Il coronavirus mette in crisi l'economia mondialeIl coronavirus fa male (anche) all’economia mondialePietro Mecarozzi Collaboratore interno
1 febbraio 2020
https://www.linkiesta.it/it/article/202 ... mia/45276/Gli aspetti del coronavirus che sfuggono alla comunità scientifica, al momento, sono ancora molti. Una cosa certa, però, c’è: l’epidemia rischia di mettere in ginocchio l’economia mondiale. L’impatto economico dell’infezione, infatti, secondo gli analisti di Nomura sarà superiore a quello della Sars. Per intenderci: la sindrome scoppiata 17 anni fa sempre in Cina, si mangiò 25,3 miliardi di dollari di Pil cinese, oggi si parla di 40 miliardi. In aggiunta, il governo di Pechino ha chiuso un’intera provincia, mentre durante lo scoppio della Sars nemmeno una grande città restò isolata.
I dati finora disponibili parlano, appunto, di un calo molto più marcato di quello causato dalla Sars, dovuto principalmente alla posizione in cui si è diffuso il virus. La singola provincia dello Hubei, nella quale si trova la città di Wuhan, è una delle dieci province più importanti di tutta la Cina in termini di industria, finanza, affari, tecnologia e istruzione. Nonché, aggravante che ne ha velocizzato la diffusione, uno dei principali snodi dei trasporti verso le più grandi metropoli cinesi come Pechino, Shanghai e Guangzhou.
Solo dal peso di questi fattori, sulla base dei calcoli degli analisti di Nomura, è possibile stabilire che nel primo trimestre del 2020 la crescita del Pil cinese precipiterà rispetto al quarto trimestre del 2019, portando con sé filiere e Borse internazionali (solo il movimento turistico cinese muove nel mondo 130 miliardi di dollari all’anno). «Ci sono diverse questioni da valutare, fra tutte quella dei consumi. Il blocco della produzione dovuto alle misure di prevenzione, inevitabilmente, manifesterà delle ripercussioni anche nel nostro Paese», spiega a Linkiesta Filippo Fasulo, coordinatore scientifico del Centro Studi per l’Impresa della Fondazione Italia Cina. «In particolare su due voci: quella del turismo e quella del lusso. Entrambe sono fondamentali, in quanto il consumo dei cittadini cinesi equivale a un terzo del mercato globale del lusso, come del resto potrebbe subire un impatto importante a livello internazionale anche il settore dell’intrattenimento, per esempio il cinema che vede il popolo cinese come secondo consumatore dopo gli Stati Uniti».
In altre parole: l’interdipendenza creatasi negli anni tra i vari mercati mondiali con quello cinese, ha amplificato le debolezze di molte economie, tra cui quella italiana, che adesso dovranno fare i conti anche con l’instabilità delle Borse e lo stop della produzione. I crolli dei listini asiatici - che arrivano al termine dell’annus horribilis per la crescita dell’economia cinese -, che finora hanno bruciato quasi 300 miliardi, e la sospensione delle attività di alcune grandi imprese, come Toyota, Mc Donald’s, Starbucks e Ikea, mostrano una Cina ferma e chiusa che, a differenza del momento storico in cui è scoppiata la Sars, è all’interno di un sistema di economie molto più esposto alle conseguenze di un cigno nero come può essere il coronavirus. «Di per sé questo periodo per la Cina è generalmente di rallentamento, in forza delle chiusura di molte aziende e per le lunghe festività che il capodanno cinese comporta», continua Fasulo. «I prolungamenti delle ferie che le aziende coinvolte hanno già fatto sapere di voler adottare, sarà un indicatore fondamentale per capire l’entità del virus sull’economia: ovvero, in quel periodo di tempo potrà essere misurato il grado di dipendenza mondiale dal sistema produttivo cinese».
Una prova empirica, quindi, per capire quanto realmente dipendiamo dalla Cina. Per assurdo, almeno per l’Italia, un bilancio parziale è già possibile farlo: gli acquisti di lusso esentasse nel 2019 hanno come primi attori proprio i cinesi (28 per cento del totale), per un totale di spesa di 462 milioni di euro, oltre 300 euro al giorno, circa 1.500 euro a viaggio.
Il gigante asiatico vivrà un periodo di recessione anche di carattere agricolo, poiché il ministero dell’Agricoltura cinese ha vietato allevamento, trasporto e commercio di tutti gli animali. Difficile sarà poi assorbire lo stop e far ripartire il settore trasporti, in particolare quello aereo. Le previsioni per il 2020, che sarebbe dovuto essere «l’anno del turismo e della cultura Italia-Cina», notificavano l’aumento dei collegamenti aerei diretti (sino a 126 voli la settimana) per un totale di 4 milioni di turisti cinese in arrivo nel nostro Paese.
Allo stato attuale, British Airways, Iberia e Lufthansa hanno sospeso i voli dal Paese asiatico, per un tempo e con ripercussione del tutto incalcolabili. «Speriamo in pochi mesi di riuscire a estrapolare un bilancio almeno parziale sul colpo inferto dal coronavirus. Sicuramente, solo in questo frangente iniziale si sono innescate una serie di dinamiche che minano alla fiducia nei confronti della Cina e dei suoi prodotti, i quali potrebbero essere soggetti in futuro a una revisione dei criteri di consumo e di qualità. Potrebbe quindi esserci una trasformazione delle sensibilità, con maggior attenzione verso prodotti di alta qualità anche per il consumatore cinese, il che tutto sommato potrebbe anche essere un punto a favore per il mercato italiano», commenta Fasulo. Economia e geopolitica sono sicuramente secondarie di fronte alle necessità di un’emergenza sanitaria simile, come del resto è difficile non pensare che, in tutte le sue diramazioni, il lato peggiore del coronavirus deve ancora mostrarsi.
Coronavirus: direttore Fmi paventa rallentamento economia globaleGinevra, 03 feb 2020
(Agenzia Nova)
https://www.agenzianova.com/a/5e37ac19c ... ale/linkedIl progressivo allargamento dell’epidemia da coronavirus cinese causerà un rallentamento almeno temporaneo dell’economia globale. Lo ha dichiarato il direttore del Fondo monetario internazionale (Fmi), Kristalina Georgieva: l’epidemia “causerà probabilmente un certo rallentamento nel breve termine. Nel lungo termine, è ancora presto per formulare ipotesi. Dobbiamo verificare quanto rapide ed efficaci siano le misure adottate per contenere la diffusione del virus”, ha affermato Georgieva durante una conferenza stampa. Il direttore dell’Fmi ha sottolineato che i primi effetti della crisi sanitaria sono giù visibili: “Vediamo accumularsi effetti indiretti attorno al manifatturiero, le catene di fornitura subiscono l’impatto della distruzione causata dal virus. Assistiamo ad un impatto anche sui viaggi e il turismo”, ha spiegato il direttore dell’Fmi. Georgieva ha ricordato che ai tempi della Sars l’economia cinese ammontava al 4 per cento del totale globale, mentre oggi tale percentuale è aumentata al 18 per cento.
La Cina e la comunità internazionale osservano con crescente preoccupazione le ricadute economiche causate dalla propagazione del nuovo ceppo di coronavirus in quel paese asiatico. La sindrome respiratoria acuta grave (Sars) che ha colpito la Cina a partire dal 2002 fornisce una indicazione di massima circa i possibili effetti economici dell’attuale emergenza sanitaria: il nuovo virus, però, pare propagarsi assai più rapidamente della Sars, che ha giù superato in Cina per numero di contagi complessivo. Rispetto ai primi anni Duemila, inoltre, l’economia cinese è assai più integrata ai mercati globali, che dunque scontano a loro volta una maggiore esposizione alla crisi. Per arginare l’avanzata del virus, le autorità cinesi hanno decretato la quarantena di Wuhan – città della Cina centrale epicentro dell’infezione – e di 11 altri centri urbani del paese. Pechino, che solo questo mese aveva firmato un accordo provvisorio per attenuare le ostilità commerciali con gli Stati Uniti, si trova a fronteggiare l’emergenza in una situazione di vulnerabilità pregressa. La preoccupazione è però avvertita anche nei paesi asiatici vicini, integrati alle catene di fornitura dell’economia cinese e già colpiti dal crollo dei flussi di turisti cinesi.
I principali media asiatici diffondono già le prime proiezioni relative ai danni potenziali dell’epidemia per l’economia cinese. Secondo un rapporto di Plenum Group citato dal quotidiano “South China Morning Post”, gli effetti delle misure di contenimento dell’infezione potrebbero far rallentare la crescita cinese di quattro punti percentuali nel primo trimestre di quest’anno; la sola quarantena imposta alla provincia di Hubei, focolaio del virus, potrebbe costare alla Cina un altro punto e mezzo di pil. Secondo Shao Yu, capo economista di Orient Securities Shanghai, la diffusione del virus, che interessa ormai almeno 20 grandi città cinesi, comporterà un “impatto negativo” difficilmente quantificabile nel lungo periodo. Lo scorso anno la Cina è riuscita a conseguire una crescita del 6,1 per cento, a dispetto della guerra dei dazi con gli Stati Uniti. Dietro il dato complessivo si cela però un progressivo peggioramento dei fondamentali macroeconomici: diversi economisti temono che il coronavirus possa trasformarsi nel “cigno nero” in grado di esporre nei prossimi mesi le debolezze strutturali dell’economia cinese.
Era stato proprio il presidente cinese, Xi Jinping, a mettere in guardia lo scorso anno dal rischio di “cigni neri”, vale a dire eventi avversi inattesi; nel 2019, Pechino ha già dovuto scontare due crisi ancora irrisolte: da una parte il succitato scontro con gli Usa; dall’altra, le violente proteste antigovernative di Hong Kong, che hanno destabilizzato una tra le principali piazze finanziarie mondiali. Diversi esperti temono già che il coronavirus possa rivelarsi un evento più distruttivo per la Cina e per l’intera Asia-Pacifico della guerra dei dazi tra le due maggiori potenze mondiali.
A livello locale, il danno economico è ascrivibile anzitutto all’isolamento Wuhan, uno tra i centri economici più dinamici della Cina. La città, che conta circa 11 milioni di abitanti, è un importantissimo hub dei trasporti e della logistica al centro del paese, tanto da essere stata soprannominata “via di transito della Cina”. Secondo i dati forniti dall’amministrazione cittadina, nel 2018 l’economia di Wuhan è cresciuta sino ad un volume di 224 miliardi di dollari, pari a ben l’1,6 per cento del prodotto interno lordo cinese complessivo. Oltre 300 aziende del listino Fortune 500 operavano nella città lo scorso anno: tra queste Microsoft, Sap e il Gruppo automobilistico francese Psa; e ancora PepsiCo, Siemens e il costruttore di automobili Peugeot Citroen, tutte costrette ad arrestare le operazioni a causa della quarantena imposta dalle autorità cinesi su Wuhan, così come su altri 11 centri urbani cinesi.
L’automotive è uno dei settori più rappresentativi dell’industria di Wuhan, ma negli ultimi anni la città ha effettuato anche poderosi investimenti tesi a conseguire lo status di hub tecnologico internazionale. Un significativo contributo all’economia di Wuhan giunge anche dal turismo: lo scorso anno la città della Cina centrale ha accolto ben 319 milioni di turisti, che hanno generato entrate per 357 miliardi di yuan. Il governo di Wuhan si era dato come obiettivo per quest’anno la creazione di 220mila nuovi posti di lavoro, forte di quella che il Milken Institute classifica come la nona maggiore economia urbana della Cina: nel 2019 Wuhan ha conseguito una crescita economica del 7,8 per cento, 1,7 punti percentuali in più rispetto alla media nazionale. Il blocco di Wuhan esercita un impatto immediato sull’economia nazionale cinese soprattutto per l’interruzione dei trasporti e della logistica: oltre alla sua importanza economica, infatti, Wuhan è il principale centro amministrativo e commerciale della Cina Centrale.
A livello nazionale, la diffusione del coronavirus ha spinto le autorità cinesi a prorogare di tre giorni le festività del Capodanno lunare. Grandi nomi internazionali dell’automotive, della grande distribuzione, del settore alberghiero e della ristorazione, hanno già annunciato la sospensione o il ridimensionamento delle operazioni a Wuhan e in altre grandi città del paese: tra questi il costruttore di automobili giapponese Toyota, le catene di fast food McDonalds, Kfc e Pizza Hut, le catene alberghiere The Peninsula, Shangri-La, Hilton e Marriott, i colossi dell’abbigliamento Uniqlo e H&M, la multinazionale svedese dei mobili Ikea. Numerose compagnie aeree internazionali – da ultima British Airways – hanno già ridotto i voli settimanali verso la Cina, in risposta al crollo della domanda. In Cina sono state cancellate sette prime cinematografiche, chiusi i due parchi a tema Disneyland e sono a rischio numerosi eventi sportivi.
Sul piano internazionale, l’emergenza sanitaria ha causato un crollo immediato del traffico di passeggeri e dei flussi turistici nella regione asiatica, già avvertito acutamente da paesi quali Giappone, Thailandia e Singapore. Casi di infezione sono stati già confermati in Sri Lanka, Germania, Thailandia, Giappone, Corea del Sud, Vietnam, Stati Uniti, Francia, Taiwan, Hong Kong, Macao, Singapore, Nepal, Malesia, Australia, Canada e Cambogia. Per scongiurare il rischio di una pandemia, i governi stanno imponendo limiti sempre più stringenti ai voli da e verso la Cina, spingendosi oltre i controlli sanitari ai passeggeri in arrivo da Wuhan, istituiti nelle ultime settimane. Paesi come Filippine e Kazakhstan hanno già annunciato il blocco totale degli ingressi di turisti cinesi, o addirittura la sospensione di tutti i servizi di collegamento con la Cina.
Tra il 2002 e il 2003, l’epidemia di Sars ha causato all’economia cinese danni stimati in 25 miliardi di dollari, e un totale di 40 miliardi di dollari a livello globale. Il mercato azionario cinese impiegò 5 mesi per riprendersi dagli effetti della crisi, e i viaggi internazionali da e verso le aree colpite dalla Sars crollarono del 70 per cento. La nuova emergenza sanitaria colpisce però una Cina economicamente meno dinamica, che però è ancor più integrata all’economia globale e ne costituisce ancora un fondamentale motore di crescita. Uno studio del 2018 sponsorizzato dall’Organizzazione mondiale delal sanità (Oms) stima che una pandemia globale di influenza virale potrebbe causare la morte di 720mila persone, e costare 500 miliardi di dollari all’anno, pari allo 0,6 per cento del prodotto interno lordo mondiale. Come sottolinea il quotidiano “Nikkei”, il “contagio” del nuovo coronavirus sta già dilagando nella regione asiatica, quantomeno sul piano economico.
Nel 2003 la Cina doveva ancora affermarsi del tutto come traino della crescita e dell’integrazione economica asiatiche. La Sars colpì la regione prima del lancio della Belt and Road Initiative (Bri, la Nuova via della seta), che ha fatto da apripista alla massiccia penetrazione diplomatica ed economica cinese nel Su-est asiatico, accompagnata da flussi turistici senza precedenti. Nel 2003 i turisti in uscita dalla Cina ammontavano a circa 20 milioni; il dato relativo al 2018 è di circa 150 milioni, e ciò moltiplica i rischi di contagio sia sul piano virale, sua su quello economico. Con casi di infezione già confermati in oltre 14 paesi oltre la Cina, i governi si trovano impegnati in una delicatissima operazione di bilanciamento tra le necessità di contenimento del rischio virale, e quella di limitazione del danno economico. (Res)
Sindrome cinese: tre conseguenze del coronavirus sull’economia globale e italianaServizio l’impatto dell’epidemia
In un mondo globalizzato, la paralisi del Dragone avrà ricadute pesanti per tutti. Soprattutto per i Paesi esportatori, in particolare se a crescita zero. Come l’Italia
di Enrico Marro
5 febbraio 2020
https://www.ilsole24ore.com/art/sindrom ... a-AClDg2GB1.L’economia del Dragone colpita al cuore
Nessuno ha dubbi sul fatto che la Cina, già indebolita dalla guerra commerciale con Trump, sia la vittima numero uno dell’epidemia. Fare stime sull’impatto del coronavirus sul Dragone non è facile, ma con oltre 50 milioni di persone in quarantena e migliaia di fabbriche chiuse le previsioni dei think thank diventano sempre più cupe.
Secondo Oxford Economics, nel primo trimestre dell’anno il virus costerà alla seconda economia mondiale due punti percentuali di Pil, facendo deragliare la crescita complessiva 2020 al 5,4% (anziché il 6% previsto prima dell'epidemia). Ma il vero problema è che il coronavirus, costringendo alla chiusura di migliaia di fabbriche cinesi, sta distruggendo intere catene del valore ormai ampiamente globalizzate: e non parliamo solo di chimica o automotive, con le forniture di componentistica per esempio a Toyota e General Motors che iniziano a scarseggiare, ma anche di elettronica e tessile.
2. Sindrome cinese sull’economia globale
Visto che la Cina non produce solo magliette e giocattoli di plastica come ai tempi della Sars, il micidiale virus polmonare del 2002-2003, l’impatto del coronavirus sarà duro anche per il resto del mondo.
«Il Dragone rappresenta circa un terzo della crescita globale, con una quota percentuale superiore a quelle di Stati Uniti, Giappone ed Europa messe assieme» ha sottolineato Andy Rothman, economista di Matthews Asia. E le dimensioni dell'economia cinese sono quadruplicate rispetto a 18 anni fa. Come calcolare l’impatto dell'epidemia sul Pil mondiale? Pantheon Macroeconomics è partita proprio dalla Sars: allora quella forma di coronavirus aveva buttato giù la crescita trimestrale cinese di un punto percentuale (all’1,8% nel periodo aprile-giugno, contro il 2,8% stimato). A livello globale, secondo le stime di Cebr, il virus del 2003 bruciò da 30 a 100 miliardi di dollari, pari a un range compreso tra lo 0,08% e lo 0,25% del Pil mondiale.
Oggi, con l'economia cinese quadruplicata, il coronavirus potrebbe avere un impatto negativo sul Pil mondiale anche superiore all’1,8%, tarpando le ali a una crescita globale stimata per il 2020 al 2,9%. Sempre che non si riesca a trovare una cura in fretta.
Quanto ci costa il coronavirus?5 febbraio 2020
https://www.ispionline.it/it/pubblicazi ... irus-25011Le vittime del Coronavirus 2019-nCoV raggiungono quota 427. E mentre Macao chiude i suoi casinò per due settimane e il Giappone blocca 3500 persone a bordo di una nave da crociera, Pechino e il mondo fanno i conti col costo economico della pandemia.
Mentre il mondo, Pechino in primis, cerca di contenere l’epidemia di coronavirus, a suscitare preoccupazione è anche la tenuta dell’economia cinese, e le possibili ricadute a livello mondiale. Secondo la banca mondiale il Pil cinese oggi è otto volte più grande del 2003, quando il continente fu investito dalla Sars, e da allora la quota della Cina sul Pil mondiale è quadruplicata, passando dal 4 al 16% . Pechino rappresenta la seconda economia più grande del mondo e un motore chiave della crescita economica globale. Perciò qualsiasi fattore negativo la coinvolga si rifletterà anche ad altre latitudini. Su questo, la direttrice del Fondo monetario internazionale, Kristalina Georgieva, è chiara: “L’epidemia probabilmente rallenterà la crescita economica mondiale nel breve periodo – ha detto – Quanto al lungo periodo, è ancora troppo presto per dirlo”.
Peggio della Sars?
L’economia cinese sta rallentando. E non è colpa del coronavirus. Già prima dell’epidemia, nel 2019, il Pil cinese si era assestato al 6,1%, ben al di sotto del 6,5% indicato dal partito comunista cinese come il cosiddetto ‘New Normal’. E nel primo trimestre del 2020 potrebbe scendere molto di più di quanto non abbia già fatto nel quarto trimestre del 2019. È per questo che il contesto in cui si sviluppa il coronavirus è profondamente diverso da quello del 2003 con la Sars: allora l’economia cinese veniva da anni di crescita tumultuosa, apparentemente inarrestabile. Oggi, la debolezza pregressa e le sfide interne e internazionali – basti pensare alla guerra dei dazi con Donald Trump e alle proteste a Hong Kong – potrebbero complicare notevolmente la ripresa di Pechino, una volta che l’epidemia sarà fermata.
Virus vs dragone?
Nel primo giorno dalla riapertura delle borse dopo il Capodanno lunare, Shanghai ha perso il 7,72% e Shenzhen l’8,41%. I tassi peggiori dal 2015. Intanto la Banca centrale ha iniziato a dispiegare una maxi-iniezione di liquidità per far fronte alle ricadute dell’epidemia sui mercati. Ancora difficile invece, provare a quantificare l'impatto economico complessivo. Standard&Poor's stima fino a meno 1,5% di Prodotto interno lordo rispetto alle previsioni di fine 2019. I rallentamenti sono previsti soprattutto nel primo e nel secondo trimestre di quest’anno, ma per la stabilizzazione bisognerà aspettare la fine del 2020, mentre la ripresa - nell'intera area pacifico-asiatica ci sarà solo a inizio 2021. Ieri, nel primo giorno di ripresa dopo il prolungamento delle ferie, sono state almeno 24 le province e municipalità cinesi, come Shanghai, Chongqing e il Guangdong, che hanno rinviato la ripresa delle attività economiche e produttive. Si tratta di aree che nel 2019 hanno pesato per oltre l’80% in termini di contributo al Pil della Cina e per il 90% all’export. Di conseguenza, la domanda di petrolio da parte del gigante asiatico è crollata di 3 milioni di barili al giorno, pari al 20% del fabbisogno totale. Si tratta del più severo choc subito dalla domanda di petrolio dalla crisi finanziaria del 2008-09 e del più repentino attacco alle Torri Gemelle. La preoccupazione è che se la Cina rallenta non solo comprerà molto meno petrolio, ma comprerà molto meno di tutto.
Effetto a catena?
Se Pechino comincia a fare i conti con gli effetti economici dell’epidemia, nel resto del mondo i contraccolpi commerciali seguono principalmente due direttrici: la riduzione di esportazioni verso la Cina e il venir meno della spesa turistica dei cinesi all’estero. Finora 46 compagnie aeree hanno sospeso i collegamenti, causando un calo dei turisti cinesi e, di conseguenza, nelle vendite di prodotti di lusso. Per la prima volta, anche il sistema moda italiano ha previsto un primo trimestre negativo al -1,5 per cento. Inoltre la chiusura prolungata in molte regioni cinesi, crocevia dell’industria manifatturiera e siderurgica colpirà ulteriormente l'economia mondiale. Basti pensare che per far fronte alle chiusure prolungate delle ditte produttrici cinesi, aziende come Hyundai sono state costrette a chiudere i loro stabilimenti per carenza di componenti, mentre Apple ha deciso di chiudere i suoi punti vendita in Cina come misura precauzionale fino al 9 febbraio.
Cina meno vicina?
Cosa accadrà da qui in avanti dipenderà da quanto rapidamente l'epidemia sarà debellata. Se il tasso di infezione rallentasse e le misure di quarantena fossero revocate, la crescita cinese potrebbe rapidamente rimbalzare, forte delle misure previste dal governo. Se al contrario il tasso di infezione dovesse continuare a crescere le misure di quarantena sarebbero quasi certamente estese, con ricadute economiche più significative per tutti. Ma se fare previsioni risulta difficile, qualche conseguenza della crisi nell’immediato c’è già. Ieri la portavoce del ministero degli Esteri Hua Chunying ha attaccato in modo insolito gli Stati Uniti, accusandoli di “aver diffuso il panico” e di “non aver dato seguito alla proposta di aiuti” per fronteggiare l’emergenza. Quanto all’Italia, che ha sospeso i collegamenti aerei da e per la Cina Hua ha detto di "sperare che la parte italiana faccia una valutazione obiettiva dell'epidemia” sottolineando che “le misure da adottare dovrebbero essere in linea con le raccomandazioni dell'Oms, non superare livelli ragionevoli, evitando di incidere sui normali scambi di personale".
“Il tempismo dell'epidemia di coronavirus ha particolarmente segnato la filiera del turismo in Italia. Solo la settimana seguente il lancio dell'anno del turismo e della cultura Cina-Italia lo scorso 21 gennaio, le misure straordinarie del governo italiano hanno bloccato i voli diretti da/per la Cina per circa tre mesi, infrangendo così le aspettative di molti. Il 2020 avrebbe, infatti, dovuto incrementare il turismo cinese nel nostro paese grazie a questa ricorrenza e agli accordi presi nella cornice del MoU di Marzo 2019 tra Ctrip, maggiore provider turistico in Cina, e diversi enti italiani. Queste settimane di Capodanno lunare avrebbero infatti dovuto essere particolarmente fruttuose per l'Italia: quella cinese è infatti la quarta nazionalità di turisti in Italia all'anno e quella che spende di più, circa 300 euro al giorno a persona. Le misure attuate per evitare la deriva sanitaria del coronavirus lasciano di fatto un retrogusto amaro”.
Coronavirus, Cathay chiede ai dipendenti di stare a casa 3 settimane senza pagaLa compagnia aerea di Hong Kong ha sollecitato un concedo non retribuito dei suoi 27mila dipendenti in seguito alle difficoltà create dall coronavirus
5 febbraio 2020
https://www.ilsole24ore.com/art/coronav ... e-ACdvsCHBIl coronavirus continua a penalizzare settori chiave dell’economia come quello dei trasporti e del turismo. La compagnia aerea di hong Kong Cathay Pacific ha infatti chiesto ai suoi 27mila dipendenti di prendere fino a tre settimane di congedo nel mezzo delle difficoltà e delle turbolenze sulle attività legate all’epidemia del coronavirus di Wuhan.
«Spero che tutti voi possiate partecipare, dal personale di prima linea ai nostri leader senior, in modo da condividere gli oneri delle attuali sfide». Lo ha affermato il numero uno della compagnia di Hong Kong, Augustus Tang, in un messaggio video postato online.
La decisione di lasciare a casa per tre settimane i dipendenti arriva dopo che la compagnia ha pianificato un taglio del 30% della sua capacità nei prossimi due mesi e del 90% dei suoi voli verso la Cina continentale.
Donald Trump spinge verso la "deglobalizzazione": ecco cosa cambiaRoberto Vivaldelli
15 febbraio 2020
https://it.insideover.com/politica/trum ... bEnLdDon1UCon il crollo dell’Unione sovietica e la fine della Guerra fredda, a partire dal novembre 1989, le istituzioni economiche, le regole e i principi dell’ordine liberale occidentale vennero di fatto estesi all’interno sistema internazionale, costituendo quel mercato globale che prese il nome di globalizzazione. Dal punto di vista politico, in quel periodo gli Stati Uniti si affacciarono sul mondo con la possibilità di esercitare un potere e un’influenza senza precedenti. Con la sconfitta dell’Unione sovietica e la fine dell’era bipolare, infatti, i politici americani hanno cominciato a sognare di modellare il globo a immagine e somiglianza dell’unica superpotenza rimasta: si trattava della globalizzazione, espressione dell’ordine liberale internazionale. Una visione ottimista del futuro ben espressa da Francis Fukuyama nella riflessione formulata nel saggio The End of History?, pubblicato su The National Interest nell’estate 1989, nel quale il liberalismo, agli occhi dell’illustre politologo, appariva come l’unico possibile vincitore e meta finale dell’evoluzione storica dell’uomo e della società.
L’opinione diffusa era che gli Stati nazionali, a causa di questa interdipendenza economica e del nuovo mercato globale, erano “superati”. Dopotutto, la presenza di un’unica grande superpotenza (gli Stati Uniti) faceva pensare che l’epoca del realismo politico e dei conflitti era destinata al dimenticatoio. Tuttavia, questa concezione del mondo ben presto entrò in crisi. Prima con gli attentati alle Torri gemelle del 2001; poi con la grande crisi economica del 2007-2008. La vittoria di Donald Trump e il referendum sulla Brexit del 2016, fecero crescere la convinzione che si stava delineando una nuova era di “deglobalizzazione”.
Verso la deglobalizzazione
Come riporta Il Foglio, secondo un rapporto della Bank of America, che contiene anche un sondaggio che ha rilevato le decisioni di investimento di 3mila aziende nel mondo, per la prima volta viene ipotizzata la nuova traiettoria della “supply chain” che si sta gradualmente spostando dalla Cina verso il sud est asiatico e l’India e talvolta prende la via del “ritorno” verso il nord America. L’attuale assetto geografico delle catene produttive, che si è formato negli ultimi trent’anni con lo spostamento di impianti e posti di lavoro dai paesi occidentali ai paesi emergenti, si sta, dunque, modificando e questo è anche un effetto della politica estera del presidente americano Donald Trump.
Sarebbe in atto, una netta inversione di rotta, dopo oltre trent’anni. Tant’è che gli economisti americani prevedono “una lunga pausa nella globalizzazione” e, in rottura con il passato, sostengono che il mondo “è entrato in una fase senza precedenti durante la quale le catene di approvvigionamento vengono portate a casa, avvicinate ai consumatori o reindirizzate ad alleati strategici”. Questo potrebbe creare “una miriade di opportunità per le aree geografiche verso le quali viene reindirizzata la produzione”. Secondo il rapporto, “Gli Stati Uniti potrebbero essere un beneficiario significativo di questo processo, mentre le imprese cinesi sono forse maggiormente a rischio”.
Il coronavirus e la deglobalizzazione
Come ha spiegato l’ex ministro delle finanze Giulio Tremonti, il nuovo coronavirus, più che un impatto economico, che sarà più o meno intenso e lungo, avrà un forte “impatto psicologico”. “Per un glorioso trentennio – spiega in un’intervista rilasciata a Italia Oggi – con la globalizzazione, un mondo artificiale, fantasmagorico e felice si è sovrapposto a quello reale. Si è pensato che fosse la fine della storia, il principio di una nuova geografia”. E ora, il nuovo virus, che si sta diffondendo in tutto il mondo, ma che ha il suo epicentro in Cina “segna il ritorno della natura, il passaggio dall’artificiale al reale, come reale è appunto un virus”. Così, la globalizzazione è messa in crisi.
Secondo il Financial Times, la diffusione dell’epidemia equivale a un esperimento di deglobalizzazione. “Si stanno ponendo barriere non per arrestare i flussi commerciali e migratori ma per ostacolare la diffusione dell’infezione” scrive il Ft. Gli effetti economici, tuttavia, sono simili: catene di approvvigionamento in difficoltà, minore fiducia delle imprese e meno commercio internazionale”.
Coronavirus, l’allarme di Nomura sull’Italia: i tre scenari di crisi possibili17 febbraio 2020
https://quifinanza.it/soldi/coronavirus ... ne/353070/Il Coronavirus fa sempre più paura. I cinesi evitano luoghi affollati come centri commerciali e ristoranti, riducendo i consumi, che hanno contribuito a quasi tre quinti della crescita del Pil cinese lo scorso anno.
Già oggi le aziende cinesi non riescono ad onorare i loro impegni e hanno già debiti per 109,9 miliardi di yuan, pari a circa 15,7 miliardi di dollari. Il Coronavirus ha ritardato o fermato la produzione poiché le misure di quarantena hanno impedito a molti lavoratori di tornare ai loro posti di lavoro.
Ma i problemi non si fermano qui. Perché i suoi effetti negativi si fanno sentire pesantemente anche nel Vecchio Continente. La crisi innescata dal Coronavirus rischia, concretamente, di piegare l’economia italiana. Benché il ministro dell’Economia Gualtieri paventi aiuti a singoli settori e anche Confindustria faccia appello alle aziende per agire uniti, questo non basta a fermare la crisi.
L’allarme di Nomura
L’allarme arriva dalla celebre banca d’affari giapponese Nomura in un rapporto appena pubblicato. Secondo le previsioni dell’istituto bancario giapponese, l’Italia ha un’alta probabilità di cadere nuovamente in recessione nel 2020 a causa della diffusione del virus.
Per il nostro Paese Nomura stima un calo del Pil dello 0,1%, che potrebbe addirittura diventare dello 0,2% in caso di scenario negativo e dello 0,9% se proprio si verificasse lo scenario peggiore in assoluto.
Lo scenario di base
Lo scenario di base relativo alla zona euro presuppone che le misure di blocco della Cina durino solo fino alla fine mese e che le infezioni da Covid-19 siano principalmente confinate in Cina. In questo caso Nomura prevede solo un “modesto” impatto sull’economia dell’area euro, che vede la Germania tra i Paesi più colpiti nelle esportazioni e nella catena di approvvigionamento.
Il calo della spesa turistica dovrebbe invece avere un impatto negativo sulla crescita soprattutto nel Belpaese. L’Italia è, infatti, “vulnerabile a un improvviso stop dei flussi turistici dalla Cina”.
“Prove aneddotiche sull’Italia suggeriscono che il Paese ha già sperimentato migliaia di cancellazioni negli ultimi giorni. Prenotazioni sono in calo in destinazioni turistiche come la Toscana e Venezia, mentre Milano, secondo il sindaco, sta perdendo 4 milioni di euro al giorno in vendite mancate e prenotazioni cancellate”.
“Considerato il basso tasso di crescita da cui l’Italia parte quest’anno – si legge nello studio – ci aspettiamo che il Paese entri in recessione nel 2020, con un Pil in calo dello 0,1% nell’anno (molto al di sotto dello 0,6% previsto dal governo)”.
Lo scenario negativo
Nello scenario negativo, in cui le misure di blocco in Cina proseguirebbero fino alla fine di aprile, Nomura ha rivisto al ribasso dello 0,3% il Pil per il primo trimestre di Germania e Francia, dello 0,2% dell’Italia e dello 0,1% della Spagna.
L’economia dell’area euro soffrirebbe del rallentamento più prolungato e più acuto dell’economia cinese con un ulteriore indebolimento del commercio e ulteriori interruzioni delle catene di approvvigionamento. “In questo scenario vediamo Germania e Italia come i Paesi più esposti, con Francia e Spagna che soffrono di meno” scrive Nomura.
Lo scenario peggiore
Nello scenario più grave, le misure di blocco della Cina proseguirebbero invece per l’intero semestre 2020. Se l’infezione dovesse diventare pandemia, la paura probabilmente aumenterebbe drammaticamente in Europa e l’attività in tutti i settori della vita economica ne risentirebbe in modo significativo.
Sia la Germania che l’Italia cadrebbero in questo caso in recessione nel 2020 e non sarebbe escluso un ulteriore allentamento della politica monetaria, compresi tassi di interesse più bassi e, probabilmente, passi avanti nel programma di acquisto da parte della Bce. In questo caso il Pil del nostro Paese precipiterebbe al -0,9%.
Perché il Pil mondiale ha paura del coronavirusMatteo Gianola
MARTEDÌ 18 FEBBRAIO 2020
https://www.interris.it/intervento/perc ... 3mhSLa0fNk Quando si parla di epidemie è difficile fare una proiezione preventiva sugli effetti sull’economia, soprattutto quando l’allarme, al momento, risulti ancora circoscritto a una precisa area geografica e sia scattato solo da poche settimane.
Ciononostante, partendo dalle notizie che, giorno per giorno, si stanno diffondendo, c’è già chi sta stimando cosa possa succedere nei prossimi mesi; i precedenti ci sono e possono essere una buona base su cui ragionare. Nel 2009, ad esempio, con l’influenza suina causata dal virus H1N1 la Cina subì perdite per 55 miliardi di dollari senza avere alcun decesso e con “soli” 2.500 contagiati circa, mentre la questione relativa all’attuale infezione da coronavirus i numeri ufficiali sono ben più corposi; la Banca Mondiale, nel 2013, redasse un report in cui calcolava che gli effetti di una pandemia avrebbero potuto portare perdite pari al 5% del PIL mondiale (circa 4.8 trilioni di dollari americani) e, quindi, a fronte di quello che sta avvenendo in Cina in questi giorni vale la pena fare uno sforzo intellettuale per capire quale sia la possibile portata di questa infezione.
Oggi gli effetti più evidenti, ovviamente, si riscontrano in Cina che, credibilmente, per lo stop forzato dato dagli interventi in queste tre settimane potrebbe pagare uno scotto a fine anno pari a quasi 6% del PIL, che vuol dire oltre 730 miliardi di dollari, con la chiusura di interi settori produttivi e la fuga di diverse aziende estere che hanno preferito chiudere filiali e stabilimenti rimpatriando tutti i lavoratori lì distaccati. Tre settimane, sole, possono avere un effetto simile? Sì, perché anche in caso di fine allarme il processo di riavvio di tutta la “macchina” produttiva è lento, non avviene semplicemente girando un interruttore, e i tempi per tornare a regime non sono certo immediati. Anche qualora l’infezione restasse confinata nello Stato del dragone, poi, i riflessi si avrebbero in tutto il resto del mondo sia a livello di export verso la Cina sia a livello di approvvigionamento di prodotti finiti.
Si pensi solo ad Apple con iPhone, questo è prodotto negli stabilimenti della Foxconn a Shenzhen, come anche le linee premium di Samsung e di altri marchi, e i telefoni potrebbero arrivare a scarseggiare sul mercato in caso di blocco prolungato dovuto al “cordone sanitario”, questo così come per tanti prodotti che troviamo quotidianamente sugli scaffali di supermercati o centri commerciali. Vanno contati, poi, anche i riflessi sui conti delle grandi aziende occidentali che avevano trovato in Cina un mercato proficuo e in cui avevano fortemente investito fino ad oggi. Se non si trovasse a stretto giro una cura, calcolando che il tasso di crescita cinese rappresenta circa un terzo del tasso di crescita globale, l’impatto dell’epidemia potrebbe essere pesantissimo anche in questa ipotesi di contagio limitato poiché tra effetto diretto e indotto il danno potrebbe essere pari all’1,8% sul PIL mondiale, cosa che andrebbe ad annullare alla crescita stimata per il 2020 di tutto il globo che era pari al 2.9%.
Qualcuno potrebbe anche brindare pensando che questa possa essere un’opportunità per rilocalizzare molte produzioni che, nel tempo, erano state dirottate verso la Cina per la convenienza data dal costo del lavoro, dalla fiscalità e dai costi gestionali nettamente minori rispetto a qualsiasi stato europeo, una volta erano i noglobal e, oggi, sono i cosiddetti sovranisti, ma non si pensa che da Oriente non giungono solo prodotti finiti ma anche componentistica e diversi semilavorati che occorrono per la realizzazione del “made in…” che rischiano di diminuire se non addirittura di essere bloccati per via della malattia. A rischio, quindi, non ci sono solo i prodotti a basso costo provenienti dalla Cina ma anche alta gamma e lusso che da là si approvvigionano, cosa che potrebbe portare anche al fermo o, addirittura alla chiusura di diversi stabilimenti in occidente se non, nel caso peggiore, al fallimento dei produttori con conseguente impatto su occupazione e reddito nazionale. Il turismo stesso è a rischio, non solo per il minor apporto dei viaggiatori cinesi ma anche per la paura che l’allarme sanitario, razionalmente, genera nelle persone che si muoverebbero con più timore e più difficoltà.
Le misure monetarie intraprese dalla Banca Centrale cinese a sostegno dell’economia, poi, hanno fatto scattare verso l’alto l’inflazione che, nell’ultima rilevazione, è risultata pari al 5.4% rendendo così meno conveniente sia l’acquisto di prodotti esteri sia eventuali viaggi. Nel resto del mondo, oggi, già cominciano a vedersi le conseguenze dell’allarme sanitario, non solo rispetto alla paura nei viaggi che già sta facendo cancellare le prenotazioni di spostamenti di lavoro e vacanze, ma anche dal lato della ristorazione e degli acquisti di tutti i giorni, con i locali e i negozi gestiti da persone di origine cinese deserti o semivuoti, l’esaurimento delle mascherine a protezione di naso e bocca sui principali mercati che hanno visto rincari incredibili nei rivenditori online soprattutto per quelle prodotte in Europa (la maggioranza di esse, ironia della sorte, provengono da stabilimenti a Wuhan) e la pianificazione, da parte dei governi, di misure eccezionali di contenimento dei possibili contagi anche esortando, dove possibile, i datori di lavoro nel concedere il telelavoro da casa per limitare gli spostamenti.
Parlando specificatamente dell’Italia, poi, questa situazione di allarme potrebbe avere delle conseguenze significative poiché come nel caso della Germania l’economia del Bel Paese è orientata soprattutto all’export e la Cina, oggi, è il principale partner commerciale. Come evidenzia Il Sole 24 Ore “Il turismo vale il 10% del Pil italiano, il lusso oltre il 50% della nostra bilancia commerciale. E poi c’è la catena internazionale del valore: per esempio l’impatto sui produttori italiani di freni montati sulle supercar tedesche che fino a ieri venivano vendute in Cina.”, la quarantena imposta, quindi, potrebbe avere delle ripercussioni assai vistose sulla fragile crescita italiana.
Tutto questo, ovviamente, potrebbe succedere se l’epidemia cinese non si espandesse nel mondo per diventare pandemia, come fu l’influenza Spagnola fra il 1918 e il 1920 che contagiò un terzo della popolazione mondiale e causò più di 50 milioni di vittime, in caso contrario lo scenario sarebbe ben differente e molto più grave, come già descritto prima citando lo studio della Banca Mondiale.
Avviso: le pubblicità che appaiono in pagina sono gestite automaticamente da Google. Pur avendo messo tutti i filtri necessari, potrebbe capitare di trovare qualche banner che desta perplessità. Nel caso, anche se non dipende dalla nostra volontà, ce ne scusiamo con i lettori.
Il coronavirus è il "cigno nero" atteso dalla finanza globale?Andrea Muratore
22 febbraio 2020
https://it.insideover.com/economia/il-c ... 8rKWPPgOu0L’esasperata dilatazione dei listini finanziari globali nell’ultimo biennio, che ha portato al decollo di Wall Street e delle altre grandi piazze fino a livelli mai raggiunti in precedenza in termini di capitalizzazione e dividendi, si è radicata sul contesto favorevole creato dalle banche centrali che, volenti o nolenti, hanno dovuto continuare ad assecondare il trend di basso costo del denaro e finanziamenti facili inaugurato nella risposta alla grande crisi.
Il new normal dell’era del “quantitative easing globale“, dunque, disegna un’architettura precaria: una risposta emergenziale divenuta ordinaria e regolare situazione di fatto ha portato a un nuovo, e difficilmente invertibile, distacco tra tassi di dilatazione borsistica ed economia reale. Da tempo l’analisi finanziaria si chiede se a porre fine alla fase di vacche grasse possa intervenire uno choc esogeno capace di colpire l’economia globalizzata nella precaria camera di compensazione tra sistema reale, architettura commerciale e sistema finanziario. Ovvero un “cigno nero”, espressione che dà il nome all’omonimo saggio di Nassim Nicholas Taleb e che in Italia è stata resa popolare dall’attuale presidente della Consob Paolo Savona.
Il coronavirus può essere il cigno nero dell’economia mondiale? Certamente la gravità della patologia non è da sottovalutare, ma al cospetto dei dati effettivi su contagi e decessi al di fuori della Cina, epicentro dell’epidemia, sorprende l’ampiezza delle manovre di isolamento poste in essere dai vari decisori politici ed economici. Un “cordone sanitario” che sembra aver sospeso, per alcune settimane, il sistema della globalizzazione. E che potrebbe, secondo alcuni esperti, creare un effetto-valanga di portata globale.
L’economista Piergiorgio Gawronski ha sottolineato su Il Fatto Quotidiano che il Covid-19 potrebbe assumere l’identikit del temuto cigno nero. Gawronski sottolinea che “il governo cinese prevede quest’anno un rallentamento della crescita dal 6,6% al 2,5%”. Un fattore di primaria importanza per il sistema mondiale: “i grandi modelli econometrici dell’economia globale segnalano che per ogni 1% di crescita cinese che se ne va, la frenata nel resto del mondo è pari a 0,3-0,4%. Ciò implicherebbe una frenata dell’economia globale dal 3,3% all’1,8%” di crescita nel 2020.
Di opinione diversa un altro esperto analista finanziario, Mauro Bottarelli, che non nega tuttavia l’incidenza economica del virus, ma sottolinea piuttosto come al posto del reale “effetto cigno-nero” si stia sviluppando una narrazione strumentale per permettere al sistema bancario e borsistico per rimandare ogni riflessione sulla governance e sui rischi sistemici a un futuro indefinito. Lo testimoniano le reazioni delle banche centrali di Cina, Usa e Giappone: “La Pboc cinese è tornata in modalità espansiva, la Federal Reserve ha ottenuto l’alibi che le serviva per rimandare a dopo l’estate ogni decisione sul ritiro delle misure monetarie in atto, la Bank of Japan probabilmente starà studiando un piano di acquisti ancora più ampio, abbandonando gli Etf e acquistando direttamente singoli titoli in difficoltà”, scrive Bottarelli su Il Sussidiario, sottolineando inoltre come Wall Street non abbia sussultato con forza di fronte alle notizie pubblicate da uno dei suoi campioni, Apple, che ha tagliato da 67 a 63 miliardi di dollari gli utili attesi.
Dunque in questo contesto, secondo l’analista, le borse non subirebbero un danno di lungo periodo dal coronavirus ma, al contrario, ne riceverebbero un inatteso volano. La Cina, del resto, ha scelto proprio lo stimolo monetario come risposta all’affanno economico causato dal blocco della regione di Wuhan e dal rischio di un incancrenimento sistemico. Resta da valutare se tale stimolo avrà ricadute produttive o servirà a tenere a galla banche e istituti di credito, che di fronte al blocco delle attività rischiano il default.
La verità, molto probabilmente, sta nel mezzo: e a far pendere l’ago della bilancia sarà l’umoralità dei mercati. Per ora rinfrancati dalla prontezza di risposta dei decisori pubblici che, tuttavia, rischiano di comportarsi come struzzi, mettendo la testa sotto la sabbia di fronte alla prospettiva di un distacco ulteriore tra un’economia reale e commerciale potenzialmente toccata dal coronavirus e una borsa sdoganata nella sua crescita. Il cigno nero reale potrebbe, in fondo, essere questa ammissione: l’economia globale avvertirebbe, dunque, che il re è nudo e sentirebbe la necessità di una maggiore compensazione. Anche a costo di interrompere la corsa della finanza e di richiamare a un’azione più energica su tassi e espansione monetaria gli istituti centrali.
La Milano internazionale cancellata dal virus Un crollo del 50% in alberghi e ristorantiChiara Campo - Mer, 26/02/2020
https://www.ilgiornale.it/news/politica ... SGFqja2SYk Il settore dei pubblici esercizi sta già perdendo 3 milioni di euro al giorno
Milano Il rito dell'happy hour sospeso dal «coprifuoco» che scatta dalle 18 (almeno fino a domenica, ma potrebbe proseguire) e ristoranti che in pausa pranzo e a cena non se la passano meglio, perchè Milano si è svuotata a prescindere dall'ordinanza regionale che ha messo in stand by le forme di «aggregazione collettiva».
Sono saltate fiere, eventi, migliaia di pendolari lavorano in modalità smart working (da casa). Non c'è neanche l'umore giusto per fare movida. Epam-Confcommercio che è in contatto costante con gli associati stima già un crollo del 45-50% di fatturato per il settore dei pubblici esercizi, intorno ai 3 milioni di euro al giorno. Una perdita media che bar e ristoranti prevedono in aumento andando verso il weekend. Duomo, Teatro alla Scala, musei, cinema sono stati costretti a chiudere, rimangono semideserti anche i tavolini dei ristoranti della Galleria Vittorio Emanuele, dove qualche locale storico ha contato il 50% in meno di incassi e ammette che se l'emergenza Coronavirus e le cancellazioni dovessero proseguire abbasserà la serranda («sembra un incubo»). In corso Buenos Aires, la via dello shopping più lunga d'Italia, i negozi stanno registrando «un 30% di scontrini in meno» riferisce il presidente di Ascobaires-Confcommercio, Gabriel Meghnagi. Il mondo produttivo si adegua ma è infuriato: «O non ci stanno dicendo tutto o si sono misure precauzionali eccessive, che rischiano di mettere in ginocchio la nostra economia».
Settimana della moda sottotono e chiusa con sfilate a porte chiuse. Rinviate a data da destinarsi la fiera dell'occhialeria Mido e il salone del verde «My Plant & Garden» in programma a Rho-Pero, stop all'edizione 2020 di Connext Confindustria, annullate gare sportive (compreso il trofeo di nuoto Città di Milano), l'elenco degli eventi saltati è lungo e in continuo aggiornamento, ieri rinviato di due mesi, a giugno invece che ad aprile, il salone del Mobile. Il settore alberghiero che sta pagando carissimo l'effetto virus. Maurizio Naro, presidente Apam (Associazione albergatori Milano) non usa mezzi termini: «La situazione è drammatica, si sta uccidendo la capitale economica italiana, considerata come se fosse l'epicentro della zona rossa». La settimana è iniziata con «una media del 40/50% delle prenotazioni cancellate, e la restante metà è costituita per il 30/40% da convenzioni aziendali, se non hanno ancora annullato le camere temiamo lo faranno a breve perchè stanno saltando fiere ed eventi e le imprese promuovono lo smart working». E ancora emerge la sensazione che si siano prese contromisure eccessive o che il governo abbia gestito male la comunicazione. «É strano che altri Paesi con aeroporti molto più grandi e trafficati dei nostri non abbiano situazioni simili - afferma Naro -, dovremmo domandarci se anche gli altri Stati stiano eseguendo tanti controlli con i tamponi, se le notizie non siano date in modo fin troppo sensazionalistico». Per reggere il colpo i grandi e medi hotel stanno chiudendo alcuni piani e anticipando le ferie ai dipendenti, le strutture più piccole valutano anche a chiusura.