Israele non ha rubato e occupato alcuna terra altrui

Re: Israele non ha rubato e occupato alcuna terra altrui

Messaggioda Berto » dom mar 29, 2020 10:57 pm

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Re: Israele non ha rubato e occupato alcuna terra altrui

Messaggioda Berto » dom mar 29, 2020 10:58 pm

Il reale pensiero palestinese su Israele: un sondaggio rivelativo
Ugo Volli
25 Marzo 2020

https://www.progettodreyfus.com/palesti ... e-israele/

Anche in tempi di rischio medico generalizzato, come questi, la politica non si sospende e non spariscono le sue ragioni profonde, le scelte collettive che portano poi ai comportamenti organizzati e anche a quelli individuali, che nei casi più estremi passano dalla normale politica alla guerra e alla violenza terroristica, che purtroppo sono così comuni in Medio Oriente. Vale la pena dunque di parlare qui di un sondaggio uscito qualche giorno fa sugli atteggiamenti politici di una frazione piuttosto piccola, ma significativa degli arabi dell’Autorità Palestinese, quelli che vivono nei sobborghi di Gerusalemme, avendo il permesso di soggiorno che consente loro di muoversi liberamente nel territorio israeliano (e dunque di essere in contato con la realtà di Israele e non solo con la propaganda velenosa del terrorismo), ma che non ne hanno mai chiesto la cittadinanza. Il primo risultato che emerge è che su questo piano della cittadinanza c’è stato un allontanamento notevole. Nel caso un accordo di pace consentisse la scelta:

“dal 2010 al 2015, la percentuale di arabi della Gerusalemme Est che affermava di preferire la cittadinanza israeliana a quella palestinese era aumentata sostanzialmente: dal 35% a un notevole 52%. Ma quel numero è sceso precipitosamente, tra il 10 e il 20%, una volta che la intifada dei coltelli del 2015-16 ha alienato violentemente le due metà ebraiche e arabe della città. Nell’attuale indagine, tale percentuale sembra essersi stabilizzata intorno al 17%, rispetto ai due terzi che preferirebbero scegliere la cittadinanza in uno stato palestinese.”

Questo risultato dipende anche dalla percezione dello scopo collettivo più importante per i prossimi anni:

“Come i loro cugini in Cisgiordania e Gaza, la maggioranza (57%) degli arabi di Gerusalemme Est ora preferisce un obiettivo quinquennale di ‘riconquistare tutta la Palestina storica per i palestinesi, dal fiume al mare’, piuttosto che “porre fine al occupazione per raggiungere una soluzione a due stati ”(32%).

La stessa indicazione viene da una domanda successiva su cosa fare nel caso in cui “la leadership palestinese fosse in grado di negoziare una soluzione a due stati”. Meno di un quinto ha dichiarato “che dovrebbe porre fine al conflitto con Israele”, mentre oltre i due terzi hanno dichiarato “il conflitto non dovrebbe finire e la resistenza dovrebbe continuare fino a quando tutta la Palestina storica sarà liberata”.

“Circa tre quarti affermano che ‘qualsiasi compromesso con Israele dovrebbe essere solo temporaneo’. Quasi altrettanti pensano che ‘alla fine, i palestinesi controlleranno tutta la Palestina’, o perché ‘Dio è dalla nostra parte’ o perché ‘un giorno saremo più numerosi degli ebrei’. Persino sulla stessa Gerusalemme, circa i due terzi dei residenti arabi concordano almeno ‘in parte’ con questa posizione massimalista: ‘Dovremmo chiedere il dominio palestinese su tutta Gerusalemme, est e ovest, piuttosto che concordare di condividerne o dividerne una parte con Israele ‘. […]Tuttavia, quando tali domande sono formulate in termini non di “diritti” ma di aspettative realistiche, emerge una visione molto meno ottimistica. Ad esempio, tre quarti concordano almeno ‘in parte’ con questa affermazione: ‘Indipendentemente da ciò che è giusto, la realtà è che la maggior parte dei coloni israeliani rimarrà probabilmente dove sono, e la maggior parte dei rifugiati palestinesi non tornerà nelle terre del 1948’.”

Insomma, a quasi settantadue anni dalla nascita dello Stato di Israele, a quasi cento dai primi pogrom che segnano l’inizio vero della guerra araba contro gli ebrei in quelle terre, è chiaro che non vi è una disponibilità dalla maggior parte dei sudditi dell’Autorità Palestinese (anche della sua parte “moderata”) ad accettare la prospettiva di una convivenza normale con gli ebrei, anche nell’ipotesi di una divisione in due stati. Ed è chiaro che il sottinteso del progetto di una “lotta armata” fino alla “liberazione” dell’intera “Palestina Storica” (cioè di una “arabizzazione armata dello Stato di Israele”) è una strage di massa paragonabile alla Shoah. E’ chiaro che questo non è un pericolo immediato, come sanno anche gli arabi stessi – lo si vede dall’ultima domanda.

Ma quel che conta per loro è il rifiuto della “normalizzazione”, la conservazione del progetto, che si esprime in atti di violenza simbolica come gli accoltellamenti, i sassi sulle macchine, gli investimenti stradali, ma anche i razzi di Hamas e della Jihad islamica. Questi non sono affatto gesti isolati di supposti “lupi solitari” disperati, ma segnali della continuità di un progetto. Anche il giovane che tutto da solo si imbarca in un attentato omicida, da cui certamente capisce che non potrà uscire vivo, agisce contando sul consenso sociale, che corrisponde poi allo stipendio che l’Autorità Palestinese pagherà a lui, se imprigionato, o alla sua famiglia, se morirà nel tentativo omicida. Per questo Abbas non rinuncia a tali pagamenti: perché insieme alla propaganda martellante per il terrorismo e contro gli ebrei, essi sono il segnale più forte della continuità del progetto di “lotta armata” e in prospettiva di genocidio degli ebrei. Chi in Israele coltiva oggi di nuovo sogni di accordo con le organizzazioni palestiniste (dentro e fuori lo stato), ignora questo stato d’animo e si illude di poter risolvere il conflitto con concessioni che potrebbero solo apparire segni di resa e rafforzare la determinazione terrorista. Come purtroppo fecero gli accordi di Oslo.
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Re: Israele non ha rubato e occupato alcuna terra altrui

Messaggioda Berto » ven apr 03, 2020 9:34 pm

L’area C, la colonizzazione araba e la UE
3 aprile 2020

http://www.linformale.eu/larea-c-la-col ... a-e-la-ue/

Da alcuni anni, almeno dal 2012, si stà combattendo una vera a propria guerra poco nota ma estremamente pericolosa per il controllo dell’Area C di Giudea e Samaria. Prima di entrare in merito alla vicenda, è opportuno sottolineare che l’Area C di Giudea e Samaria, in base agli accordi ad interim noti come Oslo II e firmati da Israele e Autorità Nazionale Palestinese nel 1995, è di completo ed esclusivo controllo amministrativo e di sicurezza da parte di Israele.

È altresì da sottolineare che uno dei garanti degli accordi, la UE, ha in questa vicenda un ruolo centrale e che dimostra in modo inequivocabile come la UE non sia affatto super partes e come invece abbia assunto un ruolo attivo nel minare il rispetto degli accordi stessi.

La cosa, in tutta la sua gravità, è stata oggetto di indagini da parte di un giornalista e storico molto qualificato, Edwin Black, che, negli ultimi anni, ha dedicato una serie di articoli molto ben documentati su come la UE stia finanziando la costruzioni di interi villaggi abusivi in spregio agli accordi da lei stessa sottoscritti. Questo politica, assieme alla decisione di “etichettare” a scopo di discriminazione i prodotti israeliani di Giudea, Samaria e Golan, sono l’ennesima palese dimostrazione di come la UE di fatto sia parte attiva del problema per la non risoluzione del conflitto tra Israele e i palestinesi.

Dalla indagini di Edwin Black, emerge una situazione sul terreno davvero imbarazzante: la UE stà spendendo milioni di euro dei contribuenti europei per costruire interi villaggi arabi abusivi, senza sistema fognario e senza i minimi criteri igienico-sanitari, pur di alterare la situazione demografica dell’Area C, e per creare una situazione di fatto che si ripercuoterà nelle future trattative.

Black ha scoperto che la costruzione di insediamenti illegali palestinesi sta crescendo enormemente in tutta la Giudea e Samaria.

“Negli ultimi cinque anni, insediamenti e infrastrutture palestinesi illegali si sono estesi su oltre 9.000 dunam (9 chilometri quadrati) in oltre 250 aree dell’Area C, supportati da oltre 600 chilometri di strade di accesso costruite illegalmente e oltre 112.000 metri di muri di sostegno e terrazzamenti. Questo imponente progetto di lavori viene condotto in pieno giorno, spesso annunciato da alti cartelli pubblicitari e comunicati stampa”.

Questi insediamenti illegali e altri progetti in corso sono tutti finanziati con i soldi elargiti dalla UE, la quale è ben conscia dell’illegalità della cosa e del palese non rispetto degli accordi sottoscritti. Lo scopo dichiarato è la costituzione de facto di uno “Stato palestinese” sul terreno prima che esso venga concordato con Israele come invece prevedono gli Accordi di Oslo.

Per comprendere l’estensione dei progetti illegali finanziati dalla UE, Black fornisce una dettagliata serie di cifre: “La UE ha pompato centinaia di milioni di euro ogni anno in decine di edifici illegali e progetti correlati, chiamati Area C “interventi”. Un solo gruppo del programma di sviluppo dell’area C dell’Unione europea vanta un impegno annuo di 300 milioni di euro e, nel giro di tre anni, è previsto in bilancio per raggiungere circa 1,5 miliardi di euro. Una singola strada di 1.650 metri vicino a Jenin nella zona C è stata finanziata con una dotazione di € 500.000”.

Si può solo aggiungere che la stragrande maggioranza di questi villaggi sono nuovi e non nascono da esigenze di crescita demografica, ma sono intenzionalmente costruiti e popolati allo scopo di alterare la natura demografica del territorio in modo artificiale. In pratica migliaia di famiglie arabe sono incentivate a lasciare i loro villaggi di origine per insediarsi in quelli nuovi e abusivi per meri scopi politici. La maggior parte di questi edifici recano in bella vista il logo della UE.

Nei pochi casi di intervento da parte delle autorità israeliane, le uniche competenti in base agli accordi firmati tra le parti, dopo anni di denuncie e ricorsi alla Corte Suprema nei quali è stata decisa la demolizione di questi edifici, si è subito scatenata una campagna mediatica e politica di ONG israeliane, europee e americane oltre che dei funzionari UE che denunciavano le “arbitrarie e illegali demolizioni” israeliane di “interi villaggi palestinesi”, riempiendo i media occidentali con accuse di crimini di guerra. La UE ha addirittura minacciato lo Stato di Israele di fargli causa per aver demolito le costruzioni illegali arrecando danno ai contribuenti europei.

Il governo israeliano, sotto pressione internazionale, ha di fatto chiuso più di un occhio su questi abusi edilizi contrari agli accordi sottoscritti tra le parti. Un caso esemplare è quello del villaggio beduino di al-Khan al-Akhmar. Costruito per lo più con baracche e lamiere, è diventato un chiaro esempio di doppio standard politico quando le autorità israeliane, dopo il pronunciamento della Corte suprema, hanno deciso di spostare i suoi abitanti trasferendoli in un altro villaggio, costruito da Israele con tutti i crismi igienico sanitari, e dotato di case in muratura con fogne e acqua corrente. Si è immediatamente scatenata una campagna mediatica orchestrata da ONG e funzionari UE che ha riempito tutti i mass media del mondo. Per adesso il progetto di reinsediamento è stato sospeso per volontà del governo a causa delle pressioni internazionali.

C’è anche da sottolineare che il governo israeliano nel luglio del 2019 ha rilasciato oltre 700 permessi per costruire in aggiunta a quelli già concordati con l’ANP l’anno prima. Per tutta risposta il governo palestinese ha affermato che esso non considera più valide le distinzioni tra area A, B e C in Giudea e Samaria e che si sente autorizzatio a costruire dove crede a prescindere dagli accordi sottoscritti.

Questo comportamento da parte palestinese dovrà essere tenuto in considerazione da qualsiasi governo israeliano che dovrà eventualmente sedersi a un tavolo per accordarsi al fine di trovare una soluzione pacifica e concordata.
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Re: Israele non ha rubato e occupato alcuna terra altrui

Messaggioda Berto » lun apr 27, 2020 7:50 am

Gli ebrei, dove sono sempre stati. Il legame ebraico con la Palestina
Niram Ferretti
19 Luglio 2018

https://www.progettodreyfus.com/ebrei-o ... palestina/

La narrativa demonizzante su Israele prevede, come tutte le costruzioni ideologiche, gli affatturamenti propagandistici, alcuni capisaldi inamovibili. Il dottor Joseph Goebbels, tra i maggiori esperti in materia, spiegava come fosse necessario ripetere senza sosta poche semplici idee, affinché la mente umana, organo assai poroso, le assorbisse facilmente.

Tra i capisaldi vige la leggenda che gli ebrei avrebbero sottratto terre a un popolo autoctono “palestinese” poi oppresso e confinato in recinti appositi, dai quali cercherebbe di liberarsi attraverso una resistenza nobile. Favole come queste, in cui da una parte si trovano le vittime e dalle altre gli oppressori, rispondono a una necessità schematica, al bisogno di semplificare se non, come in questo caso, di alterare completamente la realtà dei fatti. E la realtà ci dice che in quella terra chiamata Palestina non vi fu mai un mitico popolo palestinese, più di quanto vi sia stato un leggendario ceppo ariano che avrebbe avuto nei tedeschi i suoi discendenti più incontaminati.

Si potrebbe brevemente partire da alcuni nomi biblici, come Giudea e Samaria, poi denominate dagli inglesi occupanti (loro sì lo furono) Cisgiordania e quindi in arabo Diffah I–Garbiyyah, (West Bank), quando i giordani occuparono il territorio dal 1948 al 1967, cacciando da esso tutti gli ebrei, dopo esserselo annesso illegalmente nel 1951. Queste terre, oggi, sarebbero secondo l’ONU, “territori palestinesi”. Il problema grave è che non lo sono e non lo sono mai stati non essendovi alcuna base giuridica che giustifichi tale postulato. Certo, non è un mistero che lo sino sia per Fatah che per Hamas, ma per essi anche Tel Aviv, Gerusalemme, Haifa, e perché no? tutto il resto di Israele sarebbe “territorio palestinese”. Infondo è quello che hanno sempre pensato gli arabi, da Amin al Husseini a Yasser Arafat per giungere oggi ad Abu Mazen.

Gli arabi invasero la Palestina, (così chiamata per dispetto verso gli ebrei nel 135 A.C. dall’imperatore Adriano), nel VII secolo, ed è ragionevole affermare che una legittima rivendicazione sul territorio essi l’abbiano, tuttavia gli ebrei vi erano già insediati da più di un millennio. Ora, qualcuno potrebbe obbiettare, “In ogni caso, dopo la conquista, quella divenne terra musulmana” e non vi è dubbio alcuno che per l’Islam una terra conquistata lo sia per sempre, come specifica senza alcun infingimento la Carta di Hamas del 1989 riguardo alla Palestina. Anche i Pirenei e la Sicilia, per il dettato islamico, sono eternamente assegnati all’Umma. Ma l’Islam non fu dominatore incontrastato e la regione chiamata Palestina passò dagli arabi ai cristiani e poi di nuovo agli arabi con la definitiva cacciata dei crociati da parte di questi ultimi. In questo periodo di tempo, gli ebrei furono, seppure minoritari, continuativamente sul territorio. Dalla caduta del Secondo Tempio nel 70 DC, in poi. I “palestinesi” non erano ancora apparsi sulla scena. Sarebbero arrivati solo molto tempo dopo quando I tempi sarebbero stati più propizi alla loro comparsa poi fatta risalire addirittura ai primordi della storia. E’ specifico dell’Islam l’anacronismo intenzionale. Tutto è islamico, persino Adamo ed Eva, figuriamoci i Gebusei e i Cananei.

Nel 1695, l’orientalista danese Hadrian Reland scoprì che in Palestina nessuno degli insediamenti conosciuti aveva un nome arabo. La maggioranza dei nomi degli insediamenti erano infatti ebraici, greci o latini. Il territorio era praticamente disabitato e le poche città, (Gerusalemme, Safad, Jaffa, Tieberiade e Gaza) erano abitate in maggioranza da ebrei e cristiani. Esisteva una minoranza musulmana, prevalentemente di origine beduina, che abitava nell’interno.

Reland pubblicò a Utrecht nel 1714 un libro dal titolo Palaestina ex monumentis veteribus illustrata, nel quale non c’è alcuna prova dell’esistenza di un popolo palestinese, né di un’eredità palestinese né di una nazione palestinese. In altre parole, nessuna traccia di una storia palestinese. Ed è normale che così fosse poiché i turchi, ma non arabi, dominarono il territorio per quattro secoli.

L’entità turca, non palestinese, cessò di esistere con la fine della prima guerra mondiale, quando l’Inghilterra e la Francia, potenze vittoriose, si spartirono ciò che restava di quel vasto impero, di cui la minuscola Palestina era solo un frammento di scarso conto. La storia è fatta di tanti passaggi, spesso tortuosi, ma anche chiari. E qui la chiarezza dei passaggi storici è esemplare.

Il Medioriente come lo conosciamo oggi, con la Palestina odierna, la Siria, la Giordania, l’Iraq, il Libano, è il frutto della fine dell’impero Ottomano e della sua riconfigurazione da parte delle potenze occidentali. Nel 1922 il Mandato Britannico per la Palestina assegnò agli ebrei la possibilità di insediarsi in tutti i territori ad occidente del fiume Giordano. Questa disposizione non è mai decaduta ma venne fatta propria dall’allora Società delle Nazioni oggi ONU che ha poi provveduto sotto impulso arabo-sovietico a contraddirla molte volte deliberando che quegli stessi territori siano arabi. Niente di più falso.

Sarebbe bello per i cantori propalestinesi produrre un documento che attesti sulla base del diritto internazionale di cui tanto blaterano, che gli “occupanti” israeliani avrebbero conculcato la terra ai legittimi proprietari musulmani, ma non possono produrlo, perché questo documento non esiste.

Fermiamoci qui per il momento. Optiamo per un piccolo esperimento di fantastoria. Dotiamoci della macchina del tempo. Torniamo indietro. Dove ci fermiamo? Ripristiniamo i confini dell’impero Ottomano, (in questo caso dovremmo assegnare la Palestina alla Turchia attuale), oppure torniamo al dominio cristiano (in questo caso dovremmo assegnare la Palestina al patriarcato greco ortodosso), oppure retrocediamo ancora e antecediamo il VII secolo, prima della colonizzazione musulmana del Medioriente. Oggi non troveremo più i romani a cui metterla a disposizione. Dissolto è l’impero con tutte le sue invincibili centurie. Retrocediamo ancora. Chi sono quelli? Ah, sono gli ebrei. Eccoli lì, gli ebrei. In Palestina, o Giudea, come era conosciuta la regione prima di Adriano. Eccoli lì, in Giudea e Samaria, dove sono sempre stati, nei “territori palestinesi”da Giacobbe in poi. Gli ebrei.

Fino alla fine del Mandato Britannico per la Palestina, gli ebrei che vivevano in quella regione, venivano definiti “palestinesi” come gli arabi, lo sapeva?
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Re: Israele non ha rubato e occupato alcuna terra altrui

Messaggioda Berto » lun apr 27, 2020 7:51 am

11 aprile 1909: nasce Tel Aviv, la prima città ebraica moderna
Johnny Spata
11 Aprile 2016

http://www.linformale.eu/nasce-tel-aviv ... a-ebraica/

L’11 aprile 1909 venne fondata Tel Aviv, la prima città ebraica moderna.
In quella zona c’erano insediamenti fin dal tempo della Bibbia: nei libri di Giosuè, Giona e i due libri delle Cronache si citano presenze nella città di Giaffa o Jaffa, come viene chiamata oggi. Nel Medioevo, la città portuale ha cambiato più volte governo e dominazioni, dagli arabi ai crociati ai mamelucchi, ma dal 1880 Jaffa è diventata una città portuale ottomana ben protetta.

Così fino al tardo XIX secolo, quando molti ebrei si stabilirono nella zona adiacente a Giaffa. Gli ebrei yemeniti furono tra i primi ad arrivare e subito dopo un gran numero di pionieri ebrei provenienti dall’Europa iniziò a coltivare le dune di sabbia. Con l’arrivo di altri sionisti alla fine del XIX secolo, nel 1906, un gruppo di residenti ebrei di Jaffa e dei vicini insediamenti agricoli fondò una società con l’intenzione di costruire una città ebraica moderna in Terra Santa. Tre anni più tardi furono in grado di acquistare il terreno e registrare gli atti con l’Impero Ottomano.


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atto notarile ottomano (chiamato ‘Kushan’), concesso nel 1909 ad una delle prime 66 famiglie fondatrici di Tel Aviv. Si trova alla Stanford University Library (Stanford, California)” width=”300″ height=”427″ /> Un atto notarile ottomano (chiamato ‘Kushan’), concesso nel 1909 ad una delle prime 66 famiglie fondatrici di Tel Aviv.
Si trova alla Stanford University Library (Stanford, California)




I pionieri sionisti si riunirono l’11 aprile 1909, su una delle spiagge spoglie del Mediterraneo, per la spartizione delle terre. Il nome di ogni membro venne scritto sulle conchiglie e, una ad una, le 66 famiglie ebree ricevettero la loro porzione di terra. Così iniziò la costruzione della “prima città ebraica”. Il nome originario era Ahuzat Bayit, che significa fattoria. Il 21 maggio 1910, però, dopo un lungo dibattito, una commissione comunale decise che la città si sarebbe chiamata Tel Aviv, citata anche da Ezechiele 03:15: “E giunsi da quelli ch’erano in cattività a Tel Aviv presso al fiume Kebar, e mi fermai dov’essi dimoravano; e dimorai quivi sette giorni, mesto e silenzioso, in mezzo a loro”.

La commissione ha rilevato che il nome era estremamente appropriato per esprimere l’idea di una rinascita ebraica e il compimento delle profezie bibliche su un ritorno a Sion. Con la parola “Tel” si intende un antico tumulo composto da resti di insediamenti precedenti e “Aviv” è la parola ebraica per primavera, simbolo di rinnovamento. La bandiera e lo stemma della città hanno espresso l’idea di rinnovamento, che è contenuta in un verso di Geremia 31:4. “Io ti riedificherò, e tu sarai riedificata, o vergine d’Israele!”.

Oggi Tel Aviv, dalle 66 famiglie originarie, conta una popolazione di quasi mezzo milione di persone ed è considerata uno dei primi 25 centri finanziari del mondo. Più di un milione di turisti ogni anno visitano la “città che non dorme mai” per sperimentare la cultura, la cucina e la vita notturna.
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Re: Israele non ha rubato e occupato alcuna terra altrui

Messaggioda Berto » lun apr 27, 2020 7:51 am

La conferenza di Hails Italia riconosce la Giudea-Samaria come parte di Israele
Di David Sidman
26 aprile 2020

Benedirò quelli che ti benediranno Genesi 12: 3 (The Israel Bible ™)

Il primo ministro italiano Giuseppe Conte tiene una conferenza stampa dopo il vertice del Consiglio europeo di Bruxelles, in Belgio, il 29 giugno 2018. (cortesia: Shutterstock)

Il primo ministro italiano Giuseppe Conte ha scritto una lettera alla coalizione europea per Israele in occasione dell'anniversario della conferenza di Sanremo, conclusasi domenica 100 anni fa secondo quanto riferito da Israel Hayom .

Nel suo messaggio, Conte ha toccato il significato principale della conferenza, che ha coinvolto le maggiori potenze mondiali nell'accettare il principio di una casa per la nazione ebraica nella Terra di Israele - compresi Giudea e Samaria.

Conte scrisse che la conferenza sigillò effettivamente la Dichiarazione Balfour del 1917 come parte del detto del diritto internazionale. "Uno dei semi dell'olivo che doveva diventare il simbolo del moderno Stato di Israele è stato piantato a Sanremo", afferma.

"A Sanremo , agli ebrei fu promessa una casa nazionale in Palestina e l'esplicito diritto di" stabilirsi "in tutto il territorio che includeva naturalmente la Giudea e la Samaria", spiega il professor Eugene Kontorovich del Forum di Kohelet.
Il problema è iniziato dopo che la Giordania e l'Egitto hanno occupato illegalmente gran parte di questi territori, che è stato in gran parte trascurato dalle potenze mondiali. "Gran parte della comunità internazionale ha fatto finta che le sue precedenti garanzie non esistessero", ha aggiunto Kontorovich.
Lodare questo storico evento sembra contravvenire alla politica di lunga data dell'UE di riconoscere la presenza ebraica in Giudea e Samaria come "illegale ai sensi del diritto internazionale". T egli UE dice che non riconosce la sovranità israeliana sulla Giudea e Samaria e che, pertanto, qualsiasi annessione della regione sarebbe una violazione del diritto internazionale.
Ma Conte non era solo nella sua lode. Anche David Friedman, ambasciatore israeliano del presidente Trump, ha segnato lo storico incontro
“Ricordando oggi il 100 ° anniversario della Risoluzione di Sanremo, in base al quale le potenze mondiali hanno riconosciuto l'antica connessione del popolo ebraico con la Terra di Israele e il diritto del popolo ebraico a una casa nazionale su quella terra è stato dato la forza del diritto internazionale “.




Realismo senza scampo
28 aprile 2020

http://www.linformale.eu/realismo-senza-scampo/

A luglio, salvo colpi di scena, il neogoverno diarchico Netanyahu-Gantz, darà il via libera all’annessione di una parte degli insediamenti in Giudea e Samaria (Cisgiordania, West Bank), con il benestare indispensabile degli Stati Uniti.

Già si sta diffondendo il mantra che una simile decisione assesterà un “colpo decisivo” al “processo di pace” e che si tratterebbe di una decisione in violazione del “diritto internazionale”.

Si tratta di puri flatus vocis.

Il cosiddetto processo di pace è in stallo dal 1993, da quando vennero stilati gli Accordi di Oslo, che regalarono a Israele due intifade, la più sanguinosa delle quali, la seconda, che durò dal 2000 al 2005, un anno oltre la morte del suo ispiratore, Yasser Arafat.

Nel frattempo, a Camp David, nel luglio del 2000, sotto l’egida di Bill Clinton, Ehud Barak offrì ad Arafat il venire in essere di uno Stato palestinese demilitarizzato che avrebbe incluso il grosso della Giudea e Samaria, la Striscia di Gaza e avrebbe avuto com capitale Gerusalemme Est.

Il 90, 91 per cento dei territori conquistati da Israele nel 1967 dopo la Guerra dei sei giorni, e che il Mandato Britannico per la Palestina del 1922 aveva assegnato agli ebrei, sarebbe passato sotto sovranità palestinese. Gerusalemme, che Yitzhak Rabin, uno degli artefici degli Accordi di Oslo, aveva ribadito sarebbe rimasta unificata sotto tutela israeliana, sarebbe stata invece divisa e gli arabi palestinesi avrebbero anche avuto il controllo su una parte della Città Vecchia. Da parte di Barak c’era anche la disponibilità di concedere piena compensazione ai rifugiati palestinesi per la perdita delle loro proprietà a causa della guerra del 1948-1949 e la disponibilità ad assorbire una parte dei rifugiati più anziani. Insomma un pacco regalo munifico. L’allora inviato statunitense per il Medio Oriente, Dennis Ross, nelle sue memorie ricorda di come Bill Clinton, a un certo punto, perse la calma e urlò ad Arafat, “Sei stato qui quattordici giorni e hai detto di no a tutto”.

Il 26 luglio del 2000 il summit si sciolse senza un nulla di fatto. Otto anni dopo, fu un altro Ehud, Olmert, primo ministro israeliano che offrì a Abu Mazen il rinnovo della proposta di Barak mostrando al presidente dell’Autorità Palestinese una mappa con i confini dello Stato che avrebbe ricevuto. Attese che Abu Mazen desse un segno di assenso che non arrivò mai.

Da allora a oggi sono passati altri dieci anni, durante i quali, mai l’Autorità Palestinese ha fatto passi avanti per incontrare Benjamin Netanyahu e potere giungere a un risultato positivo, adducendo pretesti per evitare di sedersi a un tavolo negoziale, come quello di sostenere che era l’incremento degli insediamenti in Giudea e Samaria il problema principale alla ripresa dei negoziati. Questa fola, intrioettata dall’amministrazione Obama costrinse nel 2009 Benjamin Netanyahu a congelare per dieci mesi i permessi di costruzione per i nuovi residenti e sulle nuove costruzioni residenziali negli insediamenti. Risultato? Non accadde nulla. D’altronde nulla poteva accadere. Abbas aveva negoziato con sei primi ministri israeliani, Rabin, Peres, Netanyahu al suo primo mandato, Barak, Sharon e Olmert senza la precondizione richesta successivamente a Netanyahu.

Il “processo di pace” nulla altro è che una pura fiction che l’amministrazione Trump, nel piano proposto ha svelato chiaramente, incardinandolo prima su l’assunto che la presenza ebraica nei territori della Giudea e Samaria, in base al Mandato Britannico per la Palestina del 1922, reso possibile dalla Conferenza di San Remo del 1920, è perfettamente legittima per il diritto internazionale e, in seconda battuta, che non può avviarsi alcuna reale pacificazione se non viene riconosciuta di fatto la legittimità non solo geografica ma esistenziale di Israele.

Perchè il punto principale, a monte di ogni altra considerazione, è solo ed unicamente questo, tutto il resto, per dirla col poeta, discende per li rami, ovvero è il rifiuto arabo e islamico nei riguardi dell’esistenza di uno Stato ebraico su un suolo considerato in perenne dotazione all’Islam. Era così negli anni Venti è così ancora oggi. L’unica differenza rilevante è, che da allora a oggi, gli arabi e i musulmani in generale hanno dovuto constatare che distruggere Israele non è una impresa facile.

La futura annessione dei legittimi insediamenti ebraici in una regione del paese che è il cuore stesso della storia ebraica ed emblema di quel legame mai venuto meno con la Palestina da parte del popolo ebraico, riconosciuto a San Remo nel 1920, è solo ed unicamente una affermazione di realismo.

Nessuna pace potrà mai esserci se chi, non avendola mai voluta, non si renderà conto che Israele ha pieno diritto di esistere ed è definitivamente parte dell’assetto mediorientale. Solo allora si potrà proseguire. Tutto ciò era ben noto a Vladmir Jabotinsky nel 1923, quando, nel suo più celebre articolo, Il Muro di Ferro, scriveva con la consueta lucidità, “La mia intenzione non è quella di affermare che un qualsiasi accordo con gli arabi palestinesi sia assolutamente fuori questione. Finchè sussiste nello spirito degli arabi, la benchè minima scintilla di speranza di potersi un giorno disfare di noi, nessuna buona parola, nessuna promessa attraente indurrà gli arabi a rinunciare a questo spirito.”

La scintilla di speranza di potersi un giorno disfare di Israele è ciò che da allora in poi ha alimentato costantemente il tentativo di distruggerlo e che solo il muro di ferro della realtà ha potuto e può respingere.
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Re: Israele non ha rubato e occupato alcuna terra altrui

Messaggioda Berto » ven mag 01, 2020 12:28 pm

La fiction “processo di pace”
Niram Ferretti
30 Aprile 2020

http://www.italiaisraeletoday.it/la-fic ... o-di-pace/

A luglio, salvo colpi di scena, il neogoverno diarchico Netanyahu-Gantz, darà il via libera all’annessione di una parte degli insediamenti in Giudea e Samaria (Cisgiordania, West Bank), con il benestare indispensabile degli Stati Uniti. Già si sta diffondendo il mantra che una simile decisione assesterà un “colpo decisivo” al “processo di pace” e che si tratterebbe di una decisione in violazione del “diritto internazionale”. Si tratta di puri flatus vocis. Il cosiddetto processo di pace è in stallo dal 1993, da quando vennero stilati gli Accordi di Oslo, che regalarono a Israele due intifade, la più sanguinosa delle quali, la seconda, che durò dal 2000 al 2005, un anno oltre la morte del suo ispiratore, Yasser Arafat.

Nel frattempo, a Camp David, nel luglio del 2000, sotto l’egida di Bill Clinton, Ehud Barak offrì ad Arafat il venire in essere di uno Stato palestinese demilitarizzato che avrebbe incluso il grosso della Giudea e Samaria, la Striscia di Gaza e avrebbe avuto com capitale Gerusalemme Est.

Il 90,91 per cento dei territori conquistati da Israele nel 1967 dopo la Guerra dei sei giorni, e che il Mandato Britannico per la Palestina del 1922 aveva assegnato agli ebrei, sarebbe passato sotto sovranità palestinese.

Gerusalemme, che Yitzhak Rabin, uno degli artefici degli Accordi di Oslo, aveva ribadito sarebbe rimasta unificata sotto tutela israeliana, sarebbe stata invece divisa e gli arabi palestinesi avrebbero anche avuto il controllo su una parte della Città Vecchia.

Da parte di Barak c’era anche la disponibilità di concedere piena compensazione ai rifugiati palestinesi per la perdita delle loro proprietà a causa della guerra del 1948-1949 e la disponibilità ad assorbire una parte dei rifugiati più anziani. Insomma un pacco regalo munifico. L’allora inviato statunitense per il Medio Oriente, Dennis Ross, nelle sue memorie ricorda di come Bill Clinton, a un certo punto, perse la calma e urlò ad Arafat, “Sei stato qui quattordici giorni e hai detto di no a tutto”.

Il 26 luglio del 2000 il summit si sciolse senza un nulla di fatto. Otto anni dopo, fu un altro Ehud, Olmert, primo ministro israeliano che offrì a Abu Mazen il rinnovo della proposta di Barak mostrando al presidente dell’Autorità Palestinese una mappa con i confini dello Stato che avrebbe ricevuto. Attese che Abu Mazen desse un segno di assenso che non arrivò mai.

Da allora a oggi sono passati altri dieci anni, durante i quali, mai l’Autorità Palestinese ha fatto passi avanti per incontrare Benjamin Netanyahu e potere giungere a un risultato positivo, adducendo pretesti per evitare di sedersi a un tavolo negoziale, come quello di sostenere che era l’incremento degli insediamenti in Giudea e Samaria il problema principale alla ripresa dei negoziati.

Questa fola, intrioettata dall’amministrazione Obama costrinse nel 2009 Benjamin Netanyahu a congelare per dieci mesi i permessi di costruzione per i nuovi residenti e sulle nuove costruzioni residenziali negli insediamenti. Risultato? Non accadde nulla. D’altronde nulla poteva accadere. Abbas aveva negoziato con sei primi ministri israeliani, Rabin, Peres, Netanyahu al suo primo mandato, Barak, Sharon e Olmert senza la precondizione richesta successivamente a Netanyahu.

Il “processo di pace” nulla altro è che una pura fiction che l’amministrazione Trump, nel piano proposto ha svelato chiaramente, incardinandolo prima su l’assunto che la presenza ebraica nei territori della Giudea e Samaria, in base al Mandato Britannico per la Palestina del 1922, reso possibile dalla Conferenza di San Remo del 1920, è perfettamente legittima per il diritto internazionale e, in seconda battuta, che non può avviarsi alcuna reale pacificazione se non viene riconosciuta di fatto la legittimità non solo geografica ma esistenziale di Israele.

Perchè il punto principale, a monte di ogni altra considerazione, è solo ed unicamente questo, tutto il resto, per dirla col poeta, discende per li rami, ovvero è il rifiuto arabo e islamico nei riguardi dell’esistenza di uno Stato ebraico su un suolo considerato in perenne dotazione all’Islam. Era così negli anni Venti è così ancora oggi. L’unica differenza rilevante è, che da allora a oggi, gli arabi e i musulmani in generale hanno dovuto constatare che distruggere Israele non è una impresa facile.

La futura annessione dei legittimi insediamenti ebraici in una regione del paese che è il cuore stesso della storia ebraica ed emblema di quel legame mai venuto meno con la Palestina da parte del popolo ebraico, riconosciuto a San Remo nel 1920, è solo ed unicamente una affermazione di realismo.

Nessuna pace potrà mai esserci se chi, non avendola mai voluta, non si renderà conto che Israele ha pieno diritto di esistere ed è definitivamente parte dell’assetto mediorientale. Solo allora si potrà proseguire.

Tutto ciò era ben noto a Vladmir Jabotinsky nel 1923, quando, nel suo più celebre articolo, Il Muro di Ferro, scriveva con la consueta lucidità, “La mia intenzione non è quella di affermare che un qualsiasi accordo con gli arabi palestinesi sia assolutamente fuori questione. Finchè sussiste nello spirito degli arabi, la benchè minima scintilla di speranza di potersi un giorno disfare di noi, nessuna buona parola, nessuna promessa attraente indurrà gli arabi a rinunciare a questo spirito.”

La scintilla di speranza di potersi un giorno disfare di Israele è ciò che da allora in poi ha alimentato costantemente il tentativo di distruggerlo e che solo il muro di ferro della realtà ha potuto e può respingere.
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Re: Israele non ha rubato e occupato alcuna terra altrui

Messaggioda Berto » dom mag 03, 2020 6:27 pm

Il pregiudizio del giudice
Fiamma Nirenstein
3 Maggio 2020

http://www.italiaisraeletoday.it/il-pre ... l-giudice/


Fa male che negli angoli della crisi mondiale del Coronavirus, mentre si insinuano nei media occidentali le mostruosità che fanno degli ebrei, ovvero di Israele, l’untore che avrebbe diffuso il morbo per che scopo… Fa male, dicevo, che la signora Bensouda, presidente della Corte Criminale Internazionale (ICC) marci verso l’incriminazione di Israele per crimini di guerra. Per farlo doveva stabilire che la “Palestina” è uno Stato. L’ha fatto, così può, secondo regole inusitate e stupefacenti, accogliere il suo punto di vista di incitamento antisraeliano. Ha abbracciato una presa di posizione contestata da dozzine di esperti e istituzioni, fra cui il governo tedesco.

La storia della presidente dell’ICC è molto politica. Gli Stati Uniti le avevano già da tempo tolto il visto di ingresso per le sue posizioni di pregiudizio continuo contro Israele e contro gli Stati Uniti. I sostenitori della posizione palestinese sono la Lega Araba e la Conferenza Islamica. La ICC aveva accettato nel 2015 che la “Palestina” fosse immessa nella Assemblea degli Stati membri; anche se la Bensouda ha detto che non aveva ricevuto proteste formali il Canada, la Germania, l’Olanda, l’Inghilterra hanno invece protestato.

Lo statuto dell’ICC limita la sua giurisdizione agli Stati membri. Oggi non esiste uno Stato palestinese, la decisione è stata fatta come mezzo politico di avanzamento delle richieste palestinesi e di gruppi anti-israeliani vari, mina e predetermina alla fondamenta qualsiasi negoziato fra le parti.

L’ICC a causa della scelta della signora Bensouda diminuisce di molto il suo ruolo super partes di giudice, la sua integrità e credibilità internazionale. La signora Bensouda riconosce il suo “Stato palestinese” affidandolo al concetto di “autodeterminazione” e a una serie di affermazioni che altro non sono che pregiudizi antisraeliani così crassi, che, se non si trattasse di un così esimio presidente, sembrerebbero figli di ignoranza. Il passo successivo che ha in mente è certo quello di processare Israele: un altro anello necessario nella solita catena dell’israelofobia.

Tutto questo, per questo duole di più, in tempo di Coronavirus, in cui Israele valorosamente combatte per la propria vita e per quella dei suoi vicini, persino di quelli di Hamas (a proposito, la signora Bensouda potrebbe forse riconoscere, già che c’e’, due Stati Palestinesi, uno a Ramallah e uno a Gaza).
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Re: Israele non ha rubato e occupato alcuna terra altrui

Messaggioda Berto » dom mag 03, 2020 6:28 pm

La falsa narrativa della "Nakba"
Raphael G. Bouchnik-Chen
Postato il 21 Aprile 2019

http://www.linformale.eu/la-falsa-narra ... lla-nakba/

Sommario: Il termine “Nakba”, originariamente coniato per descrivere l’estensione della sconfitta palestinese e araba autoinflitta nella guerra del 1948, è diventato negli ultimi decenni un sinonimo del vittimismo palestinese, con gli aggressori falliti trasformati in vittime sfortunate e viceversa . Israele dovrebbe fare tutto il possibile per sradicare questa falsa immagine esponendo la sua base storica palesemente falsa.

Ai giorni nostri, il fallito tentativo palestinese di distruggere lo Stato di Israele alla sua nascita e la conseguente fuga di circa 600.000 arabi palestinesi, è diventato noto a livello internazionale come la “Nakba”, la catastrofe, accompagnato da false implicazioni di vittimismo.

Ironicamente, questo era l’opposto del significato originale del termine, quando fu applicato per la prima volta al conflitto arabo-israeliano dallo storico siriano Constantin Zureiq. Nel suo opuscolo del 1948, Il significato del disastro (Ma’na al-Nakba), Zureiq attribuì la fuga palestinese / araba all’assalto panarabo contro il nascituro Stato ebraico piuttosto che a un premeditato disegno sionista per diseredare gli arabi palestinesi:

“Quando è scoppiata la battaglia, la nostra pubblica diplomazia ha cominciato a parlare delle nostre vittorie immaginarie, allo scopo di addormentare il pubblico arabo e parlare della capacità di vincere e vincere facilmente – fino a quando si è verificata la Nakba… Dobbiamo ammettere i nostri errori … e riconoscere l’estensione della nostra responsabilità per il disastro che grava su di noi”.

Zureiq ha sottoscritto questa visione critica per decenni. In un libro successivo, Il significato della catastrofe (Ma’na al-Nakbah Mujaddadan), pubblicato dopo la guerra del giugno 1967, definì quest’ultima sconfitta come una “Nakba” piuttosto che come una “Naksa” (o battuta d’arresto), come venne ad essere definita nel discorso arabo, in quanto – proprio come nel 1948 – fu un disastro autoinflitto provocato dall’incapacità del mondo arabo di confrontarsi con il sionismo.

A quel tempo, il termine “Nakba” era chiaramente assente dal discorso arabo e / o palestinese. La sua prima menzione – nell’influente libro di George Antonius The Arab Awakening – non aveva nulla a che fare con il (ancora inesistente) conflitto arabo-israeliano, ma con la creazione successiva alla Seconda guerra mondiale del moderno Medio Oriente (“L’anno 1920 ha una cattiva nomea negli annali arabi: è indicato come l’Anno della Catastrofe o, in arabo, Aam al-Nakba “).

Allo stesso modo, nel suo libro del 1956 Fatti sulla questione della Palestina (Haqa’iq e Qadiyat Falastin), Hajj Amin Husseini, il capo degli arabi palestinesi dai primi anni 1920 al 1948, usò il termine “al-Karitha” per descrivere il crollo e la dispersione araba-palestinese. Secondo l’accademico palestinese Anaheed Al-Hardan dell’Università americana di Beirut, ciò riflette il desiderio di Husseini di evitare il termine “Nakba”, che all’epoca era ampiamente associato a un disastro arabo palestinese autoinflitto – sia attraverso vendite di terreni ai sionisti, incapacità di combattere, o dando istruzioni alle persone di andarsene.

Né il termine riemerse per decenni dopo la guerra del 1948 – nemmeno nel sacro documento di fondazione dell’OLP, The Palestinian Covenant (1964, revisionato nel 1968). Fu solo alla fine degli anni ’80 che cominciò a essere ampiamente percepita come una ingiustizia inflitta da Israele. Ironia della sorte, fu un gruppo di nuovi storici” israeliani politicamente impegnati, che fornirono al movimento nazionale palestinese forse il suo miglior strumento di propaganda capovolgendo la saga della nascita di Israele, con gli aggressori trasformati in vittime sfortunate e viceversa, sulla base di una massiccia deformazione delle prove archivistiche.

Mentre generazioni precedenti di accademici e intellettuali palestinesi si erano astenuti dall’esplorare le origini della sconfitta del 1948, il presidente dell’OLP Yasser Arafat, che era stato trasferito a Gaza e in Cisgiordania come parte degli Accordi di Oslo del 1993 e aveva permesso di stabilire la sua Autorità Palestinese (AP) in alcune parti di quei territori, colse l’immenso potenziale di reincarnare la Nakba come simbolo del vittimismo palestinese piuttosto che come un disastro autoinflitto. Nel 1998, proclamò il 15 maggio una giornata nazionale di commemorazione della Nakba. Negli anni successivi, la “Nakba Day” diventò una componente integrale della narrativa nazionale palestinese e l’evento più importante che commemora la “catastrofe” del 1948.

La sensibilità israeliana nei confronti del termine “Nakba” crebbe quando si venne a sapere che il 15 maggio 2007, il Segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki Moon aveva telefonato al presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas per esprimere simpatia nei confronti dell popolo palestinese in onore della “Nakba Day”. Il vice capo della missione delle Nazioni Unite di Israele lamentò che la parola “Nakba” era uno strumento di propaganda araba usato per minare la legittimità dell’istituzione dello Stato di Israele e non avrebbe dovuto fare parte del lessico delle Nazioni Unite.

Mentre i diplomatici israeliani erano impegnati a dissuadere le loro controparti dal cadere nella trappola della falsa narrativa dell’AP, nel luglio 2007 la Knesset discusse una decisione del ministro dell’educazione Yuly Tamir volta a includere la Nakba come argomento nel programma annuale per la minoranza araba in Israele.

Fortunatamente, il 30 marzo 2011, la legge sui principi di bilancio (nota come emendamento n. 40) – “Riduzione delle elargizioni finanziarie o supporti dovuti all’attività contro i principi dello Stato” – è stata pubblicata nel registro ufficiale israeliano. L’emendamento n. 40 ha aggiunto una sezione alla legge sui principi di bilancio del 1985 che autorizza il ministro delle finanze a ridurre le elargizioni finanziarie o il sostegno a qualsiasi organizzazione o entità che riceve finanziamenti statali se svolge una delle cinque attività seguenti:

Rigettare l’esistenza dello Stato di Israele come Stato ebraico e democratico.
Incitare al razzismo, alla violenza, o al terrorismo.
Sostenere la lotta armata o un’azione terrorista da parte di uno Stato nemico o di una organizzazione terroristica contro lo Stato di Israele.
Commemorare il Giorno dell’Indipendenza o il giorno della nascita dello Stato come un giorno di lutto.
Vandalizzare o dissacrare fisicamente la bandiera dello Stato o il suo simbolo.

L’emendamento n. 40, soprannominato in modo non ufficiale “la legge Nakba”, è ormai radicato nel discorso quotidiano giuridico e parlamentare israeliano, nonostante abbia dovuto fronteggiare forti critiche da parte dei partiti arabi che sostenevano che non superava la prova della libertà di espressione. A loro avviso, la legge minerebbe la libertà di espressione artistica in eventi come produzioni teatrali o letture di poesie che trattano esplicitamente della Nakba, dei profughi palestinesi o del desiderio di tornare in patria.

La legittimazione dell’uso ormai comune del termine “Nakba” nel discorso ufficiale israeliano, sia orientato positivamente che negativamente, fornisce un servizio alla causa palestinese. Se considerato come un segmento integrale della storia israeliana, il termine contraddice la posizione corretta di Israele che respinge la responsabilità per la creazione del problema dei rifugiati. Nel processo, legittima la falsa narrativa vittimistica palestinese che definisce la Nakba come il “più grande peccato del Ventesimo secolo”.

La “Nakba” non è un fatto. È un termine manipolatorio e accattivante progettato allo scopo di servire la campagna di propaganda palestinese contro Israele. Israele dovrebbe astenersi dal legittimare il termine, in quanto impone un falso senso di colpa o di colpevolezza per la creazione del problema dei rifugiati addossandolo allo Stato. Né si dovrebbe usare la parola per riferirsi alla deportazione di massa degli ebrei dagli stati arabi, poiché ciò crea un’impressione di ingiustizia equivalente. La fuga degli arabi palestinesi è stata il risultato diretto di una fallita “guerra di sterminio e di un massacro epocale” (nelle parole del segretario generale della Lega araba). L’espulsione delle proprie popolazioni ebraiche da parte degli Stati arabi fu un atto inequivocabile di pulizia etnica.

Israele farebbe bene a dare nuovamente ascolto al discorso epocale di Abba Eban, allora ambasciatore israeliano presso le Nazioni Unite, tenuto il 17 novembre 1958. Affrontò la questione dei rifugiati senza usare il termine Nakba:

“Il problema dei rifugiati arabi è stato causato da una guerra di aggressione, lanciata dagli Stati arabi contro Israele nel 1947 e nel 1948. Che non ci siano errori. Se non ci fosse stata una guerra contro Israele, con il conseguente raccolto di sangue, miseria, panico e fuga, oggi non ci sarebbe alcun problema dei rifugiati arabi. Una volta che venga stabilita la responsabilità di quella guerra, si è determinata la responsabilità in merito al problema dei rifugiati. Nulla nella storia della nostra generazione è più chiaro o meno controverso dell’iniziativa dei governi arabi a favore del conflitto da cui è scaturita la tragedia dei rifugiati. Le origini storiche di quel conflitto sono chiaramente definite dalle confessioni dei governi arabi stessi: ‘Questa sarà una guerra di sterminio’, dichiarò il segretario generale della Lega araba parlando a nome di sei Stati arabi. ‘Sarà un massacro memorabile a cui riferirsi come a quello dei mongoli o alle crociate'”.




L’agenzia Onu per i palestinesi perpetua il conflitto arabo-israeliano
23 Dicembre 2019
https://www.ilfoglio.it/un-foglio-inter ... no-293749/

“L’Autorità palestinese e Hamas hanno festeggiato, venerdì scorso, e ne avevano ben donde. Quel giorno le Nazioni Unite hanno deciso di prorogare per altri tre anni il mandato dell’Unrwa, l’agenzia per profughi palestinesi”. Così scrive Ben Dror Yemini.

“La decisione non è passata con una maggioranza ristretta. Tutt’altro: ha ricevuto il sostegno praticamente unanime dell’Assemblea generale, con 169 paesi che hanno votato a favore, nove astenuti e solo due (Israele e Stati Uniti) contrari. Ma questo voto, ad un esame attento, appare più che altro una vittoria di Pirro.

L’Unrwa venne creata settant’anni fa, nel dicembre del 1949, solo cinque giorni dopo la creazione dell’Alto commissariato Onu per i Rifugiati (Unhcr). Al momento della sua fondazione, in base alla sua stessa definizione di “profugo palestinese” l’Unrwa prese in carico 711.000 rifugiati. Oggi, a seguito di quella definizione e di alcune modifiche ad essa apportate per includere tutti i discendenti di quei rifugiati, i profughi palestinesi in carico all’Unrwa sono circa 5,5 milioni. Come mai c’era bisogno di un’agenzia apposita (distinta da quella che si occupa di tutti gli altri profughi del mondo)? Perché a quell’epoca la dirigenza araba voleva solo una cosa: sfruttare la condizione dei profughi come un’arma per combattere l’esistenza di Israele. E chi pagò e continua a pagare il prezzo per quella scelta? I profughi, naturalmente, la cui condizione è diventata una ferita eternamente aperta.

Gli enormi budget che la comunità internazionale ha riversato per decenni all’Unrwa sarebbero bastati per dare a ogni famiglia di profughi una dimora più che dignitosa e fondare infrastrutture e imprese economiche che permettessero loro di ricostruirsi una vita, e di migliorarla generazione dopo generazione.

Più di 60 milioni di persone dovettero fuggire o vennero cacciate dalle loro case durante la prima metà del XX secolo a causa dei conflitti, delle loro conseguenze e della fondazione di nuovi stati nazionali. Il trasferimento e lo scambio di popolazioni era purtroppo una consuetudine. Ci fu anche una “nakba ebraica” (nakba è il termine usato dai palestinesi per indicare la “catastrofe” del loro esodo a seguito alla nascita d’Israele nel 1948 e della guerra che dovette combattere per difendersi dall’aggressione degli stati arabi). Circa 850.000 ebrei se ne andarono o furono espulsi dai paesi arabi, mentre tutti i loro beni venivano confiscati. Nessuno di loro, men che meno i loro discendenti, sono oggi considerati profughi a titolo ufficiale. Solo ai profughi arabi palestinesi viene assegnato questo titolo. L’unica istituzione che diffonde e perpetua questa idea di un “diritto al ritorno palestinese” è l’Unrwa, un diritto che non compare in nessuna legge internazionale.

Non ci sono 5,5 milioni di rifugiati palestinesi, è una bufala. Il Libano, ad esempio, afferma che complessivamente vi sono solo 475.000 profughi palestinesi. Un censimento condotto nel 2017 ha rilevato che, all’interno del Libano, si contano solo 174,00 profughi palestinesi, e tutti loro patiscono ciò che a buon diritto potrebbe essere descritto come un regime di apartheid (negazione della cittadinanza e segregazione civile e politica, ndr). La Giordania ha invece riconosciuto loro la cittadinanza, un fatto che di per sé dovrebbe cancellare lo status di “profugo”. Ma continua a sussistere una definizione generale per la gran parte dei profughi al mondo, e una definizione speciale valida solo per i profughi arabi palestinesi.

La soluzione alla questione dei profughi palestinesi dovrebbe essere la stessa prevista per tutti: riabilitazione e superamento dello status di profugo. Per farlo, non è necessario smantellare immediatamente l’Unrwa. Quello che occorre è un piano di tre-cinque anni che garantisca la cittadinanza ai palestinesi nei paesi dove vivono, e un budget destinato a promuovere la loro integrazione. Quelli di loro che resteranno veri profughi, quale che sia la loro effettiva quantità, saranno presi in carico direttamente dall’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati.

Persino Facebook ha deciso di donare soldi all’Unrwa. Qualcuno dovrebbe spiegare a Mark Zuckerberg che nelle scuole dell’Unrwa si insegna l’antisemitismo, cioè che quei soldi vanno ad alimentare l’odio anziché il benessere.

La decisione delle Nazioni Unite di prorogare per l’ennesima volta il mandato dell’Unrwa così com’è è una decisione a favore della conflittualità, volta soltanto a riverire la sofferenza e lo scontro. Non è questo il modo per risolvere le sofferenze dei profughi”.
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Re: Israele non ha rubato e occupato alcuna terra altrui

Messaggioda Berto » mer mag 13, 2020 6:34 pm

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