Da rileggere Kant sul diritto di ospitalitàMauro Porro
Il diritto di ospitalità in KantGennaro Puritano
http://www.atuttascuola.it/siti/puritan ... n_kant.htmL’ origine etimologica del termine ospitalità è riconducibile alla composizione di due lessemi latini che sono hospes e potis e stanno cioè ad indicare il rapporto in cui lo straniero (originariamente hostis/nemico) viene a trovarsi nei confronti dell'autorità pubblica di un ordinamento giuridico in cui non gode del diritto di cittadinanza.
Il primo concetto che Kant tiene ad enucleare e chiarire nel Terzo articolo definitivo della Pace perpetua (il diritto cosmopolitico dev'essere limitato alle condizioni di una universale ospitalità) è quello di ospitalità (hospitalitat).
Anzitutto, scrive Kant, l'ospitalità viene ad individuare non un principio di relazionalità filantropica bensì un diritto vero e proprio, icasticamente definibile come " il diritto di uno straniero che arriva su un territorio di un altro stato di non essere trattato ostilmente".
Ora per Kant il diritto di ospitalità assume una configurazione decisamente positiva. Esso non va inteso come la facoltà dello straniero ad essere ospitato ed accolto nelle strutture abitative di un determinato Stato e non implica, quindi, ad un obbligo di accoglienza coabitativa da parte dei cittadini del paese ospitante, bensì va ricondotto ad un diritto di visita, al riconoscimento della facoltà cioè di circolare liberamente sul territorio di ogni singolo Stato, " non si tratta di un diritto di ospitalità, cui si può fare appello... ma di un diritto di visita , spettante a tutti gli uomini...[ che] devono da ultimo rassegnarsi a incontrarsi e a coesistere". Questo diritto incontra l' invalicabile limite del rispetto, da parte del suo titolare, di un contegno pratico e pacifico, di una prassi che non si ponga in contrasto con i diritti e le libertà del paese in cui si è recato ([lo straniero] può essere allontanato, se ciò può farsi senza suo danno, ma, fino a che dal canto suo si comporta pacificamente, non si deve agire ostilmente contro di lui. I. Kant, Per la pace perpetua, a cura di G. Sasso, p. 120).Il fondamento di codesto diritto di visita giace per Kant nel diritto naturale ( o di ragione). Il filosofo di Konisberg parte dalla constatazione empirica che gli uomini sono necessariamente indotti dalla limitatezza della superficie terrestre a convivere, coabitare e relazionarsi. Kant stabilisce un limite a questo diritto di ospitalità, o per lo meno vuole definire l'ambito entro cui esso possa esercitarsi, dicendo che non può estendersi oltre le condizioni di una universale ospitalità, vuol dire che colui che è ospite di uno stato straniero non può approfittare di questa sua posizione per disgregare lo stato o per minacciarne l'esistenza. Questa clausola è chiaramente diretta contro l'ingerenza dei cittadini degli stati colonizzatori nei paesi indigeni, per il filosofo è dunque implicito che il diritto cosmopolitico contenga il rifiuto di ogni forma di schiavismo e razzismo. Il dovere dell'ospitalità si lega alla necessità di favorire la reciproca conoscenza e cooperazione, quindi di pacifici rapporti tra il popolo. Il diritto di ospitalità che potremmo meglio qualificare come diritto di visita afferisce dunque per Kant alla sfera del diritto naturale, a quell'orizzonte normativo cioè che individua un'insieme di principi di diritto universalmente validi in qualsiasi contesto e da qualsiasi latitudine, a prescindere dalle condizioni particolari dell'ordinamento positivo.
Come dicevamo, Kant parte dalla considerazione del fatto che gli uomini si trovano nella necessità di abitare collettivamente la superficie terrestre e di fruire di essa in modo da poter realizzare gli "scambi commerciali" indispensabili alla loro sopravvivenza ed alla edificazione di modalità abitative sempre migliori. Nessuno, dunque, possiede per Kant un originario diritto ad impadronirsi della terra. L' inospitalità si contrappone frontalmente dunque al diritto universale, alla realizzazione di quel libero commercio e di quelle libere attività produttive che costituiscono il principio propulsivo della civiltà e dell'economia. Di particolare rilievo appare l'individuazione da parte di Kant dei limiti e delle funzioni che il suddetto diritto di visita si vede affermare. Capovolgendo infatti la configurazione dei rapporti di forza tra soggetto ospitante e soggetto ospitato non facciamo infatti fatica ad intravedere in un'eccessiva estensione del diritto di ospitalità il rischio di una qualche, se pur parziale, legittimazione dell'imperialismo. Il diritto di visita deve avere dunque dei limiti precisi che sono formalmente delineati dalle condizioni necessarie per il libero e pacifico svolgimento di quelle attività economiche che, come abbiamo visto, ne costituiscono il fondamento antropologico-giusfilosofico, il fondamento di un diritto naturale ("Questo diritto di ospitalità, cioè questa facoltà degli stranieri sui territori altrui, non si estende oltre le condizioni che si richiedono per rendere possibile un tentativo di rapporto con gli antichi abitanti" I. Kant, Per la pace perpetua,p.121) emerge qui il valore che Kant attribuisce alla dimensione economica della natura umana. L' uomo, in quanto essere libero e razionale e quindi in quanto ente morale, è capace di darsi un ordinamento relativo alle modalità di abitazione e di coabitazione della terra; regolamentazione questa che presuppone e prevede la strutturazione di una serie di rapporti di carattere tecnico-organizzativo volti ad un progressivo miglioramento e avanzamento della civiltà. Rileva qui ricordare lo stretto rapporto esistente tra l'elaborazione delle modalità di sfruttamento della proprietà comune originaria, della terra, e la creazione di un ordinamento giuridico, cioè delle regole per una pacifica convivenza intersoggettiva.(La parola economia viene dalla composizione di due termini greci: oikos -dimora- e nomìa -regolamentazione- e sta appunto ad indicare nella sua origine etimologica la regolamentazione delle modalità di abitazione del territorio).
Di fondamentale importanza è infatti qui riconoscere il nesso strutturale che intercorre tra la possibilità di attuare ed in qualche modo codificare stabili relazioni commerciali tra individui e paesi diversi, di cui il diritto di ospitalità è precondizione essenziale e ineludibile, e la costituzione di quell'ordinamento cosmopolitico che per Kant rappresenta il punto di arrivo dell'esperienza giuridica dell'uomo, il momento conclusivo del cammino verso la costruzione di regole per la convivenza intersoggettiva autenticamente conformi alla natura libera e razionale dell'uomo ("in questo modo -scrive Kant- parti del mondo lontane possono entrare reciprocamente in pacifici rapporti, e questi diventare col tempo formalmente giuridici ed infine avvicinare sempre più il genere umano ad una costituzione cosmopolitica"p. 121).
Purtroppo Kant non può non constatare a malincuore, che troppo sovente le mire espansionistiche e imperialistiche delle potenze politiche plutocratiche scavalchino i suddetti principi di diritto naturale e si facciano promotori con il pretestuoso alibi di consolidare la propria capacità economico-commerciale di veri e propri interventi di conquista gravemente lesivi dei diritti di popoli e cittadini, in ultima istanza, di quelle forme di relazione che si contraddistinguono per la loro costitutiva contrarietà a qualsiasi principio di reciprocità giuridica: "l'incitamento dei diversi Stati del paese a guerre sempre più estese, carestia, insurrezioni, tradimenti e tutta la rimanente serie dei mali, come la si voglia elencare, che affliggono il genere umano". Per convalidare questa denuncia Kant fa alcuni esempi storicamente avvenuti. Ci sono stati dei tentativi suggeriti dall'esperienza da parte della Cina e del Giappone di ovviare ai pericoli che ospiti ingrati potrebbero ipoteticamente arrecare. Il filosofo di Konisberg distingue il concetto di Zugang tradotto con il termine "accesso" da intendere nel senso di visita nel territorio straniero per intraprendere scambi commerciali, dal concetto di Eingang traducibile invece come "entrata", nel quale è ravvisabile un portato semantico corrispondente alla nozione di <<occupazione>>. Ora se nel caso della visita per motivi economici è possibile ed opportuno affermare l'esistenza di un diritto, nel caso dell'<<ingresso>> cioè dell'instaurazione di una presenza stabile sul territorio altrui di fatto indipendente dalla volontà di accoglienza della popolazione locale è difficilmente configurabile, ad avviso di Kant, la presenza di una spettanza giuridica soggettiva.
Kant giunge ad una tragica considerazione, anzi direi saggia "se si considera la cosa dal punto di vista del giudice morale", cioè che il reddito di tali Stati invasori non è "reale" ma è semplicemente infruttuoso e per di più indirizzato verso scopi chiaramente immorali cioè verso il potenziamento delle strutture belliche (viene quindi a verificarsi una situazione deplorevole direbbe Kant in quanto un siffatto atteggiamento spingerebbe anche i restanti stati ad armarsi e quindi a creare di fatto una condizione di permanente belligeranza). Kant, dunque, disconosce la guerra come esplicazione del rapporto tra individui di stati diversi, promuovendo al suo posto lo spirito commerciale, possibile incentivo all'unione federale e, quindi, alla pace perpetua. Il commercio è per Kant uno di quei nuovi pilastri su cui si deve fondare un ordine internazionale pacifico: il commercio unisce poppoli naturalmente divisi dalle diversità linguistiche, religiose e culturali, quando invece la guerra costituisce ogni motivo di separazione e differenziazione. Il filosofo di Konisberg non risparmia le sue critiche e usa parole forti anche verso "gli Stati che ostentano una grande religiosità: e mentre commettono ingiustizie con la stessa facilità con cui berrebbero un bicchier d'acqua, vogliono passare per esempi rari in fatto di osservanza del diritto". L'auspicio non fantastico di Kant è quello di realizzare un diritto cosmopolitico, auspicio realizzabile perchè la pax kantiana prevede che "la violazione del diritto avvenuta in un punto qualsiasi della terra sia avvertita in tutti i punti".
Causa immediata di questa asserzione è il riconoscimento dell'inestricabile correlazione esistente tra le differenti società politiche, che già nell'età moderna si affacciava con evidente visibilità e che oggi ha ormai giunto proporzioni perspicuamente macroscopiche a cagione dell'incipiente fenomeno della globalizzazione. Sulla scorta del pensiero kantiano non possiamo dunque non riconoscere l'assoluta necessità che tale fenomeno si orienti in modo chiaro e pregiudiziale in corrispondenza della costituzione di quell'ordinamento cosmopolitico nel quale soltanto può giacere un'autentica fondazione giuridica della pace perpetua.("L'idea di un diritto cosmopolitico non è una rappresentazione di menti esaltate , ma una necessaria integrazione del codice non scritto, così del diritto pubblico interno come del diritto internazionale, al fine di fondare un diritto pubblico in generale e quindi di attuare la pace perpetua alla quale solo a questa condizione possiamo lusingarci di approssimarci continuamente")
Il “diritto cosmopolitico” di Kant è alla radice del buonismo suicida pro-immigrazionedi Francesco Lamendola - 04/01/2016
https://www.ariannaeditrice.it/articolo ... colo=52898Che il buonismo masochista e suicida dell’Unione europea e della cultura dominante davanti al fenomeno, programmato e voluto dall’alto e niente affatto spontaneo come ci viene presentato dai media, della immigrazione/invasione africana ed asiatica entro i Paesi del Vecchio continente, abbia le proprie matrici ideologiche nel giusnaturalismo, fondato sul riconoscimento dei “diritti naturali” dell’individuo, e, più ancora, nel cosmopolitismo illuminista, basato sull’assunto che tutta la terra è proprietà collettiva di tutti gli uomini indistintamente, è cosa troppo nota perché valga la pena di ribadirla ulteriormente. Quel che forse non è ben chiaro a tutti, è quanta parte, in esso, abbia giocato il pensiero di colui che è considerato (a torto) il più grande filosofo del XVIII secolo, nonché il vertice dell’intero movimento illuminista, Immanuel Kant, l’autore della «Critica della ragion pura» e della «Critica della ragion pratica», il demolitore della metafisica e il distruttore della teologia; in breve: l’uomo che riassume la crociata del Logos strumentale e calcolante contro la tradizione e, particolarmente, contro la philosophia perennis, che da oltre due millenni accompagnava e sosteneva la consapevolezza spirituale della civiltà europea.
È stato Kant, nel suo celebre pamphlet intitolato «Per la pace perpetua», a formulare, nella maniera più esplicita, l’idea che l’ospitalità di qualsiasi individuo in qualsiasi Stato è un suo “diritto” imprescrittibile, e ad articolare la sequela concettuale che lo ha portato ad esprimere un tale convincimento, dandogli lo statuto, o, quanto meno, l’apparenza, di una argomentazione filosoficamente rigorosa e inappuntabile; vale la pena, perciò, di seguire i passi di tale ragionamento e di vedere se davvero esso sia così logico e coerente, come il suo autore, ed i suoi molti estimatori, sia di allora che di oggi, mostravano e mostrano di credere.
«Per la pace perpetua» («Zum ewigen Frieden», 1795) non è un trattato di filosofia politica e nemmeno di etica, ma, semplicemente, uno schema giuridico mirante a fissare alcuni punti sui quali gli Stati potrebbero accordarsi per scongiurare il pericolo di guerre. Kant non crede nella bontà naturale dell’uomo; in compenso mostra di ritenere possibile che quest’uomo, che non è buono per natura, possa imbrigliare i suoi istinti bellicosi mediante una serie di formule giuridiche, il che è una contraddizione in termini. Se l’uomo non è capace di vera bontà, come potrà venirgli la pace dalla sua ragione? La Ragione vive forse di vita propria, o cade sulla Terra dalle altezze celesti?
Lo schema fondamentale dell’opera di Kant gli è stato ispirato, come è noto, dalla pace di Basilea, sottoscritta il 5 aprile 1795 fra il rappresentante della Convenzione termidoriana, François de Barthélemy, e l’ambasciatore prussiano Karl August von Hardenberg: vale a dire fra la prima repubblica rivoluzionaria d’Europa e una tipica monarchia assoluta di Ancien Régime. Buona parte delle clausole del trattato erano in realtà segrete; così come segreto era l’articolo finale del pamphlet kantiano, di puro sapore massonico, nel quale si stabiliva che, in caso di gravi controversie internazionali, i governi degli Stati coinvolti avrebbero consultato il parere dei filosofi.
La pace di Basilea nasceva, in realtà, da un cinico compromesso fra due opposti egoismi e non da un sincero desiderio di pace fra le potenze europee, del resto impossibile, stante la incompatibilità manifesta fra un governo nato dalla Rivoluzione francese e fondato sulla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, e sul trinomio di “libertà, fraternità, uguaglianza”, e le alte monarchie assolute, ancora fondate sugli ordini privilegiati, che non potevano stare a guardare il trionfo della borghesia, né perdonare il processo e la condanna a morte di Luigi XVI, già re per diritto divino.
Il cinismo del compromesso derivava dal fatto che Federico Guglielmo II di Hohenzollern voleva avere le mani libere a Oriente, per schiacciare la grande insurrezione polacca e fare la parte del leone nella terza e definitiva spartizione di quella sventurata nazione (mentre dovrà cedere Varsavia alla Russia e accontentarsi di un condominio con quest’ultima e con l’Austria, vale a dire, in pratica, del terzo posto); mentre la Convenzione termidoriana aveva un disperato bisogno di assestare il proprio potere nella Francia sconvolta dal biennio 1793-94, dominato da Giacobini e sanculotti, e rafforzare il ceto alto e medio borghese come classe di governo.
Non è chiaro se Kant si sia reso conto che si trattava sostanzialmente di una tregua e che la resa dei conti tra la Rivoluzione e le monarchie dell’Ancien Régime (sostenute per ragioni non ideologiche, ma puramente commerciali e finanziarie, dalla monarchia costituzionale inglese) era solo rinviata, in attesa che le due parti recuperassero le forze, o se davvero abbia creduto che essa “dimostrasse” la possibilità che sistemi di governo radicalmente diversi, potessero stabilire rapporti di buon vicinato e accordarsi per evitare lo scoppio di guerre future.
Da parte nostra, saremmo propensi per la seconda ipotesi: il che, se fosse vero, non deporrebbe a favore della lungimiranza e dell’acume del filosofo di Königsberg, alla cui lucidità facevano velo, evidentemente, tutta una serie di pregiudizi illuministi sulla “naturale” ragionevolezza, se non sulla naturale bontà, degli esseri umani. Resta il fatto che l’aggiunta del famoso articolo segreto smentisce tutto l’impianto dell’opera, così ingenuamente fiducioso nell’efficacia di un sistema di regole giuridiche internazionali che varrebbero a ottenere quel che l’autentico desiderio di pace dei governi, e dei rispettivi popoli, di per sé, non pare capaci di realizzare.
A noi, tuttavia, in questa sede, non interessa discutere la «Pace perpetua», schema velleitario quant’altri mai, partorito dall’ubriacatura razionalistica dell’Illuminismo, se non per soffermare l’attenzione su di un particolare aspetto di essa: il diritto cosmopolitico, ossia il diritto di cittadinanza “universale”, per le sue evidenti e significative convergenze, che non possono essere casuali, con la situazione attualmente determinatasi fra gli organi di governo dell’Unione europea, e molti (ma non tutti) i governi delle nazioni che vi aderiscono, e il massiccio e inarrestabile fenomeno della migrazione/invasione proveniente dall’Africa e dall’Asia, che sta provocando ormai una vera e propria sostituzione della popolazione europea con una nuova popolazione mista, tale da mettere in forse la tradizione culturale e la stessa identità etnica del Vecchio Continente.
Così riassumono le idee kantiane sul cosmopolitismo Simonetta Corradini e Stefano Sissa («Capire la realtà sociale. Sociologia, metodologia della ricerca», Bologna, Zanichelli, 2012, pp. 146-147):
«Il filosofo Immanuel Kant (1724-1804), in un opuscolo dal titolo “Per la pace perpetua” (1795) illustrò un progetto per l’attuazione della pace nel mondo attraverso il diritto. Il testo si presenta come un ipotetico trattato internazionale suddiviso in articoli, distinto in articoli PRELIMINARI e DEFINITIVI.
I preliminari definiscono ciò che gli Stati non debbono fare: non concludere trattati di pace con la tacita riserva di pretesti per una guerra futura (se no la sospensione della guerra sarebbe un semplice armistizio), acquistare uno Stato indipendente per eredità, scambio, compera o donazione (lo Stato è una società di uomini non un bene), non tenere eserciti permanenti (costituiscono una minaccia per gli altri Stati, incitano a gareggiare negli armamenti), non contrarre debiti pubblici per fare la guerra, non intromettersi con la forza nella costituzione e nel governo di un altro Stato, non compiere nel corso di una guerra atti di ostilità tali da rendere impossibile la reciproca fiducia in futuro.
L’aspetto più innovativo è costituito dai tre articoli definitivi che rappresentano la pare propositiva del progetto di un ordine internazionale in grado di garantire la pace. Essi riguardano tre distinti piani, quello del diritto costituzionale che regola il rapporto tra lo Stato e i suoi cittadini (art. 1), quello del diritto internazionale che regola i rapporti fra gli Stati (art. 2) e quello del diritto cosmopolitico (art. 3) per il quale tutti i cittadini del pianeta diventano titolari di diritti e di doveri che vanno al di là della loro condizione di sudditi di un determinato Stato. Il diritto cosmopolitico è una nuova branca del diritto. Gli articoli definitivi sono così formulati:
La costituzione civile degli Stati deve essere repubblicana. Secondo Kant, una costituzione repubblicana, nel senso che il popolo è rappresentato, favorisce la pace, perché se sono i cittadini a decidere una guerra, sapendo che il peso graverà su di loro, saranno molti cauti nelle loro decisioni.
Il diritto internazionale deve essere fondato su un federalismo di liberi Stati. L’unico modo di uscire da uno stato di guerra permanente è la costituzione di una lega tra Stati il cui fine è la conservazione della libertà e della sicurezza di uno Stato per sé e nello stesso tempo per gli altri Stati confederati. Kant non ritiene auspicabile la formazione di un unico Stato mondiale perché potrebbe portare a un terribile dispotismo.
Il diritto cosmopolitico deve essere limitato alle condizioni dell’universale ospitalità.
OSPITALITÀ significa il diritto di uno stranero che arriva sul territorio altrui a non essere trattato ostilmente. Non si tratta di un diritto di ospitalità al quale ci si possa appellare, ma di un “DIRITTO DI VISITA” spettante a tutti gli uomini, quello cioè di offrirsi alla socievolezza in virtù del diritto al possesso comune della superficie della Terra”. Il filosofo ricorda come le potenze europee abbiano scambiato il DIRITTO DI VISITA con la conquista delle terre altrui ed esprime una condanna del colonialismo. Egli osserva inoltre che, dati i rapporti che si sono stabiliti tra i popoli della Terra, “la violazione del diritto avvenuta IN UN PUNTO della terra è avvenuta in TUTTI i punti, così l’idea di un diritto cosmopolitico non è una rappresentazione fantastica di menti esaltate, ma una necessaria integrazione di un codice non scritto, così del diritto pubblico interno come del diritto internazionale, al fine di fondare un diritto pubblico in generale e quindi attuare una pace perpetua alla quale solo a questa condizione possiamo lusingarci di approssimarci continuamente”.
Secondo il filosofo, tre tendenze presenti nella società favoriscono questo sviluppo, vale a dire la natura pacifica delle repubbliche, la forza unificante del commercio mondiale e la funzione di controllo da pare della sfera pubblica, cioè della comunità dei cittadini, che, in quanto esseri razionali, sottopongono ad esame e discutono l’operato dei governi.»
Ma vediamo un po’ più da vicino le proposte politico-giuridiche di Kant.
Gli articoli preliminari sono una coroncina di buone intenzioni, che non valgono nemmeno il costo dell’inchiostro con il quale sono stati scritti. Chi, o che cosa, potrebbe impedire che un governo sottoscriva un trattato di pace, con la tacita riserva di riprendere la guerra, non appena le condizioni gli si presenteranno più favorevoli? Chi, o che cosa, potrà impedire a uno Stato di acquisirne un altro mediante eredità, scambio, ecc., cosa che finora era sempre avvenuta, e sulla quale nessuno aveva mai trovato da ridire (come nessuno troverà da ridire sul Trattato di Campoformio del 1797, che divise la millenaria Repubblica di Venezia fra l’Austria e la Francia)? Gli eserciti permanenti: certamente essi sono una minaccia continua alla pace; ma chi potrà impedire agli Stati più forti di imporre il rispetto del loro disarmo, e, quanto a se stessi, ignorarlo bellamente? Non contrarre debiti pubblici per fare la guerra: giusto; ma il debito pubblico può trasformarsi, come oggi vediamo, in un’arma di guerra esso stesso. Maneggiato da banche e istituti finanziari senza scrupoli. Al tempo di Kant il debito finanziava le guerre; ai nostri tempi, sono le guerre (finanziarie) a generare il debito pubblico. Il filosofo tedesco non lo aveva previsto: eppure già da un secolo esatto (nel 1694) era nata la Banca d’Inghilterra, e il fenomeno della mondializzazione della finanza era già visibile al suo tempo. E che vuol dire, poi, che gli eserciti, in guerra, devono astenersi da atti di ostilità tali da rendere impossibile la reciproca fiducia nel futuro? Quali sono questi atti? La pulizia etnica, come quella fatta dai Britannici nell’Acadia, a danno dei Francesi; o la guerra batteriologica, come quella fatta, ancora, dai Britannici, ai danni dei nativi americani (le coperte infettate dal vaiolo, regalate da Lord Amherst ai Pellerossa)? Chi può impedire al più forte di adoperare mezzi di guerra particolarmente crudeli e devastanti, se non la forza? Le guerre si fanno per vincerle: sono – diceva Clausewitz – la prosecuzione della politica con altri mezzi. Voler imporre ai militari dei limiti nei mezzi della guerra, per ragioni politiche, è un’idea che nasce dalle buone intenzioni, ma che è letteralmente priva di senso, in pratica. Si veda quel che accadde nella Prima guerra mondiale con la guerra sottomarina tedesca: i politici, cioè il governo, vedevano benissimo che essa avrebbe portato all’intervento degli Stati Uniti, ma essa sembrava efficace, e i militari non erano disposti a rinunciarvi: e fu il loro punto di vista a prevalere, perché, nelle guerre moderne, la decisione ultima tocca agli “specialisti”, e la politica viene necessariamente scavalcata.
Passando agli articoli definitivi, fin dal primo si fa una scoperta a dir poco sconvolgente: il diritto costituzionale deve essere repubblicano. Che cosa significa, in pratica? Che le monarchie, e specialmente le monarchie assolute, devono sparire dalla faccia della Terra? E come, di grazia? Mediante una guerra perpetua da parte delle Repubbliche? Buono a sapersi: Kant auspica, anzi, esige un totalitarismo repubblicano, di chiara matrice massonica e “illuminata”. E perché, poi? la motivazione addotta da Kant è pateticamente insufficiente: perché, nei governo repubblicani, vige la rappresentanza popolare, e il popolo non vorrà la guerra, se si renderà conto che dovrà pagarne esso per primo le amare conseguenze. Quanto buonismo dolciastro, quanto velleitarismo razionalista: c’è odor di pesce andato a male. Punto primo: nelle monarchie costituzionali e parlamentari, non vi è la rappresentanza popolare? Punto secondo: è proprio vero che il popolo, se informato delle conseguenze, non è propenso alle guerre? Punto terzo: nei governi fondati sulla sovranità popolare, non vi sono cento modi per aggirare l’esercizio effettivo della sovranità, e per manipolare l’opinione pubblica, fino a spingere i cittadini a qualsiasi tipo di politica, anche la più contraria ai loro veri interessi?
Passiamo all’articolo 2: una federazione mondiale di liberi Stati? Certo, va riconosciuto a Kant di aver intuito il pericolo gravissimo insito nella costituzione di un unico super-Stato mondiale. Ma la federazione mondiale, cui egli pensa, è davvero cosa molto diversa? Lo stiamo vedendo oggi, nel nostro piccolo, con l’Unione europea; e, in una certa misura, con le Nazioni Unite (sempre propense ad approvare le azioni di guerra del più forte: nel 1950, in Corea, da parte degli Stati Uniti; nel 1991 in Iraq, di nuovo da parte degli Stati Uniti). E che succede se uno Stato decidesse d’entrare, ma poi anche di uscire, da una siffatta federazione? O se rifiutasse al tutto di aderirvi? Bisognerà obbligarla con la forza, cioè con un’altra guerra: anzi, con una serie incessante di guerre, contro tutti gli Stati recalcitranti? Ma se quegli Stati fossero recalcitranti perché i loro popoli, legittimamente e democraticamente rappresentati, non volessero saperne: bisognerebbe passar sopra le loro libere decisioni? Abbiamo visto cosa è accaduto negli Stati Uniti nel 1861, quando una parte degli Stati aderenti a quella federazione vollero uscirne: sappiamo quale fu la reazione degli altri, cioè dei più forti (quelli del Nord industrializzato): guerra totale. In altre parole: per conseguire la pace perpetua, bisogna inaugurare la guerra permanente? Non sarebbe meno ipocrita lasciare che le guerre si scatenino come sempre è accaduto, senza pretendere di farle in nome del nobilissimo ideale della pace universale? Sia la Prima che la Seconda guerra mondiale sono stare combattute all’ombra di questo ideale; ma esse non hanno affatto scongiurato il pericolo di una terza, e assai più terribile, che potrebbe culminare nell’olocausto nucleare dell’intero pianeta terrestre.
E veniamo al terzo punto. Kant s’immagina di avere inventato chissà quale branca sensazionale del diritto, proclamando che esistono dei diritti umani che precedono, e sono indipendenti, da quelli relativi all’appartenenza a un determinato Stato. E va bene. Poi sembra concentrare tali diritti in un super-diritto, il “diritto di visita”: precisando che non deve equivalere a un diritto di conquista ai danni del Paese ospitante, come accadde nelle Americhe con i conquistadores. Molto bene. Ma non ha specificato se questa “visita” possa diventare anche permanente, ossia “diritto d’insediamento”: parrebbe di sì, visto che egli proclama esplicitamente un diritto comune al possesso di tutta la Terra. E qui cominciano i problemi, che Kant non chiarisce affatto, dopo averli stuzzicati e fomentati. Se si interpreta questo principio strictu sensu, esso è, né più, né meno che la legalizzazione di qualsiasi invasione – oh, purché “pacifica”! - ai danni di qualunque Stato. Non si distingue fra diritto di alcuni e diritto di tutti: fra “visita” da parte di uno, o da parte di milioni. I buonisti che proclamano, oggi, il dovere di spalancare le porte a milioni di migranti/invasori dell’Europa, sono accontentati: han trovato la loro Bibbia e il loro profeta. Se la Terra è di tutti, non serve chiedere visto d’ingresso: chiunque ha il diritto d’entrare, ad ogni costo, in casa altrui. Anzi: non esistono più le case d’altri.
Strano: per garantire il massimo dei diritti a tutti, si consuma l’ingiustizia più plateale: espropriare ciascun popolo del diritto a decidere il proprio futuro e a custodire la propria identità e tradizione…
L’umanità generica, Kant e i rifugiati: un collage e qualche riflessioneandrea inglese
https://www.nazioneindiana.com/2014/09/ ... iflessione 1.
Il profugo è un uomo?
“pròfugo s. m. (f. -a) e agg. [dal lat. profŭgus, der. di profugĕre «cercare scampo», comp. di pro-1 e fugĕre «fuggire»] (pl. m. -ghi). – Persona costretta ad abbandonare la sua terra, il suo paese, la sua patria in seguito a eventi bellici, a persecuzioni politiche o razziali, oppure a cataclismi come eruzioni vulcaniche, terremoti, alluvioni, ecc. (in questi ultimi casi è oggi più com. il termine sfollato).”
Cosa fa sì che il profugo sia un uomo, e non un peso morto, e non una quantità di umanità residua, destinata a cadere – il cui destino fatale è la caduta? Cosa fa sì che un profugo non debba inevitabilmente e più facilmente morire, di chi non è profugo? Perché un profugo non dovrebbe suscitare, quando muore, le lacrime che gli altri esseri umani, morendo ingiustamente, suscitano? È possibile che l’umanità sporga da quell’essere fuggitivo, senza scampo, che è il profugo?
Ama il prossimo tuo come te stesso. Se una qualsiasi forma di etica universalistica ha senso, se gli ideali illuministici hanno senso, se il marxismo ha senso, questo precetto evangelico deve avere senso. Ed esso dice questo: l’uomo che tu vedi, e che sembra non rassomigliarti, che non assomiglia a te stesso oggi, ti ha assomigliato ieri o ti assomiglierà domani. Perché io ami qualcuno come me stesso, debbo poterlo vedere come fosse me stesso. Non c’è universalismo etico senza questa reciprocità di visione, mi sembra. Perché quest’uomo mi assomigli, perché sia riconosciuto come un uomo, e come un uomo quale sono io, ossia importante, in quanto portatore di una serie densa e intrecciata di valori: io sono i miei diritti, le mie proprietà, la mia cittadinanza, la mia bellezza, la mia lingua, la mia cultura, ecc., perché quest’uomo che viene dai barconi, che ha le tasche vuote, gli occhi spenti, la voce rotta dalla fatica, dalla fame e dalla sete, perché quest’uomo che non è lavato e profumato, che spesso galleggia inerte in mezzo alle acque, sia considerato ugualmente uomo come me, lo stesso uomo, io devo vedermi come rifugiato. E non ho bisogno di inventare un sogno o una favola. Posso cominciare con il chiedere ai padri e alle madri di mia madre e di mio padre. Loro questa verità la conoscono, questa nostra identità non più ricordata.
L’umanità oscena del profugo
Il profugo non è un cittadino, non è più un cittadino, non è più riconducibile a un gruppo umano determinato, non porta con sé gli emblemi di un’appartenenza particolare che lo situano “naturalmente” dentro i confini di una certa nazione, al riparo dalle istituzioni di uno Stato. Privo di appartenenze certe, senza istituzioni che lo difendano, senza un luogo “naturale” che gli spetti come membro di una nazione particolare, il profugo non porta con sé che la sua generica umanità, quella sola che ha valenza universale. Non si sa bene dove si debba metterlo, quale nazionalità riconoscergli, che statuto fornirgli di fronte alla legge, ma non si può negargli la sua generica appartenenza all’umanità. Il profugo, anche quando deve interamente la sua condizione di sradicato e di esule al fatto di appartenere a una minoranza etnica o politica o religiosa, è comunque testimone dell’umanità universale. Il profugo non può essere inserito nella rete di diritti dell’individualismo liberale né nel cerchio comunitario della cultura d’origine. Ci presenta semplicemente, oscenamente, la sua umanità. Si muove, dorme, mangia, ragiona, ha un passato, potrebbe avere un futuro, ma gli è negato il presente, non ha un presente reale. Se ancora esiste una qualche forma di universalismo, esso dovrà prendere le mosse dal profugo, da colui che è sul punto di diventare apolide, ossia un essere umano superfluo, ingombrante, ingiustificato, spettrale. Se siamo in grado di riconoscerlo, se siamo in grado di avvicinarci a lui, e di parlargli come faremmo a un cittadino che paga le tasse, che è dotato di diritti e possiede una carta d’identità, allora è ancora possibile una forma di universalismo dell’essere umano in quanto tale.
Il profugo è fuorilegge
Se l’umanità esiste in un senso universale, se l’umanità non è una semplice costruzione mitica, che poggi sull’irriducibile molteplicità e dispersione dei popoli e delle loro nazioni, allora essa deve essere riconoscibile proprio nei profughi, i quali presentano a noi e ai nostri criteri di legittimazione una fisionomia spaventosa ed esorbitante: la povertà radicale. La mancanza non solo di un lavoro e di una casa, ma di un paese, di una terra, di un naturale insediamento dentro una popolazione e una legge.
2.
…nessuno avendo in origine maggior diritto di un altro a una porzione determinata della terra
Nel 1795, Kant pubblicò la prima edizione di Per la pace perpetua. Un progetto filosofico.
Riporto qui il “terzo articolo” seguito dal suo commento. In questo commento lessi una frase che non mi ha più abbandonato e che riguarda il “diritto al possesso comune della superficie della terra (…) nessuno avendo in origine maggior diritto di un altro a una porzione determinata della terra”. C’è molta utopia in questa frase, c’è anche molta ragione, e anche molta dinamite. Vorrei ricollocarla nel contesto più ampio del discorso kantiano.
“Terzo articolo definitivo per la pace perpetua:
«Il diritto cosmopolitico dev’essere limitato alle condizioni dell’ospitalità universale».
Qui, come negli articoli precedenti, non si tratta di filantropia ma di diritto, e ospitalità significa quindi il diritto di uno straniero che arriva sul territorio altrui, di non essere trattato ostilmente. Può venirne allontanato, se ciò è possibile senza suo danno, ma fino a che dal canto suo si comporta pacificamente, l’altro non deve agire ostilmente contro di lui. Non si tratta di un diritto di ospitalità, cui lo straniero può fare appello (a ciò si richiederebbe un benevolo accordo particolare, col quale si accoglie per un certo tempo un estraneo in casa come coabitante), ma di un diritto di visita spettante a tutti gli uomini, quello cioè di offrirsi alla socievolezza in virtù del diritto al possesso comune della superficie della terra, sulla quale, essendo sferica gli uomini non possono disperdersi all’infinito, ma devono da ultimo tollerarsi nel vicinato, nessuno avendo in origine maggior diritto di un altro a una porzione determinata della terra. Tratti inabitabili di questa superficie, il mare e i deserti di sabbia, impongono separazioni a questa comunità umana, ma la nave e il cammello (la nave del deserto) rendono possibile che su questi territori di nessuno gli uomini reciprocamente si avvicinino e che il diritto sulla superficie, spettante in comune al genere umano, venga utilizzato per eventuali scambi commerciali. L’inospitalità degli abitanti delle coste (ad esempio dei Barbareschi) che si impadroniscono delle navi nei mari vicini o riducono i naufraghi in schiavitù, l’inospitalità degli abitanti del deserto (ad esempio dei beduini arabi) che si credono in diritto di depredare quelli che si avvicinano alle tribù nomadi è dunque contraria al diritto naturale. Ma questo diritto di ospitalità, cioè questa facoltà degli stranieri sul territorio altrui, non si estende oltre le condizioni che si richiedono per rendere possibile un tentativo di rapporto con gli antichi abitanti. In questo modo parti del mondo lontane possono entrare reciprocamente in pacifici rapporti, e questi diventare col tempo formalmente giuridici ed infine avvicinare sempre più il genere umano ad una costituzione cosmopolitica.
Se si paragona con questo la condotta inospitale degli Stati civili, soprattutto degli Stati commerciali del nostro continente, si rimane inorriditi a vedere l’ingiustizia ch’essi commettono nel visitare terre e popoli stranieri (il che è per essi sinonimo di conquistarli). L’America, i paesi dei negri, le Isole delle spezie, il Capo di buona speranza ecc., all’atto della loro scoperta erano per loro terre di nessuno, non tenendo essi in nessun conto gli indigeni. Nell’India orientale, con il pretesto di stabilire ipotetiche stazioni commerciali, introdussero truppe straniere e ne venne l’oppressione degli indigeni, l’incitamento dei diversi Stati del paese a guerre sempre più estese, carestia, insurrezioni, tradimenti e tutta la rimanente serie dei mali, come li si voglia elencare, che affliggono il genere umano.
La Cina e il Giappone avendo fatto esperienza tali ospiti, hanno perciò saggiamente provveduto, la prima a permettere solo l’accesso, ma non l’ingresso agli stranieri, il secondo a permettere anche l’accesso ad un solo popolo europeo, agli olandesi, che però sono, quasi come prigionieri, esclusi da qualsiasi contatto con gli indigeni. II peggio (o il meglio, se si considera la cosa dal punto di vista di un giudice morale) è che tali Stati non traggono poi nemmeno vantaggio da queste violenze che tutte queste società commerciali sono sull’orlo della rovina, che le Isole dello zucchero sedi della schiavitù più crudele e raffinata, non danno alcun reddito reale ma lo danno solo indirettamente e per di più per uno scopo non molto lodevole poiché servono a fornire marinai per le flotte militari e quindi di bel nuovo a intraprendere guerre in Europa; e questo fanno gli Stati che ostentano una grande religiosità: e mentre commettono ingiustizie con la stessa facilità con cui si beve un bicchiere d’acqua, vogliono farsi passare per nazioni elette in fatto di ortodossa osservanza del diritto.
Siccome ora in fatto di associazione (più o meno stretta o larga che sia) di popoli della terra si è progressivamente pervenuti a tal segno, che la violazione del diritto avvenuta in un punto della terra è avvertita in tutti i punti, così l’idea di un diritto cosmopolitico non è una rappresentazione fantastica di menti esaltate, ma una necessaria integrazione del codice non scritto, così del diritto pubblico interno come del diritto internazionale, al fine di fondare un diritto pubblico in generale e quindi attuare la pace perpetua alla quale solo a questa condizione possiamo lusingarci di approssimarci continuamente.”
3.
I profughi che siamo stati
“Oggi l’immaginario collettivo fa riferimento a uomini e donne che sbarcano sulle coste italiane in fuga da guerre e persecuzioni; ma quasi un secolo fa i profughi erano gli europei.
(…)
Siamo nel 1922 e Federico Nansen, primo presidente dell’Alto Commissario per i Rifugiati della Società delle Nazioni, crea il primo passaporto internazionale che riconosce lo status di apolide principalmente ai profughi della guerra civile in Russia.
(…)
Ventitré anni dopo, nel 1945, con la fine della Seconda guerra mondiale, l’Europa conosce il primo enorme spostamento di masse umane: sono almeno 10 milioni i profughi mossi dal conflitto.”
(da I profughi:schiuma della terra)
“Rifugiati:
La pratica internazionale del primo e del secondo dopoguerra ha coniato due termini, che coprono, con un notevole grado di approssimazione, le varie categorie di profughi che dànno luogo ad un problema internazionale: i rifugiati o profughi (refugees); e le displaced persons (DP). I refugees sono i profughi internazionali in senso proprio e cioè “tutti coloro che si trovino fuori del loro paese” e che, per essere stati perseguitati, o per timore di persecuzioni per ragione di nazionalità, religione, razza o opinioni politiche, non vogliano o non possano far ritorno in patria o valersi all’estero della protezione diplomatica dei rappresentanti del loro paese. Nella categoria sono inclusi anche coloro che non desiderino ritornare nel loro paese per avversione al regime politico in esso esistente. Displaced persons sono invece coloro che non per loro volontà, ma per effetto dell’azione diretta o indiretta delle autorità civili o militari dei paesi belligeranti si siano trovati a guerra finita fuori del loro paese di origine.
(…)
Entrambe le categorie di profughi, fra le quali prima della seconda Guerra mondiale non si faceva una distinzione, hanno formato oggetto di attività internazionale sin dall’altro dopoguerra. I gruppi più importanti di profughi che si contavano subito dopo la prima Guerra mondiale erano i varî milioni di Russi allontanati dal loro paese dalla rivoluzione del 1917, gli Armeni, ed altri gruppi (Greci, Bulgari, Siriani) ai quali si dovevano aggiungere, negli anni successivi, le vittime della persecuzione nazista e fascista: profughi politici d’Italia e di Germania; vittime della persecuzione antisemita condotta dal nazifascismo prima in Germania e poi via via nei paesi occupati prima dello scoppio della seconda Guerra mondiale (Austria e Cecoslovacchia); e i repubblicani spagnoli.
(…)
L’effetto principale determinato dalla seconda Guerra mondiale è stato innanzi tutto lo straordinario aumento numerico dei rifugiati. Da un lato, come conseguenza diretta delle operazioni di guerra, le forze alleate si trovavano fra le braccia milioni e milioni di persone che erano state deportate dai Tedeschi o costrette ad abbandonare il loro paese (displaced persons). Dall’altro, al venir meno dei regimi totalitarî nazi-fascisti – e quindi del problema dei fuorusciti dai rispettivi paesi – faceva riscontro l’affermarsi di regimi nuovi in una buona metà dell’Europa, e quindi una nuova “fonte” di profughi politici. E ciò mentre rimaneva ancora da risolvere, per una buona parte, lo stesso problema di tutti quei profughi ante- e durante-guerra.
(…)
La necessità di porre su nuove basi il problema dei profughi venne riconosciuta dalla maggioranza delle delegazioni alla prima sessione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Il problema, così come si presentava a guerra ultimata, si riassumeva in un totale impressionante. Nonostante la notevole riduzione del numero di displaced persons rimpatriate dalle forze alleate e dall’UNRRA (circa 7.000.000), si calcolava che all’inizio del 1947 il numero dei profughi sarebbe ammontato a circa 2.000.000 di persone, temporaneamente stabilite in Europa – e specialmente in Germania, in Austria e in Italia – nel Medio Oriente, in Africa nell’Estremo Oriente. Esse erano ripartite grosso modo, come segue: 1) 300.000 rifugiati russi anteguerra (cosiddetti profughi Nansen), in Francia, Cina, ‛Irāq, Siria e nelle zone occidentali della Germania e dell’Austria; 2) 150.000 Tedeschi e Austriaci, per la maggior parte ebrei sfuggiti alle persecuzioni naziste, nel Regno Unito, Francia, Svezia, Svizzera, e Cina; 3) un milione e mezzo di displaced persons dissidenti, cioè persone deportate durante la guerra dalle forze dell’Asse o rifugiatesi all’estero, e contrarie al rimpatrio per ragioni politiche o per timore di nuove persecuzioni: fra i quali circa mezzo milione di Polacchi (in Germania, Austria, Italia e nel Medio Oriente); circa 300.000 fra Lituani, Lettoni, Estoni, Ucraini e Iugoslavi (in Germania, Austria, Svezia e anche in Italia, specialmente gli Iugoslavi); 4) nuovi profughi politici dai paesi dell’Europa orientale, fra i quali Ebrei polacchi (Germania, Austria e Italia), e cittadini Iugoslavi e Albanesi dissidenti (Austria e Italia) calcolati in circa 300.000, ma in continuo aumento a causa dei nuovi esodi.”
(da voce “rifugiati” enciclopedia treccani)
4.
Oggi, non tutti i rifugiati vengono in Italia (2013)
“Veniamo ai rifugiati. Qui il senso comune (e molta politica) sostiene che «ne arrivano troppi, l’Europa non ci aiuta». Vediamo i dati più recenti. Nel 2013 in Italia si sono registrate 27.800 nuove domande di asilo. (1) Un dato nettamente inferiore al numero degli sbarcati (circa 43mila), perché in tanti preferiscono non presentare domanda in Italia e cercare invece di raggiungere la Germania, la Svezia, la Francia o i Paesi Bassi. Difatti l’Italia, pur registrando una sensibile crescita relativa delle domande di asilo (+60 per cento), è soltanto sesta in Europa come paese di accoglienza dei richiedenti. La Germania rimane in testa alla classifica, con 109.600 domande, seguita a distanza dalla Francia con 60.100 e dalla Svezia con 54.300. Entra poi in classifica la Turchia, con 44.800, per effetto soprattutto del tragico conflitto siriano. Ma anche il Regno Unito, lontano dalle zone calde del Medio Oriente, ci precede con 29.200 domande.
Bisogna poi tenere conto del fatto che anche i nuovi paesi membri dell’Unione, di certo meno attrezzati dell’Italia, hanno conosciuto un notevole aumento delle domande di asilo: 18mila in Ungheria (contro le 2mila del 2012), 14mila in Polonia, 7mila in Bulgaria. In definitiva, se vi fosse più solidarietà europea sul dossier rifugiati, difficilmente sarebbe l’Italia a beneficiarne.”
(da L’Italia non è ancora un paese di rifugiati)
5.
Oggi, non tutti i rifugiati vengono in Europa (2014)
“I rifugiati siriani nel mondo hanno superato i tre milioni. Lo ha affermato in una nota l’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati, precisando che, in questa cifra, non sono incluse le centinaia di migliaia di persone in fuga che non è stato possibile registrare come rifugiati.
A questi tre milioni di rifugiati siriani bisogna aggiungere i 6,5 milioni di sfollati che vivono nel Paese. Questa situazione ha fatto sì che “quasi la metà dei siriani siano stati forzati ad abbandonare le loro case e fuggire per sopravvivere”, ha sottolineato il rapporto dell’Unhcr. La stragrande maggioranza della popolazione in fuga ha trovato rifugio nei Paesi vicini, soprattutto in Libano (1,14 milioni), Turchia (815mila) e Giordania (608mila). Altri 215mila sono stati contati in Iraq, mentre il resto è stato registrato in Egitto o in altri Paesi.”
(da ONU: nel mondo tre milioni di profughi siriani)
“Complessivamente, gli afghani, i siriani e i somali – che insieme rappresentano oltre la metà del totale dei rifugiati a livello mondiale – costituiscono le nazionalità maggiormente rappresentate tra le persone di cui l’Unhcr si prende cura.
Intanto paesi come il Pakistan, l’Iran e il Libano hanno ospitato un maggior numero di rifugiati rispetto ad altri Stati. Se si guarda alle diverse regioni, l’Asia e il Pacifico hanno ospitato il maggior numero di rifugiati, complessivamente 3,5 milioni di persone. L’Africa sub-sahariana ha accolto 2,9 milioni di persone, mentre il Medio Oriente e il Nord Africa hanno visto arrivare sui loro territori 2,6 milioni di migranti forzati.”
(da Superati i 50 milioni di profughi nel mondo)
“Nonostante il numero crescente di persone bisognose di protezione in arrivo via mare, è importante sottolineare che l’86% dei rifugiati rimane nei paesi del sud del mondo. Il numero dei rifugiati eritrei è raddoppiato negli ultimi anni a causa del perdurare delle violazioni dei diritti umani nel paese e la maggior parte di loro risiede in Sudan (110mila) ed in Etiopia (84mila), mentre il 20% (65mila) ha trovato protezione in Europa.
Per quanto riguarda la Siria, sono 2.9milioni le persone costrette alla fuga che hanno trovato protezione nei paesi confinanti (Libano 1.1milioni, Giordania 610mila, Turchia 823mila, Iraq 218mila e Egitto 138mila), mentre 123mila si trovano in Europa.”
(da Raggiunti i 100mila arrivi via mare in Italia)
*
[Immagine: Profughi italiani in fuga dopo Caporetto]
Mauro Porro Ora per Kant il diritto di ospitalità assume una configurazione decisamente positiva. Esso non va inteso come la facoltà dello straniero ad essere ospitato ed accolto nelle strutture abitative di un determinato Stato e non implica, quindi, ad un obbligo di accoglienza coabitativa da parte dei cittadini del paese ospitante, bensì va ricondotto ad un diritto di visita, al riconoscimento della facoltà cioè di circolare liberamente sul territorio di ogni singolo Stato, " non si tratta di un diritto di ospitalità, cui si può fare appello... ma di un diritto di visita , spettante a tutti gli uomini...[ che] devono da ultimo rassegnarsi a incontrarsi e a coesistere". Questo diritto incontra l' invalicabile limite del rispetto, da parte del suo titolare, di un contegno pratico e pacifico, di una prassi che non si ponga in contrasto con i diritti e le libertà del paese in cui si è recato ([lo straniero] può essere allontanato, se ciò può farsi senza suo danno, ma, fino a che dal canto suo si comporta pacificamente, non si deve agire ostilmente contro di lui. I. Kant, Per la pace perpetua, a cura di G. Sasso, p. 120).Il fondamento di codesto diritto di visita giace per Kant nel diritto naturale ( o di ragione). Il filosofo di Konisberg parte dalla constatazione empirica che gli uomini sono necessariamente indotti dalla limitatezza della superficie terrestre a convivere, coabitare e relazionarsi. Kant stabilisce un limite a questo diritto di ospitalità, o per lo meno vuole definire l'ambito entro cui esso possa esercitarsi, dicendo che non può estendersi oltre le condizioni di una universale ospitalità, vuol dire che colui che è ospite di uno stato straniero non può approfittare di questa sua posizione per disgregare lo stato o per minacciarne l'esistenza.Mauro Porro si possono leggere in entrambe le direzioni dal mio punto di vista il contegno pratico non in contrasto con i diritti e le libertà del paese ospitante impone l'allontanamento di quei soggetti che vogliono imporre costumi ,credenze e leggi vedi sharia che sono in contrasto con il nostro ordinamento. Da questo punto di vista Kant da dei limiti precisi al cosmopolitismoGino QuareloAi tempi di Kant (1724-1804), il mondo era in buona parte ancora dominato dagli imperi europei, gran parte del mondo occidentale era sottopopolato, vi era la necessità di braccia da lavoro un pò dovunque, il nazismo maomettano era arginato nell'impero maomettano che l'Europa riusciva a contenere, le migrazioni di massa lontane da venire e anche l'Africa era sottopopolata.
I problemi legati all'emigrazione-immigrazione, al tempo di Kant erano totalmente altri e quello che al suo tempo poteva essere sensatamente positivo nell'emigrazione non lo è più oggi.