si attiva durante la fase acuta della malattia e può svolgere due diverse funzioni: da una parte ci sono le cellule T ‘aiutanti’ (T helper), chiamate così perché aiutano le cellule B a produrre anticorpi altamente mirati contro il nuovo patogeno, e poi ci sono le cosiddette cellule T ‘citotossiche’, che pattugliano in continuazione tutto il nostro corpo alla ricerca di cellule infettate dal virus verso le quali sono addestrate al fine di eliminarle.
Quello che sappiamo ad oggi è che quasi tutti i pazienti convalescenti Covid-19 sviluppano cellule T attivate in risposta all'infezione SARS-CoV-2. Un gruppo di ricercatori svedesi del Karolinska University Hospital ha eseguito analisi immunologiche su oltre 200 persone con Covid-19, molte delle quali con sintomi lievi o asintomatici. L’aspetto più interessante emerso è che i pazienti con Covid-19 grave sviluppavano sia una forte risposta anticorpale che una risposta orchestrata dai linfociti T; mentre quelli con sintomi più lievi non sempre avevano sviluppato una risposta anticorpale. Nonostante ciò, la maggior parte di queste persone asintomatiche mostrava una marcata risposta dei linfociti T. Inoltre, non erano solo gli individui con Covid-19 confermato a mostrare l'immunità dei linfociti T, ma anche molti dei loro familiari esposti e rimasti sempre asintomatici, suggerendo che la risposta delle cellule T da sola possa conferire protezione anche senza sviluppare anticorpi. A conferma di ciò, la cosa più sorprendente identificata è che circa il 30% delle persone che avevano donato il sangue a maggio 2020, aveva cellule T specifiche per il coronavirus, un numero molto più alto di quanto hanno dimostrato i precedenti test anticorpali.
Queste differenze potrebbero spiegare il motivo per cui alcune persone, pur essendo infettate dal virus, non sviluppano cellule B e quindi anticorpi misurabili nel sangue, ma combattono rapidamente l’infezione mediante una risposta guidata dalle cellule T.
Per capire la potenziale immunità a lungo termine garantita delle cellule T, un gruppo di ricercatori della Duke-NUS Medical School ha dimostrato nel 2020 che alcune persone che avevano contratto la SARS causata dal SARS-CoV nel 2003 presentavano a 17 anni di distanza una risposta immunitaria al virus basata sulle cellule T, facendo ben sperare in una simile risposta anche per il SARS-CoV-2. Sebbene questi dati siano molto incoraggianti, quello che si è osservato è esattamente ciò che ci si aspetta dal nostro sistema immunitario, ovvero che risponda in modo molto specifico e duraturo ad una nuova infezione generando cellule B e T specifiche.
La scoperta più significativa è però emersa da tre lavori indipendenti che sono giunti alla stessa conclusione: anche in circa il 30-40% di persone mai entrate in contatto con SARS-CoV-2 erano presenti delle cellule T in grado di riconoscere ed eliminare il virus. Come è possibile che soggetti mai esposti al virus abbiano nel loro corpo cellule T specifiche in grado di rispondergli?
Gli studiosi hanno scoperto che esistono delle cellule T che sono in grado di riconoscere diversi virus che presentano delle caratteristiche strutturali comuni (in termine tecnico ‘cross-reattive’) e che sono in grado di reagire a più virus contemporaneamente. Nello specifico, in questi studi hanno dimostrato che i soggetti che avevano incontrato i più comuni coronavirus stagionali del raffreddore (HCoV-OC43, HcoV-229E, HCoV-NL63 e HcoV-HKU1) presentavano delle cellule T in grado di riconoscere ed eliminare anche SARS-CoV-2.
Sulla base dei loro risultati, quindi, i ricercatori ipotizzano che un'esposizione preesistente ai virus del raffreddore possa contribuire alle variazioni della gravità della malattia nei pazienti che contraggono Covid-19.
Cellule T e immunità a lungo termine contro le varianti del SARS-CoV-2
covid-19 e immunità
Come ormai abbiamo imparato, i virus una volta entrati nel nostro corpo si adattano e mutano per sopravvivere il più a lungo possibile.
Il SARS-CoV-2 non è da meno: ogni volta che infetta una persona diversa, può sviluppare delle piccole mutazioni nel suo RNA capaci di renderlo maggiormente ‘adatto alla sopravvivenza’ nell’ospite.
Da qui il termine “varianti del virus” che stanno destando tanta preoccupazione in tutto il mondo. Le mutazioni studiate sono per la maggior parte quelle che riguardano la proteina Spike in quanto potrebbero modificare la capacità del SARS-CoV-2 di entrare nelle nostre cellule, diffondendosi più rapidamente.
Con l’obiettivo di identificare la capacità delle cellule T di neutralizzare tutte le varianti del SARS-CoV-2, il gruppo di ricerca guidato da Andrew Redd della Johns Hopkins University School of Medicine ha analizzato il sangue di 30 persone, che avevano contratto Covid-19 ad inizio pandemia, quando ancora nessuna delle varianti si era generata. Con grosso stupore e un pizzico di ottimismo, i ricercatori sono stati in grado di dimostrare che la risposta delle cellule T era rimasta praticamente intatta contro le diverse varianti. Questo ci permetterebbe di mantenere un’efficiente immunità a lungo termine anche nello sfortunato caso in cui alcune varianti, come sembrerebbe essere per le varianti Beta e Gamma, acquisissero una parziale resistenza agli anticorpi generati durante l’infezione con il SARS-CoV-2 originario non mutato.
Immunità preesistente: cosa significa?
Può succedere che molti individui siano in grado di difendersi da alcune malattie anche grazie all’immunità preesistente. Cosa significa? L’aver incontrato un agente infettivo in passato, fa sì che il sistema immunitario lo riesca a riconoscere anche a distanza di tempo. Sonia Gandhi, ricercatrice statunitense, ha dimostrato che una certa risposta immunitaria a SARS-Cov-2 può essere indotta qualche volta dal comune Coronavirus del raffreddore.
In Olanda hanno rilevato che nel sangue di alcuni donatori, prelevato dieci anni fa, erano presenti anticorpi contro il SARS-CoV-2. Potrebbe essere accaduto, quindi, che questi donatori abbiano incontrato in passato qualcosa che assomigliasse all'attuale coronavirus sviluppando una protezione verso lìagente patogeno.
L’immunità a lungo termine nei soggetti vaccinati contro il Covid-19
Come ormai sappiamo tutti, i vaccini attualmente disponibili si sono dimostrati un’arma molto valida nel combattere la pandemia, con un’efficacia che varia dal 70-80% nei vaccini a vettore virale, e una ancora maggiore, tra il 90-95%, nei più innovativi vaccini a mRNA.
Indipendentemente dall’efficacia, tutti i vaccini disponibili sono in grado di proteggere al 100% dalle forme severe di Covid-19 e questo è uno degli aspetti più importanti per ridurre notevolmente l’ospedalizzazione e la mortalità nelle persone positive al SARS-CoV-2.
Nella maggior parte degli studi condotti su persone vaccinate, l’attenzione è sempre stata posta sulla produzione di specifici anticorpi neutralizzanti contro il virus, valutata come il surrogato più immediato per valutare la capacità dei vaccini di proteggerci dall’infezione.
Alla luce di tutte le considerazioni fatte finora, possiamo aspettarci che anche nei vaccinati la protezione a lungo termine contro il SARS-CoV-2 e le sue varianti possa andare ben oltre la produzione di anticorpi nel sangue?
Per rispondere a questo quesito ci ha aiutato un gruppo dell’Harvard Medical School di Boston, che ha dimostrato come le risposte delle cellule T indotte da vaccinazione sono state ampiamente preservate contro tutte le varianti di SARS-CoV-2, anche nel caso in cui gli anticorpi neutralizzanti non si dimostravano così efficaci nel bloccare il virus. Questi dati sono stati confermati ulteriormente da un lavoro indipendente fatto da Tarke e colleghi all’Università della California. Resta ora da capire se anche nei vaccinati, oltre agli anticorpi che si sviluppano nel breve periodo che segue la vaccinazione, si generino anche cellule B della memoria, che ci garantirebbero una protezione a lungo termine per diversi anni come succede per molti vaccini. Alcuni dati sembrerebbero però suggerire che, con altra probabilità, sia possibile sviluppare cellule B della memoria anche con i vaccini ad mRNA, aumentando di conseguenza la potenziale immunità a lungo termine.
L’importanza della vaccinazione contro il Covid-19 in una migliore immunità a lungo termine
Sia l’infezione naturale che la vaccinazione offrono protezione contro la trasmissione di SARS-CoV-2 e contro la malattia Covid-19, attivando risposte immunitarie antivirali. In particolare, la vaccinazione consente di attivare la risposta immunitaria contro SARS-CoV-2 permettendo di creare anticorpi neutralizzanti e cellule T specifiche anche in assenza di patogeno, senza quindi sviluppare la malattia che si potrebbe avere dopo infezione naturale.
Ma ci sono dei reali benefici nell’immunità indotta dalla vaccinazione rispetto o quella generata dall’infezione naturale? Da quanto recentemente riportato dalla Swiss National Covid-19 Science Task Force, un gruppo di esperti/e che operano, su base volontaria, per garantire una consulenza scientifica e indipendente, sembrerebbe che l’immunità indotta da vaccinazioni sia più potente di quella indotta dall’infezione naturale. La task force ha infatti stimato che, a seconda dell’età, una pregressa infezione da SARS-CoV-2 fornisce un livello di protezione pari ad almeno l’80% contro le forme gravi della malattia per 12-16 mesi. La somministrazione di due dosi di vaccino a mRNA induce risposte anticorpali dalle 2 alle 4 volte maggiori rispetto all’infezione naturale. Ne consegue che la copertura sarà quindi più duratura: si avrà una protezione dell’80% contro forme gravi della malattia che, a seconda dell’età, può durare dai 2 ai 3 anni successivi alla vaccinazione. Queste però sono al momento solo stime e sarà il tempo a fornirci i dati sperimentali necessari per valutare l’attendibilità di questi calcoli.
Esiste poi una terza possibilità: le persone che si vaccinano avendo già fatto in precedenza il Covid-19. I dati ufficiali riportano che circa il 10% della popolazione italiana ha avuto una diagnosi di laboratorio di positività al SARS-CoV-2. Questa percentuale, in realtà, potrebbe essere molto più alta dato che la maggior parte delle infezioni (si stima tra l’80 e il 90%) rimane asintomatica e non viene quindi diagnosticata. In questo numero piuttosto elevato di persone si genera una particolare forma di immunità, detta “ibrida”, in cui l'immunità naturale si combina a quella generata dal vaccino inducendo una risposta anticorpale da 25 a 100 volte maggiore, guidata da cellule B di memoria e cellule T, con più alta protezione dalle varianti del virus. Questa possibilità indicherebbe che un buon numero di persone potrebbe avere un’immunità molto forte e duratura.
Immunità dal Covid-19 e terza dose/richiamo: in quali casi è consigliata
In Italia il Ministero della Salute raccomanda:
l'effettuazione di una dose aggiuntiva o terza dose, a completamento del ciclo vaccinale, ai pazienti immunodepressi o in terapia con farmaci immunosoppressori;
la somministrazione di un richiamo ("booster"), almeno 6 mesi dopo la seconda dose, agli anziani a partire dagli 80 anni di età e agli ospiti delle RSA, .
Successivamente, sarà offerta la possibilità del richiamo anche agli operatori sanitari. Inoltre, dati recenti supportano l'efficacia del "mix and match" in occasione della terza dose: a chi è stato somministrato il vaccino monodose di J&J o le due dosi di AstraZeneca viene consigliato un "booster" con un vaccino diverso, in particolare a mRNA.
L'efficacia della dose di richiamo è supportata da un recente studio del New England Journal of Medicine, che ha coinvolto 1,1 milioni di over 60 in Israele: in queste persone nei 20 giorni successivi alla somministrazione della "terza dose" (effettuata a più di 5 mesi dalla seconda dose) il rischio di forme gravi di malattia si è ridotto di 19 volte rispetto alle due dosi. Si tratta di un dato incoraggiante anche se un periodo di osservazione più lungo sarà utile per confermare ulteriormente che la maggiore efficacia del richiamo si manterrà nel tempo.
Infine, una buona notizia, che giunge da un recente lavoro inglese, è che ci sarà la possibilità di fare la terza dose insieme all’antinfluenzale: lo studio condotto su 679 persone dimostra che gli effetti collaterali (dolori muscolari, febbre, stanchezza e dolori articolari) non aumentano quando i due vaccini vengono somministrati insieme.
L’immunità dal Covid-19 a lungo termine per guardare al futuro con ottimismo
Al momento non conosciamo la quantità esatta di anticorpi neutralizzanti e cellule T necessari per stabilire una protezione dall’infezione. Nel complesso però, tutti gli studi riportati rappresentano una prova robusta che l'infezione da SARS-CoV-2 o la vaccinazione provocano l'avvio di una risposta immunitaria che si sviluppa su più fronti. Dunque, se questi dati saranno ulteriormente confermati, i timori di una pandemia destinata a durare anni, con ricadute stagionali, e della necessità di richiami annuali del vaccino, sarebbero cancellati grazie ad un’immunità duratura contro il virus.
Bibliografia:
Spiking Pandemic Potential: Structural and Immunological aspects of SARS-CoV-2. Trends Microbiol. 28, 605-618 (2020).
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Identification of Human Single-Domain Antibodies against SARS-CoV-2. Cell Host Microbe 27, 891-898.e5 (2020).
Clinical and immunological assessment of asymptomatic SARS-CoV-2 infections. Nat. Med. 26, 1200-1204 (2020).
Rapid Decay of Anti–SARS-CoV-2 Antibodies in Persons with Mild Covid-19. N. Engl. J. Med. 383, 1085–1087 (2020).
Longitudinal observation and decline of neutralizing antibody responses in the three months following SARS-CoV-2 infection in humans. Nat. Microbiol. 5, 1598–1607 (2020).
Humoral Immune Response to SARS-CoV-2 in Iceland. N. Engl. J. Med. 383, 1724-1734 (2020).
What we know about covid-19 reinfection so far. BMJ 372, n99 (2021).
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SARS-CoV-2-specific T cell immunity in cases of COVID-19 and SARS, and uninfected controls. Nature 584, 457–462 (2020).
Immunodominant T-cell epitopes from the SARS-CoV-2 spike antigen reveal robust pre-existing T-cell immunity in unexposed individuals. Sci. Rep. 11, 13164 (2021).
Selective and cross-reactive SARS-CoV-2 T cell epitopes in unexposed humans. Science 370, 89-94 (2020).
Hybrid immunity, Shane Crotty Science 25 Jun 2021: 1392-1393.
Guariti dal Covid, basta una dose entro 12 mesi. Così si avrà pure il Green PassViola Giannoli
22 luglio 2021
https://www.repubblica.it/cronaca/2021/ ... 311237620/Un'unica dose di vaccino anti-Covid per i guariti dall'infezione. Purché venga somministrata entro un massimo di 12 mesi dalla malattia, sia per i sintomatici che per gli asintomatici. Anche se l'intervallo di tempo preferibile tra il Covid e la puntura è di 6 mesi.
La nuova tempistica per il vaccino ai guariti è contenuto in una circolare firmata la sera del 21 luglio dal direttore generale della Prevenzione Gianni Rezza. Prima il ministero indicava un intervallo tra 3 e 6 mesi per la somministrazione: ora si passa a 6-12 mesi.
Il testo del provvedimento recita: "È possibile considerare la somministrazione di un'unica dose di vaccino anti-SarsCoV-2/Covid-19 nei soggetti con pregressa infezione da SARS-CoV-2 (decorsa in maniera sintomatica o asintomatica), purché la vaccinazione venga eseguita preferibilmente entro i 6 mesi dalla stessa e comunque non oltre 12 mesi dalla guarigione".
Due dosi dopo 12 mesi
Trascorsi i 12 mesi dall'infezione da Covid, la possibilità di una vaccinazione a metà non vale più. E dunque se è già passato un anno dalla malattia, come per tutti coloro che hanno contratto il Covid nella prima ondata dell'epidemia risalente alla primavera dello scorso anno, l'indicazione del ministero è di sottoporsi a un intero ciclo vaccinale, con due dosi di Pfizer, Moderna e AstraZeneca o il monodose Johnson&Johnson.
Due dosi anche per gli immunodepressi
Due dosi spettano anche agli immunodepressi. Nella circolare si raccomanda alle persone guarite dal Covid ma "con condizioni di immunodeficienza, primitiva o secondaria a trattamenti farmacologici" di proseguire "con la schedula vaccinale completa prevista". Ovvero entrambe le dosi di vaccino.
Niente sierologico pre-vaccino (e niente Green Pass col sierologico)
Infine, il documento inviato a enti e Regioni, evidenzia che "come da indicazioni dell'Organizzazione Mondiale della Sanità, l'esecuzione di test sierologici, volti a individuare la risposta anticorpale nei confronti del virus, non è raccomandata ai fini del processo decisionale vaccinale". In sostanza, la singola dose entro 12 mesi o le due dosi se è passato più tempo dall'infezione valgono per tutti, anche per chi ha ancora un alto livello di anticorpi. Per questo il test preventivo è inutile ai fine della decisione sulla vaccinazione. Lo stesso vale per l'ottenimento del Green Pass: il test sierologico che dimostra un alto numero di anticorpi non è una condizione sufficiente a ottenere il Certificato Verde.
Il Green Pass per i guariti
L'aggiornamento delle tempistiche (che prima prevedevano una sola dose tra 3 e 6 mesi per i guariti dal Covid) cambia anche i criteri per l'ottenimento del Green Pass. Per chi è guarito e non si è ancora vaccinato, il Certificato verde resta valido per 6 mesi. Mentre tutti coloro che dopo l'infezione da coronavirus hanno fatto una dose di vaccino entro 12 mesi dall'esordio della malattia, ovvero dalla data del tampone molecolare positivo che ha accertato il contagio, riceveranno (nelle modalità descritte più in alto) un nuovo Green Pass valido per 9 mesi dalla data di somministrazione della prima dose di vaccino. La nuova Certificazione verde è in sostituzione della precedente, eventualmente già ricevuta con l'indicazione a completare il ciclo vaccinale con una seconda dose.
"Non ci sono casi di ex infettati che tornano in terapia intensiva o in ospedale"Covid, Giorlandino: "Guariti non si riammalano, vaccino inutile"
moretti
23 novembre 2021
https://www.adnkronos.com/covid-giorlan ... nRApfBtUCy"I guariti non si riammalano mai" in modo grave di Covid. Così all'Adnkronos Salute Claudio Giorlandino, direttore scientifico di Altamedica. "La dose di vaccino ai guariti non serve a niente. Pare che adesso lo abbiano capito, ma io lo dico da sempre".
"Il guarito - spiega il medico - ha anticorpi contro la proteina Spike, contro la E, contro la M, contro l'He. Ce l'ha contro il virus nel suo complesso e non ci sono casi di guariti che tornano in terapia intensiva o in ospedale. Noi abbiamo fatto una bellissima metanalisi sui guariti anche per analogia con altre infezioni come la Mers, la Sars 1, e i casi di guariti che sono tornati a star male sono aneddotici. Non succede praticamente mai".
"Del resto - aggiunge - l'esempio che io faccio sempre è quello della peste manzoniana. Chi c'era che portava via i morti? I monatti ovvero i guariti. Quando uno è guarito basta, non bisogna fare vaccini".
TEST RAPIDI - "Se avessero smesso di distribuire i tamponi antigenici immunocromatografici, l'Europa sarebbe fuori dalla pandemia" di Covid-19. E' nettissima la presa di posizione di Giorlandino, contro i test rapidi che "secondo delle metanalisi di Cochrane danno falsi negativi da 7 a 9 volte su 10" e fanno sì che "gli asintomatici contagiosi, che sono il 60% delle persone colpite dal virus, tranquillizzati dal tampone negativo vadano in giro a contagiare come dei superspreaders senza osservare più precauzioni e rassicurando tutti con il loro Green Pass".
"L'esempio che i tamponi rapidi siano la causa dell'aumento dei contagi - spiega Giorlandino all'Adnkronos Salute - è quanto accaduto in Israele, dove a marzo stava finendo tutto, ma a luglio il primo ministro Naftali Bennett ha dato la possibilità di vendere in farmacia i tamponi antigenici: 15 giorni dopo il numero dei contagiati, praticamente assenti in precedenza, è improvvisamente risalito in misura esponenziale". La stessa cosa che è successa in Europa. "A maggio - ricorda il direttore di Altamedica - tutta l'Europa era fuori" dall'emergenza. "Stava finendo tutto. Alcuni ipotizzavano una ripresa dei contagi non prima di ottobre-novembre. Invece a fine luglio, 10 giorni dopo l'introduzione del Green pass in Francia e del conseguente aumento del ricorso enorme ai tamponi rapidi antigenici, l'infezione è esplosa di nuovo in tutta Europa". Questo perché, "se entrano 10 persone infette in farmacia, si fanno il tampone, 9 di queste risultano negative, escono e si tolgono la mascherina perché è normale psicologicamente, almeno per uno o 2 giorni stanno tranquilli e infettano", avverte Giorlandino. Per questo "vanno fermati questi test - dice - vanno chiusi i gazebo delle farmacie e va assolutamente vietata la vendita degli autotest". Diversa la questione per il tampone molecolare "che individua subito il virus e - afferma il medico - potrebbe essere usato per il rilascio del Green pass anche di una settimana. Ma si potrebbe evitare anche qualsiasi tampone, se si mantengono la mascherina e il distanziamento insieme a severe misure di controllo".
COVID OGGI ITALIA
"Noi in Italia non abbiamo i contagi che hanno gli altri Stati perché siamo pieni di soggetti che sono guariti" dal Covid 19. "La Francia - spiega all'Adnkronos Salute - ha più o meno la nostra stessa popolazione, i vaccinati completi in Francia sono il 70% della popolazione, più o meno come da noi che ne abbiamo il 72%. Ma i contagi giornalieri in Francia sono intorno ai 93mila, mentre in Italia circa 6mila. È merito del vaccino? No. A fare la differenza - conclude il medico - è il fatto che noi siamo tutti guariti oramai. Nella mia stanza in questo momento siamo 6 persone e il Covid l'abbiamo avuto in 4, quasi tutti da asintomatici. E un'enorme quantità di italiani ha avuto il virus senza accorgersene".
Alberto Pento
Non è affatto dimostrato e dimostrabile che la maggioranza degli italiani abbia contratto il covi senza ammalarsi e che abbia sviluppato anticorpi che rendono inutile il vaccino. Per poter sapere con esattezza quanti italiani hanno contratto il covid senza saperlo e siano guariti bisognerebbe fare a tutti un'analisi del sangue per accertare gli anticorpi sviluppati naturalmente contro l'infezione; quella di Giorlandino è solo un'ipotesi non dimostrata e quindi non scientifica.
ESENZIONE DA VACCINO ANTI COVID-19VADEMECUM OPERATIVO
agosto 2021
https://www.simg.it/wp-content/uploads/ ... SS_MdS.pdf Il greenpass viene dato anche ai guariti non vaccinati
Come ottenere il Green Pass senza vaccino. Ecco quando è possibile e cosa fare
21 dicembre 2021
https://gazzettadelsud.it/articoli/cron ... 812aa1a81/ Si può ottenere il Green Pass senza vaccino? E come fare per averlo? La risposta è sì: infatti attualmente tra le opzioni per avere la Certificazione verde Covid-19 è compreso anche essere negativi al test molecolare o antigenico rapido nelle ultime 48 ore sono i seguenti:
I test validi per ottenere il Green Pass sono i seguenti:
* test molecolare: permette di rilevare la presenza di materiale genetico (RNA) del virus; questo tipo di test è effettuato su un campione di secrezioni respiratorie, generalmente un tampone naso-faringeo.
* test antigenico rapido inserito nell'elenco comune europeo: apre una nuova finestra dei test antigenici rapidi per COVID-19: questo test effettuato tramite tamponi nasali, orofaringei o nasofaringei permette di evidenziare rapidamente (30-60 min) la presenza di componenti (antigeni) del virus. Deve essere effettuato da operatori sanitari o da personale addestrato che ne certifica il tipo, la data in cui è stato effettuato e il risultato e trasmette i dati per il tramite del Sistema Tessera Sanitaria alla Piattaforma nazionale-DGC per l'emissione della Certificazione.
Sono al momento esclusi autotest rapidi; test salivari; test sierologici.
Nei casi di tampone negativo la Certificazione sarà generata in poche ore e avrà validità per 48 ore dall’ora del prelievo.
Nei casi di guarigione da Covid-19 la Certificazione sarà generata entro il giorno seguente e avrà validità per 180 giorni (6 mesi).
Super green pass, da quando scatta e come ottenere la Certificazione verde
A decorrere dal 6 dicembre 2021, inoltre, il Green Pass si sdoppia: viene introdotto il Green Pass rafforzato (super green pass), rilasciato solo alle persone vaccinate o guarite, e il Green Pass “base”, rilasciato a chi si sottopone a un tampone molecolare (valido per 72 ore) o antigenico (valido per 48 ore). Il Green Pass rafforzato, a partire dal 6 dicembre 2021 fino al 15 gennaio 2022, vale già in zona bianca ed è necessario per lo svolgimento delle attività che altrimenti sarebbero oggetto di restrizioni in zona gialla e arancione. Le attività sono le seguenti:
* Spettacoli
* Spettatori di eventi sportivi
* Ristorazione al chiuso
* Feste e discoteche
* Cerimonie pubbliche
In caso di passaggio in zona arancione, le restrizioni e le limitazioni non scattano, ma alle attività possono accedere i soli detentori del Green Pass rafforzato.
La Certificazione viene generata in automatico e messa a disposizione gratuitamente nei seguenti casi:
* aver effettuato la prima dose o il vaccino monodose da 15 giorni;
* aver completato il ciclo vaccinale;
* essere risultati negativi a un tampone molecolare o rapido nelle 48 ore precedenti;
* essere guariti da COVID-19 nei sei mesi precedenti.
Come si genera la Certificazione?
Regioni, Province autonome, medici di base, laboratori di analisi e farmacie trasmettono le informazioni relative a vaccinazioni, test e guarigioni al livello centrale. Una volta raccolte le informazioni, la Piattaforma nazionale del Ministero della Salute rilascia la Certificazione. Le tempistiche per la trasmissione dei dati, e la conseguente generazione della Certificazione, possono variare in base al tipo di prestazione sanitaria.
Vaccinazione: i dati delle somministrazioni vengono trasmessi quotidianamente, si stima quindi un’attesa massima di un paio di giorni per generare la Certificazione. Nei casi di prima o unica dose, secondo il tipo di vaccino, l’emissione avverrà dopo 15 giorni.
Test negativo: la trasmissione dei dati richiede poche ore, la generazione della Certificazione avverrà nella giornata.
Guarigione da Covid-19: la trasmissione dei dati richiede poche ore, la generazione della Certificazione avverrà massimo nella giornata successiva.
Come si acquisisce la Certificazione?
Per andare incontro alle esigenze di tutta la popolazione, a prescindere dal livello di digitalizzazione, è possibile acquisire la Certificazione in diversi modi.Si può infatti scegliere tra canali digitali e canali fisici. La disponibilità della Certificazione viene comunicata tramite email o SMS (ai contatti indicati in fase di prestazione sanitaria: vaccinazione, test o guarigione) con un codice per scaricarla.
Canali digitali
Via APP
Immuni: è dotata di una nuova funzione che consente di scaricare la Certificazione inserendo il numero e la data di scadenza della propria Tessera sanitaria e il codice (AUTHCODE) ricevuto via email o SMS ai contatti comunicati in fase di prestazione sanitaria.
App IO: attraverso una notifica sul proprio dispositivo mobile, gli utenti dell’app IO (che già la usano o intendono scaricarla) che abbiano effettuato l’accesso con la propria identità digitale (SPID/CIE), potranno visualizzare la propria Certificazione direttamente dal messaggio.
Siti web
Sito dedicato, è possibile utilizzare l’identità digitale (SPID/CIE) per acquisire la propria Certificazione. In alternativa è possibile inserire il numero e la data di scadenza della propria Tessera sanitaria (o in alternativa il documento d’identità per coloro che non sono iscritti al SSN) e il codice (AUTHCODE) ricevuto via email o SMS ai contatti comunicati in fase di prestazione sanitaria.
Fascicolo sanitario elettronico, accedendo al proprio Fascicolo sanitario regionale, è possibile acquisire la propria Certificazione.
Canali fisici
In caso di difficoltà ad accedere alla Certificazione con strumenti digitali, è possibile rivolgersi al proprio medico di medicina generale, al pediatra di libera scelta, o al farmacista, che potranno recuperare la Certificazione grazie al Sistema Tessera Sanitaria. Porta con te il codice fiscale e i dati della Tessera Sanitaria che dovrai mostrare loro. La Certificazione verde COVID-19 sarà consegnata in formato cartaceo o digitale.
Quali sono le attività e i servizi in Italia dove è possibile accedere con la Certificazione verde COVID-19?
La Certificazione verde COVID-19 è richiesta in Italia per partecipare alle feste per cerimonie civili e religiose, accedere a residenze sanitarie assistenziali o altre strutture, spostarsi in entrata e in uscita da territori classificati in "zona rossa" o "zona arancione".
Dal 6 agosto servirà, inoltre, per accedere ai seguenti servizi e attività:
servizi di ristorazione svolti da qualsiasi esercizio per il consumo al tavolo, al chiuso;
spettacoli aperti al pubblico, eventi e competizioni sportivi;
musei, altri istituti e luoghi della cultura e mostre;
piscine, centri natatori, palestre, sport di squadra, centri benessere, anche all’interno di strutture ricettive, limitatamente alle attività al chiuso;
sagre e fiere, convegni e congressi;
centri termali, parchi tematici e di divertimento;
centri culturali, centri sociali e ricreativi, limitatamente alle attività al chiuso e con esclusione dei centri educativi per l’infanzia, compresi i centri estivi, e le relative attività di ristorazione;
attività di sale gioco, sale scommesse, sale bingo e casinò;
concorsi pubblici.
La Certificazione dovrà attestare di aver fatto almeno una dose di vaccino oppure essere risultati negativi a un tampone molecolare o rapido nelle 48 ore precedenti oppure di essere guariti da COVID-19 nei sei mesi precedenti.
La Certificazione verde COVID-19 si applica a tutte le attività e i servizi autorizzati in base al livello di rischio della zona. E’ richiesta in “zona bianca” ma anche nelle zone “gialla”, “arancione” e “rossa”, dove i servizi e le attività siano consentiti. Regioni e Province autonome possono prevedere altri utilizzi della Certificazione verde COVID-19.
La Certificazione verde COVID-19 non è richiesta ai bambini esclusi per età dalla campagna vaccinale e ai soggetti esenti sulla base di idonea certificazione medica. Per queste persone verrà creata una Certificazione digitale dedicata. Finché questa non sarà disponibile, possono essere utilizzate quelle rilasciate in formato cartaceo.
I bambini sono esonerati dalla Certificazione verde COVID-19 per accedere per esempio a bar, ristoranti, musei, parchi di divertimento?
Sì, i bambini sotto i 12 anni sono esentati dalla certificazione verde Covid-19 per accedere alle attività e servizi per i quali nel nostro Paese è invece necessario il “green pass”, come appunto mangiare seduti al tavolo in una sala al chiuso di un ristorante, visitare un museo o un parco di divertimento.
La Certificazione non è richiesta, inoltre, per accedere da parte di bambini e ragazzi ai centri educativi per l'infanzia e ai centri estivi incluse le relative attività di ristorazione.
Tuttavia si ricorda che attualmente in caso di viaggio dall’estero in Italia, ai bambini con più di 6 anni è richiesto il tampone molecolare o antigenico rapido.
Per i viaggi fuori dall'Italia, i limiti sono decisi dai singoli Paesi e possono variare in base alla situazione epidemiologica.
Prima di metterti in viaggio, informati sui siti dei Paesi di destinazione.
Dinamica delle risposte anticorpali neutralizzanti SARS-CoV-2 e durata dell'immunità: lo studio longitudinale pubblicato su Lancetbarbara meoni
1/4/2021
https://www.ars.toscana.it/2-articoli/4 ... ncet.html#Recentemente, numerosi gruppi di ricerca si stanno occupando del tema dell’immunità, studiando la diminuzione dei livelli degli anticorpi neutralizzanti contro SARS-CoV-2 nei pazienti che hanno superato la malattia o che sono stati sottoposti a vaccinazione.
A questo proposito la rivista The Lancet ha pubblicato l'interessante articolo Dynamics of SARS-CoV-2 neutralising antibody responses and duration of immunity: a longitudinal study, in cui i ricercatori hanno indagato i valori di picco, le dinamiche di riduzione degli anticorpi neutralizzanti e la maturazione delle IgG in correlazione con parametri clinici osservati in pazienti dopo il ricovero per Covid-19.
Si tratta di uno studio longitudinale, che ha coinvolto 517 pazienti dei quali 288 hanno acconsentito al follow-up ambulatoriale della durata di 180 giorni dall’inizio della sintomatologia. Dei pazienti che hanno dato il consenso, sono stati seguiti longitudinalmente 164 pazienti poiché presentavano adeguati campioni di sangue per l’effettuazione delle analisi di laboratorio con un totale di 546 campioni di siero raccolti sia durante il ricovero che alla dimissione, inclusi 128 campioni di sangue prelevati fino a 180 giorni dopo l'insorgenza dei sintomi. Il cambiamento temporale e i livelli di anticorpi neutralizzanti sono stati classificati in cinque gruppi e utilizzati per prevedere la longevità dell'immunità anticorpale neutralizzante.
La ripartizione del numero di campioni in ogni punto temporale era il seguente: 64 campioni a 14 giorni dall’insorgenza dei sintomi, 39 campioni a 21 giorni dall'insorgenza dei sintomi, 127 campioni a 28 giorni dall'insorgenza dei sintomi, 30 campioni a 60 giorni dall'insorgenza dei sintomi, 158 campioni a 90 giorni e 128 campioni a 180 giorni dall'insorgenza dei sintomi. Il 26% (n=42) dei pazienti erano donne, e l'età media era di 44 anni. Il 44% dei 164 pazienti aveva almeno una comorbidità (ipertensione, diabete). Nessun paziente aveva una storia documentata di pregressa infezione da SARS-CoV-2.
In base all’andamento della retta di regressione (pendenza) e al superamento della soglia di significatività di inibizione stabilita al 30%, sono stati identificati cinque modelli distintivi di dinamica degli anticorpi neutralizzanti:
negativo, individui che non hanno sviluppato, agli intervalli adottati nello studio, anticorpi neutralizzanti al livello di inibizione del 30%: 19 pazienti [12%] su 164
rapida diminuzione, individui che avevano livelli variabili di anticorpi neutralizzanti da circa 20 giorni dopo l'insorgenza dei sintomi, ma sono regrediti in meno di 180 giorni: 44 pazienti [27%] su 164
lenta diminuzione, individui che sono rimasti positivi agli anticorpi neutralizzanti 180 giorni dopo l'insorgenza dei sintomi: 52 pazienti [29%] su 164
persistenti, sebbene con livelli di picco variabili di anticorpi neutralizzanti, questi individui presentavano un decadimento anticorpale neutralizzante minimo: 52 pazienti [32%] su 164
risposta ritardata, un piccolo gruppo ha mostrato un aumento inaspettato di anticorpi neutralizzanti durante la convalescenza tardiva (a 90 o 180 giorni dall'esordio dei sintomi: 3 pazienti [2%] su 164.
Gli autori sottolineano che il meccanismo e il significato di questo risultato non è chiaro.
Per quanto riguarda le IgG, le analisi hanno mostrato tre importanti risultati: i livelli di avidità degli anticorpi IgG leganti il dominio di legame del recettore (RBD) erano correlati ai livelli e ai tassi di diminuzione dell'anticorpo neutralizzante in tutti i gruppi di pazienti; per i gruppi: negativo, a rapido e a lento declino, il cambiamento dell’avidità era dovuto ad una cinetica bifasica caratterizzata da un aumento più rapido nella prima fase (dai giorni 15–30 dopo l'insorgenza dei sintomi) rispetto alla seconda fase (dai giorni 31–180 dall’insorgenza dei sintomi); nel gruppo persistente, l'avidità ha raggiunto un livello elevato molto presto (15-30 giorni dopo l'insorgenza dei sintomi) e ha mostrato un cambiamento bifasico meno evidente.
Per indagare la possibile correlazione fra livelli di citochine e declino degli anticorpi, è stata effettuata una profilazione delle concentrazioni di citochine e chemochine e fattore della crescita nel plasma a 30 e 180 giorni dall'insorgenza dei sintomi in tutti i gruppi di pazienti. I livelli più alti sono stati osservati nel gruppo persistente rispetto a tutti gli altri gruppi.
Al contrario, le risposte delle cellule T erano simili tra i diversi gruppi.
Ulteriori differenze nella persistenza degli anticorpi neutralizzanti è stata associata a fattori quali l’età, la presenza di comorbidità e sintomatologia con una progressione graduale dal gruppo negativo al gruppo persistente, per cui i pazienti con una più elevata persistenza anticorpale erano più anziani e presentavano comorbidità quali ipertensione e diabete.
Sulla base delle diverse dinamiche di decadimento, i ricercatori hanno stabilito un algoritmo di predizione, che ha rivelato un'ampia gamma di longevità degli anticorpi neutralizzanti, che varia da circa 40 giorni a molti decenni.
Pertanto, nonostante le dinamiche di risposta anticorpale neutralizzante nei pazienti sopravvissuti a COVID-19 varino notevolmente, e la previsione della longevità immunitaria possa essere determinata con precisione solo a livello individuale, gli autori sottolineano l'importanza dell’associazione esistente fra gruppo con risposta immunitaria persistente, livelli più elevati di citochine e chemochine e gravità della malattia.
Sebbene siano necessari studi clinici ed epidemiologici per rispondere a importanti domande cliniche riguardanti l'immunità protettiva a lungo termine e il livello di anticorpi neutralizzanti, i risultati raggiunti potrebbero avere implicazioni sostanziali in termini d’immunità di popolazione.
A cura di:
Caterina Silvestri, Agenzia regionale di sanità della Toscana
Cristina Stasi, Centro Interdipartimentale di Epatologia CRIA-MASVE, Dipartimento di Medicina Sperimentale e Clinica, AOU Careggi