Noi non siamo in alcun modo responsabili dei mali e dei problemi dell'Africa e degli africani, i responsabili sono gli africani stessi:inciviltà egoista dei singoli e schiavismo, inciviltà tribalista con confltti e guerre tribali e inter etniche, superstizioni religiose e ignoranza tra cui l'infibulazione, corruzione e irresponsabilità politica, colonialismo e imperialismo nazi maomettano con la sua incultura, le sue discriminazioni e la sua violenza, nessun controllo demografico.
Il vittimismo che attribuisce la responsabilità dei propri mali agli altri o a un capro espiatoro è un atteggiamento infantile e primitivo, da incoscienti, non ti aiuta a crescere e a migliore ma ti mantiene in una condizione di miseria, di incoscienza, di sottosviluppo, di disumanità, di subordinazione.
Demonizzazione https://it.wikipedia.org/wiki/Demonizzazione La demonizzazione è una tecnica retorica e ideologica della propaganda e della disinformazione, o alterazione dei fatti e delle descrizioni (vicina alla sacralizzazione inversa, o vittimismo) finalizzata al presentare singoli individui, gruppi di persone, organizzazioni, etnie, culture, ideologie politiche, credenze o tradizioni religiose ecc. come fondamentalmente malvagie, deleterie e/o pericolose, come modo di giustificare una o più specifiche caratteristiche, o anche di attribuire uno o più valori negativi ad un determinato soggetto (individuale o collettivo, o entrambi) per farlo apparire contrario, quindi sbagliato o colpevole, rispetto a ciò che l'accusatore crede o vorrebbe far credere.
La demonizzazione produce un'immagine deliberatamente negativa di qualcuno o qualcosa, con l'obiettivo di influire sull'accusato o su altre persone; viene detta demonizzazione in quanto al soggetto passivo di accuse vengono attribuiti tratti demoniaci o maligni. Sebbene non costituisca di per sé la violazione di una legge, è strettamente correlata a reati quali la diffamazione e la calunnia.
Politically correct, "è colpa nostra" come catechismoAurelio Porfiri
25 marzo 2019
http://www.lanuovabq.it/it/politically- ... 5oYc26ALB4Il politically correct è entrato nelle nostre vite con una martellante opera di propaganda. Se i colpevoli dei mali del mondo siamo "noi", dobbiamo espiare i peccati rinunciando alla nostra identità, per dissolverci nel magma di un mondo dalle identità fluide. Intervista a Capozzi, autore del libro "Politicamente corretto. Storia di un'ideologia".
Uno degli strumenti del potere per non vedere le cose come sono è senz'altro il politically correct. C'è un libro di Eugenio Capozzi che si chiama Politicamente corretto. Storia di un'ideologia (Marsilio 2018) che vale veramente la pena leggere. Un libro che ci conduce all'interno dei meccanismi di questa ideologia, che è poi una gnosi, con grande erudizione e capacità di analisi. Eugenio Capozzi è professore ordinario di storia contemporanea presso l'Università degli Studi di Napoli "Sant'Orsola Benincasa". La Nuova BQ l’ha intervistato.
Professore, come si è avvicinato al tema del politically correct?
È stata la consapevolezza che la rivoluzione culturale prodotta dai movimenti giovanili degli anni Sessanta ha rappresentato forse la cesura più decisiva nella storia politica del Novecento. Se si guarda alle categorie, alla terminologia, ai luoghi comuni, al conformismo di pensiero che connotano attualmente le classi dirigenti delle democrazie industrializzate ci si accorge che tutti questi elementi sono comprensibili soltanto riportandoli a quel grande cambiamento di mezzo secolo fa. Quella somma di censure, delegittimazioni, edulcorazioni linguistiche che oggi chiamiamo "politically correct”.
Come definirebbe il politically correct?
Come un "catechismo civile", una somma di "precetti", di divieti, di censure in cui si compendia la retorica di un'ideologia ben precisa: quello che possiamo chiamare neo-progressismo, ideologia dell'Altro, "utopia diversitaria" (per dirla con Mathieu Bock-Coté). Ossia l'ideologia che condanna in blocco come imperialista e discriminatoria la cultura euro-occidentale, e progetta di cambiare la mentalità dell'umanità per sostituirla con un radicale relativismo culturale ed etico. È una retorica che è diventata il tratto distintivo delle élites politiche, intellettuali, istituzionali, mediatiche, e dell'intrattenimento di massa in Occidente tra la fine del XX e l'inizio del XXI secolo, conquistando un sostanziale monopolio sul linguaggio e sull'etica pubblica, in assenza di "narrazioni" contrapposte dotate di pari rappresentatività.
Ci fa alcuni esempi di come il politically correct è entrato nelle nostre vite?
Con una martellante opera di propaganda, di estensione e profondità "orwelliane", che pretende di eliminare dai prodotti culturali, dalla dialettica politica, dai comportamenti pubblici e privati, dai luoghi della formazione, ogni termine o concetto che possano essere considerati "discriminatori", "offensivi", espressioni di una concezione gerarchica e di valori "forti", per imporre un'idea di "rispetto" che in effetti coincide con un totale indifferentismo, nel quale la "verità" politica è decisa volta a volta dalle élite che "dettano la linea" alle società. La tesi principale è quella secondo cui il tramonto delle grandi ideologie europee otto-novecentesche apre la strada ad una potente svolta delle classi dirigenti occidentali in senso relativistico-nichilistico, soggettivistico, edonistico, antiumanistico.
Lei chiama il politically correct una ideologia, una ideologia dell’Altro. Perché?
Nel senso che il nuovo progressismo impostosi con la ribellione dei giovani baby boomers occidentali non rivendica più l'instaurazione della libertà, dell'uguaglianza o della giustizia attraverso misure economiche o provvedimenti politici, ma pretende invece di estirpare le radici del dominio e delle discriminazioni presenti, a suo dire, nella storia culturale occidentale attraverso un radicale processo di modificazione del modo di pensare, dei concetti, del linguaggio. Un obiettivo che in realtà rappresenta un vero e proprio azzeramento, un "parricidio" delle radici culturali occidentali. Se l'uomo occidentale storicamente ha incarnato la violenza, la repressione, l'imperialismo, egli deve essere "rieducato" accogliendo tutti i modelli culturali, tutte le condizioni esistenziali, tutte le componenti minoritarie che ha soggiogato in passato per rinnovarsi e rigenerarsi. L'"altro", ridotto ad un concetto astratto, diventa il salvatore, il redentore di una storia sbagliata, e la radice di una nuova civiltà più gentile, tollerante, in cui i conflitti, una volta eliminato il "peccato originale" del dominio, della gerarchia, del "pensiero forte", dovrebbero sparire.
Afferma nel suo libro che le ideologie sono eredi di una tendenza gnostica della cultura moderna. Quindi il politically correct è fenomeno di tipo gnostico?
Assolutamente sì. Esso rappresenta appunto l'ultima e più radicale forma di gnosticismo moderno. Il male da eliminare dal mondo non è più la dominazione straniera, la disuguaglianza civile e politica, il capitalismo, o altri fattori economici e politici del genere, ma la storia di una civiltà tout court, con la mentalità che essa ha prodotto. È quella la radice del male, quindi la salvezza non può che venire dalla "de-occidentalizzazione" del mondo e dello stesso Occidente. Se i colpevoli dei mali del mondo siamo "noi", dobbiamo espiare i nostri peccati rinunciando alla nostra identità, per dissolverci nel grande magma di un mondo dalle identità fluide, precarie, affidate totalmente volta a volta all'autodeterminazione dei soggetti.
Come ci si libera dal politically correct?
Pensare che il politically correct possa essere abolito per decreto o in un colpo solo sarebbe un'idea altrettanto ideologica di quella coltivata da chi pensa che il progressismo diversitario e la sua retorica rappresentino una realtà inevitabile e salvifica. Quello che noi possiamo fare è mostrare come esso abbia avuto una precisa origine e dunque non sia né eterno né inevitabile. Non a caso, il monolitico dominio della "narrazione" politicalcorrettista ha cominciato a mostrare le prime, serie crepe quando, a partire dalla grande crisi economico-finanziaria del 2008, quelle classi dominanti sono entrate in crisi, e hanno cominciato ad essere sfidate dai "perdenti della globalizzazione", con la crescita dei movimenti sovranisti, identitari, neo-nazionalisti.
Liberiamo l'Europa dai sensi di colpa, dai miti e dai pregiudizihttp://www.filarveneto.eu/forum/viewtop ... =92&t=2669 È sempre colpa dell’uomo bianco?
Il dolorismo è la nuova religione di un occidente (e una chiesa) vittima del senso di colpa. E anche i laici balbettano omelie ecclesiali, felici di sottomettersi ai barbaridi Pascal Bruckner | 07 Agosto 2016
http://www.ilfoglio.it/chiesa/2016/08/0 ... e_c391.htm L’odio di sé avanza in tutto l’occidente sotto attacco. Ripubblichiamo alcuni stralci del libro dell’intellettuale francese Pascal Bruckner “Il singhiozzo dell’uomo bianco”, pubblicato nel 1984 (Guanda). Istruzioni per l’uso contro le nuove prosternazioni.
A priori pesa su tutto l’occidente una presunzione di delitto. Noi europei siamo stati allevati nell’odio di noi stessi, nella certezza che vi fosse, in seno al nostro mondo, un male congenito che reclamava vendetta senza speranza di remissione. Questo male può riassumersi in due parole, il colonialismo e l’imperialismo, e in poche cifre: le decine di milioni di indiani eliminati dai conquistadores, i duecento milioni di africani deportati o scomparsi nel traffico degli schiavi, infine i milioni di asiatici, di arabi, di africani uccisi durante le guerre coloniali e poi nelle guerre di liberazione. Schiacciati sotto il peso di questi ricordi infamanti, siamo stati indotti a considerare la nostra civiltà come la peggiore, mentre i nostri padri si sono creduti i migliori. Nascere dopo la Seconda guerra mondiale, significava acquisire la certezza di appartenere alla feccia dell’umanità, a un ambiente esecrabile che, da secoli, in nome di una pretesa avventura spirituale, opprime la quasi totalità del globo. Un continente che non finiva mai di parlare dell’uomo mentre lo massacrava in tutti gli angoli del pianeta, un continente basato sul saccheggio e sulla negazione della vita, meritava soltanto d’essere a sua volta calpestato. Il mondo intero accusa l’occidente, e molti occidentali partecipano a questa campagna: la nostra responsabilità viene affermata con indignazione, con disprezzo. Nessun discorso sul Terzo mondo può concludersi o cominciare senza che riecheggi questo leitmotiv: l’uomo bianco è malvagio.
Che cosa ci rimane, a noi figli e nipoti dei barbari che hanno depredato terra e mare? Fare sempre e dappertutto il nostro atto di contrizione. “Ciascuno di noi è colpevole davanti a tutti, per tutto e dappertutto, e io più degli altri” (Dostoevskij), tale è la nostra più intima convinzione. Il sangue versato ricade su di noi e nulla, ci sembra, può riscattare l’infamia commessa, nessun compenso ristabilire l’equilibrio rotto dall’offesa coloniale. Tutti i nostri titoli di gloria, secoli di sforzi, di calcoli, di perfezionamenti, di imprese, di eroismo, che avevano fatto regnare una certa forma di saggezza umana, sono stati spazzati via, ridotti a zero: sapere che questa fioritura artistica o tecnica era legata a una egual dose d’ignominia, ci ha scoraggiati dall’accettarla o dal riprenderla. Così la svalutazione del messaggio europeo è diventata un codice comune a tutta l’intellighenzia di sinistra dopo la guerra, proprio come l’odio del borghese è stato in Europa, dopo il 1917, un autentico passaporto intellettuale, quando nessun articolo poteva giustificarsi senza un’invocazione rituale al proletariato messianico e un ostentato disgusto per i possidenti. L’indipendenza delle antiche colonie ci lascia tuttavia una possibilità di riscatto: impegnarci a fianco dei popoli in lotta, aiutare sempre e dappertutto il sud a distruggere il vitello d’oro occidentale.
Così la nascita del Terzo mondo come forza politica ha generato una nuova categoria: il militantismo espiatorio. In che modo l’odio di sé sia divenuto il dogma centrale della nostra cultura, è un enigma di cui la storia d’Europa è feconda. E’ strano infatti che nel secolo dell’ateismo militante, pensatori agnostici che hanno aguzzato il loro ingegno nella lotta contro le chiese e le loro dottrine ci abbiano riconciliati d’altra parte con la nozione che è alla base stessa del cristianesimo: il peccato originale. Mentre nei costumi e nel pensiero si verificava un formidabile rivolgimento dei valori – il rifiuto delle immagini di autorità, lo smantellamento degli idoli e dei tabù – , la morte di Dio e del Padre si univa – Sartre ne è l’esempio magistrale – a un rafforzamento della cattiva coscienza, come se una società che aveva eliminato perfino l’idea del peccato preparasse la via regia al senso di una colpevolezza generale. Il quale costituisce il prezzo da pagare per appartenere all’Europa vittoriosa, che per un momento ha trionfato sul resto del mondo. Perché la politica moderna ha cessato senza dubbio d’ispirarsi al cristianesimo, ma le sue passioni sono quelle del cristianesimo. Viviamo in un universo politico impregnato di religiosità, ebbro di martirologia, affascinato dalla sofferenza, e i discorsi più laici sono, quasi sempre, soltanto la ripresa o il balbettamento in tono minore delle omelie ecclesiali. Che una tale brama di “dolorismo”, che un tal gusto per la figura dell’oppresso in genere possano coesistere con un anticlericalismo ancora virulento non è, quindi, che un paradosso secondario
Il terzomondismo accredita una visione manichea, la quale vorrebbe che il peccato degli uni testimoniasse indefinitamente a favore della grazia e della virtù degli altri. La povertà spirituale di certi movimenti di liberazione, gli slogan più sommari dei loro capi sono quindi gonfiati a dismisura come altrettante parole del Vangelo, mentre il rigore intellettuale, la logica, l’educazione, monopolio dei paesi ricchi, sono respinti come diabolici stratagemmi dell’imperialismo. Le più insignificanti insurrezioni, le più trascurabili rivolte contadine, hanno diritto a una risonanza enorme, sproporzionata in rapporto alla loro importanza reale; si santifica l’ignoranza, il settarismo dei capibanda tropicali, si glorifica la marcia degli splendidi asiatici chiamati a distruggere la civiltà europea, insomma le più grandi follie sono portate alle stelle da alcuni spiriti eletti, ben felici di sottomettersi a un’autorità primitiva, di prosternarsi “davanti allo splendore d’una sana barbarie. Secondo questo principio, tutto ciò che innalza, loda, celebra l’occidente è sospettato delle peggiori infamie; in compenso, la modestia, l’umiltà, il gusto dell’autodistruzione, ciò che può spingere gli europei a eclissarsi, a rientrare nei ranghi, è onorato, salutato come altamente progressista. La regola aurea di questo masochismo è semplice: ciò che viene da noi è cattivo, ciò che viene da altri è perfetto. Insomma, si concede sistematicamente un premio di eccellenza agli ex colonizzati. Ama i tuoi nemici: mai la nostra epoca miscredente, negli anni Settanta, ha seguito così fedelmente la parola del Cristo.
La religione della simpatia compassionevole che dimostriamo a gara verso tutto ciò che vive, soffre e sente, dal contadino del Sahel al cucciolo di foca, passando per il prigioniero di Amnesty International e gli animali da pelliccia, scuoiati per scaldare le spalle delle nostre elegantone. L’esaltazione degli istinti di benevolenza, “oralità istintiva che non ha cervello ma sembra esser composta solo da un cuore e da mani soccorrevoli” (Nietzsche), queste lodi cantate giorno e notte dai media, dalla stampa, dagli uomini politici, dalle personalità letterarie o artistiche, affondano direttamente le loro radici nel cristianesimo più imbastardito. Questa religione per afflitti dice che bisogna patire la vita come una malattia. Finché ci saranno uomini che rantolano, bambini che soffrono la fame, finché le prigioni saranno piene, nessuno avrà il diritto di essere felice. Si tratta di un imperativo categorico che c’impone il dovere di amare l’uomo impersonale, e, di preferenza, l’uomo lontano. Proprio come Gesù diceva che i poveri sono i nostri maestri, i terzomondisti fanno della miseria dei paesi meridionali una virtù da prendere a modello. Si amano i tropici per le loro pecche e le loro lacune, la carestia e il male sono al tempo stesso sottilmente combattuti e valorizzati; è un’ambiguità temibile da cui la chiesa cattolica non è mai uscita, ma che contamina allo stesso modo tutte le organizzazioni assistenziali nel Terzo mondo.
Come non sentirsi giudicati sul metro di un martirologio sublime, non sentirsi ignobili e nocivi di fronte a questo grande tribunale della tragedia, che celebra i suoi fasti nell’angusto perimetro dell’apparecchio televisivo o della colonna di giornale? Un Golgotha di sofferenze ci contempla, noi siamo i complici diretti di un sistema economico che saccheggia le risorse dei più sprovveduti. Davanti a questi crimini, ogni spettatore deve dirsi: “Goebbels, sono io!”. Per convincere i cuori reticenti, i media non indietreggeranno davanti a nulla: all’enormità dell’accusa – siete peggio dei nazisti! – si aggiunge l’enormità di quanto viene mostrato. Nessun pudore trattiene la cinepresa; l’orrore non tollera censura, ogni immagine deve avere la sconvenienza di un limite varcato nell’angoscia. Si fa appello all’inaudito, al mai visto, e anzi ve ne fanno vedere anche un po’ di più. Carestie, inondazioni, terremoti vengono riprodotti all’istante per le cineprese: catastrofi fissate su Polaroid. Una catena ininterrotta di immagini va da quelli che mettono in scena la morte degli altri al pubblico del mondo intero, e questa catena dà a tutti il diritto di vedere tutto. Ma favorendo una soltanto delle nostre pulsioni: il voyeurismo. E poiché ci si immagina che, per scuotere gli animi, occorre uno spettacolo sempre più crudo, si aprono all’avidità dello sguardo territori in cui nessuno era penetrato, si punta l’obiettivo su mutilazioni, torture, malattie ancora inedite sullo schermo. La semplice vista di bambini dal ventre gonfio non vi basta? Vi mostreranno questi stessi bambini ridotti a scheletri. Ancora nessuna reazione? Eccoli ridotti a un mucchietto d’ossa e di pelle. Ecco sangue, ferite, ulcere purulente, croste di pus, viscere traboccanti, organi strappati…
Solo la dismisura è in grado di commuovere il pubblico e di interessarlo a questi problemi. E se l’apatia persiste, vuol dire che, così si crede, le immagini non sono abbastanza spettacolari: quindi non vi saranno limiti all’asta degli orrori. Così si produce l’inevitabile perversione dello sguardo: prendiamo gusto al gioco, ne vogliamo sempre di più, la nostra soglia di tolleranza non cessa di aumentare; non chiediamo più di essere commossi, ma sorpresi: ogni volta ci occorre qualcosa di più piccante nell’abiezione. Il valore d’urto di un’informazione è indipendente dalla verità dei suoi termini. L’improbabile, l’enorme saranno considerati sempre meglio del verosimile. Conta solo l’impatto e non l’influenza. Non ci preoccupiamo più di sapere se quelle foto riguardano esseri reali, le vogliamo soltanto più speziate. E vinca la peggiore.
Nella storia biblica della cacciata dal paradiso terrestre, c’erano quattro personaggi: l’uomo tentato, la femmina tentatrice, l’animale tentatore e la cosa tentante. Più due mediazioni: dal serpente alla donna, poi dalla donna ambasciatrice del peccato all’uomo. Storia semplice, rispetto ai molteplici travestimenti che l’occidente utilizza per circuire e sedurre il casto Terzo mondo: il male europeo è multiforme, di volta in volta pornografia, rock, gadget, jeans, droghe, bevande gassate, tecnologia, turismo, denaro: Satana è legione, ha cento maschere, cento travestimenti per sedurre l’oasi primaverile. Da qui la sfumatura d’indefinibile rimpianto con cui accogliamo la normalissima maturazione delle nazioni che entrano nel ciclo delle prove d’iniziazione alla vita politica; da qui anche la nostra collera contro il sacrilego corruttore, il mondo industrializzato, che affretta l’evoluzione smaliziando prematuramente l’umanità innocente.
Così, per spiegare i disastri, la repressione, la corruzione, il nepotismo, la stagnazione che imperversano nell’emisfero sud, si ricorre a questo concetto magico fra tutti: il neo colonialismo. Poiché l’Europa ha lasciato i suoi possedimenti solo per installarvisi meglio, tocca a lei assumersi gli errori e gli sbagli che vi si commettono. Mirabile cortocircuito: di nuovo, il presente non è che un duplicato del passato, e l’antica invettiva può avere libero corso: nelle prigioni iraniane, siriane, algerine si pratica la tortura? E perché i loro agenti “sono gli allievi dei nostri poliziotti” (Claude Bourdet). Lo sciismo s’irrigidisce in un fondamentalismo oscurantista? E’ perché “le ‘soluzioni’ dell’occidente hanno fatto fallimento” e condannano certi paesi all’integralismo (Roger Garaudy). La miseria avanza a grandi passi: naturalmente, a causa delle multinazionali e del loro svergognato saccheggio. Sempre per spiegare l’analfabetismo, le epidemie, le guerre, la decadenza del tenore di vita, il dispotismo dei nuovi padri del popolo, si invocano i colonialisti francesi, gli imperialisti americani, i dominatori inglesi, gli affaristi olandesi, tedeschi o svizzeri, perché in tutto il globo ci sono soltanto due tipi di paesi: i “paesi malati” e i “paesi ingannati” (Roger Garaudy). Insomma, invece di tener conto dei fatti, di cercare le cause determinanti, si prediligono le cause remote che esonerano da ogni responsabilità gli stati tropicali: istigatore universale, il neocolonialismo diventa così il mezzo per accantonare in perpetuo i veri problemi.
Laggiù, in Francia, nello stesso momento in cui innaffiavate le piante o sorseggiavate un caffè, la televisione vi mostrava bambini dilaniati dalle mine, oppositori politici torturati, profughi ammassati sulle giunche che affondavano con tutti i loro beni, vittime di una tempesta o dei pirati che li colavano a picco dopo averli taglieggiati. Potevate credere che fosse una finzione, e bastava premere un bottone per far cessare quelle scene d’incubo. Ma qui, la miseria impregna i muri, l’aria che si respira, l’orizzonte che si abbraccia, forma la sostanza stessa della città. Gli alberghi più lussuosi, le ville meglio custodite sono cittadelle dotate di un privilegio transitorio, circondate dalla sporcizia e dall’infelicità. E, ogni momento, vi aspettate di vedere la porta della vostra camera aprirsi per lasciar passare una teoria di sciancati, di straccioni famelici, di donne miserabili, pronti a occupare lo spazio che la vostra prosperità vi attribuisce indebitamente.
Il fardello e le colpe dell'uomo biancoVittorio Guillot, 16 febbraio 2015
http://www.algheroeco.com/il-fardello-e ... omo-biancoDopo aver sentito i sanguinari proclami dell’Isis penso che sia concreta la minaccia di una invasione dell’Europa da parte degli islamici. Del resto Boumedienne, presidente dell’Algeria, circa 50 anni fa, disse che gli arabi ed i musulmani, essendo poligami e molto più prolifici degli europei, avrebbero invaso l’Europa con l’immigrazione più o meno pacifica.
D’altra parte la pressione arabo-musulmana verso l’Europa è stata costante fin dall’alto Medioevo e fu fermata solo nel cuore della Francia, a Poitiers, nell’ 8° secolo mentre i turchi nel 17° secolo, furono sconfitti addirittura a Vienna. Ricordo che anche la Sicilia e, per un breve periodo, parte della Sardegna, furono invase dagli arabi e che solo nel 1830 l’occupazione colonialista dell’Algeria da parte della Francia pose fine alle incursioni dei pirati barbareschi lungo tutte le coste del Mediterraneo.
Comunque non esito ad affermare che anche i ‘bianchi’, nei luoghi che conquistarono, compirono molti genocidi degni del peggiore nazismo e terribili crimini contro l’umanità simili a quelli comunisti. Il generale USA Sherman, per esempio, diceva che ‘l’indiano buono è l’indiano morto’. I suoi connazionali lo presero in parola, deportarono i nativi americani, li rinchiusero in lager chiamati riserve, li sterminarono e gli portano via le terre. Lo stesso fecero gli inglesi con gli aborigeni australiani, che utilizzarono persino per sperimentare gli effetti di certi proiettili sui corpi umani. Gli stessi inglesi , con la guerra dell’oppio, imposero alla Cina la liberalizzazione dell’uso di quella droga che rincoglioniva grandi parti della popolazione. Gli spagnoli, dal canto loro, sterminarono gli incas, i maya e gli atzechi etc.
Tutte le potenze marinare europea, poi, praticarono lo schiavismo in danno dei negri con una tale ‘non chalance’ che persino il paladino dell’illuminismo, dei diritti dell’uomo e della tolleranza, Voltaire, fu azionista di una compagnia di negrieri, Mi ricorda certi compagni comunisti, stracarichi di soldi, che vestono maglioni di cachemire, esibiscono orologi Rolex o possiedono mega yachts.
Malgrado le responsabilità dei bianchi, il solo fatto di essere ‘bianco’ non mi fa, però, soffrire di alcun complesso di colpa. Ciò mi capita forse perché, come italiano, appartengo ad un popolo meno responsabile di altri per quelle stragi? Qualcosa di odioso, comunque, lo abbiamo commesso anche noi con le rappresaglie indiscriminate compiute in Libia contro i ribelli ed i Abissinia, dove furono uccisi migliaia di innocenti in seguito all’attentato al gen. Graziani e centinaia di preti copti furono sbrigativamente fatti fuori a Debra Libanos .Èanche vero che in Africa lasciammo case, strade, porti, scuole , ospedali, ferrovie , alberghi e cinematografi e terreni irrigui e bonificati. Posso assicurare che in Eritrea, a Massaua, i vecchi ricordano con piacere la colonizzazione italiana mentre detestano il periodo in cui furono governati dagli inglesi e,ancor peggio, dagli abissini. Sono queste le ragioni per cui non mi sento oppresso da sensi di colpa? Forse si.
Sopratutto, però, ciò mi capita capita perché tutto ciò che i popoli del terzo mondo hanno di moderno e di avanzato scientificamente e tecnologicamente gli è arrivato dai bianchi. In Australia ed in America, dove pure si era sviluppata una civiltà notevolissima, non conoscevano neppure la ruota. Non dimentichiamo neanche che neppure quei popoli, già da prima dell’arrivo dei bianchi, non erano costituiti da tenere mammole. Infatti si sterminavano e mangiavano reciprocamente, facevano sacrifici umani con migliaia di prigionieri a cui, spesso, strappavano il cuore quando erano ancora vivi. Praticavano anche la schiavitù. Addirittura i maggiori collaboratori dei negrieri bianchi furono le tribù africane avversarie ed i predoni arabi. La schiavitù, anzi, ad un certo punto della storia, fu abolita proprio dai bianchi e sopravvisse nei territori che non erano caduti sotto la loro influenza (es.Arabia ed Etiopia).i Gli stessi arabi , i mongoli ed i turchi nelle loro guerre di conquista sterminavano i popoli che gli si paravano davanti e distruggevano tutto ciò che c’era da distruggere. È falso attribuire i saccheggi ed i genocidi solo ai crociati.
Oggi la miseria del terzo mondo è dovuta ad una molteplicità di fattori. Indubbiamente c’è una grossa responsabilità dello sfruttamento del capitalismo mutinazionale . Ci sono, però, responsabilità non certo minori dei tiranni e delle corrotte classi dirigenti indigene . Ci furono anche responsabilità dell’imperialismo sovietico, che appoggiò dittatori feroci come Gheddafi, Idi Amin Dada, i tiranni di Sudan ed Abissinia ed altri . Oggi anche la Cina appoggia i dittatori che le fanno comodo. Ci sono pure grandi responsabilità delle masse popolari stessi popoli che si abbandonano a conflitti etnici e religiosi accompagnati da stragi spaventose.Ricordo quelle del Ruanda e quelle , recenti, della Nigeria. Concludo che, a mio, avviso, le colpe dei mali del mondo non ricadono solo sui bianchi ma sono equamente ripartite tra tutti i popoli del pianeta. Perciò rifiuto il manicheismo dei terzomondisti di casa nostra e, in quanto bianco, non mi sento peggiore né dei negri né dei gialli né dei grigi né dei rossi di pelle . Piuttosto mi sento uguale a loro.
Il colonialismo non è responsabile dell'arretratezza del Terzo Mondo né del terrorismo islamicohttps://www.magdicristianoallam.it/blog ... conda.htmlQuando si considera la ricaduta del colonialismo sul Terzo Mondo, bisognerebbe misurare il tributo imposto dalla colonizzazione occidentale contro i benefici di carattere scientifico, tecnologico, giuridico, demografico, etc. tratti da popoli meno civilizzati nell'interazione con popoli più avanzati, proprio come quando si valuta l'impatto complessivo dell'espansione dell'Impero romano, che, di solito, una volta presi in debita considerazione pro e contro, viene giudicato positivamente (???).
Tra tutti i possibili vantaggi, vale la pena di menzionarne uno di carattere esistenziale, intuibile gettando una rapida occhiata alla cartina geografica del continente africano e alla distribuzione delle aree di diffusione dell'islam e del cristianesimo, rispettivamente nella metà settentrionale e meridionale. Si può ragionevolmente argomentare che la colonizzazione europea potrebbe avere avuto il merito di salvare l'Africa dall'islamizzazione completa.
A questo proposito, non bisogna infatti dimenticare quando si valuta l'esempio più clamoroso di sfruttamento occidentale del Terzo Mondo, ovvero la tratta degli schiavi africani, il ruolo ben più drammatico giocato dagli arabi. Costoro, non soltanto rappresentarono i diretti responsabili della cattura degli schiavi destinati al mercato occidentale, razziando i villaggi dell'Africa Sub-sahariana, e causando la morte di almeno 120 milioni di persone secondo le stime, ma furono essi stessi schiavisti ben peggiori degli occidentali. Inoltre, a differenza dei Paesi occidentali, che nel caso specifico degli Usa combatterono una guerra civile anche per l'abolizione della schiavitù, gli arabi hanno continuato e continuano a praticarla fino ai nostri giorni. Se non fosse esistito alcun limite all'espansione ulteriore dell'islam verso Sud, è facile estrapolare cosa sarebbe potuto accadere agli animisti che oggi professano la religione cristiana e per alcuni rappresentano il futuro della cristianità mondiale. Costoro, non potendo godere dei relativi vantaggi della dhimmitudine concessi ai cristiani ed ebrei, avrebbero subito il medesimo destino riservato ai correligionari più settentrionali, sarebbero stati cioè, con ogni probabilità, massacrati o ridotti in schiavitù.
Quasi nessuno però oggi in Occidente, neppure i discendenti afro-americani dei popoli ridotti in schiavitù e torturati dagli arabi, riconosce ai colonizzatori europei questo merito. Ancora più sorprendente è l'assoluta assenza del benché minimo rancore o critica nei confronti del mondo islamico per aver massacrato, sfruttato e schiavizzato le popolazioni del Terzo Mondo. Paradossalmente, un illustre campione della comunità afro-americana quale il presidente Obama non perde occasione per criticare l'Occidente per il passato coloniale ed elogiare invece l'islam per il presunto contributo alla pace, ai progressi dell'umanità e persino all'edificazione dell'America. È difficile comprendere le ragioni del tributo del presidente all'islam se si escludono l'ignoranza, il totale distacco dalla realtà promosso dall'adesione all'ideologia di sinistra o magari l'effetto psicotropo di qualche droga. L'alternativa più razionale è che il rappresentante del popolo americano alluda alla "pace eterna" dei milioni di vittime dell'islam, ai progressi in campo militare stimolati dalle sue continue aggressioni, e infine al ruolo degli arabi nella tratta degli schiavi che avrebbero presumibilmente contributo a rendere grande l'America con la raccolta del cotone nelle piantagioni del Sud...
Per quanto concerne invece la povertà e l'arretratezza dei paesi islamici, esse sono per lo più il frutto di errori interni alla storia della "civiltà" islamica, più specificatamente una serie di decisioni, tre delle quali di importanza critica, prese nel passato dai governanti e dai leader religiosi del mondo islamico, che hanno impedito alla civiltà islamica non solo di mantenere la superiorità di cui godeva nel Medioevo, ma anche di tenere il passo con i rapidi progressi dell'Europa Cristiana.
Quando in Europa fu inventata la stampa nel XV secolo, e la notizia giunse alle orecchie del Sultano Beyazid II in Istanbul, costui avrebbe voluto promuoverne la diffusione anche nell'Impero Ottomano, ma gli ulema si opposero in nome dell'islam, una religione meno flessibile ed adattabile rispetto alle esigenze della modernità di quella cristiana.
Gli ulema decretarono che utilizzare la stampa per riprodurre la parola di Allah conservata nel Corano avrebbe costituito un sacrilegio. L'uso della stampa fu proibito ai musulmani per quasi quattro secoli, fino al 1729, ma concesso agli ebrei e ai cristiani dell'Impero, segnando così per sempre le sorti del mondo islamico. In breve, grazie a questa singola invenzione, la conoscenza si diffuse con rapidità inaudita nell'Europa Cristiana, accelerando il progresso scientifico e tecnologico che permise all'Occidente di riguadagnare terreno, superare e distanziare il mondo islamico.
La dhimmitudine, ovvero l'usanza radicata nella tradizione islamica di trattare i sudditi di religione non-islamica come cittadini di serie B, o come schiavi, che da un punto di vista economico e strategico non costituiva un problema all'inizio delle conquiste arabe all'interno della Penisola Arabica, con il crescere dell'estensione dei territori e delle popolazioni di infedeli controllate, si rivelò controproducente. In caso di guerra, a settori crescenti della popolazione non era concesso di combattere per l'Impero, mentre costoro potevano invece costituire una quinta colonna. Non solo, ma, come accadde per lo più nell'Impero Ottomano, i dhimmi erano spesso relegati a ruoli nell'ambito economico, quali il sistema bancario, del commercio e dei trasporti marittimi che in Occidente guidarono i progressi dal mondo medioevale a quello moderno.
Un'altra ferita auto-inflitta fu l'usanza detta Timar, un sistema feudale adottato dall'Impero Ottomano proprio quando l'Occidente si stava affrancando dai vincoli del feudalesimo, che aggiunse un freno ulteriore allo sviluppo economico.
Il colonialismo occidentale non è pertanto responsabile del sottosviluppo del Terzo Mondo, né del terrorismo islamico, semmai ha determinato, sebbene spesso involontariamente, un netto miglioramento delle condizioni di vita delle aree naturalmente indigenti e arretrate del pianeta. La Jihad non è una reazione del Terzo Mondo all'imperialismo e al passato coloniale, bensì un'aggressione motivata e alimentata dall'ideologia pseudo-religiosa imperialista, razzista, sciovinista e violenta espressa e custodita nel Corano. Sarebbe dunque ora che l'Occidente si affrancasse dal perfezionismo esasperato che lo spinge ad auto-flagellarsi e tormentarsi coi sensi di colpa nei confronti del Terzo Mondo, e recuperasse invece il meritato orgoglio per la propria identità classico-giudaico-cristiana e il rispetto di sé stesso.
La ritrovata autostima consentirà all'Occidente di guadagnarsi, anche con le armi se assolutamente necessario, il rispetto dei nemici islamici. Questo rispetto potrà forse creare i presupposti per l'apertura di spiragli di vero dialogo con l'islam, invece di esplicite dichiarazioni di dhimmitudine nei negoziati anche interreligiosi, che rischiano di generare maggiore aggressività e violenza verso i cristiani in Medio Oriente e in Africa al venir meno della protezione garantita dai regimi dittatoriali filo-occidentali in via di dissoluzione.
Il rimorso dell’occidente di Mattia Ferraresi
2015/07/20
https://www.ilfoglio.it/gli-inserti-del ... ente-85880I migranti li abbiamo caricati noi sui barconi. Metaforicamente, ma nemmeno poi troppo. Il terrorismo islamico è colpa nostra, sia che propendiamo per lo schema interpretativo coloniale, sia che preferiamo quello dell’élite finanziaria senza volto che affama i popoli e scatena rivolte.
Sempre di una nostra creatura si tratta. Le diseguaglianze economiche sono colpa nostra, e così il collasso finanziario, la stagnazione, la povertà africana, la crisi della classe media, la perdita dei valori, l’attaccamento fanatico ai valori.
L’anarchia della Libia è colpa del nostro intervento militare, ma anche il regime di Gheddafi era il prodotto di nostri errori. L’Iran vuole dotarsi di armi nucleari – un accordo non basta certo a piegare la volontà suprema della Guida Suprema – non perché è guidato da teocrati apocalittici e antisemiti, ma per la politica estera americana, che ha alternativamente sostenuto e oppresso il fiero popolo persiano nel corso dei decenni. Vogliamo parlare di Saddam Hussein e dello Stato islamico? Di Bin Laden addestrato dalla Cia? Dell’11 settembre organizzato da Bush? Per sporgersi sull’oceano nero delle teorie del complotto servono buone dosi di dramamina o un’infinita nostalgia degli anni Zero, ma la premessa che dà sostanza psicologica al complotto è sempre più interessante del complotto stesso. E dietro a ogni tesi sull’inside job, così come ai sit-in contro il Bilderberg e la Trilateral, dietro a ogni protesta contro la Monsanto si staglia l’onnipresente sagoma del senso di colpa. Senza i segni di una colpa pregressa, una macchia che affligge, complottare contro se stessi è molto più difficile. Pure il destino mesto della Grecia è colpa nostra, e per nostra s’intende dell’Europa, ovvero della Germania, che di sensi di colpa ne sa qualcosa ma in questo caso – eccezione – gira alla larga dalla liturgia dell’autoaccusa riproponendo un’aria a sfondo luterano come un disco rotto: il debito, la Schuld, la colpa, è tutta di voi greci pigri e inefficienti. Siete voi che dovete pagare, espiare. La primavera araba è stata scatenata dalla politica monetaria della Federal Reserve, e poi l’occidente ha mollato le piazze al loro tirannico destino, così che già ribolle un nuovo pentolone ricolmo di senso di colpa. Dannati noi che abbiamo perso l’occasione di soccorrere i popoli che noi stessi abbiamo oppresso. Qualcuno, sfidando il consenso liberale sulle relazioni internazionali e abbracciando la scuola realista, dice che perfino l’aggressività di Vladimir Putin, che invade e annette territori a piacere e fa spallucce quando la comunità internazionale gliene chiede timidamente conto, è in realtà un altro pezzo della colpa occidentale. Chi, se non l’occidente imperialista, dopo il collasso dell’Unione sovietica si è spinto sempre più a est con la Coca-Cola in una mano e un modulo di adesione alla Nato nell’altra? Chi ha creduto di poter tramutare con l’imposizione delle mani l’Europa orientale in una dependance atlantica? Il prezzo di questo gaio espansionismo è che la Russia si è sentita minacciata, ed eccoci qui ora a dire quanto è autoritario e ottocentesco questo leader. In realtà lui è il difensore e noi gli aggressori.
Esiste in occidente un noto senso di colpa radicato nel passato coloniale, rilanciato poi con l’Olocausto e pure con la dominazione globale del Secondo dopoguerra. È quel complesso che ha trasformato il fardello dell’uomo bianco nel suo singhiozzo, per dirla con l’intellettuale francese Pascal Bruckner, che nel 1984 ha scritto la prima di una serie di riflessioni sul senso di colpa dell’occidente. In America il complesso originato dal colonialismo è stato sostituito dalla “white guilt” per la tragica epopea della schiavitù e della segregazione, storia mai del tutto sepolta e incredibilmente attuale nelle cronache, da Ferguson a Baltimore fino a New York e in decine di altre città. Probabilmente la reazione pubblica e politica alla strage di Charleston in cui un ragazzo bianco ha ucciso nove afroamericani in una chiesa locale è il caso più esplicito in questo senso. Non soltanto l’America ha reagito con orrore di fronte alla feccia da supremazia bianca di cui la mente dei Dylann Roof era imbevuta, ma ha sentito l’esigenza di un rito di espiazione collettivo di uno dei simboli che il ragazzo farneticante teneva fra le mani in alcune fotografie: la bandiera confederata (che poi è in realtà la bandiera dell’esercito della Virginia, ma comunque esprime l’orgoglio del sud schiavista). Non c’è stato il tempo né lo spazio per dibattere, fare distinzioni, per avventurarsi nella separazione fra il simbolo culturale, quello che gli scanzonati fratelli Duke della serie “Hazzard” avevano fatto aerografare sul tettuccio del Generale Lee, e il marchio infame della schiavitù; non si è nemmeno provato a formulare un argomento di questo genere: forse la colpa è più del pazzo omicida che della bandiera che tiene in mano, variazione sul tema “people kill people” caro ai difensori del Secondo emendamento. Anche loro, anzi specialmente loro, erano fra i più zelanti avvocati della rimozione del simbolo della colpa, come se anche loro stessi avessero avuto un ruolo nella creazione del mostro razzista che ha sparso morte a Charleston. Una specie di mandante morale collettivo. Può darsi anche che la distinzione non abbia cittadinanza nella regno delle cose reali e chi la propone sia in realtà un razzista che fa dei sofismi capziosi, come l’intera famiglia Duke del succitato telefilm di culto, ma il senso di colpa latente ha tagliato la questione prima del nodo, e la bandiera è stata rimossa fisicamente dagli spazi pubblici e dagli store, specchio della rimozione psicologica dalla coscienza che va costantemente candeggiata, ché lo sporco ritorna sempre su. Dopo la strage è stato un pullulare di statistiche che ricordano come la prima causa di morti per mano di terroristi in America – e in tutto l’occidente – sia la supremazia bianca, altro che il Califfato. La bandiera della Rhodesia invece non è stata ripudiata, nonostante comparisse anche lei nelle fotografie incriminate dello stragista, ma quel vessillo evoca le colpe della madrepatria britannica, toccherà ad altri contrirsi ed espiare.
L’idea della società americana fondata sulla colpa è antica, e la formulazione più affermata si trova nel “Crisantemo e la spada” di Ruth Benedict, dove però l’antropologa proponeva l’occidente come un consesso di sfumature, non un monolite della colpa. La società britannica era basata sulla vergogna, così come quella di alcuni paesi cristianizzati ma eredi di civiltà precristiane molto radicate, ad esempio il Messico; gli Stati Uniti puritani erano invece l’archetipo della cultura della colpa, con la tipica tendenza a internalizzare la colpa finché una punizione o il perdono non ristabilisce l’ordine morale violato. Nell’idea di Benedict la colpa è un fiume carsico, scorre nei sotterranei dell’inconscio per poi affiorare quando alcune circostanze specifiche scatenano le forze della colpa in superficie. E’ così che il rituale della messa al bando della bandiera confederata, con processo politico per direttissima e severa cerimonia militare, assume un valore catartico.
Sembra però che la frammentazione del mondo, l’incapacità di risolvere o spiegare gli scenari secondo formule sintetiche, abbia lasciato enormi spazi di manovra al senso di colpa occidentale per espandersi, aggrappandosi a qualunque cosa. Con il tipico discettare tranchant, Bruckner nel suo “La tirannia della penitenza” suggerisce addirittura che il senso di colpa è la caratteristica fondamentale della sensibilità occidentale, il suo tratto antroplogico-morale dominante: “Niente è più occidentale dell’odio per l’occidente”. E ancora: “L’occidente è come un carceriere che ti mette in prigione e poi ti passa fra le sbarre la chiave per evadere”. Quando un qualunque regime autoritario bolla l’imperialismo americano ed europeo come il massimo dell’ipocrisia perché combatte a parole l’oppressione dei popoli mentre la alimenta nei fatti, tocca un fascio nervoso estremamente sensibile della coscienza occidentale. Le scuole di pensiero si spaccano a proposito dell’origine di questo ricatto assurto a dimensione dell’essere: è alternativamente colpa (appunto) del cattolicesimo nella sua versione agostiniana, del moralismo protestante, oppure della modernità secolarizzata che si credeva onnipotente e si è scoperta violenta e non particolarmente illuminata. Anche gli eventi che portano il segno di responsabilità extraoccidentali precise sono comunque psicologicamente ricondotti a qualche malefatta pregressa. Un generico e vago senso che il terrorismo islamico nasca dalle angherie subite dai popoli colonizzati resiste, anche per i terroristi che vengono da paesi mai occupati, anche per i popoli mai stritolati dal calcagno dell’uomo bianco. In questi casi si sfoggia l’argomento della dominazione indiretta: non c’erano le truppe in abiti coloniali a dettare legge, ma c’era una sfera d’influenza, un giogo diffuso fatto di condizionamenti, controllo dei processi economici, dei commerci, un soggiogamento materiale messo in atto con tecniche occulte e tenuto insieme con filamenti invisibili. A ben vedere, il movimento no global non combatteva che questa maligna capacità di controllo occidentalista estesa al globo intero, tramite i grandi poteri finanziari e le multinazionali affiliate. Non è un caso che quella stagione antisistema fosse strettamente imparentata con l’ideologia ambientalista, fondata sulla madre di tutte le colpe, la progressiva distruzione del pianeta. Che si collochi il pianeta nell’orizzonte della creazione intelligente o della meravigliosa casualità, l’uomo può egualmente autoaccusarsi di contribuire costantemente alla distruzione del bene più prezioso. L’ambientalismo rigoroso e ateo, non francescano né benedettino né giovanpaolino, arriva fino a concludere che l’uomo non è che un ignobile parassita. Il maschio occidentale, che si crede l’uomo per eccellenza, è per definizione più parassita e malvagio del coltivatore di caffè alle pendici delle Ande che vende la merce ai mercatini equosolidali, ma nella sublimazione verde del senso di colpa il vero e unico imputato è il genere umano. Generalizzare di più non si può.
Ci sono frotte di scienziati, climatologi, antropologi, biologi e tuttologi che prefigurano l’apocalisse per mano d’uomo. È uno schema antropologico che rovescia la figura del buon selvaggio, opponendo quella del cattivo civilizzato, ma ci si muove pur sempre nel perimetro dell’antropocentrismo: buon amministratore del creato o malvagio distruttore, la figura umana è comunque titanicamente al centro della scena cosmica, si tratta solo di stabilire se il canovaccio che interpreta è una commedia o una tragedia. Anche il senso di colpa come lente attraverso cui leggere qualunque fenomeno sociale, politico, ambientale può essere collocato nell’alveo di una modernità in cui l’uomo è l’alfa e l’omega. Così l’imputato è allo stesso tempo pubblico ministero e giudice, e a guardar bene la sentenza di colpevolezza è già stata scritta prima di andare a processo. Il filosofo australiano Thom Van Dooren nel suo recente libro “Flight Ways, Life and Loss at the Edge of Extinction” sostiene che il genere umano sta lavorando attivamente alla sua stessa estinzione, e questo avviene perché “anziché pensare a noi stessi come a degli animali, abbiamo una lunga tradizione che ci porta a considerarci gli unici esseri dotati di anima immortale o come delle creature a sé, per la nostra razionalità, per la nostra abilità nel manipolare e dominare il mondo”. La terra ha conosciuto cataclismi ed estinzioni di massa, ma i dinosauri non si sono autodistrutti emettendo anidride carbonica, mentre l’estinzione umana che Van Dooren prefigura in modo apodittico “è un’estinzione antropogenica, di origine umana. La causa principale sono gli uomini”. Biologi, geologi e scienziati di ogni risma si affannano da decenni per definire e perimetrare l’antropocene, l’epoca della vita della terra la cui caratteristica prevalente è l’influenza umana. Qualche mese fa un team di ricercatori chiamato Anthropocene Working Group ha proposto il 16 luglio 1945 come data di inizio dell’antropocene: è il giorno in cui l’uomo ha testato per la prima volta una bomba nucleare, e la scelta suggerisce piuttosto chiaramente il legame fra antropocentrismo moderno e senso di colpa occidentale. È con un’esibizione della sua tremenda capacità distruttiva che inizia l’era della malvagia dominazione dell’uomo sul pianeta. Un articolo apparso su Nature propone invece contorni più vaghi, sostenendo che l’inizio dell’antropocene potrebbe esser collocato nel 1610 così come nel 1964, comunque all’interno dei confini di una modernità che ha messo l’uomo su un piedistallo. Il crollo delle fantasie positiviste di dominazione illuminata di ciò che esiste non ha buttato giù l’uomo dal piedistallo, semplicemente lo ha sostituito con un piedistallo di un metallo molto meno pregiato. Il podio del vincitore s’è trasformato nello sgabello che viene tolto sotto i piedi dell’impiccato. Da quel disperato punto di osservazione l’uomo, in particolare l’uomo occidentale, guarda il mondo in tutte le sue sfaccettature, dal riscaldamento globale allo Stato islamico, e pensa una sola cosa: me lo merito.