IL FALSO MITO DELLA POVERTÀ COME VALORE E LA PROPRIETÀ PRIVATAScrive Stefano Burbi
https://www.facebook.com/groups/8991042 ... 5899071076 Il settimo Comandamento dice perentoriamente “Non rubare” ed il decimo amplia il concetto “Non desiderare la roba d’altri”, come dire, non devi nemmeno pensare di poter desiderare ciò che non ti appartiene, figuriamoci rubare!
Si potrà ben capire che l’idea di proprietà privata, ben viva fin dai tempi dell’uomo di Neanderthal, è stata messa nero su bianco da nostro Signore in persona sul Monte Sinai, e questo, in ogni contestualizzazione possibile e con ogni interpretazione che si voglia.
Eppure c’è ancora chi demonizza le ricchezze e vorrebbe una Chiesa povera perché pensa che Cristo fosse povero: un colossale errore che evidentemente non si ha interesse a correggere per ragioni ideologiche e politiche, ma non certo spirituali.
Se tutti fossimo poveri, chi aiuterebbe i poveri? Se la Chiesa fosse davvero povera, come qualcuno, irresponsabilmente, vorrebbe, come farebbe ad aiutare i poveri? Dovrebbe sperare che qualcuno, ricco, lo facesse, ma se la ricchezza è peccato, dovrebbe allora sperare che qualcuno pecchi e, così facendo, accumuli le ricchezze necessarie per eliminare la povertà, che però si cerca di spacciare come valore. Insomma, un bel controsenso, un vero e proprio corto circuito di un mondo strampalato che però qualcuno vorrebbe imporci.
Ma Gesù era povero? No, nel modo più assoluto, e per saperlo, basta saper leggere il Vangelo.
Giuseppe era un falegname, un artigiano, categoria di rilievo nella società ebraica, perché, come Dio plasmò il mondo con le sue mani, un artigiano può piegare la materia alle forme, imitando così l’azione del Signore. Certamente Giuseppe era benestante, se proprio vogliamo escludere che fosse ricco e Maria proveniva da una famiglia agiata, come ci narrano i Vangeli apocrifi: suo padre Gioacchino era infatti “molto ricco”, quindi nemmeno la famiglia della madre di Gesù se la passava male economicamente, con buona pace dei pauperisti moderni.
La famiglia di Gesù era benestante, quindi Gesù era, a sua volta, benestante, ovviamente senza pensare ai moderni standard che tale termine oggi evoca.
Gli stessi Re Magi portarono alla grotta ricchezze dai loro paesi, oro, incenso e mirra e questi doni furono ben accetti.
Quando poi Gesù fu crocifisso, i soldati divisero le sue vesti, perché la tunica del Cristo era preziosa ed intessuta in modo perfetto, ed un povero non se la sarebbe certo potuta permettere. L'idea di una cassa comune per far fronte ai propri bisogni e a quelli dei meno abbienti è già presente nel Vangelo, ed è citata da Giovanni. “Maria allora prese trecento grammi di profumo di puro nardo, assai prezioso, ne cosparse i piedi di Gesù, poi li asciugò con i suoi capelli, e tutta la casa si riempì dell’aroma di quel profumo. Allora Giuda Iscariota, uno dei suoi discepoli, che stava per tradirlo, disse: «Perché non si è venduto questo profumo per trecento denari e non si sono dati ai poveri?». Disse questo non perché gli importasse dei poveri, ma perché era un ladro e, siccome teneva la cassa, prendeva quello che vi mettevano dentro”.
La proprietà privata non è un furto, è sempre esistita e Gesù non l’ha mai condannata né tanto meno demonizzata.
Sta a noi far fruttare i talenti della parabola evangelica ed usare bene quello che raccogliamo. Del resto “ama il prossimo tuo come te stesso” è un comandamento molto chiaro, dove il prossimo è il ricco ed il povero, e se si ama il prossimo, non lo si deve far piangere solo perché è ricco. Anche perché se piange il ricco, è molto probabile che pianga anche il povero: anzi, forse di più.
Settimo: non rubare, a meno che tu non sia lo statoAurelio Mustacciuoli
di Aldo Colosimo
https://libplus.it/settimo-non-rubare-a ... -lo-stato/ SETTIMO: NON RUBARE, A MENO CHE NON TU NON SIA LO STATO
(Lo statalismo si fa religione)
La fine di una religione millenaria e il suo decadimento in ideologia politica è pur sempre un fatto che suscita sconcerto e che non può lasciare indifferenti neppure in una prospettiva liberale, per le implicazioni di questo processo nei rapporti tra i membri di una comunità, non solo per la diffusa adesione delle persone a tale credo religioso, ma anche per le storiche interferenze tra credo religioso, autorità religiose e autorità statali, per la connaturata tendenza dei seguaci di una religione ad esercitare pressione affinché le loro regole morali vengano trasfuse in regole giuridiche, come tali suscettibili di applicazione coercitiva da parte dell’apparato statale anche nei confronti di chi non le condivide e non ne riconosce il valore morale.
Anche nella prospettiva del terzo agnostico, non c’è nulla di più deprimente e sconcertante che assistere alla scena di un pastore che fa sbandare il proprio gregge disorientato, indicandogli una direzione opposta a quella tenuta fino a poco tempo prima. E ciò nel tentativo sconcertante di piegare ad un’ideologia politica collettivista un credo religioso che pure ha avuto una grande importanza nell’affermazione della centralità dell’individuo anche contro lo stato. Per questo credo che la presa di posizione di ieri dell’attuale pontefice contro i cardini del liberalismo non possa essere ignorata ma, anzi, meriti molta attenzione.
Così, dopo duemila anni, siamo arrivati al punto in cui il discendente di San Pietro arriva ad affermare: «Il diritto alla proprietà privata si può considerare solo come un diritto naturale secondario e derivato dal principio della destinazione universale dei beni creati, e ciò ha conseguenze molto concrete, che devono riflettersi sul funzionamento della società. Accade però frequentemente che i diritti secondari si pongono al di sopra di quelli prioritari e originari, privandoli di rilevanza pratica. (…) La tradizione cristiana non ha mai riconosciuto come assoluto o intoccabile il diritto alla proprietà privata».
Quest’ultima frase è illuminante e lascia letteralmente basito chi ricorda la costituzione Gaudium et Spes di San Giovanni XXIII, del 7 dicembre 1965, con la quale si intendeva definire quale atteggiamento la Chiesa dovesse assumere verso il mondo e gli uomini. Ebbene, il quel documento l’allora discendente di San Pietro affermava il principio del primato dell’uomo, vale a dire la centralità del singolo rispetto allo Stato ed alle altre forme di organizzazione sociale. Un principio che, del resto, rispecchia molto bene l’atteggiamento di Cristo nel corso della sua vita terrena come è raccontata nei Vangeli.
Da tale impostazione, si diceva, scaturisce il principio che il benessere della persona permette e fa crescere quello dell’intera società e non il contrario. Quando l’uomo è asservito allo Stato, vede contrarsi significativamente la propria dignità, fino, in casi estremi, alla sua completa eliminazione, allorché gli vengano negati i diritti fondamentali, maxime la libertà, tra le quali quella religiosa.
Ebbene, ci interessa in particolare qui ciò che viene detto nella seconda parte della Gaudium et Spes, al capitolo III, si tratta, tra l’altro, di alcuni principi che regolano la vita economico-sociale, che offrono spunti di riflessione per la loro attualità. Al punto 71, nello specifico, si fa riferimento al dominio privato dei beni: “La proprietà privata o un qualche potere sui beni esterni assicurano a ciascuno una zona indispensabile di autonomia personale e familiare e bisogna considerarli come un prolungamento della libertà umana. Infine, stimolando l’esercizio della responsabilità, essi costituiscono una delle condizioni delle libertà civili. Nonostante i fondi sociali, i diritti e i servizi garantiti dalla società, le forme di tale potere o di tale proprietà restano tuttavia una fonte non trascurabile di sicurezza”, al punto che “la proprietà privata ha per sua natura anche un carattere sociale“.
Contrariamente a quanto affermato ora dall’ultimo discendente di San Pietro, dunque, appare quantomeno sbrigativo e superficiale l’assunto secondo cui la Chiesa avrebbe sempre considerato la proprietà privata come un diritto naturale “secondario. Al contrario risulta invece che la Chiesa considera(va) la proprietà privata come “indispensabile” per assicurare l’autonomia personale e familiare; uno stimolo all’esercizio della responsabilità, una condizione essenziale delle libertà civili. Se la proprietà privata è – come in effetti riteniamo che sia – tutto ciò, evidentemente la stessa deve essere considerata un diritto intangibile.
Peraltro, il corto circuito dottrinale ed ideologico forse si avvertiva già prima dell’attuale pontefice nel Catechismo della Chiesa Cattolica elaborato tra il 1992 ed il 1997, in cui (ai punti n. 2402 e seguenti) si attribuiva espressamente allo stato il diritto ed il dovere di intervenire per piegare la proprietà privata al solito fumoso “bene comune”, che sembra coincidere con la presunta “destinazione universale” dei beni terreni. Niente di più lontano di quanto affermato nei Vangeli e negli stessi insegnamenti di San Giovanni XXIII. Il “bene comune”, come sappiamo, storicamente è sempre stato il cavallo di Troia delle ideologie collettiviste per annientare proprio le libertà individuali che invece, almeno nelle affermazioni di principio, fino a ieri la stessa chiesa cattolica affermava di voler riconoscere.
Ed allora sorgono i dubbi: se, come si legge nel catechismo della chiesa, il c.d. “bene comune” coincidesse con la “destinazione universale dei beni creati” (?), lo stato sarebbe dunque lo strumento di dio e della chiesa per far rispettare questa destinazione peraltro nota solo al divino? Non solo: lo stato e i politici sarebbero i custodi dell’interpretazione di quale sia la corretta “destinazione universale dei beni creati”? È chiaro che ciascuno di questi interrogativi fa venire l’orticaria al ricordo dei regimi autoritari nei quali i governanti si ergevano ad interpreti della volontà di dio ed in nome della stessa compivano i peggiori crimini contro gli individui e le loro libertà.
In questo corto circuito dottrinale a mio avviso si manifesta il senso di debolezza di una religione morente, che si svilisce al punto di affidare all’autorità ed alla coercizione dello stato ed all’arbitrio del potere politico il compito di giudicare quale sarebbe il livello di libertà individuale tollerabile e le forme di utilizzo dei beni che sarebbero graditi a dio in quanto conformi ad un presunto “bene comune” o ad una “destinazione universale dei beni”. In tal modo arrivando a giustificare l’appropriazione dei beni altrui … per volontà dello stato ed attraverso i suoi esponenti, a ciò legittimati dalla chiesa cattolica. Una specie di deroga al settimo comandamento purché autorizzata dallo stato, depositario a prescindere del “bene comune” e benedetto dal sacro crisma.
Nessuna novità in una prospettiva laica, si potrebbe dire, se non fosse per il fatto che questa religione morente dispone ancora di enormi … proprietà private e di forte influenza politica in grado di provocare ancora gravissimi danni, prima di estinguersi definitivamente per implosione nelle sue stesse contraddizioni.
Nel frattempo, certamente fa riflettere che un pontefice abbia scelto di svilire la chiesa che gli era stata affidata trasformandola da religione “cattolica” che parla alle coscienze degli individui in una “nuova religione” dello statalismo, che tenta di dare una giustificazione divina e metafisica alle azioni dei membri dell’apparato dello stato. Azioni che, con la coercizione della legge benedetta dalla morale, fanno scempio di tutto: delle libertà, delle aspirazioni, degli stimoli al progresso che vengono dall’azione e dalla cooperazione volontaria degli individui secondo i principi della responsabilità individuale. Scempio sanguinoso compiuto sull’altare di un presunto e sfuggente “bene comune” superiore ed astratto rispetto a quello degli individui, interpretabile a piacimento dal potente di turno e gradito a dio, se così vuole il suo rappresentante in terra.
Una sorta di chiesa che si svilisce al punto di diventare un grigio “ufficio di certificazione divina” dello stato e delle azioni (violente) di mortificazione dell’individuo e del merito; di sfiducia verso la cooperazione volontaria tra le persone della che fino ad oggi hanno dato risultati fallimentari e disumani; di esproprio dei beni in nome di una presunta redistribuzione “più equa” (?) delle ricchezze, nella pretesa di sostituirsi addirittura a dio per rendere tutti uguali. Quel dio che, si legge al contrario in altre parti, ci avrebbe voluti e creati “unici” e, dunque, ognuno diverso e disuguale dall’altro. Un gran mal di testa, insomma.
La novità, dunque, è che nonostante i fallimenti clamorosi del passato, i sudditi adoratori dello stato – fattosi – chiesa dovrebbero sottomettersi incondizionatamente a tali azioni violente nei confronti degli individui, in nome di una altrettanto sfuggente “destinazione universale” che i beni avrebbero, in quanto creati da una divinità o riconducibili ad essa. Compresi i beni che sono il frutto del lavoro, dell’ingegno, dell’operosità, del coraggio e della cooperazione degli individui, anche di coloro che, nel rispetto della propria libertà religiosa e di coscienza, credono che la “destinazione universale dei beni” sia, molto laicamente, quella di servire al soddisfacimento dei bisogni degli uomini, di essere trasformati dal lavoro degli uomini per crearne di nuovi, di accrescere il benessere dei singoli e delle loro comunità attraverso lo scambio.
In definitiva, quale apporto al miglioramento della condizione umana su questa terra potrebbe dare una religione dello statalismo e del collettivismo con l’alone divino, se già sappiamo quanta morte e miseria ha provocato e può provocare giorno per giorno questa dottrina?
L'esproprio proletario di Bergoglio1 dicembre 2020
https://loccidentale.it/lesproprio-prol ... toccabile/ Se i più papisti del Papa pensavano che le preoccupazioni seguìte all’enciclica “Fratelli tutti” su una serie di aspetti, e fra questi la critica al concetto di proprietà privata, fossero le solite operazioni false e tendenziose dei cattolici non allineati alla Revolucion bergogliana, eccoli serviti. In un messaggio alla Conferenza internazionale dei giudici membri dei Comitati per i diritti sociali di Africa e America, Francesco lo ribadisce chiaro e tondo. Anzi, per restare in tema, papale papale: “Costruiamo la giustizia sociale sulla base del fatto che la tradizione cristiana non ha mai riconosciuto come assoluto e intoccabile il diritto alla proprietà privata”. Per Bergoglio, “il diritto alla proprietà è un diritto naturale secondario derivato dai diritti di cui tutti sono titolari, scaturito dai beni creati. Non vi è giustizia sociale in grado di affrontare l’iniquità che presupponga la concentrazione della ricchezza”.
Affermazioni assai scivolose, soprattutto se inquadrate nel contesto di un discorso che così esorta i giudici dei Comitati per i diritti sociali dei due continenti: “Nessuna sentenza può essere giusta, nessuna legge legittima se ciò che generano è più disuguaglianza”. Con tanto di invito finale a lottare “contro quanti negano i diritti sociali e lavorativi. Lottando contro quella cultura che porta a usare gli altri, a schiavizzare gli altri e finisce col togliere la dignità agli altri”.
Al netto di ovvietà come il rifiuto della schiavizzazione e della negazione dei diritti, che difficilmente potrebbero essere non condivise, un approccio per metà da socialismo reale in salsa sovietica e per metà da madurismo venezuelano, che alla valorizzazione dei talenti e all’etica del lavoro e della fatica quale strumento di realizzazione personale sembra preferire un rivendicazionismo redistributivo che come modello economico non ha fin qui dato grande prova di sé. Come proprio la storia di quel terzo mondo al quale Bergoglio si rivolge e al quale sembra guardare quasi come fonte di ispirazione dovrebbe invece dimostrare.
Insomma, dopo la patrimoniale di cui si sente parlare in casa nostra, l’esproprio proletario. Un passo avanti verso quella “Francesconomics” i cui contorni sono sempre più chiari e della quale ci occuperemo più diffusamente nei prossimi giorni. Intanto limitiamoci a rispondere attraverso la Dottrina sociale della Chiesa e la miliare enciclica “Rerum Novarum” di Leone XIII, rifacendoci alle osservazioni formulate su questo giornale dal professor Stefano Fontana a commento della “Fratelli tutti”.
Per quanto riguarda la concezione di disuguaglianza e inequità che per Francesco è la causa di tutti i mali, “quando la disuguaglianza è frutto dell’ingiustizia – scrive Fontana – va combattuta come ingiustizia. Ma quando la disuguaglianza è frutto o della natura o dell’impegno personale allora è una ricchezza per tutti. Anche la Rerum novarum di Leone XIII lo diceva, mettendo in guardia dalle utopie egualitariste che producono danni infinitamente maggiori di quelli che vorrebbero evitare. C’è il rischio che dalla valutazione della proprietà privata che papa Francesco esprime nell’enciclica derivino forme di statalismo populista, di pauperismo egualitario, di assistenzialismo deprimente. Bisognerebbe tornare a parlare di giustizia e non di diseguaglianza, ma per farlo bisogna superare le insufficienti dottrine moderne dell’equità (come per esempio Rawls) per tornare al concetto denso di bene comune”.
Quanto invece alle considerazioni critiche sulla proprietà privata, già formulate nella “Fratelli tutti”, la Dottrina sociale della Chiesa – ricorda il professore “ha sempre difeso il diritto naturale alla proprietà privata, frutto del lavoro, garanzia di vera libertà, tutela della famiglia, fattore propulsore dell’economia perché, diceva Leone XIII, uno si impegna di più sul suo che in quello degli altri. Il diritto naturale alla proprietà privata non contrasta con l’altro principio della destinazione universale dei beni e non ne è sottoposto e condizionato, come sembra sostenere papa Francesco. Sono sullo stesso piano o, si può dire, sono lo stesso principio. Infatti c’è un unico modo per realizzare in modo giusto e naturale la destinazione universale dei beni: diffondere la proprietà privata, che va ampliata e non ridotta, esaltata e non vilipesa, convenientemente valorizzata da un contesto etico e culturale veramente umano, ma non ridotta a questione marginale di una economia centralizzata”.
Più chiaro di così…
Quando per Papa Francesco la proprietà privata non è un furtoRuggiero Capone
4 dicembre 2020
http://www.opinione.it/editoriali/2020/ ... a-sudditi/ I fedeli s’aspettavano che Papa Francesco urlasse “basta con la creazione di debiti”. Invece il vicario di Cristo (questo asserisce di essere, parafrasando Ponzio Pilato) ha detto che “la proprietà privata non è un diritto inalienabile se genera disuguaglianza”: affermazione sibillina perché quel “se genera disuguaglianza” si presta a molteplici interpretazioni, soprattutto non chiarisce il limite oltre il quale l’arricchimento d’un essere umano genererebbe l’angheria economica e lavorativa (schiavistica) sui propri simili.
??? Invece l’illustre predecessore Karol Józef Wojtyla (Giovanni Paolo II) chiedeva di condonare i debiti (soprattutto per la sua Polonia) e subiva l’attentato, Aldo Moro tendeva una mano alle intese internazionali sullo stop al debito (l’operazione 500 lire) e veniva ucciso, John Fitzgerald Kennedy aveva il grande sogno del “basta con la creazione di debiti” e veniva assassinato. Si potrebbero fare altri esempi, ma valgano per tutti le minacce che gli 007 finanziari (già riuniti sul Britannia) rivolsero alla famiglia di Bettino Craxi (la storia è nel dossier steso da Rino Formica) perché il leader socialista non si difendesse raccontando al mondo il ricatto della speculazione finanziaria internazionale rivolto all’Italia da George Soros e compari. ???
??? Papa Francesco è certamente gradito (e legato a fil doppio) al sistema delle élite che vanta crediti verso l’umanità intera. In precedenti articoli lo scrivente ha dimostrato come i debiti (ieri supportati da pezzi di carta ed oggi da tracciabilità informatica) si costruiscano con calcoli e manovre di matematica finanziaria: il virtuoso alternarsi e compensarsi di anatocismi e signoraggi. La creazione di debiti ha contrassegnato dal 1945 ad oggi la nuova politica coloniale dei Paesi ricchi verso quelli poveri: oggi a Paesi e nazioni si sono sostituiti i gruppi sovrannazionali finanziari, governati da élite che vantano parenti nel Fondo monetario internazionale e nella Banca mondiale. I potenti di oggi usano l’ingegneria finanziaria per non affrancare mai dalla schiavitù i poveri. Papa Francesco viene costantemente aggiornato circa il debito dei poveri del pianeta verso i ricchi. Oggi il debito dei popoli verso i potenti della terra è divenuto insostenibile, prima dell’epidemia da corona virus era di 253mila miliardi di dollari (322 per cento del Pil mondiale), nei primi mesi di lockdown è aumentato d’un ulteriore trenta per cento. L’indebitamento dei poveri aumenta perché le multinazionali (chimico-farmaceutiche, energetiche, di telecomunicazione, finanziarie, di security) di proprietà dei potenti della terra hanno dimostrato in consessi internazionali che, i loro crediti sarebbero aumentati, e che la gente deve loro ancora più soldi. I governi (retti da camerieri delle élite) avallano che la gente è ancora più indebitata verso i potenti della terra: quindi sottoscrivono impegni sull’incrementato debito. Sembra non esista più un governo in grado d’opporsi al signoraggio imposto dal potere. ???
Dal canto suo, il potere sostiene di averci donato la pace, che dal 1945 l’Europa non conoscerebbe più guerre grazie alle organizzazioni sovrannazionali ed alle società multinazionali. Un barattato, pace in cambio di schiavitù, che l’utopia socialista (Robert Owen, Charles Fourier, Karl Marx, Friedrich Engels) aveva già presagito come contromossa del capitalismo. I dati sull’indebitamento dei poveri verso i ricchi non vengono certo sparati a casaccio, sono in bella vista grazie al Grafinomix di giornata, basato sulle fonti finanziarie dell’Institute of financial finance. Nel 2020 è arrivata la pandemia, e le strutture multinazionali hanno presentato il conto globale a tutti i cittadini del pianeta. Oggi non c’è più uno steccato che divida poveri dei Paesi poveri da poveri dei Paesi ricchi. Il nuovo programma d’indebitamento globale punta sull’incremento di debito dei singoli individui verso il potere. Così il nuovo incremento debitorio mette insieme le famiglie di basso reddito di Belgio, Finlandia, Italia, Spagna, Francia, Libano, Nuova Zelanda, Nigeria, Norvegia, Svezia e Svizzera. L’obiettivo dei gruppi d’ingegneria finanziaria è creare nuovi massimi per il debito, quindi alzare l’asticella. I potenti della terra non parteggiano per Usa o Cina, Europa o Russia: sono strutture sovrannazionali che, grazie ai contratti (infilati nelle pieghe di trattati e poi di leggi) possono legalmente controllare gli stati attraverso banche e multinazionali. Il loro strumento principe si chiama “bond”, a fine 2020 (quindi ora) vanno in scadenza titoli da rifinanziare per un controvalore di ventimila miliardi di dollari: spalmati tra Cina, India, Brasile, Usa, Giappone, Germania. Gli Stati per pagare i debiti verso i potenti della terra dovranno tagliare servizi (pensioni, sanità), posti di lavoro, stipendi ed opere infrastrutturali.
Nel momento in cui il debito dei popoli verso il potere è del 322 per cento del Pil mondiale, il creditore teme di non poter più riscuotere.
Così un dubbio faustiano attanaglia chi ha in pugno il contratto. Quindi il potere si chiede: cosa posso prendere in cambio del danaro? La risposta immediata è nel resettare patrimonialmente l’intero pianeta. Una operazione similare era stata sperimentata nella Francia della Rivoluzione, quando i patrimoni trasferibili per solo censo aristocratico vennero espropriati e messi a disposizione della nuova classe dirigente, la borghesia. Ma, per poter oggi abolire la proprietà privata (beni immobili e beni soggetti a registro, e collettivizzare il risparmio individuale) necessiterebbe un accordo in consessi internazionali che convinca i singoli stati ad abolire i diritti di proprietà nelle costituzioni nazionali. Le élite pensano di risolvere il problema abolendo mondialmente la proprietà privata, ma concentrando comunque controllo e diritti sui beni terreni in un unico fondo planetario. L’idea, davvero utopica, veniva per la prima volta paventata da George Soros nel 1970, due anni dopo la sua invenzione degli “hedge fund”: il cosiddetto “sistema finanziario buono” che convinse moltissimi hippie sessantottini a trasformarsi in yuppies finanziari di successo. Ora che il pianeta è ancor più bruciato dai debiti, gli stessi tentano di reinterpretare Marx ed Engels, e questa volta lo fanno raccontandoci che c’è in “dispotismo asiatico buono” e che poggia su una “assenza della proprietà privata…chiave della pace per i popoli”. Così i neo-sofisti di oggi reinterpretano il Manifesto del Partito Comunista del 1848, e tornano ad asserire una “abolizione della proprietà privata”. Ieri i padri fondatori del “socialismo scientifico” auspicavano il ricorso alla coercizione per la decisa concentrazione del potere nelle mani dello Stato, mentre i pensatori di oggi vedrebbero le proprietà private (per il bene dei popoli) in mano ad un unico fondo planetario.
Nel 2020 Papa Francesco è stato convinto della bontà di queste idee, così s’è lanciato nel messaggio (rilasciato durante il summit per Sud America e Africa) di “costruire una nuova giustizia sociale partendo dal presupposto che la tradizione cristiana non ha mai riconosciuto come assoluto e intoccabile il diritto alla proprietà privata. Il diritto di proprietà è un diritto naturale secondario derivato dal diritto che hanno tutti, nato dal destino universale dei beni creati”. La domanda, che in troppi si pongono, è tutta concentrata su chi gestirebbe per il fondo planetario i diritti di proprietà, espropriati a tutti gli esseri umani (poveri, mezzi poveri ed ex ricchi). Per Papa Francesco ed i suoi interlocutori laici, così potrebbe partire mondialmente il reddito di cittadinanza universale, una “povertà sostenibile” assicurata dalle ex proprietà dei cittadini? Papa Francesco asserisce che questo risolverebbe il problema povertà, garantendo “solidarietà, lotta alle cause strutturali della povertà, disuguaglianza, mancanza di lavoro, di terra e di case. Lottare, insomma, contro chi nega i diritti sociali e sindacali. Combattere contro quella cultura che porta ad usare gli altri, a rendere schiavi gli altri, e finisce per togliere la dignità agli altri”.
Parole che si scontrano con la pietra miliare del diritto anglosassone di proprietà. Il filosofo inglese Jeremy Bentham (primi dell’Ottocento) sosteneva: “Leggi che rendono sicura la proprietà rappresentano il più nobile trionfo dell’umanità su se stessa. È questo diritto che ha vinto la naturale avversione al lavoro e dato all’uomo il dominio sulla terra – continuava – che ha posto fine alla vita migratoria delle nazioni; che ha generato l’amore per il proprio Paese e la cura per la posterità”. Bentham è uno dei riferimenti rafforzativi del diritto britannico (non scritto): il mondo anglosassone accetterà questo stravolgimento pauperista? Bentham notava che la libera, pluricentrica e creativa Europa si distingueva dalle stagnanti civiltà “asiatiche” per sicurezza della proprietà: caratteristica che aveva portato a morte i dispotici imperi orientali (assiro-babilonese, egizio, cinese, indiano, persiano, tardo-romano, arabo-ottomano, incas, azteco), dove l’autorità centrale riduceva i sudditi in assoluta soggezione, e per via del controllo di terra, case e risorse in poche mani. Ne deriva quanto il sedicente vicario di Cristo sia poco culturalmente onesto (forse in balia del fondo unico), e nelle sue tante meditazioni dovrebbe leggere l’opera postuma di Pierre Joseph Proudhon che, per la teoria della proprietà, cambiava completamente idea, individuando nella proprietà l’unico baluardo contro il potere “altrimenti irresistibile” dello Stato. Rendere tutti egualitariamente poveri, in attesa d’una messianica “povertà sostenibile”, potrebbe generare conflitti sociali (e disumani) ben superiori a quelli che flagellano il Venezuela ed altre plaghe del Sud America.