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Non vi è giustizia e civiltà giuridica laddove non è previsto in modo automatico e assoluto il risarcimento del danno alle vittime dei crimini a cui subordinare tassativamente il tipo di pena, la quantità di pena, gli sconti, il recupero, la riabilitazione e la grazia. Non vi è giustizia e civiltà giuridica laddove si condanna più per la violazione della legge dello stato che per il danno alle vittime (tralasciando il doveroso risarcimento condizione fondamentale affinché vi sia vera giustizia).
Non vi è giustizia e civiltà giuridica nei paesi dove si violano i diritti umani, civili e politici dei cittadini in nome di inesistenti diritti umani universali dei non cittadini che invadono fraudolentemente i paesi altrui abusando delle convenzioni internazionali sul soccorso in mare e sull'asilo politico e umanitario.
Non vi è giustizia e civiltà giuridica laddove i carnefici sono fatti passare per vittime a danno delle vere vittime.
Non vi è giustizia e civiltà giuridica ladddove il perdono non presuponga e non sia accompagnato dal risarcimento.
Perché vi sia giustizia e civiltà giuridica nella condanna e nella pena è presuppposto indispensabile che essa sia basata sulla necessità e sul sacrifico del risarcimento.
La vendetta
Che ruolo ha, al di là delle enunciazioni di principio, l’istinto di vendetta? E’ realistico, o addirittura auspicabile, cercare di sopprimerlo? Delicate riflessioni giuridiche e culturali sul tema.
anno 2012
http://www.rivistadignitas.it/la-vendetta/L’Università degli studi di Milano ha recentemente organizzato una giornata di studi sulla vendetta, a cura del dipartimento Cesare Beccaria, mettendo a confronto giuristi, sociologi, antropologi del diritto e criminologi, con studiosi, operatori e studenti. Senza aver la pretesa di essere esaustivi, si ritiene quindi utile condividere per una riflessione alcuni dei più significativi argomenti trattati sul tema della vendetta, tema apparentemente così lontano dalla nostra cultura, dalla nostra etica, dalle nostre religioni cristiane e dal nostro diritto, eppure mai così attuale, per un riesame delle nostre conoscenze, delle nostre coscienze, e del progredire della civiltà nell’umano divenire. La straordinarietà dell’evento è stata di portare esperienze di studio su un tema antico come il mondo, letto e regolato nel tempo nei modi più diversi, giudicato e condannato dalla nostra sensibilità di oggi, più colta ed erudita rispetto a quella di un tempo.
II protagonista, cioè l’uomo, nelle sue istintività e nelle sue fragilità condivide, come vedremo, concetti e sapienze quando è spettatore, non altrettanto quando ne è direttamente o indirettamente protagonista.
Il primo intervento è stato quello di Eva Cantarella, storica di diritto greco e romano, la quale ha introdotto il tema analizzando il concetto di vendetta nella società come raffigurata nei poemi di Omero (IX-VIII sec. a.C.), epoca dunque precedente alla polis greca, individuando sul piano giuridico la sostituzione della consuetudine della vendetta con l’istituzione del diritto. In tale contesto, la vendetta non è un atto individuale determinato da ragioni private, come lo concepiamo lessicalmente oggi, ma un’istituzione che regola la vita sociale, e consiste nel difendere l’onore offeso, la reputazione macchiati dalla vergogna per un torto subito. In quanto tale, la vendetta era appannaggio esclusivo degli uomini, per i quali compierla era un’azione nobile e doverosa. Al contrario era preclusa alle donne, per le quali una simile istituzione non era nemmeno prevista: e infatti le donne che nel mito si facevano giustizia da sole (Medea e Clitennestra) si macchiavano di un grave reato, compiendo un atto esecrabile. La vendetta ha quindi la funzione di mantenere e regolare gli equilibri sociali e chi non si vendicasse sarebbe considerato un vigliacco.
Le motivazioni della vendetta sono di tipo etico. È regolata da norme che, se non rispettate, comportano delle precise sanzioni. I valori che vanno difesi nella società dei poemi omerici, sono il successo, il prestigio sociale dei suoi uomini, dei suoi eroi. Si tratta di una società molto competitiva dominata dalla vergogna, ove la massima virtù è la bia (forza). A ciascun individuo è attribuita una timé (onore), che è tenuto a coltivare.
Non vi è coscienza del torto o del reato come fatti socialmente sbagliati di per se stessi: si realizzano nel momento in cui la timé di un pari o di un superiore viene lesa, l’offesa essendo diversa secondo lo stato sociale dell’individuo.
In quel momento è dovere della parte lesa ristabilire gli equilibri sociali utilizzando lo strumento previsto, la vendetta (esercizio sociale della bia).
L’eroe omerico deve avere forza fisica, violenza, coraggio: deve combattere come un leone, conquistare con l’eloquenza, non tollerare alcun torto. Si pensi alla vendetta di Ulisse al suo rientro a Itaca con l’uccisione di tutti i Proci che per anni avevano insidiato Penelope. Eppure nessun uomo come Ulisse è considerato un giusto, un eroe degno di ogni ammirazione. Ancora, gli Achei assediarono Troia per vendicare il ratto di Elena, Ettore ed Achille si sfidarono a causa della morte di Patroclo, il miglior amico di Achille.
È nei poemi omerici che compare per la prima volta la poiné (compensazione in denaro o beni), sorta di indennizzo o di risarcimento per il torto subito, una rivalsa sostitutiva della vendetta, la cui accettazione impedisce l’esercizio della vendetta medesima, che è dunque alternativa.
Questo concetto, che si fa strada con lentezza, prevede che la vergogna sia pubblicamente lavata con ritualità precise. È facoltà dell’offeso accettare o meno la poiné; nel caso sia rifiutata al colpevole non resta che l’esilio per evitare la vendetta. Nel caso in cui la vendetta fosse comunque esercitata dopo aver accettato la poiné si instaurerebbe un processo contro chi ha violato tale principio.
Si ricordi nell’Iliade la vicenda di Patroclo, il migliore amico di Achille, costretto a lasciare l’isola di cui suo padre è re, perché, dopo aver involontariamente ucciso un compagno, la sua famiglia non aveva voluto accettare la compensazione (poiné).
E ancora il famoso scudo di Achille forgiato da Efesto riporta la raffigurazione di una scena in cui si sta dirimendo una disputa in merito all’avvenuto pagamento o meno della poiné, e davanti alla folla plaudente le parti altercano dinanzi a un giudice. E la prof. Cantarella evidenzia come sia questo il primo processo di cui il mondo occidentale abbia conoscenza.
Con la nascita della polis, in Grecia vengono istituite leggi scritte e nasce il Diritto, che mira a sostituire il sistema della vendetta privata, e a garantire allo Stato la totale partecipazione negli affari dei cittadini (così come i cittadini partecipavano in modo diretto e totale agli affari dellapolis). L’uso della forza fisica diventa quindi esclusivo della collettività.
Intorno al 620-21 a.C. ad Atene Draconte promulga una legge sull’omicidio, quale con cui si tenta di scardinare la vendetta. La legge distingue all’epoca tre tipi di omicidio e per ciascuno una sede giudicante e una pena specifica. L’omicidio volontario punito con la morte, quello involontario con l’esilio, infine quello in flagranza con la vendetta da parte della famiglia.
Teniamo conto che ci vollero comunque secoli dal perché la mentalità comune accettasse tali principi, ed ancora Aristotele, ricordiamolo, giudicava che la vendetta fosse coerente e concorde con le necessità razionali. E la tragedia greca, due secoli dopo Draconte, ancora canta il tema della vendetta e delle diverse opinioni sull’argomento, evidentemente ancora di grande attualità.
La tragedia attribuisce a volte alla donna il compito di dissertarne. È il caso di Elettra, nella Coefore di Eschilo, che esprime dubbi riguardo all’opportunità di compiere vendetta; ancora, nell’Elettra di Sofocle, ove viene accettata come un giusto rimedio, e nell’Elettra di Euripide, ove invece viene esecrata.
Il percorso fatto dalla Grecia antica, insomma, pare quello di allontanare l’uomo dalla vendetta privata per avvicinarlo al diritto–dovere della collettività di riconoscere il reato e di punirlo.
La seconda prolusione, dal titolo “Il linguaggio muto della vendetta” di Giuseppe Lorini, filosofo del Diritto del’Università di Cagliari, si è incentrata sulla vendetta in Barbagia, zona tristemente nota per gli efferati delitti che insanguinano Orgosolo, Orune e dintorni.
Balziamo ai giorni nostri insomma, e cerchiamo di capire il filo logico, un po’ diverso da quello omerico, che “obbliga“ moralmente (ed anche legalmente) a vendicarsi.
Lo spunto viene dagli studi fatti da Antonio Pigliaru, filosofo del diritto dell’Università di Cagliari, che alcuni decenni fa elaborò un “codice della vendetta barbaricina”, per dimostrare lo spirito propriamente normativo che ne regola in modo deciso ed inequivoco la disciplina.
È da tener presente che, al di fuori dei luoghi comuni, la vendetta è una cosa e il banditismo sardo un’altra: anche i banditi si vendicano, ma “obbligati” a vendicarsi sono tutti, a prescindere che siano banditi o meno; vediamo come e perché.
Pigliaru indica nella vendetta l’istituto giuridico fondamentale del diritto pastorale barbaricino, e nei 23 articoli del suo famoso codice individua e trascrive le norme che costituiscono il diritto consuetudinario popolare tramandato oralmente nella comunità.
La vendetta è legata all’offesa: non c’è vendetta se non c’è intenzione di offendere.
Una stessa azione può essere percepita come offesa solo in relazione all’intenzione che muove l’azione. L’abigeato (furto di bestiame) per esempio costituisce offesa solo se mira a screditare o sminuire l’offeso. In caso contrario è percepito come una legittima pratica, alla quale si risponde con un altro furto di bestiame nei confronti di chiunque
La vendetta non è un diritto ma un dovere, e nessun uomo forte può sottrarsi a tale dovere. Sottrarsi significa porsi fuori della comunità e dai vantaggi che l’appartenervi reca. Opera quindi per conto della comunità come organo che giudica chi vendica e chi non vendica.
La vendetta è di interesse pubblico, perché è nell’interesse della comunità difendersi dai soprusi, dagli illeciti, dai malfattori. Ed è un dovere morale giuridico universale, perché l’offesa colpisce non solo l’onore individuale, ma la comunità stessa intesa come agglomerato di valori tra cui prevale la forza; l’offesa rigetta l’uomo nel mondo dell’incertezza, dopo i mille e mille sforzi fatti dall’uomo per combattere contro una natura profondamente ostile.
La comunità barbaricina, per concludere, dice all’uomo offeso che se non si vendica non è, e non sarà, un uomo affidabile, ma sarà considerato moralmente miserabile perché infedele al suo paese, alla sua famiglia, alle sue amicizie e quindi a tutto ciò che dà fondamento alla sua stessa vita.
Vendicarsi, e così opporre la propria violenza all’altrui insolenza, non significa altro che partecipare alla legge ineluttabile di conservazione e progresso della vita.
Esemplificativo è l’art 19 del codice barbaricino che recita: ”Sono mezzi normali di vendetta tutte le azioni previste come offensive a condizione che siano condotte in modo da rendere lealmente manifesta la loro natura specifica”.
Da ciò emerge dunque chiaro, dice Lorini, che “se si considera un atto delinquenziale non come reato (in quanto trasgredisce una norma statuale) ma come azione omogenea ad un’organica cultura “diversa”, come un’azione prevista da un insieme di norme giuridiche “diverse”, la pena (cioè la vendetta) è legittimata da un ordinamento giuridico diverso, il diritto folklorico”.
La svolta ermeneutica di Pigliaru, dal reato alla vendetta, prende forma, e la vendetta barbaricina diventa così un atto semantico, come meglio si capisce rileggendo il passo dl filosofo del diritto Hans Kelsen (Reine Rechtslehre 1934; Lineamenti di dottrina pura del diritto, Einaudi, 2000) : ”Se si analizza uno qualsiasi degli stati di “cose considerati diritto (per esempio uno deliberazione parlamentare, una sentenza giudiziaria, un negozio giuridico, un delitto), si possono in esso distinguere due elementi: a) un atto sensorialmente percepibile che “avviene nello spazio e nel tempo, b) un senso aderente a questo atto”.
Lo stato di cose riceve il suo senso specificatamente giuridico da una norma la quale, nel suo contenuto si riferisce ad esso e ad esso conferisce quel significato giuridico, il quale consente di interpretare l’atto secondo questa norma. La norma funge da schema d’interpretazione.”….
Inoltre, le norme conclusive del codice barbaricino distinguono come nella pratica della vendetta, entro i limiti della graduazione progressiva, nessuna offesa escluda il ricorso al peggio sino al sangue, ma parimenti nessuna offesa escluda la possibilità di una composizione pacifica, allorchè il comportamento complessivo del responsabile renda ciò possibile.
La vendetta deve in ogni caso essere esercitata entro ragionevoli limiti di tempo, ad eccezione dell’offesa di sangue che non cade mai in prescrizione.
E da ultimo: l’azione offensiva posta in essere a titolo di vendetta costituisce a sua volta motivo di vendetta…
Insomma il quadro pare così completo e la vendetta è infinita.
Dopo questa testimonianza “vendicatoria” così dura ed inquietante, il criminologo Adolfo Ceretti dell’Università di Milano, ha parlato dell’esperienza nordamericana del linciaggio come vendetta pubblica.
Ha spiegato come, pur condannato, il linciaggio, organizzato da appositi comitati, abbia rappresentato fino agli anni quaranta una pratica diffusa e tollerata di cui si hanno esempi importanti, ricordando come essa rappresenti una forma di violenza collettiva legittimata dalla morale lesa: un atto di devianza, ma con funzione riequilibratrice, sostitutiva di pene previste dalla legge.
Insomma, anche nei civilissimi Stati Uniti la vendetta-linciaggio ha avuto lunga vita. Ed ancor oggi è prassi far partecipare all’esecuzione della pena di morte i famigliari della vittima: un modo esplicito per dare “soddisfazione”.
Forse non a caso,
negli Stati Uniti, con la crisi delle teorie deterrenti e riabilitative della pena, negli anni Novanta è stata teorizzata una nuova giustizia criminale, la cosiddetta “giustizia riparativa”, secondo la quale, più che punire l’autore del crimine, la giustizia dovrebbe promuovere la riparazione del danno cagionato dal delitto, e soprattutto dovrebbe promuovere la riconciliazione tra chi lo ha commesso e la sua o le sue vittime. Ne è derivato di conseguenza l’ingresso nel mondo della giustizia criminale delle vittime come attori, e una nuova considerazione data alle emozioni.
Come osserva a proposito la Cantarella, negli Stati Uniti ha preso velocemente prevalenza il sentimento di vendetta.
La giornata di studi è proseguita quindi con la prolusione dello spagnolo Ignasi Terradas Saborit dell’Università di Barcellona, il quale pone l’accento sulla distinzione dottrinale fra giustizia di tipo vendicatorio e non.
Definisce la giustizia vendicatoria come “quel procedimento che riconoscendo un’offesa crea sempre l’obbligo di ripararla, indipendentemente dal fatto che vi sia un atto vendicatorio (vendetta o castigo autorizzato dall’autorità giudiziaria)”. La vendetta può anche concorrere con un risarcimento e una pena comminate dell’autorità giudiziaria, e i procedimenti caratteristici della giustizia vendicatoria sono la riconciliazione pura senza risarcimento materiale e il risarcimento con la riconciliazione (la composizione), senza una pena afflittiva.
La nostra cultura pare aver un pregiudizio etnocentrico nei confronti della vendetta e ne rifiuta il ruolo nell’ordinamento giuridico. I valori politici ed etici associati a quelli della morale cristiana contemporanea non l’accettano e la considerano estranea all’ordinamento penale dello Stato di Diritto.
La vendetta è considerata una pulsione irrazionale che l’ordinamento giuridico deve dominare in ragione di una sua presunta superiorità razionale.
Il sistema della giustizia vendicatoria, sostiene Terrada Saborit, ha invece a ben vedere un atteggiamento più prudente e realistico rispetto alla vendetta, riconoscendola come sentimento umano inevitabile. E l’ammette come obbligo creato da un’offesa contro l’onore, contro lo status sociale, contro lo Stato. La giustizia vendicatoria riconosce la vendetta come solo rimedio all’offesa nei confronti di chi è più debole e privo di ogni difesa.
Vendetta diventa sinonimo di giustizia, coincidenza di termini cui non siamo abituati.
Quindi cos’è la vendetta nell’ordinamento vendicatorio?
Svolge una funzione molto simile ad una condanna giudiziaria nei nostri ordinamenti; esprime l’orrore per l’offesa e fa appello ad un sentimento profondo di giustizia che richiama un procedimento istituzionalizzato: accusa provata, condanna, castigo. In tal modo la vendetta risulta legittima.
Il caso paradigmatico è quello della vendetta pubblica nell’epoca moderna e contemporanea. Ma in questa ipotesi più che di concetto di vendetta nel senso da noi inteso, vengono in mente concetti quali “pagare per ciò che si e’ fatto”, “rivalersi dopo un oltraggio”.
In ogni caso l’ordinamento distingue fra vendetta conseguente ad un’offesa che legittima moralmente e giuridicamente tale atto, e vendetta esercitata con abuso di potere o come reazione, che ovviamente non ha nessuna giustificazione né morale né giuridica.
Nel sistema del giudizio vendicatorio, trasformare la vendetta in riconciliazione o accordare il perdono è molto usuale, riuscendo a conciliare il desiderio di vendetta con l’esigenza della pena di cui si fa carico lo Stato.
Se il reo si sottomette a determinati rituali che placano il furore e l’indignazione degli offesi, si ripara o compensa il male causato. Si produce così un duplice effetto morale e giuridico. La parte offesa recupera il suo onore e diventa protagonista legittimato da tutta una comunità o da un procedimento giudiziario. Riceve una considerazione di “superiorità morale” che si traduce in “diritto riconosciuto giuridicamente”. È proprio questa superiorità acquisita che dà la possibilità di riconciliarsi e concedere il perdono, perché confortata dalla solidarietà sociale e dal diritto. Aggiunge in sostanza onore o nobiltà all’offeso.
Nella nostra società, in cui tra l’altro l’individualismo rende difficile la legittimazione sociale giuridica della parte offesa che rimane sempre vittima, la pena non deriva da tale parte offesa, ma dal potere dello Stato. Anche il perdono (quando lo si cerca) è costruito da professionisti che però difficilmente riescono a creare una solidarietà sociale. Per cui, continua Terradas Saborit, ciò che lo Stato presenta alla parte offesa raramente è efficace nel campo morale e giuridico: la pena non soddisfa il bisogno di vendetta, né il processo dà alla vittima un nuovo potere sociale che derivi dalla sua forza o dalla sua bontà.
Per queste ragioni nelle società con ordinamenti vendicatori (attualmente principalmente quelli di diritto islamico) risulta più facile la composizione della lite e il perdono.
E, per paradosso, la vendetta come la intendiamo noi, come atto irrazionale e incontrollato, è meno diffusa negli ordinamenti vendicatori che nei nostri.
La ragione è da ricercarsi negli abusi che nel passato monarchie e tribunali speciali (l’Inquisizione) hanno fatto della vendetta pubblica. In effetti il supplizio e la tortura sono più vicini alla vendetta crudele e sproporzionata di quanto lo sia la vendetta nelle faide della Barbagia di cui si è visto prima.
In effetti, negli Stati Uniti, paese considerato un faro di civiltà, si difende ancora la pena di morte soprattutto per soddisfare il desiderio di vendetta dei familiari. Con la stessa motivazione talvolta si giustifica la tortura o altri trattamenti incivili nelle carceri dei nostri paesi.
La richiesta di nuove pene, inasprimenti e persecuzioni poliziesche e giuridiche continuamente sollecitati dal populismo penale attuale obbediscono più a questo desiderio di vendetta che a un’effettiva riparazione per la vittima e i suoi familiari, o ad altre finalità pur previste dai nostri princìpi giuridici.
Da ultimo sono intervenute due esponenti dell’Università di Foggia, Patrizia Resta e Francesca Scionti, come testimoni di regimi vendicatori a noi molto vicini, rispettivamente quello albanese e quello della faida garganica, entrambi di assoluta attualità.
Si tratta di norme che rimangono vive nella cultura e nella tradizione, pur essendo “vietate“ da norme dello Stato. Esse mirano a ridurre la violenza a mera violenza difensiva, e il perdono viene riconosciuto sempre e comunque come il mezzo per superare il conflitto. La vendetta è solo un mezzo per rispondere alla violenza. L’ingiustizia si vendica o si perdona. Lo scopo è di nuovo quello di eliminare il conflitto alla radice togliendo spazio all’arbitrio del più forte.
Nell’opinione corrente e superficiale è radicata la convinzione che le forme di vendetta codificata dimostrino una ferocia brutale e crudele della società che le pratica.
Nel caso albanese sono invece molti gli esempi di vendetta come obbligo della famiglia nei confronti di una società profondamente ingiusta ove l’aggressività è molto elevata. Si tratta dunque di una legge che cerca gli strumenti per ridurre la violenza non per alimentarla: la vendetta è una soluzione estrema e comunque di violenza meramente difensiva.
Il perdono è considerato la più sacra delle virtù per un uomo: al primo gradino sta l’uomo che sa resistere al male, soffre e sopporta eroicamente, al secondo colui che sa uscire dal male senza creare conflitti e guerre, all’apice il superuomo è colui che al male risponde col perdono. Il perdono è redenzione per tutti.
La riconciliazione è un altro istituto fondamentale della tradizione giuridica albanese, serve per ristabilire la pace ed è sempre legata al perdono. E’ questo l’aspetto riparativo della giustizia; dove la vendetta è invece l’aspetto retributivo o ritorsivo. Entrambi dunque convivono nello stesso sistema e si applicano diversamente in relazione al diverso caso in esame.
Non è questa la sede per fare degli approfondimenti tecnici etici o giuridici sugli spunti offerti dalla giornata di studio di cui abbiamo voluto dar conto, con le brevi note sopra riportate. L’argomento generale merita invece qualche riflessione.
Viene infatti spontaneo cercare rifiutare certi concetti sopra espressi, appropriarci di altri, e dare a noi stessi comunque, pur sommariamente, una risposta agli interrogativi che queste note ci suggeriscono; cercare di riaffermare almeno in noi stessi e nelle nostre più intime convinzioni, i grandi passi avanti che culturalmente l’uomo ha fatto nel corso del tempo in tema di giustizia, di vendetta e di pena .
È interessante e istruttivo recuperare, indelebili nella nostra memoria culturale, personaggi letterari famosi, che hanno in modi diversi trattato questi argomenti.
Pensiamo a Dante e alla sua legge del contrappasso, per cui i dannati dell’Inferno vengono puniti diversamente a seconda del peccato di cui si sono macchiati in vita. Chi non ricorda la metafora della morsa ghiacciata del lago in cui sono costretti i due traditori e vendicatori per eccellenza, il conte Ugolino e l’arcivescovo Ruggeri. Il contatto forzato e costante con la fonte e l’oggetto dell’odio ha il risultato di alimentare all’infinito il desiderio di vendetta: il vendicatore non si sentirà mai appagato e “congelerà” la sua azione per sempre in quella morsa distruttiva da cui non ne uscirà più.
A Rigoletto di Verdi con la sua famosa aria “si vendetta, tremenda vendetta di quest’anima è solo desio”.
Ad Alexandre Dumas col suo Conte di Montecristo e alla sua serie lucida e scansita di vendette di Edmond Dantes.
A Shakespeare col suo Amleto e al dramma della sua vendetta per la morte del padre.
O ancora sovvengono alla memoria aforismi celebri sulla vendetta: ricordiamo Leopardi, nello Zibaldone ”il sentimento della vendetta è così grato, che spesso si desidera d’essere ingiuriato per potersi vendicare, e non dico già solamente da un nemico abituale, ma da un indifferente, o anche, massime in certi momenti d’umor nero, da un amico.”
Ricordiamo ancora La Rochefoucauld, nelle Massime, “La vendetta procede sempre dalla debolezza dell’animo, che non è capace di sopportare ingiurie”.
E ancora Henry Becque, in Note d’album, “Con l’avanzare dell’età, ci rendiamo conto che la vendetta è ancora la più sicura forma di giustizia”.
E Max Horkheimer e Theodor Adorno, in Dialettica dell’Illuminismo, “il diritto è la vendetta che rinuncia”.
E Marco Aurelio, in Pensieri, “Il miglior modo di vendicarsi di un’ingiuria e il non rassomigliare a chi l’ha fatta”.
E Paul Jean Toulet, in I tre impostori, “spesso il perdono non è che una forma di vendetta”.
Infine, Christian Wernickein Uberschriffte, “Il perdono è la vendetta della saggezza”.
Insomma, la vendetta è un sentimento proprio dell’uomo che anche la Bibbia menziona con “Occhio per occhio dente per dente” e Gesù corregge nel Discorso della Montagna, “Ma io vi dico: non vendicatevi contro chi vi fa del male”. È un sentimento che la nostra cultura oggi dichiaratamente non vuole accettare più e condanna in ogni sede e in ogni modo (anche il c.d. delitto d’onore già ammesso per ragioni passionali nel nostro Codice Penale, è stato cancellato non molti anni fa). Eppure: convinzione comune è che la pena detentiva debba essere afflittiva per il reo (che cioè deve soffrire, come in una vendetta, per il male che ha fatto) e debba essere modulata secondo la gravità del reato/reazione collettiva). E’ presente in modo vistoso nelle dolorose e a volte sanguinose conflittualità legate alla separazione e al divorzio: l’odio verso il coniuge traditore può andare dalla distruzione dei beni all’uso strumentale dei figli, fino alle lesioni e all’omicidio.
Persino la Psichiatria e la Criminologia di oggi vedono nella vendetta uno dei quattro moventi principali criminogeni, insieme con il piacere, l’odio e il vantaggio personale. È la frustrazione narcisistica subìta, l’insopportabile ferita nell’orgoglio che scatena la vendetta.
Più o meno consapevolmente tutti siamo vittime di deboli o forti impulsi emotivi di vendetta. Il torto subito va restituito e il bisogno di narcisismo che è in ognuno di noi e che non viene contenuto dalla ragione, è attivato da una sofferenza che può essere sublimata solo con il perdono, cioè con un meccanismo psicologico di difesa con il quale l’io riesce a controllare gli impulsi distruttivi. L’imbarazzo, la vergogna sono spesso motori che attivano la vendetta. L’orgoglio ferito non considererà mai l’offesa sufficientemente ripagata e ciò provocherà una sofferenza continua, come nel caso del conte Ugolino. Esempio mirabile del dubbio sull’opportunità o meno della vendetta è nelle parole di Amleto che non sa se vendicarsi o meno contro lo zio per la morte del padre.
La società, dicevamo, chiede oggi a chi ha subito un torto di razionalizzare i suoi impulsi vendicativi. L’educazione religiosa chiede una moralizzazione degli impulsi e degli istinti, e la vendetta finisce così con l’essere espressione punitiva della giustizia collettiva.
Secondo le attuali regole sociali, è “vendetta” quando la giustizia ha carattere privato e la persona agisce in proprio. E’ invece “giusta punizione” la vendetta praticata e amministrata da terzi in nome di tutti, insomma quella praticata dalla Giustizia con la G maiuscola.
Manifestazione innata dell’aggressività umana la vendetta risponde all’innata esigenza di ristabilire un equilibrio alterato da un crimine. Nell’evoluzione delle dinamiche sociali la società si è fatta carico di rispondere a quest’esigenza e nacquero così i Tribunali. Così la ritorsione non è più del singolo individuo ma è in nome della collettività. Così si finisce coll’affermare che le Leggi e il Diritto controllano e reprimono i comportamenti antisociali. Da qui la pena, modulata a seconda della gravità del reato.
Cesare Beccaria è passato alla Storia invano per predicare che la pena deve’essere riabilitativa e rieducativa. La Giustizia, la Società e l’uomo non hanno ancora fatto proprio “Dei delitti e delle pene” (1756 sic!)?
Alcuni l’hanno letto, di questi parte l’hanno capito, il legislatore ha anche scritto delle norme in merito, ma nessuno le applica. Di fatto la pena è soprattutto retributiva. Il risultato è sotto gli occhi di tutti.
La giornata conclusiva della quarta Conferenza Mondiale di Science for Peace, movimento di cui l’oncologo Umberto Veronesi è fondatore e Presidente, si chiude lanciando un appello contro l’ergastolo. Punizione che condanna l’uomo a vivere senza futuro, senza emozioni né creatività né speranza. Come atto di civiltà e come passo concreto per una società più equa più sana più pacifica. Beccaria aveva insegnato che il reato si combatte “riabilitando il reo.” Veronesi dice: “Gli anni di prigione di per sé possono darci un cittadino ravveduto e rieducato attraverso un percorso di acquisizioni culturali e approfondimenti psicologici. Il che significa farlo studiare, leggere, laureare e insegnare se possibile. Può anche diventare membro del parlamento”.
La nostra Costituzione è in linea con questi principi, basta leggere l’art. 27, ma non si applicano.
La pena nel nostro paese oggi non appare invece, da tutto quanto abbiamo sopra considerato, solo vendicativa e nell’accezione fra le più afflittive?