Ràça, ràsa, razza

Re: Ràça, ràsa, razza

Messaggioda Berto » dom apr 13, 2014 9:42 pm

Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Ràça, ràsa, razza

Messaggioda Berto » mar mag 06, 2014 8:12 am

Il grande uomo bianco e i negri da aiutare: la radice profonda del razzismo
http://www.lindipendenza.com/il-grande- ... l-razzismo

di MARCELLO CAROTI

Razzisti! E’ il 9 maggio 1950 e siamo a una conferenza stampa al Quai d’Orsay, il ministero degli esteri francese. Alle 16 inizia a parlare Robert Schuman, il ministro degli esteri francese e legge una dichiarazione, approvata dai governi francese e tedesco, che resterà nella storia come la Dichiarazione Schuman. Oggi questa dichiarazione è considerata il primo discorso politico ufficiale in cui compare il concetto di Europa come unione economica e, in prospettiva, politica tra i vari stati europei e viene celebrata come l’inizio del processo di unificazione europea. Si trattava di dare l’avvio alla prima istituzione sovranazionale europea, la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio: “, Il governo francese propone di mettere l’insieme della produzione franco-tedesca di carbone e di acciaio sotto una comune Alta Autorità, nel quadro di un’organizzazione alla quale possono aderire gli altri paesi europei ”.

Lo scopo di questa iniziativa era di far partire un processo che avrebbe cancellato per sempre lo spettro della guerra in Europa: “La solidarietà di produzione in tal modo realizzata farà sì che una qualsiasi guerra tra la Francia e la Germania diventi non solo impensabile, ma materialmente impossibile ”. Questa dichiarazione diventerà una pietra miliare della storia europea e trasformerà radicalmente il vecchio continente. Ma non è questo il motivo che mi ha spinto a produrre questo documento. La motivazione è partita da una frase pronunciata poco dopo: “Se potrà contare su un rafforzamento dei mezzi, l’Europa sarà in grado di proseguire nella realizzazione di uno dei suoi compiti essenziali: lo sviluppo del continente africano ”. E’ questo che mi ha colpito. Per comprendere la mia sorpresa è necessario innanzi tutto considerare la situazione dell’Europa in quel momento. La guerra era finita 5 anni prima e buona parte dell’Europa era ancora un mucchio di rovine. La Cortina di Ferro era scesa sui paesi dominati dai sovietici schiacciando qualunque velleità di libertà e democrazia e l’illusione dell’amministrazione americana di poter avviare buoni rapporti con l’ex alleato comunista era ormai svanita. I due blocchi si fronteggiavano e l’Europa era ancora sull’orlo dell’annientamento. Il piano Marshall era ben avviato e l’economia si stava riprendendo ma la miseria e la fame dominavano ancora il vecchio continente rendendo molto precaria la sopravvivenza delle istituzioni democratiche. Per questo motivo gli americani erano intervenuti l’anno prima ed era stata fondata la NATO dando così all’Europa un minimo di sicurezza, ma questi americani erano davvero disposti ad affrontare la terza guerra mondiale per salvare ancora l’Europa? Per la terza volta? Nonostante questa situazione i tentativi di avviare una qualunque forma di unione europea erano naufragati e il Consiglio d’Europa era paralizzato dalla assoluta ostilità degli europei a raggiungere un qualunque accordo su una qualunque cosa. Gli europei davano ancora il meglio di se stessi a litigare tra di loro.

E’ in questo scenario che Schuman propone la creazione di un ente sovranazionale; una proposta non facile. Ebbene, nello stesso documento ove si lancia questa proposta si dichiara che una pace stabile in Europa avrebbe consentito di proseguire nella realizzazione di uno dei compiti essenziali dell’Europa: lo sviluppo dell’Africa! Come è possibile che lo sviluppo dell’Africa possa essere considerato un “compito essenziale” dell’Europa? Chi ha dato questo compito agli europei? Il compito è un dovere da compiere e nel nostro caso addirittura essenziale! Essenziale per cosa? Schuman era un devoto cattolico, nel 2004 fu dichiarato Servo di Dio ed è ancora in corso la sua beatificazione. E’ evidente che nella sua mente c’è una motivazione religiosa. E’ stato l’Onnipotente che ha dato agli europei il “compito” di aiutare gli africani che, poverini, non ci riescono da soli. E’ per questo che il compito che l’Onnipotente gli ha assegnato è essenziale perché solamente il Grande Uomo Bianco ha il potere di sollevare i negri dalla loro condizione di arretratezza e di bisogno.

Noi vogliamo evidenziare che questa visione del mondo considera il rapporto tra bianchi e neri come un rapporto tra razza superiore e razza inferiore. Questo atteggiamento mentale è l’essenza e la radice profonda del Razzismo che è un prodotto delle allucinazioni cristiano-progressiste. Ho usato intenzionalmente la R maiuscola perché qui si tratta del razzismo buono, motivato dalle migliori intenzioni ultrabuoniste. Sarebbe stato inutile far notare a Schuman che il compito di “sviluppare il continente africano” era al di sopra delle possibilità di un’Europa ridotta in miseria perché la sua è una visione di lungo periodo, è una visione escatologica della storia. L’amore non deve avere confini e il Grande Uomo Bianco non può sottrarsi ai suoi doveri. La missione era stata interrotta dalle due guerre mondiali ma la razza superiore deve proseguire sulla strada già iniziata; avanti, soldati di Cristo!

Qui ci vogliamo chiedere se questa visione del mondo abbia prodotto risultati positivi. L’analisi degli interventi europei in Africa è estremamente complessa con profonde differenze da un paese all’altro e non può essere fatta in poche righe. Vogliamo solamente proporre una riflessione. Nel 1882, data del primo censimento attendibile fatto dagli inglesi, la popolazione dell’Egitto era di circa 7 milioni ed era rimasta più o meno invariata sin dai tempi antichi perché questa era la popolazione che il paese riusciva a sostenere sulla base delle condizioni sociali, economiche, tecnologiche che erano rimaste invariate sin dall’antichità. Quando è scoppiata la cosiddetta primavera araba era di 82 milioni! Buona parte della spinta per questo incremento disastroso la si deve all’intervento “amorevole” del Grande Uomo Bianco. Questo intervento, dall’esterno della società egiziana, (ma lo si potrebbe sostenere per tutta l’Africa) ha spezzato l’equilibrio esistente nella società e ha provocato un aumento di popolazione superiore alla capacità che la società stessa aveva di fornire lavoro, abitazioni, sanità, eccetera. Ha creato una situazione che rendeva impossibile alla società egiziana di provvedere ai bisogni di buona parte della popolazione che si è così trovata di fronte a una situazione disperata. La disperazione è una cattiva consigliera e spinge l’individuo verso scelte politiche o religiose alle quali non sarebbe arrivato in una situazione normale. Forse la nascita dell’islamismo fanatico e sanguinario è un sintomo di questa società ove tanta gente non vede più alcuna luce in fondo al tunnel della disperazione. A questo punto non si può non dubitare se questo amore del Grande Uomo Bianco, espresso in modo così nobile da Schuman, non abbia in se una componente di sadismo.

Abbiamo illustrato metà della nostra storia, per l’altra metà ci dobbiamo spostare in America. E’ il 28 agosto 1963 e siamo a Washington al termine di una marcia di protesta per i diritti civili. Davanti al Lincoln Memorial, Martin Luther King pronuncia un discorso che resterà nella storia e cambierà radicalmente la politica e la società americana. King inizia il discorso denunciando la disastrosa situazione dei negri all’interno della società americana. Infatti nonostante che lo schiavismo fosse stato abolito due secoli prima negli stati del nord e un secolo prima in quelli del sud: “ il Negro ancora langue in ogni angolo della società americana e si ritrova a essere un esule nella sua propria terra. Così siamo venuti qui oggi per denunciare una situazione terribile ”. Fin qui qualunque persona sensata avrebbe concordato con lui. Poi il discorso prosegue: “ In un certo senso siamo venuti nella capitale del nostro paese per incassare un assegno. Quando gli architetti della nostra repubblica scrissero le magnifiche parole della Costituzione e della Dichiarazione di Indipendenza, stavano firmando una cambiale che è stata ereditata da tutti gli americani.  Oggi è ovvio che l’America è inadempiente per questa cambiale per quanto riguarda i suoi cittadini di colore ”.

Queste dichiarazioni di King mi hanno lasciato stupito perché sono un’interpretazione della civiltà americana a dir poco stravagante. Né nella Costituzione né nella Dichiarazione d’Indipendenza c’è alcun obbligo di fornire alcunché ad alcuno; né l’America né alcun americano si fecero garanti di alcunché. E’ chiarissimo, nel suo atto di nascita, che la società americana intendeva dare a tutti i cittadini la libertà per perseguire e realizzare la propria felicità ma non intendeva (né poteva) prendere alcun impegno sul risultato che è ovviamente a carico dei singoli soggetti o comunità. Prosegue: “ Invece di onorare questo obbligo sacro l’America ha dato ai Negri un assegno a vuoto che è tornato indietro timbrato “fondi insufficienti” ”. Quindi l’America avrebbe addirittura imbrogliato i negri. “ E allora siamo venuti ad incassare questo assegno, l’assegno che ci darà, a nostra richiesta, le ricchezze della libertà e la sicurezza della giustizia ”. Tutto il discorso di King è una incitazione ai negri di darsi da fare per pretendere, in modo rigorosamente pacifico per fortuna, quanto dovuto loro dall’America: “ Non c’è più tempo per permettersi il lusso di calmarsi o di prendere i tranquillanti del gradualismo  ora è il momento di aprire le porte della libertà a tutti i figli di Dio  Non ci saranno né riposo né tranquillità in America finché al Negro non saranno garantiti i suoi diritti di cittadinanza. I turbini della rivolta continueranno a scuotere le fondamenta di questa nazione finché non emergerà il giorno luminoso della giustizia ”.

In tutto questo discorso, come in qualunque altra sua iniziativa, non esiste il ben che minimo accenno ad alcuna mancanza da parte dei negri: tutta la colpa di questa situazione disastrosa era dell’America (ovviamente bianca). Come è possibile pensare che tutta la colpa sia da una sola parte e che l’unica mancanza dei negri era di non aver lottato abbastanza nel pretendere dall’America i propri “diritti di cittadinanza”, diritti peraltro inventati? La risposta a questa domanda la troviamo nella Dichiarazione Schuman; la troviamo in quel “compito essenziale” che gli europei (bianchi) avrebbero nei confronti degli africani. Il problema è questa incrollabile fede religiosa dei bianchi nella loro superiorità razziale che si deve esprimere con il dovere di provvedere per i negri perché la razza superiore ha doveri superiori. Ebbene, i bianchi sono talmente convinti di questa loro fede che sono riusciti a farlo credere anche ai negri! Una terrificante dimostrazione della potenza del Grande Uomo Bianco. King non denunciò mai quel modo di vivere dei negri che produceva i problemi così tragicamente evidenti nelle comunità negre né si impegnò mai in alcuna di queste comunità per guidarla a risolvere da sola i suoi problemi. Questo perché era ben radicata l’idea che tutto dipende dai bianchi per cui i negri possono solo pretendere dai bianchi quanto dovuto. Schuman e King sono le due facce (bianca e nera) della stessa medaglia: una visione razzista della realtà.

Penso che si debba concludere che King non fu un vero leader dei negri americani ma fu piuttosto un eroe del Grande Uomo Bianco: lo ha fatto sognare. Con questo discorso King toccava il cuore del bigottismo cristiano-progressista dei bianchi americani e metteva di colpo i bianchi di fronte alle loro responsabilità: avevano mancato nel loro “compito essenziale”. L’effetto fu devastante perché la sua prosa era affascinante e sapeva manipolare le idee fino ad essere estremamente convincente. “, Io ho un sogno, che un giorno questa nazione si solleverà e vivrà il vero significato della sua fede: “Noi crediamo queste verità siano evidenti da non necessitare alcuna dimostrazione: che tutti gli uomini sono creati uguali.” ”. Qui King cita il Vangelo della civiltà americana, la Dichiarazione di Indipendenza, ma gli dà un significato completamente falso. Quel passo che lui cita non si riferiva al colore della pelle o altra caratteristica etnica o religiosa o di genere. Si riferiva alla pretesa dell’aristocrazia ereditaria inglese di avere il diritto divino di governare. Infatti tutto il mondo allora era governato da dinastie ereditarie ove, per volere di Dio, i regnanti erano incaricati di governare i loro sudditi che avevano il dovere di obbedire. La rivoluzione americana spezzò definitivamente questa fede, che era evidentemente assurda, tolse di scena l’aristocrazia e diede il potere al popolo, unico reale detentore del diritto di governare. Purtroppo qualunque appello alla ragione divenne inutile perché le parole di King andavano a eccitare i mostruosi complessi di colpa di una cultura che affondava le sue radici nell’etica puritana. Fu travolto anche il più elementare buon senso e annullato anche il più ovvio senso del ridicolo. Se l’Onnipotente ci ha creati uguali, perché i negri sono così poveri? Perché ci sono così pochi negri (o donne, o omosessuali, o , fate voi) nelle posizioni di potere? Di colpo gli americani si accorsero che il Male si era infiltrato nella loro società e avevano tradito la loro fede. A questo punto parte la paranoia, una patologia estremamente contagiosa, per la quale non si conosce alcuna cura. Chi sono questi agenti del Male che hanno traviato la nostra nazione? I razzisti! Ecco la fonte del Male! La paranoia trova sempre il suo obiettivo. Una nuova teoria antropologica fu inventata di fatto, senza mai venire espressa, ove gli uomini con la pelle bianca avrebbero una predisposizione genetica ad odiare quelli con la pelle nera piuttosto che quelli con i capelli rossi o gli occhi verdi o , fate voi. Sono questi bianchi che hanno ceduto all’odio verso i neri, i razzisti, i responsabili del degrado delle comunità negre. Come altro si può spiegare il perdurare nei secoli di questo degrado? Infatti questa era l’unica conclusione possibile dato che l’idea che un qualunque problema potesse dipendere dai negri era talmente blasfema da essere impensabile. Le più potenti menti d’America si misero all’opera per produrre leggi, regolamenti, studi per definire il razzismo, in modo scientifico, e dare alla giurisprudenza gli strumenti per individuare e schiacciare i razzisti che si annidavano nella società. Una tragica riedizione del Martello delle Streghe. La politica, i tribunali e i media si misero a pieno regime per realizzare il compito essenziale di far diventare tutti uguali. A qualunque costo la loro “città sulla collina” sarebbe tornata a risplendere. Inizia così la più colossale psicosi collettiva di nichilismo e autopunizione mai registrata dalla storia. Una psicosi che col tempo contagerà tutta la civiltà occidentale. Questa psicosi fa emergere quella componente di sadismo presente nell’amore del Grande Uomo Bianco producendo iniziative politiche deliranti che neanche il più elementare buon senso riesce ad arginare, con un danno enorme per tutta la società ma in particolar modo per i negri. Come per gli interventi dei bianchi in Africa, anche in questo caso gli effetti sui negri americani furono disastrosi. Il degrado, ma sarebbe più realistico dire la devastazione, prodotto nelle comunità negre è stato talmente macroscopico che riteniamo corretta l’accusa lanciata ai progressisti americani: “avete fabbricato un mostro!”. Questo è il tragico prezzo delle allucinazioni della razza superiore.

marcello.caroti@fastwebnet.it
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Re: Ràça, ràsa, razza

Messaggioda Berto » sab feb 21, 2015 2:55 pm

???

Razza. Un’invenzione nefasta senza valore scientifico. «Aboliamo il termine»
La proposta degli antropologi: eliminare la parola dal testo della Costituzione perché alimenta ancora suggestioni pericolose
http://lettura.corriere.it/debates/razz ... I.facebook

Il concetto di «razza» non ha più alcun valore scientifico per lo studio dell’essere umano: né per l’antropologia fisica o biologica né per l’antropologia culturale. Non solo le differenze fisiche più o meno evidenti (colore della pelle, statura, forma cranica) non hanno relazione con le capacità cognitive, i comportamenti sociali e le qualità morali — e questo è assodato da molto tempo; ma gran parte delle differenze genetiche interindividuali si osservano già all’interno delle singole popolazioni. Il progresso delle scienze biologiche ha di fatto spazzato via i ripetuti ordini tassonomici, basati sulla variabilità morfologica dell’umanità, che dalla fine del Seicento avevano contribuito a fornire autorevolezza scientifica al termine «razza» quale sostituto del termine «varietà» adottato dallo scienziato Linneo (Gianfranco Biondi, Olga Rickards, L’errore della razza, Carocci, 2011).
Da decenni, antropologi e genetisti non smettono di ricordarci che gli esseri umani condividono il 99,9% del patrimonio genetico e che il restante 0,1% non rimanda necessariamente a distinzioni discrete e misurabili fra popolazioni; coloro che studiano il patrimonio genetico degli esseri umani indagano la variazione statistica di singoli gruppi di geni, una prospettiva in cui la nozione «classificatoria» di razza non ha più diritto di cittadinanza.
Allo stesso modo, le differenze e le somiglianze tra le società umane che sono al centro degli interessi degli antropologi culturali, sono, per l’appunto, di ordine culturale, legate cioè a conoscenze e pratiche «acquisite dall’uomo in quanto membro di una società», per evocare la celebre definizione di «cultura» che Edward Tylor (un quacchero inglese che per primo insegnò l’antropologia sociale a Oxford) diede già nel 1871 con il libro Primitive Culture. Se la razza è stata l’indubbia protagonista delle grandi tragedie del XX secolo, la scoperta di quanto sia importante la cultura nella fabbricazione dell’essere umano (dalla definizione del genere alla strutturazione delle emozioni) è una delle maggiori rivoluzioni scientifiche dello stesso secolo breve. A questa rivoluzione hanno contribuito in modo decisivo gli antropologi culturali — da Franz Boas a Claude Lévi-Strauss — che favorirono non poco la revisione radicale del paradigma razziologico (F. Boas, L’uomo primitivo, Laterza, 1972; C. Lévi-Strauss, Razza e storia. Razza e cultura, Einaudi, 2002).
È perlomeno curioso notare che il termine «razza» viene utilizzato in ambito zoologico solo in riferimento ad animali addomesticati (cani, mucche da latte o da carne ecc.), che sono il frutto di selezioni genetiche operate dall’uomo: per gli animali non addomesticati si parla invece di sottospecie. Concetto inventato e oggi irrilevante nello studio dell’uomo, «razza» indica così nel campo animale solo i frutti ibridi di fabbricazioni artificiali.
Scomparsa (o quasi) dalla scienza, la nozione di razza è purtroppo ben presente nell’immaginario collettivo e spesso nella retorica politica, dove serve tuttora da strumento di stigmatizzazione della diversità culturale. Gli effetti distruttivi dello tsunami otto e novecentesco della razza non hanno finito di far sentire i loro nefasti effetti. È per questo che un gruppo di antropologi fisici e culturali, stimolati dalla proposta di abolizione del termine «razza» dalla Costituzione italiana avanzata da Gianfranco Biondi e Olga Rickards attraverso una lettera aperta alle più alte cariche dello Stato (http://www.scienzainrete.it), si sono recentemente confrontati e hanno convenuto sulla necessità di eliminare tale termine dalla Carta fondamentale e dai documenti amministrativi. Come è noto l’articolo 3 della Costituzione recita: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali». Con tutta evidenza, i costituenti citarono la razza per ragioni antidiscriminatorie, in un’epoca in cui essa, tuttavia, aveva ancora una certa vitalità scientifica. Se oggi questa è venuta meno, non sarà il caso di seguire l’esempio della Francia, la cui Assemblea nazionale ha approvato nel 2014 la proposta di eliminazione del termine dalla Costituzione e da ogni documento pubblico?
L’operazione, a parere di chi scrive assai improbabile nel clima politico attuale, sarebbe simbolicamente molto forte come presa di posizione contro ogni forma di razzismo, xenofobia e discriminazione. Essa presenta alcuni rischi e molti vantaggi. Tra le critiche che si potrebbero portare vi è quella di chi teme un semplice maquillage: abolire il termine «razza» non significa certo abolire il razzismo. La discriminazione verso piccoli o grandi gruppi di individui ha preceduto storicamente l’invenzione scientifica della razza e persiste nell’epoca post razziale: termini come «etnia», «religione» e persino «cultura» sono a volte usati strumentalmente a fini discriminatori. Si può negare l’esistenza delle razze e attribuire comportamenti criminali all’appartenenza culturale o alla fede religiosa (come è comune di questi tempi), consapevoli del fatto — più volte rimarcato nei suoi scritti da Anna Maria Rivera (Regole e roghi. Metamorfosi del razzismo, Dedalo, 2009) — che qualunque gruppo umano può essere «razzializzato» per mezzo di uno stigma che si costruisce in termini sociali, culturali e simbolici. L’antisemitismo è un caso paradigmatico.
Da un punto di vista strettamente giuridico si potrebbe obiettare che i principi affermati dalla Costituzione sono anche oggi pienamente condivisibili e che, se si tocca il termine «razza», occorrerebbe allora riflettere anche sull’uso di «sesso» (a cui molti preferirebbero «genere»), sulle discriminazioni che avvengono in base all’orientamento sessuale e così via. La Costituzione esprime valori comuni persistenti, ma è ovviamente un prodotto storico: eliminare la «razza» vorrebbe aprire un dibattito ben più ampio.
I motivi a favore dell’abolizione costituzionale del termine «razza» sarebbero tuttavia molteplici e giustificano pienamente l’ambiziosa proposta degli antropologi. Basterebbe ancora una volta ricordare che, dal punto di vista genetico, la razza è un’invenzione (Guido Barbujani, L’invenzione delle razze, Bompiani, 2006), un’invenzione terribilmente pericolosa che sedimenta un potenziale discriminatorio e violento così forte (per la storia che il termine ha avuto in Occidente e altrove) da poter essere facilmente riattualizzato. L’ondata retorica di razzismo biologico che, poco più di un anno fa, si scatenò in Italia e in Francia contro le ministre Kyenge e Taubira ne è una dimostrazione eloquente. Inoltre, la forza simbolica dell’operazione potrebbe dare sostegno a un’azione culturale e formativa sui reali motivi delle differenze e somiglianze tra società e culture. È infatti veramente sorprendente l’assenza di insegnamenti di ambito interculturale nei corsi curricolari della scuola italiana, dal momento che, attorno a questi temi, ruotano alcune delle maggiori questioni del mondo contemporaneo. Se il pregiudizio è un virus che può innestarsi su molteplici vettori (anche di tipo culturale), è indubbio che la razza è uno dei più potenti.
Adriano Favole e Stefano Allovio

https://www.facebook.com/AntrocomOnlus
Comento
Alberto Pento
Sono d'accordo, le parole non hanno colpa, la parola razza è antichissima e in origine indicava un tipo di cavalli proveniente da una città della Mesopotamia, assiro "harsa" razza di cavalli, "Haarsu, Haarsaa" (nome di città);
fa parte del patrimonio linguistico mondiale e personalmente l'adopero con piacere e continuerò ad adoperarla a presindere dalle mode e dalle leggi;
nella mia lingua veneta diciamo:
ke raça ciò,
ràsa de macaco,
ràsa de farloco,
na ràsa de mati,
na ràça fina,
la xe de ratsa bona,
na bruta ràça,
ràsa Piave,
ràça de mona,

mi dispiace per voi ma non butto via le belle parole della mia lingua veneta per la stupidità di qualcuno, sarebbe come bruciare i libri e le biblioteche o distruggere i monumenti religiosi antichi, un delitto contro l'umanità e la cultura.


Ràça, ràsa, razza
viewtopic.php?f=44&t=774

El tenpio o ła caxa de ła lebartà e de ła no credensa, de ła raxon e del spirto ogniversal dedegà a Ipasia, a Bruno Jordan, Jrołamo Savonaroła, Arnaldo Da Bresa, a Oriana Fallaci, a łi apostati e a tuti łi raxianti/ereteghi (tra cu Cristo, no dexmenteghemose ke anca Cristo el jera n'eretego, on ebreo raxiante):
viewtopic.php?f=24&t=1383
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Re: Ràça, ràsa, razza

Messaggioda Berto » mar ago 04, 2015 10:26 am

Razzismo e discriminazione - diritti umani
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Re: Ràça, ràsa, razza

Messaggioda Berto » dom ott 04, 2015 8:33 pm

DI GIOVANNI PAOLO II
Palazzo delle Nazioni Unite di New York
Giovedì, 5 ottobre 1995

5 ottobre 2015

Esattamente vent'anni fa - il 5 ottobre 1995 - San Giovanni Paolo II fece un intervento memorabile all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, in New York, nell'occasione delle celebrazioni per il cinquantesimo di fondazione dell'ONU.
Riproponiamo qui di seguito il Discorso del Santo Padre Giovanni Paolo II nella sua interezza, perché rimane un Documento storico fondamentale ed un riferimento imprescindibile per tutti noi cattolici che seguendo la Dottrina Sociale della Chiesa ci battiamo per la libertà dell'uomo e l'autodeterminazione dei popoli, auspicando "una nuova primavera dello spirito umano".


Signor Presidente,
Gentili Signore, Illustri Signori!

1. E' un onore per me prendere la parola in questa Assise dei popoli, per celebrare con gli uomini e le donne di ogni Paese, razza, lingua, cultura i cinquant'anni dell'istituzione dell'Organizzazione delle Nazioni Unite. Sono pienamente cosciente che, indirizzandomi a questa distinta Assemblea, ho l'opportunità di rivolgermi, in un certo senso, all'intera famiglia dei popoli che vivono sulla terra. La mia parola, che vuol essere segno della stima e dell'interesse della Sede Apostolica e della Chiesa Cattolica per questa Istituzione, s'unisce volentieri alla voce di quanti vedono nell'ONU la speranza di un futuro migliore per la società degli uomini.

Rivolgo un vivo ringraziamento, in primo luogo, al Segretario Generale, Dr. Boutros Boutros-Ghali, per aver caldamente incoraggiato questa mia visita. Sono poi grato a Lei, Signor Presidente, per il cordiale benvenuto con cui mi ha accolto in questo altissimo Consesso. Saluto infine tutti voi, membri di questa Assemblea Generale: vi sono riconoscente per la vostra presenza e per il vostro gentile ascolto.

Sono oggi venuto tra voi col desiderio di offrire il mio contributo a quella significativa meditazione sulla storia e sul ruolo di questa Organizzazione, che non può non accompagnare e sostanziare la celebrazione dell'anniversario.

La Santa Sede, in forza della missione specificamente spirituale che la rende sollecita del bene integrale di ogni essere umano, è stata sin dagli inizi una convinta sostenitrice degli ideali e degli scopi dell'Organizzazione delle Nazioni Unite. La finalità rispettiva e l'approccio operativo ovviamente sono diversi, ma la comune preoccupazione per l'umana famiglia apre costantemente davanti alla Chiesa ed all'ONU vaste aree di collaborazione. E' questa consapevolezza che orienta ed anima la mia odierna riflessione: essa non si soffermerà su specifiche questioni sociali, politiche od economiche, ma piuttosto sulle conseguenze che gli straordinari cambiamenti intervenuti negli anni recenti hanno per il presente ed il futuro dell'intera umanità.

Un comune patrimonio dell'umanità

2. Signore e Signori! Alle soglie di un nuovo millennio siamo testimoni di una straordinaria e globale accelerazione di quella ricerca di libertà che è una delle grandi dinamiche della storia dell'uomo. Questo fenomeno non è limitato ad una singola parte del mondo, né è l'espressione di una sola cultura. Al contrario, in ogni angolo della terra uomini e donne, pur minacciati dalla violenza, hanno affrontato il rischio della libertà, chiedendo che fosse loro riconosciuto uno spazio nella vita sociale, politica ed economica a misura della loro dignità di persone libere. Questa universale ricerca di libertà è davvero una delle caratteristiche che contraddistinguono il nostro tempo.

Nella mia precedente visita alle Nazioni Unite, il 2 ottobre 1979, ebbi modo di mettere in rilievo come la ricerca della libertà nel nostro tempo abbia il suo fondamento in quei diritti universali di cui l'uomo gode per il semplice fatto di essere tale. Fu proprio la barbarie registrata nei confronti della dignità umana che portò l'Organizzazione delle Nazioni Unite a formulare, appena tre anni dopo la sua costituzione, quella Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo che resta una delle più alte espressioni della coscienza umana nel nostro tempo. In Asia ed in Africa, in America, in Oceania ed in Europa, è a questa Dichiarazione che uomini e donne convinti e coraggiosi si sono richiamati per dare forza alle rivendicazioni di una più intensa partecipazione alla vita della società.

3. E' importante per noi comprendere ciò che potremmo chiamare la struttura interiore di tale movimento mondiale. Proprio questo suo carattere planetario ce ne offre una prima e fondamentale "cifra", confermando come vi siano realmente dei diritti umani universali, radicati nella natura della persona, nei quali si rispecchiano le esigenze obiettive e imprescindibili di una legge morale universale. Ben lungi dall'essere affermazioni astratte, questi diritti ci dicono anzi qualcosa di importante riguardo alla vita concreta di ogni uomo e di ogni gruppo sociale. Ci ricordano anche che non viviamo in un mondo irrazionale o privo di senso, ma che, al contrario vi è una logica morale che illumina l'esistenza umana e rende possibile il dialogo tra gli uomini e tra i popoli. Se vogliamo che un secolo di costrizione lasci spazio a un secolo di persuasione, dobbiamo trovare la strada per discutere, con un linguaggio comprensibile e comune, circa il futuro dell'uomo. La legge morale universale, scritta nel cuore dell'uomo, è quella sorta di "grammatica" che serve al mondo per affrontare questa discussione circa il suo stesso futuro.

Sotto tale profilo, è motivo di seria preoccupazione il fatto che oggi alcuni neghino l'universalità dei diritti umani, così come negano che vi sia una natura umana condivisa da tutti. Certo, non vi è un unico modello di organizzazione politica ed economica della libertà umana, poiché culture differenti ed esperienze storiche diverse danno origine, in una società libera e responsabile, a differenti forme istituzionali. Ma una cosa è affermare un legittimo pluralismo di "forme di libertà", ed altra cosa è negare qualsiasi universalità o intelligibilità alla natura dell'uomo o all'esperienza umana. Questa seconda prospettiva rende estremamente difficile, se non addirittura impossibile, una politica internazionale di persuasione.

Assumersi il rischio della libertà

4. Le dinamiche morali dell'universale ricerca della libertà sono apparse chiaramente nell'Europa centrale ed orientale con le rivoluzioni non violente del 1989. Quegli storici eventi, sviluppatisi in tempi e luoghi determinati, hanno però offerto una lezione che va ben oltre i confini di una specifica area geografica: le rivoluzioni non violente del 1989 hanno dimostrato che la ricerca della libertà è un'esigenza insopprimibile, che scaturisce dal riconoscimento dell'inestimabile dignità e valore della persona umana, e non può non accompagnarsi all'impegno in suo favore. Il totalitarismo moderno è stato, prima di ogni altra cosa, un assalto alla dignità della persona, un assalto che è giunto persino alla negazione del valore inviolabile della sua vita. Le rivoluzioni del 1989 sono state rese possibili dall'impegno di uomini e donne coraggiosi, che s'ispiravano ad una visione diversa e, in ultima analisi, più profonda e vigorosa: la visione dell'uomo come persona intelligente e libera, depositaria di un mistero che la trascende, dotata della capacità di riflettere e di scegliere - e dunque capace di sapienza e di virtù. Decisiva, per la riuscita di quelle rivoluzioni non violente, fu l'esperienza della solidarietà sociale: di fronte a regimi sostenuti dalla forza della propaganda e del terrore, quella solidarietà costituì il nucleo morale del "potere dei non potenti", fu una primizia di speranza e resta un monito circa la possibilità che l'uomo ha di seguire, nel suo cammino lungo la storia, la via delle più nobili aspirazioni dello spirito umano.

Guardando oggi a quegli eventi da questo privilegiato osservatorio mondiale, è impossibile non cogliere la coincidenza tra i valori che hanno ispirato quei movimenti popolari di liberazione e molti degli impegni morali scritti nella Carta delle Nazioni Unite: penso ad esempio all'impegno di "riaffermare la fede nei diritti umani fondamentali, nella dignità e valore della persona umana"; come pure all'impegno di "promuovere il progresso sociale e migliori condizioni di vita in una libertà più ampia" (preamb.). I cinquantuno Stati che hanno fondato questa Organizzazione nel 1945 hanno veramente acceso una fiaccola, la cui luce può disperdere le tenebre causate dalla tirannia - una luce che può indicare la via della libertà, della pace e della solidarietà.

I diritti delle Nazioni

5. La ricerca della libertà nella seconda metà del ventesimo secolo ha impegnato non soltanto gli individui ma anche le nazioni. A cinquant'anni dalla fine della seconda guerra mondiale è importante ricordare che quel conflitto venne combattuto a causa di violazioni dei diritti delle nazioni. Molte di esse hanno tremendamente sofferto per la sola ragione di essere considerate "altre". Crimini terribili furono commessi in nome di dottrine infauste, che predicavano l'"inferiorità" di alcune nazioni e culture. In un certo senso, si può dire che l'Organizzazione delle Nazioni Unite nacque dalla convinzione che simili dottrine erano incompatibili con la pace; e l'impegno della Carta di "salvare le future generazioni dal flagello della guerra" (preamb.) implicava sicuramente l'impegno morale di difendere ogni nazione e cultura da aggressioni ingiuste e violente.

Purtroppo, anche dopo la fine della seconda guerra mondiale i diritti delle nazioni hanno continuato ad essere violati. Per fare solo alcuni esempi, gli Stati Baltici ed ampi territori dell'Ucraina e della Bielorussia vennero assorbiti dall'Unione Sovietica, come era già accaduto all'Armenia, all'Azerbajdzan ed alla Georgia nel Caucaso. Contemporaneamente, le cosiddette "democrazie popolari" dell'Europa centrale ed orientale persero di fatto la loro sovranità e venne loro richiesto di sottomettersi alla volontà che dominava l'intero blocco. Il risultato di questa divisione artificiale dell'Europa fu la "guerra fredda", una situazione cioè di tensione internazionale in cui la minaccia dell'olocausto nucleare rimaneva sospesa sulla testa dell'umanità. Solo quando la libertà per le nazioni dell'Europa centrale ed orientale venne ristabilita, la promessa di pace, che avrebbe dovuto arrivare con la fine della guerra, cominciò a prendere forma reale per molte delle vittime di quel conflitto.

6. La Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo, adottata nel 1948, ha trattato in maniera eloquente dei diritti delle persone; ma non vi è ancora un analogo accordo internazionale che affronti in modo adeguato i diritti delle nazioni. Si tratta di una situazione che deve essere attentamente considerata, per le urgenti questioni che solleva circa la giustizia e la libertà nel mondo contemporaneo.

In realtà il problema del pieno riconoscimento dei diritti dei popoli e delle nazioni si è presentato ripetutamente alla coscienza dell'umanità, suscitando anche una notevole riflessione etico-giuridica. Penso al dibattito svolto durante il Concilio di Costanza nel XV secolo, quando i rappresentanti dell'Accademia di Cracovia, capeggiati da Pawel Wlodkowic, difesero coraggiosamente il diritto all'esistenza ed all'autonomia di certe popolazioni europee. Anche più nota è la riflessione avviata, in quella medesima epoca, dall'Università di Salamanca nei confronti dei popoli del nuovo mondo. Nel nostro secolo, poi, come non ricordare la parola profetica del mio predecessore Benedetto XV, che nel corso della prima guerra mondiale ricordava a tutti che "le nazioni non muoiono", e invitava "a ponderare con serena coscienza i diritti e le giuste aspirazioni dei popoli" (Ai popoli ora belligeranti ed ai loro capi, 28 luglio 1915)?

7. Oggi, il problema delle nazionalità si colloca in un nuovo orizzonte mondiale, caratterizzato da una forte "mobilità", che rende gli stessi confini etnico-culturali dei vari popoli sempre meno marcati, sotto la spinta di molteplici dinamismi come le migrazioni, i mass media, e la mondializzazione dell'economia. Eppure, proprio in questo orizzonte di universalità vediamo riemergere con forza l'istanza dei particolarismi etnico-culturali, quasi come un bisogno prorompente di identità e di sopravvivenza, una sorta di contrappeso alle tendenze omologanti. E' un dato che non va sottovalutato, quasi fosse semplice residuo del passato; esso chiede piuttosto di essere decifrato, per una riflessione approfondita sul piano antropologico ed etico-giuridico.

Questa tensione tra particolare ed universale, infatti, si può considerare immanente all'essere umano. In forza della comunanza di natura, gli uomini sono spinti a sentirsi, quali sono, membri di un'unica grande famiglia. Ma per la concreta storicità di questa stessa natura, essi sono necessariamente legati in modo più intenso a particolari gruppi umani; innanzitutto la famiglia, poi i vari gruppi di appartenenza, fino all'insieme del rispettivo gruppo etnico-culturale, che non a caso, indicato col termine "nazione", evoca il "nascere", mentre, additato col termine "patria" ("fatherland"), richiama la realtà della stessa famiglia. La condizione umana è posta così tra questi due poli - l'universalità e la particolarità - in tensione vitale tra loro; una tensione inevitabile, ma singolarmente feconda, se vissuta con sereno equilibrio.

8. E' su questo fondamento antropologico che poggiano anche i "diritti delle nazioni", che altro non sono se non i "diritti umani" colti a questo specifico livello della vita comunitaria. Una riflessione su questi diritti è certo non facile, tenuto conto della difficoltà di definire il concetto stesso di "nazione", che non si identifica a priori e necessariamente con lo Stato. E' tuttavia una riflessione improrogabile, se si vogliono evitare gli errori del passato, e provvedere a un giusto ordine mondiale.

Presupposto degli altri diritti di una nazione è certamente il suo diritto all'esistenza: nessuno, dunque - né uno Stato, né un'altra nazione, né un'organizzazione internazionale - è mai legittimato a ritenere che una singola nazione non sia degna di esistere. Questo fondamentale diritto all'esistenza non necessariamente esige una sovranità statuale, essendo possibili diverse forme di aggregazione giuridica tra differenti nazioni, come ad esempio capita negli Stati federali, nelle Confederazioni, o in Stati caratterizzati da larghe autonomie regionali. Possono esserci circostanze storiche in cui aggregazioni diverse dalla singola sovranità statuale possono risultare persino consigliabili, ma a patto che ciò avvenga in un clima di vera libertà, garantita dall'esercizio dell'autodeterminazione dei popoli. Il diritto all'esistenza implica naturalmente, per ogni nazione, anche il diritto alla propria lingua e cultura, mediante le quali un popolo esprime e promuove quella che direi la sua originaria "sovranità" spirituale. La storia dimostra che in circostanze estreme (come quelle che si sono viste nella terra in cui sono nato), è proprio la sua stessa cultura che permette ad una nazione di sopravvivere alla perdita della propria indipendenza politica ed economica. Ogni nazione ha conseguentemente anche diritto di modellare la propria vita secondo le proprie tradizioni, escludendo, naturalmente, ogni violazione dei diritti umani fondamentali e, in particolare, l'oppressione delle minoranze. Ogni nazione ha il diritto di costruire il proprio futuro provvedendo alle generazioni più giovani un'appropriata educazione.

Ma se i "diritti della nazione" esprimono le vitali esigenze della "particolarità", non è meno importante sottolineare le esigenze dell'universalità, espresse attraverso una forte coscienza dei doveri che le nazioni hanno nei confronti delle altre e dell'intera umanità. Primo fra tutti è certamente il dovere di vivere in atteggiamento di pace, di rispetto e di solidarietà con le altre nazioni. In tal modo l'esercizio dei diritti delle nazioni, bilanciato dall'affermazione e dalla pratica dei doveri, promuove un fecondo "scambio di doni", che rafforza l'unità tra tutti gli uomini.

Il rispetto delle differenze

9. Nei trascorsi diciassette anni, durante i miei pellegrinaggi pastorali tra le comunità della Chiesa cattolica, ho potuto entrare in dialogo con la ricca diversità di nazioni e di culture d'ogni parte del mondo. Purtroppo, il mondo deve ancora imparare a convivere con la diversità, come i recenti eventi nei Balcani e nell'Africa centrale ci hanno dolorosamente ricordato. La realtà della "differenza" e la peculiarità dell'"altro" possono talvolta essere sentite come un peso, o addirittura come una minaccia. Amplificata da risentimenti di carattere storico ed esacerbata dalle manipolazioni di personaggi senza scrupoli, la paura della "differenza" può condurre alla negazione dell'umanità stessa dell'"altro", con il risultato che le persone entrano in una spirale di violenza dalla quale nessuno - nemmeno i bambini - viene risparmiato. Situazioni di questo genere sono oggi a noi ben note, ed il mio cuore e le mie preghiere si rivolgono in questo istante in modo speciale alle sofferenze delle martoriate popolazioni della Bosnia Erzegovina.

Per amara esperienza, pertanto, noi sappiamo che la paura della "differenza", specialmente quando si esprime mediante un angusto ed escludente nazionalismo che nega qualsiasi diritto all'"altro", può condurre ad un vero incubo di violenza e di terrore. E tuttavia, se ci sforziamo di valutare le cose con obiettività, noi siamo in grado di vedere che, al di là di tutte le differenze che contraddistinguono gli individui e i popoli, c'è una fondamentale comunanza, dato che le varie culture non sono in realtà che modi diversi di affrontare la questione del significato dell'esistenza personale. E proprio qui possiamo identificare una fonte del rispetto che è dovuto ad ogni cultura e ad ogni nazione: qualsiasi cultura è uno sforzo di riflessione sul mistero del mondo e in particolare dell'uomo: è un modo di dare espressione alla dimensione trascendente della vita umana. Il cuore di ogni cultura è costituito dal suo approccio al più grande dei misteri: il mistero di Dio.

10. Pertanto, il nostro rispetto per la cultura degli altri è radicato nel nostro rispetto per il tentativo che ogni comunità compie per dare risposta al problema della vita umana. In tale contesto ci è possibile constatare quanto importante sia preservare il diritto fondamentale alla libertà di religione e alla libertà di coscienza, quali pilastri essenziali della struttura dei diritti umani e fondamento di ogni società realmente libera. A nessuno è permesso di soffocare tali diritti usando il potere coercitivo per imporre una risposta al mistero dell'uomo.

Estraniarsi dalla realtà della diversità - o, peggio, tentare di estinguere quella diversità - significa precludersi la possibilità di sondare le profondità del mistero della vita umana. La verità sull'uomo è l'immutabile criterio con cui tutte le culture vengono giudicate; ma ogni cultura ha qualcosa da insegnare circa l'una dimensione o l'altra di quella complessa verità. Pertanto la "differenza", che alcuni trovano così minacciosa, può divenire, mediante un dialogo rispettoso, la fonte di una più profonda comprensione del mistero dell'esistenza umana.

11. In tale contesto occorre chiarire il divario essenziale tra una insana forma di nazionalismo, che predica il disprezzo per le altre nazioni o culture, ed il patriottismo, che è invece il giusto amore per il proprio paese d'origine. Un vero patriottismo non cerca mai di promuovere il bene della propria nazione a discapito di altre. Ciò infatti finirebbe per recare danno anche alla propria nazione, producendo effetti deleteri sia per l'aggressore che per la vittima. Il nazionalismo, specie nelle sue espressioni più radicali, è pertanto in antitesi col vero patriottismo, ed oggi dobbiamo adoperarci per far sì che il nazionalismo esasperato non continui a riproporre in forme nuove le aberrazioni del totalitarismo. E' impegno che vale, ovviamente, anche quando si assumesse, quale fondamento del nazionalismo, lo stesso principio religioso, come purtroppo avviene in certe manifestazioni del cosiddetto "fondamentalismo".

Libertà e verità morale

12. Signore e Signori! La libertà è la misura della dignità e della grandezza dell'uomo. Vivere la libertà che individui e popoli ricercano, è una grande sfida per la crescita spirituale dell'uomo e per la vitalità morale delle nazioni. La questione fondamentale, che tutti oggi dobbiamo affrontare, è quella dell'uso responsabile della libertà, sia nella sua dimensione personale che in quella sociale. Occorre dunque che la nostra riflessione si porti sulla questione della struttura morale della libertà, che è l'architettura interiore della cultura della libertà.

La libertà non è semplicemente assenza di tirannia o di oppressione, né è licenza di fare tutto ciò che si vuole. La libertà possiede una "logica" interna che la qualifica e la nobilita: essa è ordinata alla verità e si realizza nella ricerca e nell'attuazione della verità. Staccata dalla verità della persona umana, essa scade, nella vita individuale, in licenza e, nella vita politica, nell'arbitrio dei più forti e in arroganza del potere. Perciò, lungi dall'essere una limitazione o una minaccia alla libertà, il riferimento alla verità sull'uomo, - verità universalmente conoscibile attraverso la legge morale inscritta nel cuore di ciascuno - è, in realtà, la garanzia del futuro della libertà.

13. In questa luce si capisce come l'utilitarismo, dottrina che definisce la moralità non in base a ciò che è buono ma in base a ciò che reca vantaggio, sia una minaccia alla libertà degli individui e delle nazioni, ed impedisca la costruzione di una vera cultura della libertà. Esso ha risvolti politici spesso devastanti, perché ispira un nazionalismo aggressivo, in base al quale il soggiogare, ad esempio, una nazione più piccola o più debole è contrabbandato come un bene solo perché risponde agli interessi nazionali. Non meno gravi sono gli esiti dell'utilitarismo economico, che spinge i paesi più forti a condizionare e a sfruttare i più deboli.

Sovente queste due forme di utilitarismo vanno di pari passo, ed è un fenomeno che ha largamente caratterizzato le relazioni tra il "Nord" e il "Sud" del mondo. Per le nazioni in via di sviluppo il raggiungimento dell'indipendenza politica è stato troppo spesso accompagnato da una situazione pratica di dipendenza economica da altri Paesi. Si deve sottolineare che, in alcuni casi, le aree in via di sviluppo hanno sofferto addirittura un regresso tale che alcuni Stati mancano dei mezzi per sopperire ai bisogni essenziali dei loro popoli. Simili situazioni offendono la coscienza dell'umanità e pongono una formidabile sfida morale all'umana famiglia. Affrontare questa sfida ovviamente richiede dei cambiamenti sia nelle nazioni in via di sviluppo che in quelle economicamente più progredite. Se le prime sapranno offrire sicure garanzie di corretta gestione delle risorse e degli aiuti, nonché di rispetto dei diritti umani, sostituendo dove occorra, forme di governo ingiuste, corrotte o autoritarie con altre di tipo partecipativo e democratico, non è forse vero che libereranno in questo modo le energie civili ed economiche migliori della propria gente? E i paesi già sviluppati, da parte loro, non dovranno forse maturare, in questa prospettiva, atteggiamenti sottratti a logiche puramente utilitaristiche e improntati a sentimenti di maggiore giustizia e solidarietà?

Sì, illustri Signore e Signori! E' necessario che sulla scena economica internazionale si imponga un'etica della solidarietà, se si vuole che la partecipazione, la crescita economica, ed una giusta distribuzione dei beni possano caratterizzare il futuro dell'umanità. La cooperazione internazionale, invocata dalla Carta delle Nazioni Unite "per risolvere problemi internazionali di carattere economico, sociale, culturale o umanitario" (art. 1,3), non può essere pensata esclusivamente in termini di aiuto e di assistenza, o addirittura mirando ai vantaggi di ritorno per le risorse messe a disposizione. Quando milioni di persone soffrono la povertà -che significa fame, malnutrizione, malattia, analfabetismo e degrado- dobbiamo non solo ricordare a noi stessi che nessuno ha il diritto di sfruttare l'altro per il proprio tornaconto, ma anche e soprattutto riaffermare il nostro impegno a quella solidarietà che consente ad altri di vivere, nelle concrete circostanze economiche e politiche, quella creatività che è una caratteristica distintiva della persona umana e che rende possibile la ricchezza delle nazioni.

Le Nazioni Unite e il futuro della libertà

14. Di fronte a queste enormi sfide, come non riconoscere il ruolo che spetta all'Organizzazione delle Nazioni Unite? A cinquant'anni dalla sua istituzione, se ne vede ancor più la necessità, ma si vede anche meglio, in base all'esperienza compiuta, che l'efficacia di questo massimo strumento di sintesi e coordinamento della vita internazionale dipende dalla cultura e dall'etica internazionale che esso sottende ed esprime. Occorre che l'Organizzazione delle Nazioni Unite si elevi sempre più dallo stadio freddo di istituzione di tipo amministrativo a quello di centro morale, in cui tutte le nazioni del mondo si sentano a casa loro, sviluppando la comune coscienza di essere, per così dire, una "famiglia di nazioni". Il concetto di "famiglia" evoca immediatamente qualcosa che va al di là dei semplici rapporti funzionali o della sola convergenza di interessi. La famiglia è, per sua natura, una comunità fondata sulla fiducia reciproca, sul sostegno vicendevole, sul rispetto sincero. In un'autentica famiglia non c'è il dominio dei forti; al contrario, i membri più deboli sono, proprio per la loro debolezza, doppiamente accolti e serviti.

Sono questi, trasposti al livello della "famiglia delle nazioni", i sentimenti che devono intessere, prima ancora del semplice diritto, le relazioni fra i popoli. L'ONU ha il compito storico, forse epocale, di favorire questo salto di qualità della vita internazionale, non solo fungendo da centro di efficace mediazione per la soluzione dei conflitti, ma anche promuovendo quei valori, quegli atteggiamenti e quelle concrete iniziative di solidarietà che si rivelano capaci di elevare i rapporti tra le nazioni dal livello "organizzativo" a quello, per così dire, "organico", dalla semplice "esistenza con" alla "esistenza per" gli altri, in un fecondo scambio di doni, vantaggioso innanzitutto per le nazioni più deboli, ma in definitiva foriero di benessere per tutti.

15. Solo a questa condizione si avrà il superamento non soltanto delle "guerre guerreggiate", ma anche delle "guerre fredde"; non solo l'eguaglianza di diritto tra tutti i popoli, ma anche la loro attiva partecipazione alla costruzione di un futuro migliore; non solo il rispetto delle singole identità culturali, ma la loro piena valorizzazione, come ricchezza comune del patrimonio culturale dell'umanità. Non è forse questo l'ideale additato dalla Carta delle Nazioni Unite, quando pone a fondamento dell'Organizzazione "il principio della sovrana eguaglianza di tutti i suoi Membri" (art. 2, 1), o quando la impegna a "sviluppare tra le nazioni relazioni amichevoli, fondate sul rispetto del principio dell'eguaglianza dei diritti e dell'autodeterminazione" (art. 1, 2)? E' questa la strada maestra che chiede di essere percorsa fino in fondo, anche con opportune modifiche, se necessario, del modello operativo delle Nazioni Unite, per tener conto di quanto è avvenuto in questo mezzo secolo, con l'affacciarsi di tanti nuovi popoli all'esperienza della libertà nella legittima aspirazione ad "essere" e "contare" di più.

Non sembri, tutto questo, un'utopia irrealizzabile. E' l'ora di una nuova speranza, che ci chiede di togliere l'ipoteca paralizzante del cinismo dal futuro della politica e della vita degli uomini. Ci invita a questo proprio l'anniversario che stiamo celebrando, riconsegnandoci, con l'idea delle "nazioni unite", un'idea che parla eloquentemente di mutua fiducia, di sicurezza e di solidarietà. Ispirati dall'esempio di quanti si sono assunti il rischio della libertà, potremmo noi non accogliere anche il rischio della solidarietà, e pertanto il rischio della pace?

Oltre la paura: la civiltà dell'amore

16. Uno dei maggiori paradossi del nostro tempo è che l'uomo, il quale ha iniziato il periodo che chiamiamo della "modernità" con una fiduciosa asserzione della propria "maturità" ed "autonomia", si avvicina alla fine del secolo ventesimo timoroso di se stesso, impaurito da ciò che egli stesso è in grado di fare, impaurito dal futuro. In realtà, la seconda metà del secolo ventesimo ha visto il fenomeno senza precedenti di un'umanità incerta riguardo alla possibilità stessa di un futuro, data la minaccia della guerra nucleare. Quel pericolo, grazie a Dio, sembra essersi allontanato, - ed occorre rimuovere con fermezza, a livello universale, quanto lo può riavvicinare, se non riattivare - ma rimane tuttavia la paura per il futuro e del futuro.

Perché il millennio ormai alle porte possa essere testimone di una nuova fioritura dello spirito umano, favorita da un'autentica cultura della libertà, l'umanità deve apprendere a vincere la paura. Dobbiamo imparare a non avere paura, riconquistando uno spirito di speranza e di fiducia. La speranza non è fatuo ottimismo, dettato dall'ingenua fiducia che il futuro sia necessariamente migliore del passato. Speranza e fiducia sono la premessa di una responsabile operosità e trovano alimento nell'intimo santuario della coscienza, là dove "l'uomo si trova solo con Dio" (Cost. past. Gaudium et spes, 16), e per ciò stesso intuisce di non essere solo tra gli enigmi dell'esistenza, perché accompagnato dall'amore del Creatore!

Speranza e fiducia potrebbero sembrare argomenti che vanno oltre gli scopi delle Nazioni Unite. In realtà non è così, poiché le azioni politiche delle nazioni, argomento principale delle preoccupazioni della vostra Organizzazione, chiamano sempre in causa anche la dimensione trascendente e spirituale dell'esperienza umana, e non potrebbero ignorarla senza recar danno alla causa dell'uomo e della libertà umana. Tutto ciò che sminuisce l'uomo reca danno alla causa della libertà. Per ricuperare la nostra speranza e la nostra fiducia al termine di questo secolo di sofferenze, dobbiamo riguadagnare la visione di quell'orizzonte trascendente di possibilità al quale tende lo spirito umano.

17. Come cristiano, poi, non posso non testimoniare che la mia speranza e la mia fiducia si fondano su Gesù Cristo, i cui duemila anni dalla nascita saranno celebrati all'alba del nuovo millennio. Noi cristiani crediamo che, nella sua Morte e Risurrezione, sono stati pienamente rivelati l'amore di Dio e la sua sollecitudine per tutta la creazione. Gesù Cristo è per noi Dio fatto uomo, calato nella storia dell'umanità. Proprio per questo la speranza cristiana nei confronti del mondo e del suo futuro si estende ad ogni persona umana: nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel cuore dei cristiani. La fede in Cristo non ci spinge all'intolleranza, al contrario ci obbliga a intrattenere con gli altri uomini un dialogo rispettoso. L'amore per Cristo non ci sottrae all'interesse per gli altri, ma piuttosto ci invita a preoccuparci di loro, senza escludere nessuno, e privilegiando semmai i più deboli e sofferenti. Pertanto, mentre ci avviciniamo al bimillenario della nascita di Cristo, la Chiesa altro non domanda che di poter proporre rispettosamente questo messaggio della salvezza, e di poter promuovere in spirito di carità e di servizio, la solidarietà dell'intera famiglia umana.

Signore e Signori! Sono di fronte a voi, come il mio predecessore Papa Paolo VI esattamente trent'anni fa, non come uno che ha potere temporale - sono sue parole - né come un leader religioso che invoca speciali privilegi per la sua comunità. Sono qui davanti a voi come un testimone: un testimone della dignità dell'uomo, un testimone di speranza, un testimone della convinzione che il destino di ogni nazione riposa nelle mani di una misericordiosa Provvidenza.

18. Dobbiamo vincere la nostra paura del futuro. Ma non potremo vincerla del tutto, se non insieme. La "risposta" a quella paura non è la coercizione, né la repressione o l'imposizione di un unico "modello" sociale al mondo intero. La risposta alla paura che offusca l'esistenza umana al termine del secolo ventesimo è lo sforzo comune per costruire la civiltà dell'amore, fondata sui valori universali della pace, della solidarietà, della giustizia e della libertà. E l'"anima" della civiltà dell'amore è la cultura della libertà: la libertà degli individui e delle nazioni, vissuta in una solidarietà e responsabilità oblative.

Non dobbiamo avere timore del futuro. Non dobbiamo avere paura dell'uomo. Non è un caso che noi ci troviamo qui. Ogni singola persona è stata creata ad "immagine e somiglianza" di Colui che è l'origine di tutto ciò che esiste. Abbiamo in noi la capacità di sapienza e di virtù. Con tali doni, e con l'aiuto della grazia di Dio, possiamo costruire nel secolo che sta per giungere e per il prossimo millennio una civiltà degna della persona umana, una vera cultura della libertà. Possiamo e dobbiamo farlo! E, facendolo, potremo renderci conto che le lacrime di questo secolo hanno preparato il terreno ad una nuova primavera dello spirito umano.
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Re: Ràça, ràsa, razza

Messaggioda Berto » sab ott 08, 2016 1:58 am

«Gandhi razzista, via la statua»
Protesta in un campus del Ghana
Il monumento al campione della non violenza rimosso in seguito a un appello firmato da oltre mille professori e studenti: «Scrisse che gli indiani sono superiori ai neri»
di Alessandra Coppola
7 ottobre 2016

http://www.corriere.it/esteri/16_ottobr ... 858a.shtml

Non violento, ma razzista: la statua di Gandhi è stata rimossa da un campus universitario del Ghana in seguito alla protesta dei professori. Oltre mille firme in calce a una petizione che dichiarava: «Meglio difendere la nostra dignità che piegarsi ai desideri della fiorente superpotenza Euroasiatica». All’appello i docenti avevano allegato citazioni in cui il Mahatma definiva gli indiani «infinitamente superiori» ai neri africani.

Il monumento era stato inaugurato a giugno, nel campus di Accra, dal presidente indiano Pranab Mukherjee, come segnale di vicinanza tra i due Paesi. Ma nel giro di pochi mesi era montata la protesta: «Prima e soprattutto eroi ed eroine africane», chiedevano professori. «Profondamente costernato» il governo del Ghana per evitare tensioni in un ambiente universitario molto sensibile alle rivendicazioni post-coloniali ha rimosso la statua, promettendo però una nuova collocazione.

La controversia sul «razzismo» di Gandhi non è nuova, si riferisce in particolare agli anni giovanili dell’allora avvocato residente in Sudafrica. Campione della lotta non violenta (che ispirato anche movimenti anti-apartheid e battaglie per i diritti civili degli afro-americani), Gandhi in realtà è stato contestato anche in India - tra gli altri, dalla scrittrice Arundhati Roy - per non aver intaccato, anzi per aver contribuito a perpetuare il sistema discriminatorio delle caste.
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Re: Ràça, ràsa, razza

Messaggioda Berto » gio gen 18, 2018 7:41 am

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Re: Ràça, ràsa, razza

Messaggioda Berto » gio gen 18, 2018 7:41 am

Appunti vari da discussioni su facebook


Esiste il genere umano e la specie/speci umana/e ed esistono anche le razze, come esistono le etnie, le famiglie, i clan, le tribù, le nazioni, le genti, i popoli, le cittadinanze, le culture, le lingue, le tradizione, le abitudini alimentari, le mitologie, le storie, le religioni. Come esistono le razze dei cani e dei cavalli così esistono anche le razze degli uomini la cui specie/speci e genere appartengono anch'essi al regno animale. La voce razza è una voce nobile, degna e neutra. Sono gli uomini a usare la parola in senso buono o cattivo.

Etnia/e + cultura/e con una certa omogeneità continentale/macro area geografica = razza. Potrebbe starci come voce-concetto. Come ci sono le razze dei cani e dei cavalli o delle vacche ci possono ben stare le razze degli uomini che sono anch'essi una specie/genere appartenente al regno animale. Secondo natura. Quello che è importante è non discriminare in senso negativo a priori e pregiudizialmente; certamente non vanno nascoste le differenze e gli aspetti negativi di chichessia siano essi bianchi o neri, gialli o rossi, bruni o olivastri.

Non cambia nulla e le differenze esistono e sono visibili come il sole e la luna. Esiste il genere umano con le sue speci ma esistono anche le razze, come esistono le etnie, le famiglie, i clan, le tribù, le nazioni, le genti, i popoli, le cittadinanze, le culture, le lingue, le tradizione, le abitudini alimentari, le mitologie, le storie, le religioni. Come esistono le razze dei cani e dei cavalli così esistono anche le razze degli uomini la cui specie e genere appartengono anch'essi al regno animale. La voce razza è una voce nobile, degna e neutra. Sono gli uomini a usare la parola in senso buono o cattivo.

Si hai ragione la suddivisione o classificazione scientifica ha questo ordine gergale:
dominio, regno, philum, classe, ordine, famiglia, genere, specie.
Questa suddivisione scientifica con il suo gergo però non impedisce l'esistenza di altre modalità distintive all'interno del genere e della specie con le loro voci/termini/parole specialistiche, gergali, comuni.

Non è il concetto di razza ma di "razza inferiore" quello che caso mai si usa per giustificare la schiavitù da parte di una "razza superiore". Ma si può dire anche popolo più forte che domina e schiavizza un popolo più debole; allo stesso modo si può usare la parola cultura o civiltà o etnia o gente o casta.

I geni sono elementi caratterizzanti e distintivi come altri: colore della pelle, tratti somatici, forma degli occhi, abitudini alimentari, lingue, tradizioni, gusti, culture, mitologie, religioni, istituzioni sociali, giuridiche e politiche ... .

Non è il concetto di razza ma di "razza inferiore" quello che caso mai si usa per giustificare la schiavitù da parte di una "razza superiore". Ma si può dire anche popolo più forte che domina e schiavizza un popolo più debole; allo stesso modo si può usare la parola cultura o civiltà o etnia o gente o casta.

Bino AG Nanni - Psichiatra
https://www.facebook.com/benigniale/pos ... 4157513346
Il concetto di "razza", anzi la stessa parola "razza" è diventato tabù a tal punto che chiunque ne parla viene tacciato di "razzismo". Eppure, sui manuali di patologia medica e di genetica, studiamo che il patrimonio genetico di certe etnie le predispone a malattie specifiche. Studiamo anche che lo stesso fattore genetico condiziona la risposta ai farmaci. A dispetto dell'utilità clinica del concetto di "razza", sembra che, ad alcuni, l'unico modo per evitare il razzismo sia non parlarne, anzi negarne l'esistenza.
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Re: Ràça, ràsa, razza

Messaggioda Berto » gio gen 18, 2018 7:52 am

Chi sono i veri razzisti?
Tutti coloro che non rispettano i Valori/Doveri/Diritti Umani Universali nel loro Ordine Naturale.



Questi:


Giornata europea delle vittime del nazismo mafioso zigano
viewtopic.php?f=150&t=2610

Nazismo maomettano = Islam = dhimmitudine = apartheid = razzismo = sterminio
viewtopic.php?f=188&t=2526

Utopie demenziali e criminali - falsi salvatori del mondo e dell'umanità
viewtopic.php?f=141&t=2593

All'Africa e agli africani non dobbiamo nulla, ma proprio nulla, niente di niente, tanto meno agli asiatici e ai nazisti maomettani d'Asia e d'Africa
viewtopic.php?f=194&t=2494

Idiozie e odio contro Israele e gli ebrei
viewtopic.php?f=197&t=2662

Europa e i diritti negati e calpestati dei cittadini nativi europei
viewtopic.php?f=92&t=2682

Parassiti, bugiardi, manipolatori dei diritti umani e ladri di vita ma che si propongono come presuntuosi e arroganti salvatori degli uomini e dell'umanità, solo che laddove questi operano spesso e volentieri la gente muore.
viewtopic.php?f=205&t=2668

I rasisti veri łi ciama rasixmo coel ke rasixmo no xe
viewtopic.php?f=25&t=1755
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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