Leggi razziali: le peggiori sono quelle nazi maomettane

Leggi razziali: le peggiori sono quelle nazi maomettane

Messaggioda Berto » mer ott 24, 2018 7:43 am

Leggi razziali e discriminatorie: le peggiori sono quelle nazi maomettano-coraniche-shariache
viewtopic.php?f=205&t=2805

https://www.facebook.com/alberto.pento/ ... 1552231884
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Re: Leggi razziali: le peggiori sono quelle nazi maomettane

Messaggioda Berto » mer ott 24, 2018 7:44 am

Nel Corano e in tutti i paesi islamici, da 1400 anni vi sono leggi razziali, inserite nella sharia, che discriminano, perseguitano e ordinano di ammazzare e di sterminare i diversamente religiosi e pensanti, in particolare gli ebrei e i cristiani, forse sarebbe il caso di incominciare a prendere in considerazione la denuncia e la bandizione anche queste leggi razziali del nazismo maomettano che hanno fatto e fanno più danno di quelle nazi hitleriane ormai sparite.

No al Corano e ai coranisti nazi maomettani con le loro leggi razziali idolatre demenziali e disumane prescritte nel Corano, concepite da Maometto e da lui stesso adoperate.
Bandire l'ideologia politico sociale religiosa islamico- nazi maomettana come è stata bandita l'ideologia sociale politica e mitica nazi hitleriana.
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Re: Leggi razziali: le peggiori sono quelle nazi maomettane

Messaggioda Berto » mer ott 24, 2018 7:45 am

Se il fascismo è anticostituzionale, perché non lo è la sharia?
17-06-2012
Leonardo Bacchi

https://blog.uaar.it/2012/06/17/fascism ... non-sharia

Il secondo comma dell’art 8 della Costituzione e la dodicesima delle sue Disposizioni Transitorie e Finali, benché apparentemente diverse nella finalità giuridica e sociale, hanno molto in comune: il primo limita la libertà associativa delle religioni (non specificate), qualora siano in contrasto con le nostre leggi, l’altra vieta la riorganizzazione del fascismo, in nome della salvaguardia di una libertà più generale, che a tutti deve essere garantita.
Qui si evidenzia la famosa contraddizione della “società aperta” di Popper, che, per garantire la propria sopravvivenza, deve limitare la libertà associativa di ideologie totalitarie. Queste infatti, una volta salite al potere con mezzi democratici, finiscono col sovvertire e poi abolire del tutto la democrazia stessa, loro incauta levatrice. Tradotto in termini storici: l’esempio del nazismo insegna e non dovrebbe ripetersi più!
Ho parlato poc’anzi di “contraddizione della democrazia”, ma lo è solo in apparenza: limitando alcune libertà associative di movimenti totalitari, non si limita affatto la libertà di pensiero e di opinione che, nella sfera privata, viene comunque tutelata. Detto in altre parole: i nazi-fascisti non possono creare un loro partito ma, in privato, sono liberissimi di dichiararsi tali, leggere testi di destra, ascoltare i discorsi del duce o di Hitler, discuterne le idee e perfino fare proselitismo tramite il normale scambio di opinioni che caratterizza la vita pubblica di tutti i cittadini.
Ma allora, stando così le cose, qualcuno è in grado di spiegarmi come mai, a dispetto di quanto enunciato dall’art. 8 della Costituzione, in Italia e in tutt’Europa, si continuano a costruire moschee, senza neppure organizzare un referendum tra la popolazione locale, spesso contraria alla loro edificazione? Per favore, non nascondiamoci dietro un dito: tutte le organizzazioni islamiche che chiedono e ottengono la costruzione di nuove moschee si richiamano alla legge coranica, ovvero alla sharia, che è l’antitesi delle nostre democrazie. Anzi, che io sappia non esiste, in tutto il mondo, un movimento islamico autenticamente riformista che del Corano accetti solo la componente mistico – religiosa, di solito espressa dalle sure meccane, e rifiuti quella più bellicosa, teocratica e totalitaria, espressa dalle sure medinesi. Gira gira, come felicemente ebbe a scrivere la compianta Oriana Fallaci, tutti i movimenti che costellano il variegato mondo islamico, si ispirano al Corano e alle sue leggi. Al punto tale che le nazioni islamiche non aderiscono alla Convenzione Onu per i diritti dell’uomo, ma ne hanno creata una ad hoc, per l’appunto ispirata alla sharia, alla quale fa riferimento anche la finanza islamica, ultima moda nel pantano della ricchezza virtuale.
Più chiaro di così…
Le moschee in Europa dunque non rappresentano solo un rischio per noi, ma anche per i diritti degli immigrati laici provenienti dal mondo islamico che, giunti qui in cerca di libertà da regimi teocratici o autoritari, dopo aver affrontato sacrifici e difficoltà, si vedono costruire anche qui la madrassa dietro casa. Purtroppo gli “islamici” autenticamente moderati sono una netta minoranza tra gli immigrati, come rivelò un’indagine effettuata nel Regno Unito subito dopo gli attentati del 2005, quindi “vox populi, vox Dei”: il risultato è che le moschee nascono come funghi.
Il che non ha impedito agli inglesi di cedere al ricatto terrorista e di concedere ai musulmani tribunali che applicano la sharia, cosa inaudita nella patria moderna della democrazia, del sistema parlamentare e della Common Law.
Parliamoci chiaro: la sharia è peggio del fascismo, sia sul piano politico che su quello più strettamente individuale. Sul piano politico perché, mentre di solito il fascismo ha connotazioni nazionaliste, l’islam nasconde, sotto l’apparenza di una “religione di pace”, quella che è solo ricerca del più assoluto dei poteri assoluti, ovvero la conquista di tutto il mondo, con la predicazione o con la spada.
Il fascismo non discriminava le donne, o non gravemente come la sharia, secondo la quale esse ereditano metà di quanto spetta agli eredi maschi.
Così come non mi risulta che durante il fascismo le adultere e i loro amanti venissero fustigati, cosa che invece il Corano prescrive chiaramente (Sura XXIV – 2) e in alcuni paesi islamici poi la fustigazione, è stata sostituita dalla lapidazione pubblica, quasi sempre per la donna, raramente per il suo amante.
Il fascismo garantiva la possibilità di cambiare la propria religione e, di conseguenza, una certa convivenza di tutte le fedi, quantomeno fino all’approvazione delle famigerate leggi razziali, emanate però per compiacere Hitler. La sharia condanna tutt’ora in diverse nazioni islamiche l’apostasia con la pena di morte, quanto ai diritti delle minoranze religiose, stendiamo pure un velo pietoso… Sopratutto sui morti dei vari attentati contro cristiani e induisti che, con snervante regolarità, vengono compiuti in molti paesi islamici e non solo tali. Come mostra un recentissimo e atroce video, girato nella Tunisia “moderata” fiorita dalla primavera araba, dove si assiste allo sgozzamento di un islamico convertito al Cristianesimo.

Si dirà che chi commette tali atrocità è un pazzo, che la stragrande maggioranza degli islamici non farebbe mai nulla di tutto ciò, ed è senz’altro vero. Resta però il fatto che la sharia prescrive la pena di morte per gli apostati, quindi poco importa se uno viene sgozzato come un capretto o giustiziato dopo un regolare processo: l’oppressione della libertà di pensiero ha una faccia sola, quella della violenza!
Qualcuno obietterà che anche nel diritto canonico l’apostasia era un reato punito con la pena di morte, ma tale infame legge è stata abrogata quasi un secolo fa, quanto ai roghi contro gli eretici, sono ormai stati spenti da tre secoli. Non sarà molto, ed è un risultato ottenuto non tanto per volontà della Chiesa quanto per le lotte e il sacrificio di tanti spiriti liberi,spesso atei o agnostici, ma ciò significa che qualche passo verso la laicità la Chiesa l’ha compiuto, sia pure “obtorto collo”. E comunque nel Vangelo non si parla di condanna a morte per gli apostati, cosa che invece è prescritta nel Corano: poiché le religioni vanno giudicate e seguite dalle loro fonti, come Dante insegna (Paradiso, IX, 131 -138), questo fa una differenza enorme tra i due libri sacri.
Ma torniamo al parallelo fascismo – sharia: il primo riconosceva la separazione tra Stato e Chiesa, nonostante gli sciagurati Patti Lateranensi voluti da Mussolini, mentre tale separazione è del tutto inesistente nella storia e nel diritto dell’islam, che resta una religione teocratica, come puntualizzato, solo pochi anni fa, dall’Ayatollah Khomeini: “L’Islam o è politico o non è”
Aggiungo solo che la separazione tra Stato e Chiesa viene anche sancita dalla famosa frase evangelica del “Date a Cesare…” che, sebbene vaga, rappresenta pur sempre un riconoscimento embrionale dello stato di diritto. D’accordo: la Chiesa tuttora pretende una sorta di primato etico nei confronti dello Stato laico, ma almeno lo riconosce: nel Corano, non viene neppure concepito. Sia ben chiaro: i confronti che ho esposto sopra non vogliono essere assolutamente una difesa d’ufficio del fascismo, anzi ne ho chiaramente evidenziato i limiti e gli errori più clamorosi. Rilevo solo che se la Costituzione proibisce, giustamente, la riorganizzazione del partito fascista, mi chiedo perché mai si conceda ai fedeli musulmani, portatori di una religione ancor più totalitaria, di costruire moschee per diffondere la sharia e, qualche volta, sputare nel piatto nel quale mangiano, inveendo contro la “corrotta” società occidentale.
Per tutelare forse la libertà religiosa, come subito rileverà qualcuno? Ma quella sarebbe comunque garantita nella sfera privata, come ho esemplificato sopra per i simpatizzanti o i nostalgici di estrema destra.
Temo che la mia domanda abbia risposte silenziose ma più eloquenti delle parole: piaggeria e “realpolitik” di bassa lega.
Comunque, tornando all’aspetto puramente giuridico: è chiaro che il principio di rispetto delle nostre leggi richiamato dal secondo comma dell’art. 8 della Costituzione andrebbe esteso non solo all’islam, ma a tutte le religioni in contrasto con le nostre istituzioni: se, ad esempio, nel nome del politically correct si concedesse agli immigrati induisti di costruire templi nei quali si fomentasse la costituzione di una società basata sulle caste o si “persuadesse” la vedova a buttarsi sul rogo del caro estinto, la sostanza di quanto qui esposto non cambierebbe di una virgola.
Concludo dicendo che, quantomeno all’interno dell’Uaar, auspico un dibattito sulle problematiche qui sollevate: se vogliamo infatti opporci alla “dittatura religiosa”, ciò va fatto a 360° e non solo contro la Chiesa cattolica, come va un po’ troppo di moda fare oggi.
Esattamente come la difesa della “società aperta”: o si effettua a 360°, dunque anche nei confronti di religioni totalitarie, o si cade nella pericolosa contraddizione dei due pesi e due misure, che con la democrazia, ma sopratutto con la logica, ha ben poco a che spartire.
NB: le opinioni espresse in questa sezione non riflettono necessariamente le posizioni dell’associazione.



Alberto Pento
Dovrebbe essere incostituzionale non solo la Sharia ma anche il Corano e il nazismo maomettano o Islam.
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Re: Leggi razziali: le peggiori sono quelle nazi maomettane

Messaggioda Berto » mer ott 24, 2018 7:45 am

La libertà è in pericolo: in Europa avanza la sharia
Bruce Bawer

https://www.loccidentale.it/articoli/53 ... -la-sharia

Bloccati da paura e multiculturalismo troppi occidentali osservano passivamente l’avanzare della sharia.

L’Islam divide il mondo in due parti. La parte governata dalla sharia, o legge islamica, è chiamata Dar al-Islam o Casa della Sottomissione. Tutto il resto è Dar al-Harb o casa della Guerra, così chiamata perché ci vuole la guerra – guerra santa, jihad – per portare quest’ultima alla casa dell’Islam. Nel corso dei secoli la jihad ha assunto forme diverse. Due secoli fa, per esempio, a causa dei pirati musulmani provenienti dal Nord Africa che ne depredavano le navi e rendevano schiavi i loro equipaggi, gli Stati Uniti combatterono le Barbary Wars del 1801-05 e del 1815. In anni più recenti, l’arma preferita dei jihadisti è stata, solitamente, l’attentato terroristico; l’utilizzo di aerei come missili in occasione degli attentati dell’11 Settembre 2001 è stata una semplice variante di questo tecnica.

Ciò che non è stato sufficientemente riconosciuto, tuttavia, è che la fatwa del 1989 scagliata dall’Ayatollah Khomeini contro Salman Rushdie, autore dei Versetti Satanici, ha introdotto un nuovo modello di jihad. Invece di prendere d’assalto navi o edifici occidentali, Khomeini prese di mira una libertà fondamentale dell’Occidente: la libertà di parola. In anni recenti altri islamisti si sono uniti alla crociata cercando di minare alla base le libertà fondamentali delle società occidentali per estendere in tal modo la sharia al loro interno.

I jihadisti culturali hanno potuto godere sinora di un inquietante successo. Due fatti in particolare, l’assassinio ad Amsterdam nel 2004 di Theo Van Gogh per punire il suo film sull’oppressione islamica contro le donne, e l’ondata globale di proteste, assassinii e vandalismi seguita alla pubblicazione nel 2005, da parte di un giornale danese, di alcune vignette satiriche su Maometto, hanno avuto massicce ricadute su tutto l’Occidente. Sotto l’influsso di spinte diverse, ma senza dubbio simultanee, quali la paura, un malinteso senso di solidarietà e un’ ideologia multiculturalista che ci insegna a sminuire le nostre libertà e ad inginocchiarci davanti a culture non occidentali, per quanto repressive, persone di ogni livello all’interno delle società occidentali, ma soprattutto i loro gruppi dirigenti, hanno permesso che le preoccupazioni su ciò che i musulmani fondamentalisti potessero ritenere, pensare o fare influenzassero le loro azioni ed espressioni. Questi occidentali hanno cominciato, in altre parole, a fare proprie le osservanze della sharia e perciò ad accettare la condizione deferente di dhimmis, ossia di quegli infedeli che vivono all’interno delle società musulmane.

La si chiami pure resa culturale. La Casa della Guerra sta lentamente, ma non tanto nel caso europeo, venendo assorbita dalla Casa della Sottomissione, l’Islam.

I media occidentali sembrano seduti sul sedile del conducente in questa corsa alla sharia. Spesso il loro approccio è quello di argomentare che saremmo noi occidentali i bambini cattivi. Quando Pym Fortuyn, il sociologo olandese ormai scomparso, divenne un politico e suonò la sveglia sul pericolo che l’islamizzazione d’Europa poneva alla democrazia occidentale, influenti giornalisti l’hanno etichettato come una minaccia. Un titolo del New York Times lo descrisse alla testa di un’Olanda in marcia verso destra. I giornali olandesi Het Parool e De Volkstrant lo paragonarono a Mussolini; il Trouw ad Hitler. L’uomo che lo uccise nel maggio del 2002 (un multiculturalista, non un musulmano) sembrò evocare questi giudizi quando spiegò il suo movente: le opinioni di Fortuyn sull’Islam, insistette l’assassino, erano “pericolose”.

Forse nessun mezzo di comunicazione occidentale ha manifestato questa abitudine al ribaltamento morale più regolarmente della BBC. Nel 2006, per fare un esempio significativo, l’imam capo di Manchester disse allo psicoterapista John Casson di essere favorevole alla pena di morte per gli omosessuali. Casson rimase sgomento – e la BBC, in un comunicato intitolato imam accusato di insulto “morte ai gay”, montò il caso come un tentativo di gettare discredito sull’Islam. La BBC concluse il suo resoconto con alcuni commenti di un portavoce della Commissione Islamica per i Diritti Umani che equiparò l’atteggiamento musulmano verso l’omosessualità a quello di “altre religioni ortodosse come il Cattolicesimo” e lamentò il fatto che concentrarsi su tale questione fosse parte di un tentativo di “demonizzare i musulmani”.

Nel giugno 2005 la BBC mandò in onda il documentario dal titolo “Don’t Panic, I’m Islamic” che cercava di mostrare come artificiose le preoccupazioni sul radicalismo islamico. Una così “sensazionale mistificazione dell’Islam radicale”, come la definì il blogger di Little Green Footballs, Charles Johnson, “contribuì a far addormentare gli inglesi poche settimane prima degli attentati dinamitardi alla metropolitana e agli autobus di Londra” nel luglio 2005. Nel dicembre 2007 emerse che cinque protagonisti del documentario, che avevano partecipato al programma in qualità di innocui “musulmani della porta accanto”, erano stati accusati di avere preso parte a quegli attacchi terroristici e che i produttori della BBC, benché a conoscenza del loro coinvolgimento, dopo che gli attacchi ebbero luogo, non avevano riportato alle autorità di polizia importanti informazioni sul loro conto.

L’acquiescenza della stampa alle richieste e alle minacce musulmane è endemica. Quando le vignette su Maometto, pubblicate nel settembre 2005 dal giornale danese Jyllands-Posten in sfida all’autocensura giornalistica dopo l’omicidio Van Gogh, trovarono risposta nelle note manifestazioni di violenza un po’ ovunque nel mondo, solo un giornale americano di rilievo, il Philadelphia Inquirer, si unì ai quotidiani Europei Die Welt e El Pais nel ristamparle in segno di solidarietà al diritto di libera espressione. Gli editori che rifiutarono di pubblicare le immagini dichiararono come la loro motivazione fosse il rispetto multiculturale verso l’Islam. Il critico Christopher Hitchens fu di diverso avviso quando scrisse di “conoscere un buon numero di quei preoccupati editori e di poter dire con certezza che il motivo principale per la non pubblicazione delle vignette fosse semplicemente la paura. Un ulteriore esempio di questa nuova condizione di “dhimmità”, quale che sia la motivazione, è il principale fumettista norvegese, Finn Graff, che ha spesso raffigurato gli israeliani come nazisti ma che ha recentemente giurato di non voler mai più disegnare nulla che possa provocare l’ira musulmana. (Solo una nota positiva, questo febbraio, oltre una dozzina di giornali danesi a cui si sono aggiunti alcuni altri giornali nel mondo, hanno ristampato una delle vignette satiriche originali come gesto a favore della libertà di espressione dopo l’arresto di tre persone accusate di aver organizzato l’assassinio dell’artista).

L’anno scorso si è verificata un’altra crisi (a seguito della pubblicazione di vignette satiriche), questa volta contro la rappresentazione di Maometto, da parte dell’artista svedese Lars Vilks, disegnato come un cane e che alcuni ambasciatori di paesi musulmani hanno usato come pretesto per chiedere limitazioni alla libertà di parola in Svezia. La giornalista della CNN Paula Newton suggerì che forse “Vilks avrebbe dovuto sapere” dato il precedente del Jyllands-Posten, come se qualunque artista dovesse stare agli ordini di chiunque lanci minacce di morte. Nel frattempo The Economist dipinse Vilks come un personaggio eccentrico che non meritava di essere preso “troppo sul serio” e commentò favorevolmente che il Primo Ministro svedese, a differenza di quello danese, invitò gli ambasciatori musulmani “per una chiacchierata”.

I media più influenti minimizzano regolarmente i resoconti circa le malefatte di fondamentalisti musulmani o ne oscurano la vera natura. Dopo che la nomina a Cavaliere nel 2007 di Salman Rushdie scatenò un’ulteriore ondata internazionale di tumulti islamisti, Tim Rutten scrisse sul Los Angeles Times: “Se vi state chiedendo perché non siete stati in grado di seguire, sulla stampa americana, rubriche ed editoriali a denuncia di tale nonsenso omicida è solo perché non ce ne sono stati affatto”. Si considerino pure le rivolte che strinsero d’assedio le periferie francesi nell’autunno del 2005. Tali sommosse furono per lo più l’affermazione dell’autorità musulmana su periferie musulmane e perciò chiaramente jihadiste nella loro natura. Tuttavia passarono settimane prima che molti organi d’informazione americani ne parlassero e, quando lo fecero, minimizzarono l’identità musulmana dei rivoltosi (pochi, per esempio, citarono le grida “Allahu akbar”). Invece, descrissero la violenza come uno scoppio di frustrazione contro una generica ingiustizia economica.

Quando sondaggi o studi su musulmani vengono pubblicati, i media spesso ne stravolgono assurdamente i risultati o li lasciano cadere nel dimenticatoio dopo la prima pubblicazione. Alcuni giornalisti accolsero favorevolmente i risultati di un sondaggio del 2007 condotto dal centro ricerche PEW che mostrava come l’80 per cento dei musulmani americani tra i 18 e i 29 anni d’età fossero contrari agli attacchi suicidi, anche se l’altra faccia della medaglia, e il vero punto della faccenda, era che una percentuale a doppia cifra di giovani musulmani americani li sostenevano. Il Washington Post si rallegrò per come i musulmani americani integrati si opponessero all’estremismo facendo eco a USA Today secondo cui i musulmani americani rifiuterebbero ogni estremismo. Un sondaggio del 2006 del Daily Telegraph mostrò come il 40 per cento dei musulmani britannici volessero la sharia in Gran Bretagna e tuttavia i giornalisti britannici spesso scrivono come se solo una sparuta minoranza di loro abbracciasse tali opinioni.

Dopo ogni rilevante attacco terroristico dall’11 Settembre in poi, la stampa ha supinamente pubblicato storie su quanto i musulmani occidentali temano “violente reazioni anti musulmane” spostando, così, nettamente, l’attenzione dai reali attentati degli islamisti a quelli immaginari dei non musulmani. (Tali violente reazioni, naturalmente, non si verificano mai). Mentre libri di esperti di Islam come Bat Ye’r e Robert Spencer che raccontano verità scomode su jihad e sharia spesso non vengono nemmeno recensiti da giornali del calibro del New York Times, la stampa dominante legittima pensatori come Karen Armstrong e John Esposito le cui caramellose rappresentazioni dell’Islam avrebbero dovuto essere discreditate una volta per tutte dopo l’11 Settembre. Il Times descrisse l’agiografia di Armstrong su Maometto come “un buon punto di partenza” per la comprensione dell’Islam; nel luglio del 2007 il Washington Post titolò un articolo di Esposito: “Vuoi capire l’Islam? Comincia da qui”.

I principali mezzi d’informazione hanno spesso confezionato sbiaditi ritratti della vita dei fondamentalisti musulmani. Ne è una prova l’appassionato profilo in tre parti che Andrea Elliott fece dell’imam di Brooklyn e apparso sul New York Times nel marzo del 2006. Elliott e il Times cercarono di rappresentare Reda Shata come un eroico costruttore di ponti fra due culture, lasciando i lettori con la confortante convinzione che la crescita dell’Islam in America fosse non soltanto innocua ma positiva, addirittura auspicabile. Benché emergesse continuando a leggere che Shata non parlava inglese, rifiutava di stringere la mano alle donne, voleva proibire la musica e sosteneva Hamas e gli attentati suicidi, la Elliott fece del suo meglio per sottacere tali spiacevoli dettagli e si concentrò su simpatici aspetti personali. “L’Islam gli fu rivelato dolcemente, al ritmo di voce di sua nonna”; “Shata scoprì l’amore 15 anni fa…….” “Entrò nel mio cuore”, disse l’imam. Il pezzo alla saccarina di Elliott vinse il premio Pulitzer. Quando Daniel Pipes lo studioso del Medio Orientale fece notare che Shata era ovviamente un islamista, uno scrittore del Columbia Journalism Review tacciò Pipes di essere un “destrorso” e insistette che Shata era “un vero moderato”.

Questo è ciò che accade in questo nuovo mondo dei media pavido e sottosopra: quelli che se avessero il potere soggiogherebbero gli infedeli, opprimerebbero le donne e giustizierebbero apostati e omosessuali sono “moderati” (moderati essendo, apparentemente, di questi tempi, tutti coloro che non hanno esplosivi intorno alla vita), mentre coloro che osano dire pane al pane sono “islamofobi”.

Lo show business è stato almeno altrettanto scandaloso. Durante la Seconda Guerra Mondiale Hollywood ha prodotto gran quantità di film che sostenevano lo sforzo bellico, ma i film e gli show televisivi di oggi, con rare eccezioni, o (si aggirano in punta di piedi intorno ai temi dell’Islam o semplicemente li mistificano). Di quest’ultimo esempio fanno parte due sitcom che debuttarono nel 2007, la Piccola Moschea nella Prateria della Canadian Broadcasting Corporation e Aliens in America del canale CW. Entrambi gli show riguardano storie di musulmani che si confrontano con il bigottismo antimusulmano; entrambi danno per scontato che non esista il problema dell’Islam fondamentalista nell’Occidente, ma solo un problema antislamico.

Gruppi di pressione musulmani hanno attivamente cercato di far sì che film e show televisivi rappresentassero l’Islam come nient’altro che una religione di pace. Per esempio, il Consiglio per le Relazioni Islamico-Americane ha influenzato con successo la Paramount Pictures perché cambiasse i cattivi di “The sum of all fears” (2002) da terroristi islamici a neonazisti, mentre la popolare serie “24” della Fox dopo che alcuni musulmani lamentarono che un episodio rappresentava terroristi islamici, rilasciò comunicati pubblici da brividi che enfatizzavano quanto non violento l’Islam fosse. Alcuni mesi fa, l’attore iraniano-danese Farshad Kholghi notò come, a dispetto del travolgente impatto della controversia sulle vignette in Danimarca, “non un solo film era stato fatto sulla crisi, non un solo spettacolo o monologo teatrale”. Ciò è esattamente quanto i jihadisti delle vignette volevano ottenere.

Nell’aprile del 2006 un episodio della serie di cartoni animati South Park ammirevolmente prese in giro l’ondata di autocensura che seguì alla crisi del Jylland-Posten, ma Comedy Central lo censurò sostituendo un’immagine di Maometto con una schermata nera e didascalie esplicative. Secondo il produttore della serie Anne Garefino, i dirigenti del network ammisero onestamente di avere agito in tal modo per paura. “Fummo felici del fatto” disse ad un intervistatore “che non provarono a sostenere che fosse per tolleranza religiosa”.

E poi c’è il mondo dell’arte. Gli artisti postmoderni che hanno sempre cercato di turbare e scuotere le coscienze adesso sostengono piamente che l’Islam merita “rispetto”. Musei e gallerie hanno silenziosamente tirato giù quadri che potessero turbare i musulmani e hanno messo da parte manoscritti che mostrassero immagini di Maometto. La Whitechapel Art Gallery di Londra ha rimosso da una mostra del 2006 le bambole nude a grandezza naturale dell’artista surrealista Hans Bellmer appena prima dell’inaugurazione; la scusa ufficiale fu “limiti di spazio”, ma il curatore ammise che la vera motivazione era la paura che la nudità potesse offendere i vicini musulmani. Lo scorso novembre dopo la cancellazione all’Aja di una mostra di opere d’arte raffiguranti gay vestiti da Maometto, l’artista, Sooreh Hera accusò il museo di aver ceduto a minacce musulmane. Tim Marlow della White Cube Gallery di Londra sottolinea che tale autocensura da parte di artisti e musei è ormai comune benché “molto pochi lo abbiano esplicitamente ammesso”. L’artista britannico Grayson Perry, il cui lavoro ha aspramente irriso il cristianesimo, lo ha fatto benché la sua riluttanza non abbia nulla a che vedere con una sensibilità multiculturale. “La ragione per cui non mi sono esposto nell’attaccare l’islamismo nella mia arte” ha dichiarato al Times di Londra, “è perché temo veramente che qualcuno mi tagli la gola”.

Intellettuali e accademici liberal di primo piano hanno dimostrato una impressionante disponibilità a tradire i propri ideali quando si tratta di essere concilianti con i musulmani. Già nel 2001, Unni Wikan, esimio antropologo culturale norvegese ed esperto di Islam reagì all’elevata percentuale di stupri musulmani su infedeli ad Oslo esortando le donne a “rendersi conto che viviamo in una società multiculturale e ad adattarvisi”. Più recentemente, esperti europei di elevato profilo quali Ian Buruma del Bard College e Timothy Garton Ash di Oxford, pur negando strenuamente di difendere una resa culturale, hanno comunque abbracciato l’idea del “compromesso” che suona molto come un distinguo senza alcuna sostanziale differenza. Nel suo libro “Omicidio ad Amsterdam”, Buruma cita favorevolmente il richiamo del sindaco di Amsterdam Job Cohen al “compromesso con i musulmani”, inclusi quelli che “consapevolmente discriminano le loro donne”. La sharia contempla il diritto per un uomo musulmano di picchiare e violentare sua moglie, di costringere al matrimonio le sue figlie e di ucciderle se si oppongono. Verrebbe da chiedersi che cosa le donne musulmane immigrate in Europa per scappare a tale barbarie pensino di appelli simili.

Rowan Williams l’arcivescovo di Canterbury e uno dei più noti intellettuali britannici, suggerì in febbraio l’istituzione di un sistema parallelo di sharia in Gran Bretagna. Dal momento che il Consiglio Islamico per la Sharia giudica già matrimoni e divorzi musulmani nel Regno Unito ciò che Williams si proponeva era, a suo dire, “una più elevata e sofisticata versione di tale istituto, con maggiori risorse”. Fortunatamente la sua proposta, povera di dettagli ma ricca di ambiguità accademiche (“Non penso” disse alla BBC “che dovremmo arrivare subito alla conclusione che l’insieme di quella giurisprudenza e pratica giuridica sia in qualche modo fortemente incompatibile con i diritti umani semplicemente perché non si accorda immediatamente con il nostro modo di comprenderla”) fu accolta da pubblica indignazione.

Un altro importante sostenitore del compromesso culturale è il professore di Storia e Letteratura Mark Lilla della Columbia University, autore di un saggio, apparso sul New York Time Magazine nell’agosto del 2007, così lungo e sdolcinato e scritto con tale perfetto accademico distacco che molti lettori a fatica si sarebbero resi conto che tracciava un percorso dritto verso la sharia. “La piena riconciliazione dei musulmani con la democrazia liberale non può essere auspicata”, scrisse Lilla. Per l’Occidente “l’ordine del giorno è fare i conti con essa, non difendere elevati principi”.

Rivelativo, sotto questo aspetto, è il trattamento riservato da parte di Buruma e Gartom Ash alla scrittrice Ayaan Hirsi Ali, forse la più coraggiosa campionessa vivente delle libertà occidentali di fronte all’incalzante jihad, e all’intellettuale europeo musulmano Tariq Ramadan. Siccome Hirsi Ali si rifiuta di scendere a compromessi sulla libertà, Garton Ash l’ha definita una “semplificatrice…..fondamentalista illuminista”, così implicitamente paragonandola ai fondamentalisti musulmani che hanno minacciato di ucciderla, mentre Buruma, in diversi articoli del New York Times l’ha dipinta come un’ingenua petulante. (Entrambi hanno recentemente ritrattato in qualche modo). D’altra parte, i professori Buruma e Ash hanno decantato la supposta specchiatezza di Ramadan. Non sono i soli: benché egli non sia l’occidentalizzato intellettuale urbano che sembra – egli rifiuta, infatti, di condannare la lapidazione delle donne adultere e chiaramente confida in un Europa sotto la sharia – questo nipote di Hassan al-Banna, fondatore della Fratellanza Musulmana e protetto del filosofo islamista Yusuf al-Qaradawi, viene regolarmente elogiato nei circoli benpensanti quale rappresentante delle migliori speranze per una concordia di lungo termine tra musulmani occidentali e non musulmani.

Questa primavera il professore di legge ad Harvard, Noah Feldman, scrivendo sul New York Times magazine brindò per ben due volte alla sharia confrontandola positivamente con la common law inglese e descrivendo l’aspirazione degli islamisti a rinnovare le vecchie leggi come “audacie e nobile”.

Accanto alla stampa, all’industria dell’intrattenimento e ad importanti pensatori liberal che rifiutano di difendere le fondamentali libertà dell’Occidente non sorprende affatto che i nostri leader politici siano stati altrettanto pusillanimi. Dopo che un piccolo giornale di Oslo, il Magazinet, ristampò le vignette danesi all’inizio del 2006 i jihadisti bruciarono le bandiere norvegesi e dettero fuoco all’ambasciata norvegese in Siria. Invece di affrontare i vandali, i leader norvegesi se la presero con l’editore del Magazinet, Vebiarn Selbekk, incolpandolo, seppur parzialmente, per il rogo all’ambasciata e facendo pressioni perché chiedesse scusa. Alla fine egli fu costretto a cedere ad una conferenza stampa sponsorizzata dal governo e a strisciare davanti ad un’assemblea di imam il cui leader lo perdonò pubblicamente e lo mise sotto la sua protezione. In quel terribile giorno Selbekk più tardi ammise “la Norvegia ha fatto un grande passo nel concedere che la libertà di parola sia ostaggio degli islamisti”. Come se quella capitolazione non fosse abbastanza una delegazione ufficiale norvegese si recò in Quatar a implorare Quaradawi – un difensore degli attentati suicidi oltre che assassino di bambini ebrei – di accettare le scuse di Selbekk. “Incontrare Yusuf al-Quaradawi in tali circostanze” protestò lo scrittore iracheno norvegese Walid al-Kubaisi, era “equivalente a garantire agli estremisti islamici…il diritto ad una consultazione comune su come la Norvegia dovesse essere governata”.

La posizione delle Nazioni Unite sulla questione della libertà di parola nei confronti del “rispetto” per l’Islam fu subito chiara – e interamente in disaccordo con i suoi valori fondativi di promozione dei diritti umani. “Non si scherza sulla religione degli altri” protestò Kofi Annan subito dopo l’incidente del Magazinet, facendo eco ai sermoni di innumerevoli imam, “e bisogna rispettare ciò che è sacro per gli altri”. Nell’ottobre del 2006, un comitato di discussione delle Nazioni Unite chiamato “Fumetti per la pace”, sotto la presidenza del Segretario Generale Shashi Tharoor propose di disegnare “una sottile linea blu delle Nazioni Unite….tra libertà e responsabilità”. (Gli americani saranno perdonati per aver pensato che quella linea si scontra frontalmente con il Primo Emendamento.) Nel 2007, per di più, il Consiglio delle Nazioni Unite per i Diritti Umani fece passare una mozione pakistana che proibiva la diffamazione delle religione.

Altri leader occidentali hanno promosso l’espansione della Casa della Sottomissione, Dar al-Islam. Nel settembre 2006, quando l’insegnante di filosofia Robert Redecker fu costretto a darsi alla macchia dopo aver ricevuto numerose minacce di morte a seguito della pubblicazione di un’editoriale di opinione pubblicato su Le Figaro, il Primo Ministro francese del tempo, Dominique de Villepin, commentò che “ognuno ha il diritto di esprimere le proprie opinioni – sempreché rispettino gli altri, naturalmente”. La lezione da trarre dalla vicenda Redecker, egli aggiunse, era “quanto vigili dobbiamo essere per assicurarci che la gente si rispetti vicendevolmente nella nostra società”. Villepin fu superato lo scorso anno dalla sua controparte svedese, Fredrik Reinfeldt, che dopo essersi incontrato con alcuni ambasciatori musulmani per discutere delle vignette di Vilk, fu elogiato da uno di loro, l’algerino Merzak. Bejaoui, per il suo “spirito di pacificazione”.

Quando anni dopo l’11 settembre il presidente George W. Bush finalmente riconobbe pubblicamente che l’Occidente era in guerra con il fascismo islamico, la furiosa reazione di musulmani e multiculturalisti lo fecero ripiegare sulla neutra espressione di “guerra al terrore”. Il Ministero degli Esteri britannico ha da allora ritenuto tale espressione offensiva e ne ha bandito l’uso ai suoi membri di gabinetto (insieme a “estremismo islamico”). In gennaio il Ministero degli Interni decise che avrebbe descritto il terrorismo islamico, da allora in avanti, come “attività antislamica”.

Le assemblee legislative e i tribunali occidentali hanno via via accresciuto lo “spirito di pacificazione”. Nel 2005 il Parlamento norvegese, senza alcun dibattito pubblico o copertura mediatica, ha criminalizzato gli insulti religiosi (oltretutto spostando l’onere della prova a carico dell’imputato). L’anno scorso, il più celebrato avvocato di quel Paese, Tor Erling Staff, sostenne che la pena per omicidio d’onore dovrebbe essere inferiore a quella per gli altri tipi di assassinio poiché è arrogante aspettarsi che gli uomini musulmani si conformino alle norme della nostra società. Sempre nel 2007, in uno dei diversi casi in cui magistrati tedeschi giurarono di sostenere la legge tedesca e invece seguirono la sharia, un giudice di Francoforte respinse la richiesta di una donna musulmana per un divorzio rapido da un marito da cui subiva brutali maltrattamenti; dopo tutto, sotto la legge coranica egli aveva il diritto di picchiarla.

Coloro che osano sfidare i nuovi dettami occidentali basati sulla sharia e sostengono le loro opinioni in alcuni paesi ora rischiano perfino di venire perseguiti. Nel 2006 la leggendaria scrittrice Oriana Fallaci, malata terminale di cancro, fu processata per aver denigrato l’Islam; tre anni prima dovette difendersi da un’accusa simile in un tribunale francese. (La Fallaci fu sostanzialmente prosciolta in entrambi i casi). Più recentemente le province canadesi costrinsero l’editore Ezra Levant e il giornalista Mark Steyn ad affrontare tribunali per i diritti dell’uomo, il primo per aver ristampato le vignette del Jylland Posten, il secondo per aver scritto in modo critico sull’Islam sul Maclean.

Anche quando hanno ostacolato i critici dell’Islam, le autorità occidentali hanno, comunque, sempre onorato i sostenitori della jihad. Nel 2005 la regina Elisabetta insignì del titolo di Cavaliere Iqbal Sacranie del Cosiglio Britannico Musulmano, colui che aveva richiesto la condanna a morte per Salman Rushdie. Sempre quell’anno, il sindaco di Londra Ken Livingstone assurdamente elogiò come “progressista” Qaradawi e, in risposta agli attivisti gay che osservarono che Qaradawi aveva difeso la pena di morte per gli omosessuali, pubblicò un lungo dossier che cercava di ripulire la reputazione dello studioso sunnita e di infangare quella degli attivisti. Tra tutti i leader occidentali, tuttavia, pochi furono all’altezza di Piet Hein Donner, che nel 2006, in qualità di Ministro della Giustizia olandese, disse che se gli elettori volevano portare la sharia in Olanda, dove i musulmani sarebbero stati presto la maggioranza, “sarebbe stato vergognoso dire: “Questo non è permesso”.

Se non trovate scioccante la sottomissione (“dhimmificazione”) dei politici, considerate almeno il livello a cui le forze dell’ordine hanno ceduto alla pressione islamista. L’anno scorso quando “Moschea Undercover”, un insolitamente franco reportage su Channel 4, mostrò predicatori musulmani “moderati” chiedere di picchiare mogli e figlie e uccidere gay e apostati, la polizia scattò in azione denunciando l’emittente alle autorità della comunicazione, Ofcom, per provocazione all’odio razziale. La reazione della polizia, come James Forsyth notò su Spectator, “rivelò un atteggiamento mentale per cui la denuncia di un problema viene vissuta come un problema maggiore del problema stesso”. Alcuni giorni dopo il programma, in assoluta indifferenza rispetto alla realtà denunciata, il commissario di polizia metropolitana Sir Ian Blair rese noti i piani per condividere l’intelligence antiterrorismo con i leader delle comunità musulmane. Tali piani furono fortunatamente accantonati.

Il riformista musulmano canadese Irshad Manjii notò che nel 2006, quando 17 terroristi furono arrestati a Toronto sul punto di infliggere al Canada “il suo 11 settembre”, “la polizia non fece nemmeno menzione che avessero a che fare con l’Islam o con i musulmani, non una sola parola su questo”. Quando, dopo l’omicidio Van Gogh, un artista di Rotterdam realizzò un murale raffigurante un angelo con le parole non uccidere, la polizia, temendo di far torto ai musulmani, cancellò l’opera (e il video della sua distruzione). Nel luglio 2007 un appello televisivo già programmato dalla polizia britannica per favorire la cattura di uno stupratore musulmano, fu cancellato per evitare “reazioni razziste”. E, in agosto, il Times di Londra riferì che uomini “asiatici” (codice britannico per “musulmani”) nel Regno Unito avevano rapporti sessuali con, probabilmente, “centinaia di ragazzine bianche appena dodicenni” ma che le autorità non sarebbero intervenute per timore di “turbare le relazioni interrazziali”. Tipicamente, né il Times né funzionari governativi riconobbero che il disprezzo degli uomini “asiatici” per le ragazzine “bianche” non era questione di razza ma di fede.

Anche i leader militari non sono immuni a tutto questo. Nel 2005, l’editorialista Dianne West notò che il comandante delle truppe americane in Iraq, Tenente Generale John R. Vines, educava i suoi uomini all’Islam dando loro una lista di letture che “mistificava jihad, dhimmità e leggi della sharia attraverso i lavori di Karen Armstrong e John Esposito”; due anni più tardi, la West sottolineò la scarsa propensione di un consigliere per la contro-insorgenza in Iraq, il Tenente Colonnello David Kilcullen, a nominare la jihad. Nel gennaio 2008, il Pentagono licenziò Stephen Coughlin, il suo esperto interno di sharia e jihad poiché, in base ad alcuni resoconti, il suo riconoscimento che il terrorismo era motivato dalla jihad si era inimicato un influente consigliere musulmano. “Che le analisi di Coughlin potessero anche solo essere considerate “controverse”, scrisse Andrew Bostom, redattore di “The Legacy of Jihad”, “ è indice patologico del marciume intellettuale e morale che affligge i nostri sforzi di combattere il terrorismo globale”. (Forse grazie anche alla pubblica indignazione che ne seguì, i funzionari governativi annunciarono in febbraio che Coughlin non sarebbe stato cacciato dopo tutto, ma piuttosto destinato a una diversa posizione del Dipartimento della Difesa).

Tanto basti. Dobbiamo riconoscere che i jihadisti culturali odiano le nostre libertà perché tali libertà sfidano la sharia che essi sono determinati ad imporci. Finora essi hanno avuto molto meno successo nel conculcare la nostra libertà di parola e altre libertà negli Stati Uniti che in Europa, grazie, in non piccola parte, al Primo Emendamento. Tuttavia l’America si sta dimostrando suscettibile in modo crescente alle loro pressioni.

La questione chiave per gli occidentali è dunque: amiamo le nostre libertà almeno quanto i jihadisti le odiano? Molti uomini liberi, purtroppo, si sono abituati a tal punto alla libertà e alla posizione di comodo di non doverla sostenere, che sono incapaci di difenderla quando viene messa in pericolo o, addirittura, in molti casi, di riconoscere quando essa viene messa in pericolo. Quanto ai musulmani che vivono in Occidente, diversi sondaggi indicano che molti di loro, sebbene non attivamente coinvolti nella jihad, sono disposti a stare a guardare passivamente, alcuni favorevolmente, mentre loro fratelli nella fede trascinano il mondo occidentale entro i confini della Casa della Sottomissione, Dar al-Harb. Non possiamo certo aspettarci che essi prendano posizione a favore della libertà se, noi per primi, non lo facciamo.

© City Journal

Traduzione Alessandro Rossi

Bruce Bawer è autore di “Mentre l’Europa dorme: come l’Islam radicale sta distruggendo l’Occidente dall’interno”. Il suo blog è BruceBawer.com.
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Re: Leggi razziali: le peggiori sono quelle nazi maomettane

Messaggioda Berto » mer ott 24, 2018 7:46 am

Ecco la mafia nazi maomettana che predica l'odio e la discriminazione religiosa e umana, che minaccia, che intimidisce, che uccide, che stermina:


Libero il predicatore d'odio star del web nel Londonistan
Gaia Cesare - Sab, 20/10/2018

http://www.ilgiornale.it/news/politica/ ... 90440.html

Con video e sermoni Choudary ha convinto centinaia di giovani, tra cui Jihadi John II, a combattere con l'Isis

Ha definito i terroristi dell'11 settembre «splendidi martiri», giustificato la strage a Charlie Hebdo, si è augurato che la «bandiera di Allah» sventoli su Downing Street, che la «sharia venga adottata» dal Regno Unito e i gay lapidati una volta che la legge islamica prevarrà.

Eppure Anjem Choudary, il predicatore islamista ex portavoce di Islam4UK e fondatore dell'organizzazione salafita Al-Muhajiroun, entrambe fuorilegge nel Paese, l'uomo che si è sempre rifiutato di condannare gli attentati di Londra del 7 luglio 2005 (52 morti, 700 feriti) e la decapitazione del reduce dell'Afghanistan Lee Rigby, da ieri è un uomo libero. Libertà vigilata, ma pur sempre libertà per l'avvocato di 51 anni nato e cresciuto in Gran Bretagna, origini pachistane, che ha indottrinato migliaia di giovani inglesi - i più pericolosi si stima siano 500, partiti per Irak e Siria - fra cui uno dei più noti tagliagole dell'Isis, quel Mohammed Reza Haque detto «Jihadi John II», che di Choudary è stato la guardia del corpo.

Barba lunga brizzolata, tunica bianca, scarpe da ginnastica, Choudary ha posato ieri a favore di fotografi davanti all'edificio in cui passerà, sotto stretta sorveglianza, i prossimi sei mesi, in attesa di tornare a casa dalla moglie e i cinque figli, nell'abitazione di Ilford, Est di Londra, il suo «giardino». Lo prevede la legge, che offre a un detenuto la possibilità di tornare in libertà dopo aver scontato metà della pena. Così a Choudary è stato consentito di lasciare dopo soli due anni la prigione di massima sicurezza di Durham (Nord-Est dell'Inghilterra), in cui ha scontato metà della condanna a cinque anni e mezzo per proselitismo e promessa di fedeltà all'Isis.

«Lo terremo d'occhio come falchi» promettono fonti dei servizi di sicurezza britannici, che per la sorveglianza impiegheranno oltre 2 milioni di euro, anche per proteggerlo da eventuali attacchi dell'estrema destra. In attesa del ritorno a casa, a Choudary saranno imposte 25 condizioni, che sono per lo più restrizioni: il divieto di lasciare il Paese senza autorizzazione, di usare un telefono dotato di connessione Internet senza il via libera delle autorità, di predicare o frequentare alcune moschee e persino di parlare con i bambini. L'uso del web potrà avvenire solo sotto controllo, vietato rilasciare dichiarazioni pubbliche e interviste ai media.

Ed è questo uno dei punti cruciali delle misure restrittive. Perché Choudary ha fatto gran parte dei suoi proseliti durante le comparsate televisive sui grandi network e con i video on-line, dove è diventato una star pro-sharia. Quattro dei dieci filmati di integralisti islamici più visti di Youtube sono suoi, con il paradosso che il motore di ricerca Google lo inserisce tra i musulmani «illustri» con il sindaco di Londra Sadiq Khan e il ministro dell'Interno Sajid Javid. Perciò l'ex vice-commissario di Scotland Yard, Mark Rowley, ha puntato il dito contro i Big della Rete che hanno dato al predicatore d'odio un pulpito per promuovere «contenuti controversi invece che informazioni accurate».

Il timore è che Choudary ci metta poco a ristabilire la sua rete di adepti del terrore, tra cui figura la cellula terroristica entrata in azione lo scorso giugno a Londra, nell'attentato al London Bridge in cui sono morte otto persone. È anche per questo che, dopo averlo definito «sinceramente pericoloso», fonti governative hanno cambiato registro in queste ore, temendo l'onda di indignazione e paura, e ne hanno attaccato il «mito», descrivendolo come un codardo. «Non è mai andato da nessuna parte a combattere eppure era contento di vedere i suoi seguaci partire per la jihad e morire. Radicalizza i giovani, li manda a combattere ma è troppo spaventato per partire».

I suoi beni sono stati congelati dopo l'inserimento dell'Onu nella «lista nera» dei terroristi e in quella delle persone «legate a Bin Laden» dalla Svizzera.



Matteo Montevecchi minacciato per il suo video sulle associazioni islamiche: “Muori, che Allah ti guarisca"

https://www.riminiduepuntozero.it/matte ... a%e2%80%a8

Il video “la verità sulle associazioni islamiche” è diventato virale. Le risposte contro Matteo Montevecchi non si sono fatte attendere. Soprattutto insulti e minacce: “Pagato da Salvini, diffondi odio, propaganda islamofobica, muori, pezzo di idiota, che Allah ti guarisca”. Allarme rosso: qualcuno sostiene i Fratelli Musulmani in Italia.

Rimini 2.0, tramite numerosi articoli del giovane Matteo Montevecchi, negli ultimi mesi ha dedicato molto spazio agli approfondimenti sull’eclatante caso scoppiato a Santarcangelo, dove l’amministrazione comunale ha letto nelle scuole elementari ai bambini di quarta e quinta, un libro di Sumaya Abdel Qader, militante islamica e consigliere comunale del PD a Milano. Ora, l’ultimo video di Matteo Montevecchi, “La verità sulle associazioni islamiche in Italia”, ha sollevato un grosso tema proprio pochi giorni prima delle elezioni: chi sono i leader islamici che oggi predicano a casa nostra e influenzano intere comunità? Si parte da chi esulta quando vengono assaltati gli ebrei nelle sinagoghe, passando per chi difende imam integralisti e antisemiti, fino ad arrivare a chi sostiene di avere “vicinanze amichevoli con i Fratelli Musulmani” e tifa pubblicamente per Hamas, considerato organizzazione terroristica da Stati Uniti, Unione Europea, Regno Unito, Canada, Giappone, Israele ecc.. Insomma, la situazione non è rosea. Ma adesso sicuramente molto più chiara.

“Ecco perché dobbiamo chiudere le moschee legate all’UCOII e dichiarare fuorilegge i Fratelli Musulmani”, spiega Montevecchi. Poi fa nomi e cognomi, fonti alla mano. Usa video, interviste, screen di post scritti su Facebook proprio dalle persone interessate, per documentare il tutto. Il video ha superato sulla sua pagina le 250.000 visualizzazioni. Ed è stato pubblicato anche dal leader della Lega (e del centrodestra) Matteo Salvini sulla propria pagina Facebook ufficiale, raggiungendo altre 400.000 visualizzazioni.

Le risposte non si sono fatte attendere. Argomentazioni? Macché! Per la maggior parte insulti e anche minacce. Qualcuno è stato infastidito dal fatto che nel video Montevecchi abbia citato i leader dell’Unione delle organizzazione islamiche in Italia (UCOII), dei Giovani Musulmani d’Italia (GMI) o del Coordinamento delle associazioni islamiche di Milano (CAIM). Altri si sono infuriati quando Montevecchi ha parlato anche del movimento islamista dei Fratelli Musulmani, considerato terrorista dalla Russia e da diverse nazioni del mondo arabo. Questo significa che in Italia ci sono persone che simpatizzano tranquillamente per gli islamisti e che senza farsi scrupoli sono abituati a cercare di intimorire e aggredire in massa, verbalmente, chiunque osi esprimere un giudizio diverso dal loro, che, a quanto pare, non è per niente moderato?

“Pagato da Salvini, pezzo di idiota, fai propaganda islamofobica, diffondi odio” sono le frasi pronunciate da questi veri odiatori della rete. Ma c’è anche chi dice: “Muori”, “Che Allah ti guarisca”. È a questo che si deve andare incontro per esprimere le proprie idee? C’è ancora libertà di pronunciarsi contro gli estremismi e gli integralismi di stampo islamico? Un utente musulmano arriva a giustificare la poligamia islamica: “Assumersi le proprie responsabilità equamente tra una e più mogli è sempre più corretto e leale piuttosto che tante corna”. Bisognerebbe ricordargli che la poligamia è illegale in Italia. È un reato: Art. 556 del Codice penale. Ma evidentemente c’è chi alle leggi dello Stato sostituisce automaticamente la Sharia.


Nazismo maomettano = Islam = dhimmitudine = apartheid = razzismo = sterminio
viewtopic.php?f=188&t=2526

Il maomettismo o nazismo maomettano e i maomettani o l''Islam e gli islamici sono una minaccia, una offesa, un'ingiuria, un pericolo per l'umanità intera
viewtopic.php?f=188&t=2667
https://www.facebook.com/alberto.pento/ ... 5512703312

La Sharia non è la legge di D-o ma soltanto quella dell'idolo Allah e del suo profeta idolatra e assassino Maometto
viewtopic.php?f=188&t=2470

Islam come mafia politico religiosa
viewtopic.php?f=188&t=2222
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Re: Leggi razziali: le peggiori sono quelle nazi maomettane

Messaggioda Berto » mer ott 24, 2018 7:48 am

Leggi razziali italiane e tedesche - nazi fasciste e cristiane
1938 Storia, racconto memoria
Antologia a cura di Simon Levis Sullam
Informazione Corretta
Giorgia Greco

http://www.informazionecorretta.com/mai ... o.facebook

“Non dobbiamo mai dimenticare, quando prendiamo in esame le leggi antisemite del 1938 e le liste degli israeliti che furono burocraticamente compilate in attuazione di quelle leggi e lo zelo dei funzionari, che la suprema infamia del grande olocausto degli ebrei è cominciata in Italia proprio con queste leggi, e con tutto quello che le accompagnò e le seguì….” (Alessandro Galante Garrone)

Il 5 settembre 1938 Vittorio Emanuele III firmò il primo provvedimento approvato dal fascismo per volontà di Mussolini con il quale tutti gli italiani appartenenti alla “razza ebraica” venivano privati dei diritti più elementari. Dall’espulsione dalle scuole di ogni ordine e grado per alunni e docenti, al divieto di sposarsi con italiani “ariani”, dalla possibilità di lavorare nelle pubbliche amministrazioni o in altre professioni al divieto di possedere una radio, di far parte di circoli sportivi, di frequentare luoghi di villeggiatura o biblioteche, quello delle leggi razziali “fu un virus che infettò ulteriormente uno Stato già da tempo deprivato di tutte le libertà”. L’ottantesimo anniversario dalla promulgazione delle prime leggi antiebraiche italiane è dunque l’occasione per riflettere su una pagina drammatica della Storia del nostro Paese e per chiedersi con quali strumenti è possibile continuare a trasmettere la Memoria di tali eventi ora che i testimoni diretti sono quasi del tutto scomparsi. Chi potrà raccogliere l’eredità dei sopravvissuti e veicolarla alle nuove generazioni? A questo quesito che si pone in modo stringente ogni anno in occasione del Giorno della Memoria offre una possibile risposta l’antologia “1938. Storia, racconto, memoria” pubblicata in questi giorni da Giuntina. Simon Levis Sullam, storico e curatore dell’opera, si è cimentato in un progetto di non semplice realizzazione: “far raccontare la storia – o almeno i suoi contenuti – attraverso le storie, cioè i racconti, le narrazioni”.

E per far questo si è affidato a un gruppo di scrittori professionisti e di storici chiedendo loro, attraverso l’ausilio di documenti, di trasmettere il senso dell’esperienza delle persecuzioni antiebraiche in Italia tra il 1938 e il 1945, servendosi del registro narrativo. In questo esperimento perfettamente riuscito in cui il curatore e l’editore chiedono agli autori di scrivere un racconto che sia anche testimonianza, Sullam riflette nell’introduzione sul ruolo della narrazione, del racconto nel fare storia e senza ipotizzare la sostituzione del saggio o della ricostruzione storica con il racconto non si può che concordare con lui quando afferma che “accanto all’opera più tradizionalmente intesa degli storici, la trasmissione della storia e memoria delle persecuzioni, avverrà crescentemente in forme narrative”. Da ciò l’importanza del “testimone secondario”, testimone indiretto della Shoah, la cui narrazione è affidata quindi a persone sfuggite alle persecuzioni dirette e sempre più lontane dagli eventi ma che si rivelano narratori efficaci e attendibili. Nell’antologia “1938” questo compito è affidato a una nuova generazione di scrittori (narratori e storici) che si collocano biograficamente dopo la metà circa degli anni Cinquanta, molti negli anni Sessanta e alcuni negli Ottanta. Fra essi costituiscono l’assoluta maggioranza le voci non ebraiche mentre il tema delle memorie va oltre l’ottantesimo delle leggi antiebraiche per abbracciare il tema di incombente attualità, nel contesto politico odierno, del razzismo verso gli immigrati come testimonia in modo puntuale Igiaba Scego nel racconto “La chat”.

Emerge anche la questione delle migrazioni nel racconto di Carlo Greppi, “Andrà tutto bene” che si chiude con una nota dell’autore sugli ebrei in fuga attraverso la val di Gesso, del razzismo coloniale intrecciato a quello antisemita nel racconto di Giulia Albanese intitolato “L’esame” restituito in forma diaristica, oltre alla rielaborazione e memoria delle persecuzioni nel dopoguerra rievocate nello scritto di Vanessa Roghi. La scelta narrativa adottata da questo insieme eterogeno di autori - aventi come unica regola condivisa il raccontare il 1938 partendo da vicende reali e documentate - è assai varia. Alcuni scrittori privilegiano un resoconto storiografico in forma narrativa come Alessandro Zuccuri su Arnaldo Momigliano, altri optano per la strada della fiction scegliendo come Bruno Maida o Viola Di Grado di narrare vicende individuali di forte impatto emotivo senza svelare che si tratta di una storia realmente accaduta. Tuttavia è un dato che importa poco al lettore preso com’è dallo scandire della trama e anche perché ciò che conta “più che la verità e la verosimiglianza”. Inoltre un’altra possibilità narrativa, adottata da Federica Manzon, Andrea Molesini o Helena Janeczek , è quella di svelare in un momento preciso, interno o esterno al testo, il riferimento a persone realmente esistite, sebbene tali autori abbiano ideato un racconto perfettamente identificabile come fiction sia per il metodo narrativo che per la costruzione dei personaggi.

Come Simon Levis Sullam riflette sui “testimoni secondari” nell’introduzione all’antologia, analogamente Martina Mengoni, laureata in filosofia e docente di letteratura all’Università di Pisa, riprende nella postfazione un quesito già sollevato da Manzoni per chiedersi se a ottant’anni dalle leggi razziali, ora che i testimoni diretti sono scomparsi, esiste la possibilità di scrivere testi narrativi su quegli eventi testimoniando per interposta persona o addirittura costruendo un punto di vista basato sulla finzione. Sarà possibile un terreno d’incontro fra storici e scrittori quando la voce dei testimoni sarà solo un ricordo? Quale tipo di narratore sarà più efficace per trasmettere la memoria? Lo storico o lo scrittore? E quali strategie narrative occorrerà mettere in campo in ciascuno dei casi? La lettura di questa antologia offre lo spunto, nell’analisi della costruzione narrativa dei racconti, di interrogarsi sulle soluzioni più efficaci per avvicinarsi ai fatti del 1938 attraverso la narrativa, “in un frangente in cui stanno scomparendo i testimoni primari che hanno vissuto quell’anno cardine della nostra storia”. Per scongiurare il rischio della retorica commemorativa e l’affievolirsi dell’immaginazione storica e morale, storia e letteratura devono trovare un punto di incontro e di condivisione nella consapevolezza che “senza i valori che le generazioni precedenti trasmettono si è solo un corpo vivo ma senz’anima. Scrivere non è solo un incantesimo magico ma un varco verso il mondo che è nascosto dentro di noi. La parola scritta ha il potere di accendere l’immaginazione e di illuminare il tuo io interiore” (Aharon Appelfeld).
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Re: Leggi razziali: le peggiori sono quelle nazi maomettane

Messaggioda Berto » mer ott 24, 2018 7:49 am

Queste leggi sono espressione della tradizione antigiudaica-antisemita dell'Europa romana e cristiana, e seguono quelle di Costantino l'imperatore romano e il pensiero di Martin Lutero il prete riformatore protestante:

https://it.wikipedia.org/wiki/Storia_de ... isemitismo


I padri della Chiesa e le basi ideologiche dell'antigiudaismo cristiano
Fabiana Cilotti
7 novembre 2015

http://www.linformale.eu/ciao-mondo

Nei primi cinque secoli il rifiuto da parte degli ebrei nei confronti della sempre più pressante dottrina cristiana veniva considerato il principale ostacolo all’apostolato cristiano. È in questo periodo che molti apologeti e teologi cristiani si dedicarono accanitamente a delegittimare e screditare l’avversario ebreo sviluppando un vero e proprio genere letterario adversus Iudaeos, teso a rendere gli ebrei disprezzabili, detestabili e odiosi. Ogni mezzo fu lecito allo scopo: le stesse parole degli antichi profeti delle Scritture vennero adoperate contro gli ebrei, colpevoli di non aver riconosciuto l’avvento di Cristo; i detrattori non esitarono nemmeno ad impossessarsi dei vecchi stereotipi pagani, spesso addirittura enfatizzandoli e caricandoli di nuovi significati.
I cristiani capovolsero addirittura contro gli ebrei le accuse che si diceva che gli ebrei avessero mosso loro: Origene (185-254) sostiene che i giudei, per discreditare i cristiani, avessero fatto circolare una storia in cui si sosteneva che questi ultimi usassero sacrificare un neonato per poi mangiarne la carne; l’argomentazione, rovesciata, dei sacrifici rituali compiuti dagli ebrei (che poi assumeranno il fine di profanare le ostie) perdurerà per tutto il Medioevo ed entrerà a pieno titolo nell’iconografia medievale antigiudaica.

I due punti focali della strategia antigiudaica dei teologi cristiani dei primi secoli furono il discredito e l’accaparramento delle Sacre Scritture. L’accusa di deicidio li delegittimava da ogni diritto sulle Sacre Scritture, di cui gli apologeti cristiani si impossessarono per rileggerle nella prospettiva della venuta del Cristo e rivendicando di esserne i veri destinatari. Gli ebrei, per le loro colpe, non erano più degni delle Scritture, di cui i cristiani puntavano ad essere i soli e veri portatori. In altre parole, gli ebrei non erano più degni di Dio e quindi nemmeno della sua Parola.

Nel IV secolo, mano a mano che la Chiesa rafforza il suo potere politico, il processo di accaparramento si completa mentre parallelamente si realizza la totale delegittimazione degli ebrei:

Per Ilario di Poitiers (315-367) gli ebrei prima della Torah erano posseduti da un diavolo immondo; dimostratisi indegni della Scrittura dopo il rifiuto del Cristo, il diavolo era tornato in loro;
secondo Girolamo (347-420) le preghiere degli ebrei erano simili al grugnito dei maiali e “Se fosse lecito odiare degli uomini e detestare un popolo, il popolo ebreo sarebbe per me l’oggetto di un odio speciale, perché fino ad oggi nelle loro sinagoghe di Satana perseguitano il Signore nostro Gesù Cristo”;

Gregorio di Nissa (335-395) li definì “assassini del Signore”, “ribelli pieni di odio verso Dio”, “strumenti del diavolo”, “razza di vipere”, delatori, calunniatori, avari e duri di comprendonio;

Giovanni Crisostomo (354-407) paragonò gli ebrei ad animali privi di ragione, esseri immondi simili a cani, spregevoli e capaci di ogni nefandezza. Per lui gli ebrei “non vivono che per il ventre” e i loro costumi sono “paragonabili solo a quelli dei porci e dei caproni”: “con le loro mani uccidono la prole per adorare i demoni”. Convinto che Dio odiasse gli ebrei, esortò tutti i cristiani a fare altrettanto con loro: “E’ dovere di tutti i cristiani odiare gli ebrei.”

Crisostomo equipara la Sinagoga a un bordello. La più antica comunità ebraica d’ Occidente viene molestata durante la preghiera del Sabato. Molte sinagoghe vengono trasformate in chiese cristiane. “La sinagoga non solo è un bordello ed un teatro; è anche un covo di ladri e una tana di bestie selvatiche; quando Dio rigetta un popolo, che speranza di salvezza gli rimane? Quando Dio rigetta un luogo, quel luogo diventa una dimora di demoni. I Giudei vivono per il loro ventre. Concupiscono le cose di questo mondo. La loro condizione non è migliore di quella dei maiali o delle capre a causa dei loro costumi sfrenati e della loro eccessiva ghiottoneria. Sanno fare una cosa sola: riempirsi il ventre ed ubriacarsi”.

Crisostomo scrive otto omelie per dimostrare di quali nefandezze fossero capaci i giudei, con il tipico metodo della diffamazione. Sostiene che le “sinagoghe sono postriboli, caverne di ladri e tane di animali rapaci e sanguinari, i giudei sono infatti animali che non servono per lavorare ma solo per il macello, anzi sono animali feroci”: “mentre infatti le bestie danno la vita per salvare i loro piccoli, i giudei li massacrano con le proprie mani per onorare i demoni, nostri nemici, e ogni loro gesto traduce la loro bestialità” e i cristiani non devono avere “niente a che fare con quegli abominevoli giudei, gente rapace, bugiarda, ladra e omicida”.

Per Ambrogio (339-397) vescovo di Milano, il popolo giudaico è “perduto, spirito immondo, preda del diavolo anche all’interno del suo tempio sacro, la sinagoga: anzi la stessa sinagoga è ormai sede e ricettacolo del demonio che stringe entro spire serpentine tutto il popolo giudaico.” – “la sinagoga dannata del diavolo, la più abominevole bagascia intellettuale che sia apparsa sotto il sole.”

Agostino (354-430) si rivolse agli ebrei chiamandoli “figli di Satana” e affermò che essi erano stati condannati alla dispersione in tutto il mondo per volontà di Dio, puniti per l’eternità a testimoniare la propria cecità:

“Figlio primogenito, il popolo maledetto; figlio minore, il popolo amato. Il primogenito sarà schiavo del minore, così gli ebrei in rapporto a noi cristiani”

La sprezzante dottrina di Agostino sugli “ebrei schiavi dei cristiani” testimoniava l’ormai avvenuto consolidamento di una Chiesa vittoriosa e dominante: da questo momento in poi l’antigiudaismo canonico non conobbe più sosta: i suoi obiettivi furono la lotta al giudaismo e il relegare gli ebrei ad una condizione reietta di subordinazione sociale. Gli ebrei divennero progressivamente sempre più isolati e fortemente distinti dal resto della popolazione.

Il popolo eletto era divenuto, a causa dei deicidio, il popolo di Satana, abominio dell’umanità, condannato a vivere come un servo ed escluso dalla redenzione a meno della conversione alla “nuova e vera fede”.

Questo processo si sarebbe definitivamente compiuto quando il governo imperiale avesse tradotto le concezioni teologiche in misure giuridiche, fase cui Costantino diede inizio. Sul finire del IV secolo la Chiesa aveva aumentato la propria forza al punto da influenzare il potere imperiale, tanto che gli ebrei diventarono cittadini di seconda categoria privi di dignità legale e sociale.

Alla vecchia dicotomia cittadino/schiavo si era sostituita quella tra fedele ed infedele.




Costantino il Grande: le radici cristiane dell'antigiudaismo

http://www.linformale.eu/costantino-il- ... igiudaismo

Dopo la distruzione di Gerusalemme del 135 d. C., mentre nella provincia di Giudea (ormai rinominata Palestina) veniva istituita la figura del Patriarca (un plenipotenziario rappresentante ufficiale della nazione giudaica, nominato a vita dall’Imperatore e la cui carica era ereditaria), a Roma continuava una politica ondivaga nei confronti della comunità ebraica, tra concessioni e privazioni di diritti, e norme emanate ad hoc a seconda degli Imperatori che si succedevano al potere. Fu ad esempio nel 212 d. C. che Caracalla, con la “Constitutio Antoniniana de Civitate” concesse la cittadinanza romana a tutti gli uomini liberi dell’impero, ebrei compresi.
La situazione però cambiò radicalmente con l’avvento di Costantino il Grande (306-337), la cui politica delineò i presupposti per rendere il cristianesimo religione ufficiale dell’Impero. Il suo regno segnò un mutamento di rotta radicale rispetto al passato. L’editto di Milano del 313, redatto dopo la vittoria di Costantino su Massenzio, accordò in un primo tempo ai cristiani una semplice tolleranza che rendeva loro giustizia dopo le discriminazioni alle quali erano stati precedentemente sottoposti, ma ben presto questo fece sì che il cristianesimo, ormai legittimato, guadagnasse un peso sempre crescente e una sua autonomia normativa che comportò un capovolgimento delle parti: per tutte le altre religioni ne scaturì una condizione di progressiva inferiorità nei confronti di quella che si avviava velocemente a diventare la religione dominante. Gli ebrei, da appartenenti ad una religione e ad una Nazione Giudaica comunque rispettata da cinque secoli (nonostante gli alti e bassi politici e gli episodi di scherno da parte del popolo come della classe intellettuale del tempo), iniziano a scivolare ad un livello sempre più basso ed inferiore sia ai cittadini cristiani che a quelli pagani.
Molte furono le norme emanate da Costantino che colpivano direttamente o indirettamente la comunità ebraica.
Riguardo alle conversioni dall’ebraismo al cristianesimo, punite in modo severo dai tribunali rabbinici, venne emanato l’esplicito divieto di punire i convertiti secondo la consuetudine ebraica, senza risparmiare una pesante dimostrazione di disprezzo verso quella comunità, definita “gruppo bestiale” (feralis secta) e “setta empia”.
Costantino inoltre interviene ripetutamente a tutela di schiavi sia cristiani sia di altre religioni e nazionalità, per vietare che essi rimangano di proprietà di ebrei e che subiscano la circoncisione. Le conseguenze di ciò saranno pesanti, sia sul versante religioso, venendo a costituire un deterrente al proselitismo ebraico, sia su quello economico, introducendo limitazioni nell’attività stessa di commercio degli schiavi. Agli ebrei veniva in questo modo totalmente interdetta la facoltà di circoncidere e di possedere schiavi di altre religioni o etnie, in particolare se cristiani, in base all’osservazione che “non è giusto che chi è stato riscattato dal Salvatore sia tenuto in schiavitù da chi si è macchiato dell’assassinio dei profeti e del Signore”.
Riguardo alla proibizione dei matrimoni misti tra ebrei e donne cristiane, Costantino si rifece alle conclusioni del Concilio di Elvira (Granada) del 306 dove questa proibizione era stata stabilita, mostrando di fatto di assoggettare la legge civile alla legge ecclesiastica.
In occasione della controversia (discussa durante e dopo il concilio di Nicea del 325) sulla data della Pasqua, festa che in Oriente i gruppi cristiani celebravano concordemente alla Pasqua Ebraica il 14 del mese di Nisan e non di domenica (come stabilito per le diocesi di Occidente dal concilio di Arles del 314), Costantino, in due lettere postconciliari inviate a tutte le comunità cristiane dell’Impero, si espresse con termini durissimi nei confronti delle comunità ebraiche, stabilendo che non si dovesse più seguire la tradizione ebraica e che “si conviene che i cristiani si astengano ab illa turpissima societate et conscientia” (“da quella turpissima comunità e mentalità”): “Quale retto pensiero potrebbero infatti avere costoro che, dopo l’assassinio del Signore, con la mente imprigionata dopo quel parricidio, non dalla ragione ma da una sfrenata passione sono guidati dovunque li spinge l’innata pazzia?”.
E quindi “Nihil ergo nobis commune sit cum inimicissima Iudaeorum turba” (“Nulla si abbia in comune con l’odiosissima turba giudaica”).
E’ evidente quindi che Costantino sposa la tesi antigiudaica più diffusa, quella dell’accusa di deicidio, che più tardi costituirà il pretesto ideologico cardine dell’antigiudaismo europeo, fondando su di essa e al contempo giustificando le proprie posizioni di disprezzo. L’accusa di deicidio a carico degli ebrei, dal canto suo, era stato strumento di penetrazione del cristianesimo nella società romana: gli autori cristiani dei primi secoli – ad esempio Tertulliano – avevano cercato di ingraziarsi l’opinione pubblica sforzandosi di deresponsabilizzare i Romani da quella accusa infamante e facendo di essa carico esclusivamente agli ebrei.
Avendo abbracciato la tesi degli ebrei deicidi, Costantino introduce nel suo corpo giuridico espressioni oltraggiose nei loro confronti come nefaria secta (gruppo criminale), impuri homines (uomini sozzi), inimicissima turba (folla ostilissima), Domini interfectores et parricidae (assassini del Signore e parricidi).
La condanna morale dell’ebraismo viene quindi sancita al massimo livello governativo e procede di pari passo con l’affermazione del cristianesimo: l’ebraismo non ha più un valore assoluto in se stesso ma solo quantitativo, relativamente a quante conversioni la chiesa possa ottenere nell’ambito delle comunità giudaiche. La conversione al cristianesimo diviene la via per la salvezza e l’emancipazione morale e sociale di coloro che si sono macchiati della peggior colpa. Questa pressione finisce per legittimare le critiche contro gli ebrei e le reiterate e stereotipate prese di posizione denigratorie nei loro confronti, al fine di spingerli alla conversione e ridicolizzarli ed emarginarli in caso di resistenza.
E’ così che, nei primi decenni del IV secolo, vengono poste le basi del passaggio da una società religiosamente eterogenea e discordante, in cui tuttavia la convivenza era tollerata e possibile, ad una nuova realtà, contraddistinta da uno spiccato antigiudaismo, questa volta di matrice cristiana.



Lutero e l’ebraismo: una questione spinosa - micromega-online
di Alessandro Esposito

http://temi.repubblica.it/micromega-onl ... ne-spinosa

1. L’ebraismo nel contesto della società cristiana medievale: una sintesi

Prima di accingerci allo studio specifico relativo alla posizione di Lutero in merito al popolo ebraico ed alla sua tradizione di fede e di pensiero, è opportuno stilare un profilo sintetico di quello che era il quadro offerto dalla società cristiana medievale in ordine alla questione che intendiamo affrontare ed approfondire.

Gli storici dell’età medievale e di quella cosiddetta proto-moderna sono pressoché concordi nel rilevare un alto grado di segregazione e discriminazione a danno degli ebrei in seno ai distinti contesti dell’Europa occidentale cristianizzata: molteplici erano difatti in tal senso i provvedimenti restrittivi messi in atto nei confronti dei sudditi di tradizione culturale e religiosa ebraica, i quali erano estromessi dalla giurisdizione civile per ciò che concerneva l’eredità della terra e di beni immobili, nonché impossibilitati all’esercizio di funzioni pubbliche. Da tale esclusione deriva la dedizione degli ebrei ad attività commerciali e di prestito di denaro, nonché alla professione medica, nella quale eccelsero sin dalla tarda età antica grazie alla loro preparazione scientifica e pratica.

Oltre a ciò, si era sviluppato in ambito cristiano, anche in questo caso sin dalla tarda antichità, un antigiudaismo teologico che rafforzò ed in alcuni casi determinò l’approccio pregiudiziale alla tradizione religiosa e culturale ebraica, vista come inconcepibilmente resistente alla prospettiva messianica compiutasi attraverso la vicenda e la predicazione di Gesù di Nazareth. Questi, dunque, i tratti distintivi del contesto storico, politico e culturale entro il quale Lutero crebbe e si mosse durante la sua vita: ignorarlo porterebbe ad una lettura indebita e parziale, perché non storicizzata, delle opere in cui il monaco agostiniano e professore di Wittenberg trattò la questione ebraica.

2. I primi scritti di Lutero sull’ebraismo

Inizialmente, le posizioni che Lutero espresse in merito alla tradizione ebraica riguardarono le accuse di eresia che erano state rivolte al noto ebraista tedesco Johannes Reuchlin, ritenuto dalla chiesa ufficiale troppo vicino ad una lettura «giudaizzante» del cristianesimo, derivante da un’attenzione precipuamente filologica prestata dallo studioso ai libri della Tanak ebraica (quello che la tradizione cristiana denomina oggi Primo Testamento o Scritture ebraiche). Lutero, che in questi anni era impegnato in una disputa con la chiesa ufficiale ed i suoi rappresentanti, difese Reuchlin dalle accuse mossegli, benché la sua lettura teologica e non appena filologica delle Scritture ebraiche divergesse in maniera sostanziale dalla prospettiva del noto ebraista. Come emerge sin dalle lezioni sul salterio che Lutero tenne nel 1518 a Wittenberg, difatti, il senso dell’ebraismo era per lui racchiuso nella possibilità che quanti appartenessero a questa religione si convertissero a Cristo, unica speranza di redenzione e di salvezza. L’obiettivo della nascente Riforma doveva dunque consistere in un trattamento amichevole degli ebrei, finalizzato però alla loro conversione alla prospettiva messianica incarnata dal messaggio cristiano. Come afferma nel suo commento al Magnificat del 1520:

Non dobbiamo trattare duramente i giudei, perché fra di loro ve ne sono ancora di quelli che nel futuro diventeranno cristiani.

Una volta ancora, l’interpretazione paolina secondo cui «gli ebrei non hanno riconosciuto la vera funzione della legge e quindi […] avevano abbandonato la promessa costruendosi una giustizia basata sulle proprie opere», determinerà il fatto che Lutero riconduca ogni considerazione a tale criterio, irrigidendo in tal modo la propria interpretazione teologica che, come vedremo, si rivelerà speso incapace di accogliere prospettive differenti come possibili e plausibili interlocutrici.

Ad ogni modo, in un contesto entro il quale qualsiasi affermazione che lasciasse intravedere una sia pur limitata apertura e tolleranza nei confronti dell’ebraismo era immediatamente in odore di eresia, Lutero decise di chiarire la propria posizione sulla questione ebraica attraverso uno scritto del 1523, significativamente intitolato: Gesù Cristo è nato ebreo. Anche in questo caso, «scopo primario dello scritto di Lutero [era] offrire una sorta di manuale che aiutasse i cristiani e gli ebrei convertiti nell’opera missionaria verso gli ebrei». Nei confronti di questi ultimi, l’obiettivo precipuo consisteva nel far comprendere loro il fatto che il Primo Testamento andasse letto alla luce del Secondo, rispetto al quale esso svolge un ruolo meramente introduttivo, nell’ottica di una promessa in esso annunciata che trova in Cristo il suo pieno ed univoco compimento. Lo scopo di Lutero era dunque missionario e «catechetico»: la conversione degli ebrei alla prospettiva messianica inverata in Cristo costituisce l’unico sbocco possibile di una fede altrimenti vana, anche perché, nella prospettiva fatta propria da Lutero di una società cristiana omogenea, l’ebraismo non poteva rappresentare in alcun modo una possibilità religiosa legittima.

Due sono i nodi nevralgici da rilevare in quest’opera di Lutero:

I. Da un lato, il fatto che in essa Lutero si esprimesse a favore di una tolleranza nei confronti degli ebrei e di una coesistenza con loro nell’ambito della vita civile: in tal senso, lo scritto del professore di Wittenberg prendeva recisamente le distanze dalla prospettiva escludente e segregazionista seguita dalla maggior parte degli Stati europei.
II. In seconda istanza, l’aspetto chiave riguarda la possibilità, da Lutero espressamente negata, di effettuare una lettura autonoma del Secondo Testamento e delle promesse in esso contenute: queste ultime devono essere considerate pienamente inverate nella persona e nell’evento salvifico di Cristo che, così come nelle lettere dell’apostolo Paolo, rappresenta il contenuto dell’evangelo e non appena colui che lo annuncia e lo vive nella prospettiva di un Regno che dell’evangelo costituisce la reale sostanza.

Questa interpretazione delle Scritture ebraiche univocamente orientata in senso cristologico venne messa in discussione da due dissidenti di formazione umanistica, appartenenti all’ala radicale della riforma, quella anabattista, Hans Denk e Ludwig Hätzer, i quali, prefiggendosi uno scopo filologico prima che teologico, nel 1527 tradussero in tedesco i testi dei libri profetici dall’originale ebraico, avvalendosi a tal fine della preziosissima competenza linguistica e culturale dei rabbini della comunità ebraica di Worms. Ciò indispettì profondamente Lutero, che criticò il fatto che, in questo modo, i due autori erano venuti meno all’irrinunciabile dovere di orientare i testi profetici in senso cristologico. D’ora in avanti, il fronte riformato «classico», capeggiato in Germania da Lutero, incomincerà a prendere le distanze (anche per quel che concerne la questione ebraica) dall’ala radicale della Riforma, la quale rimarrà l’unica a sostenere non soltanto la tolleranza nei confronti degli ebrei, ma anche il diritto di questi ultimi ad effettuare della Tanak una lettura che prescindesse dall’orientamento cristologico, unico plausibile nell’ottica non soltanto del cattolicesimo romano, ma anche dello stesso Lutero.

Questa pretesa di possedere la chiave interpretativa corretta attraverso cui leggere ed interpretare le Scritture ebraiche, insieme con l’affermarsi della Riforma da lui prefigurata in buona parte dei territori tedeschi, condusse Lutero ad assumere una posizione via via più intransigente, che non lasciò spazio alcuno a letture diverse dalla sua.

Il cambiamento di rotta di Lutero è ravvisabile già in uno scritto del 1538, intitolato Contro i sabbatisti, nel quale il professore di Wittenberg polemizza contro quei cristiani che sposano la prassi ebraica di celebrare il culto in giorno di sabato, indulgendo in tal modo ad usanze a giudizio di Lutero del tutto estranee al cristianesimo. Dietro l’assunzione di tale prassi, Lutero intravede l’azione proselitista degli ebrei, che a suo giudizio tentano di sviare i cristiani inducendoli ad assumere tratti «giudaizzanti» nelle loro usanze liturgiche e nella loro riflessione teologica. L’ipotesi tirata in ballo da Lutero è stata sconfessata dagli storici, che hanno definitivamente sancito il fatto che i timori dell’ex monaco agostiniano nei riguardi di un proselitismo ebraico fossero del tutto infondati. In questo scritto, ad ogni modo, Lutero prosegue la sua battaglia finalizzata a cogliere il vero ed univoco senso delle Scritture ebraiche, incominciando ad inclinarsi pericolosamente verso una lettura secondo cui le sofferenze patite dagli ebrei costituiscano la prova storica e teologica lampante del fatto che Dio li abbia abbandonati, a motivo del loro rifiuto di Gesù come messia promesso dai libri della loro stessa tradizione religiosa:

Poiché ora Dio continua ancora e sempre più a lasciarli nella miseria e nello squallore, non parla più loro e non manda più le sue profezie, è allora evidente che Egli li ha abbandonati e che essi non possono più essere il vero popolo di Dio.

Anziché individuare le responsabilità delle sofferenze degli ebrei nella discriminazione in atto in seno alle società dell’Europa «cristiana», Lutero vede in questo dolore il segno dell’abbandono e della riprovazione divina di fronte al rifiuto del messia: si affaccia in tal modo lo spettro del sostituzionismo, che vede nella chiesa cristiana il nuovo popolo che soppianta il vecchio nell’ereditare le promesse divine di riscatto e di salvezza.

3. L’involuzione di Lutero nel suo ultimo scritto sugli ebrei

L’iniziale apertura in direzione della tolleranza degli ebrei entro i confini dei principati tedeschi andrà incontro ad una brusca inversione di marcia nell’ultimo scritto che Lutero dedicherà alla questione ebraica, il suo Degli ebrei e delle loro menzogne, del 1543. In questo scritto dai toni violentissimi e dalle affermazioni oltraggiose ed inescusabili, Lutero si scaglia, al contempo, contro gli ebrei e contro gli ebraisti cristiani che assumevano una prospettiva filologica improntata ai principi della libertà religiosa che incominciavano ad essere difesi dall’ala radicale della Riforma più vicina all’umanesimo. Tra gli ebraisti aspramente criticati spicca la figura di Sebastian Münster, esegeta di spicco della Riforma zurighese, che si avvalse sempre della preziosa competenza del grammatico ebreo Elias Levita, ricorrendo pertanto, nella redazione delle sue opere, alla tradizione ebraica, sia sotto il profilo filologico che dal punto di vista esegetico-interpretativo. Lutero non concordava affatto con questa libertà ermeneutica, che contestava sia agli ebrei che agli ebraisti cristiani, accusando questi ultimi di «giudaizzare» il cristianesimo.
Nei confronti di entrambi, il tono di Lutero è polemico e spregiativo e l’artificio retorico al quale egli ricorre è quello della demonizzazione dell’avversario:

Stai in guardia, caro cristiano, dagli ebrei. Essi sono consegnati dall’ira divina al demonio, il quale li ha privati non solo della corretta comprensione delle Scritture, ma anche della comune ragione umana.

Proseguendo nell’intento di leggere il Primo Testamento come un documento cristiano e non ebraico, Lutero travalica in quest’ultimo scritto i limiti di quell’antigiudaismo teologico che affondava le proprie radici nel pensiero cristiano tardo-medievale e proto-moderno, per farsi portavoce di raccomandazioni rivolte alle autorità civili in ordine alla politica da adottare nei confronti degli ebrei e propagatore di menzogne, le sue e non quelle degli ebrei, che riesumavano leggende infamanti prive di qualsiasi fondamento (dall’accusa rivolta ai «perfidi giudei» di avvelenare i pozzi e diffondere la peste, a quella di commettere infanticidi rituali). In questo scritto a tratti delirante, può purtroppo anche essere rinvenuto quel tragico appello, drammaticamente inveratosi quattro secoli più tardi durante la «notte dei cristalli», a «bruciare le loro sinagoghe».

4. Storicizzare: relativizzare, non giustificare

Come rileva opportunamente e documenta doviziosamente lo storico Thomas Kaufmann nel suo recente ed esaustivo saggio, la ricezione di quest’ultima opera di Lutero in seno alla Riforma seriore ed ai provvedimenti presi negli Stati tedeschi nei confronti degli ebrei ebbe una risonanza minima: diverse furono le voci critiche che si levarono contro quest’opera, la cui stampa e diffusione fu in più di un caso ostacolata ed impedita. Chi la riprese in mano, isolandone alcune – gravissime e, come detto, inescusabili – affermazioni dal loro contesto teologico, furono i teologi del movimento cristiano-tedesco, vicino al regime nazional-socialista. Sebbene alcune affermazioni contenute nell’ultima opera che Lutero dedicò alla questione ebraica prestino indubbiamente il fianco ad interpretazioni che travalicano il perimetro dell’antigiudaismo teologico in direzione di un pregiudizio razziale, è importante sottolineare come il loro utilizzo da parte di teologi filo-nazisti fu del tutto strumentale. Ciò, chiaramente, non esime Lutero da responsabilità gravi in ordine alle sue ingiustificabili affermazioni ed alle loro conseguenze nefaste: ma, sotto il profilo dell’indagine storica, ciò che è necessario svolgere è una lettura critica delle fonti, le quali vanno inserite nel loro contesto. Questo soltanto consente di attribuire a Lutero le giuste responsabilità, evitando la duplice mistificazione operatane da chi di volta in volta ha inteso raccoglierne l’eredità, facendone illusoriamente o l’emblema di un illuminismo ante litteram o, al contrario, il prototipo dell’eroe germanico che risvegliò nel suo popolo un ottuso e fatale orgoglio nazionalista.

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE (Consultabile in lingua italiana)

- AGNOLETTO, A. La “tragoedia” dell’Europa cristiana nel XVI secolo. Dalla giudeofobia di Lutero agli umanisti Jonas e Melantone, Istituto di Propaganda Libraria, Milano, 1996.
- GARRONE, D. Lutero, la Riforma e gli ebrei: alcuni cenni, in: Protestantesimo 70/1 (2015), pp. 5-33, Claudiana, Torino (Rivista della Facoltà Valdese di Teologia).
- KAUFMANN, T. Gli ebrei di Lutero, Claudiana, Torino, 2016 (orig. tedesco del 2014).
- KAENNEL, L. Lutero era antisemita?, Claudiana, Torino, 1999.

(13 giugno 2017)



Lutero l’antisemita - Il Sole 24 ORE
Gianfranco Ravasi
2017-01-13

https://www.ilsole24ore.com/art/cultura ... d=AD97KGLC

In questo anno scandito dalla memoria dei 500 anni dall’inizio simbolico della Riforma protestante con l’affissione pubblica delle “95 tesi” di Lutero alla porta della cappella del castello di Wittenberg, riserveremo ogni tanto uno spazio alla bibliografia del mondo protestante, che ha in Italia una presenza autoctona primigenia coi Valdesi (XII sec.) e con la loro vivace e importante editrice Claudiana che ha recentemente inglobato la Paideia di Brescia, la più significativa editrice di testi biblici. Ora, è noto che il protestantesimo si presenta come una galassia la cui mappa non è di facile elaborazione. Per un orientamento generale ricorderemo che esiste una grande matrice storica che è appunto espressa dalle Chiese valdese, luterana, riformata e dalla Comunione anglicana. Si ha poi una seconda fase di “risveglio” nel Sei-Settecento con le Chiese battiste e metodiste, a cui seguirà un terzo orizzonte molto fluido con le varie Chiese “libere” e le successive ondate “pentecostali” dalle mille iridescenze che non di rado attraversano le stesse Chiese originarie.

A questo microcosmo sono da allegare altre tipologie come quelle del protestantesimo avventista o del protestantesimo “radicale” (mennoniti, Amish, quaccheri) fino alle periferie ormai lontane dalla sorgente e del tutto autonome, come lo sono i mormoni o i Testimoni di Geova. La nostra è una semplificazione che, però, conferma l’immagine della galassia a cui siamo ricorsi che non vuol essere un giudizio di valore perché non di rado può significare una ricchezza, pur col rischio della frammentazione, della dispersione, dell’isolazionismo. A questo immenso delta ramificato si associano varie istituzioni con una loro identità. È il caso che vogliamo ora presentare coi Gruppi Biblici Universitari, un’associazione interdenominazionale indipendente sorta nel 1947 come International Fellowship of Evangelical Students e presente in Italia dal 1950 in varie università. Ebbene, questi Gruppi Biblici, che si riuniscono a scadenze regolari per approfondire gli studi delle S. Scritture, hanno un loro strumento editoriale molto attivo, le edizioni GBU la cui sede è a Chieti.

Non è la prima volta che segnaliamo una loro pubblicazione. Ora lo facciamo con un esempio che ci permette di illustrare in realtà una collana inglese di commentari biblici del passato, la Tyndale (dal nome di un personaggio delle origini della Riforma luterana, autore di una traduzione del Nuovo Testamento), ora rinnovata. Si tratta del commento di una teologa britannica, Debra Reid, a un libro biblico molto “femminile”, quello di Ester. È la storia esemplare di una Cenerentola ebrea che riesce a diventare regina, moglie del sovrano persiano Assuero (Serse), sventando un “progrom” ordito da un primo ministro fieramente antisemita. Il testo è giunto a noi in ebraico, ma l’antica versione greca comprende ampie aggiunte ulteriori.

La trama dell’opera è piena di colpi di scena, distribuiti su una trama che la commentatrice ricostruisce e accompagna con le sue spiegazioni piane ma costellate anche da tutte le notazioni filologiche indispensabili. La finalità di questo racconto – che, tra l’altro, è alla base della festa di Purim, il “carnevale” giudaico – è così scandita dalla Reid: «Dio è all’opera nel mondo, lavora tramite le azioni e le reazioni umane, protegge e salva il suo popolo richiamandolo alla fede». È, infatti, attraverso la sua bellezza che Ester (nome “pagano” desunto dalla Venere orientale Ishtar o dal persiano stareh, “stella”, mentre quello originario ebraico era Hadassah, cioè “mirto”) diventa uno strumento divino di liberazione per il suo popolo così da ribaltarne le “sorti” (i purîm, appunto).

È una rappresentazione controcorrente rispetto a una concezione biblica ove la donna è una “minorata” all’interno di un contesto patriarcale. In questa linea un’altra studiosa, l’americana Tammi J. Schneider, cerca di recuperare una matriarca silenziosa e persino un po’ meschina, nonostante il nome pomposo di Sara, in ebraico “principessa”: è la moglie di Abramo che viene presentata nelle pagine della Genesi come spalla del marito, passiva esecutrice dei suoi ordini. Schneider cerca, invece, di rileggere quei capitoli (dall’11 al 23) torcendoli in tutt’altra direzione rispetto all’ermeneutica dominante, anche se non esclusiva, incarnata da tre commentatori classici come Brueggermann, Speiser e von Rad. Ne esce un profilo “femminista”: Dio sceglie Sara allo stesso modo di Abramo e ne fa una testimone della promessa meglio di suo marito, che è invece sottoposto alla famosa prova del monte Moria, rendendola così una vera matriarca, tant’è vero che la sua morte lascerà un vuoto pesante nel figlio Isacco, vuoto che colmerà solo un’altra donna, la moglie Rebecca.

Questo volume è edito dalla citata Claudiana, della quale vorremmo segnalare il fatto che essa offre un’ampia panoramica di testi dedicati all’anno luterano. Ne citiamo per ora solo una trilogia. Il primo è un’imponente biografia di Lutero, opera di uno storico della Humboldt Universität di Berlino, Heinz Schilling, che non teme di aggiungere un altro titolo all’immane bibliografia dedicata al Riformatore (lui stesso ne seleziona una sequenza che occupa oltre trenta pagine, con una netta prevalenza tedesca). La sua definizione del personaggio è quella di «un uomo di un’epoca di fede e di cambiamenti radicali», che nel titolo del libro diventa però «un ribelle in un’epoca di cambiamenti radicali». Il ritratto procede secondo le tavole di un trittico: c’è il tempo delle origini e del monastero agostiniano (1483-1511), a cui subentra la grande svolta di Wittenberg che non esplode all’improvviso ma germina progressivamente, per diventare poi fiammeggiante (1511-1525) e si conclude col terzo quadro, forse meno noto al pubblico comune, quello che occupa gli anni 1525-1546 e che oscilla «tra coscienza profetica e fallimenti terreni».

Di fronte a una storia personale, sociale ed ecclesiale talmente complessa e complicata è facile avere approcci e letture diversificate; tuttavia è interessante seguire la trama di Schilling e i lineamenti che egli documenta di una figura così variegata da intrecciare fede e politica, mistica e carnalità, libertà e servitù, Parola di Dio e polemica aggressiva, antipapismo ma non iconoclastia e così via. A proposito, poi, del legame capitale di Lutero con la Bibbia, è interessante rimandare a un secondo volume della Claudiana, elaborato da un sacerdote cattolico, esperto del protestantesimo delle origini, Franco Buzzi. È naturale partire dalla traduzione tedesca che Lutero esegue sui testi scritturistici originali, adottando una scelta linguistica «sintatticamente semplice, foneticamente chiara e semanticamente trasparente». Pur non creando il tedesco della modernità – come talora si afferma – egli «è stato certamente uno degli scrittori che ha maggiormente contribuito alla nascita di quella lingua nazionale».

Naturalmente la parte maggiore del saggio di Buzzi è riservata ai principi ermeneutici sottesi alla lettura biblica di Lutero e a una ricca e molto suggestiva descrizione delle relative applicazioni sugli scritti antico- e neotestamentari. È facile, a questo punto, concludere con una questione rovente, quella del rapporto del Riformatore con gli Ebrei, da lui vissuta talora con l’ossessione che essi costituissero una minaccia per il cristianesimo. Il suo antigiudaismo, non di rado così veemente da essere stato strumentalizzato persino dal nazismo, viene accuratamente e non apologeticamente vagliato da Thomas Kaufmann dell’università di Göttingen secondo una corretta contestualizzazione: «storicizzarlo non significa affatto giustificarlo o renderlo irrilevante o sminuirlo..., significa collocarlo nel suo mondo e considerarlo entro i limiti che egli stesso vedeva».
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Re: Leggi razziali: le peggiori sono quelle nazi maomettane

Messaggioda Berto » mer ott 24, 2018 7:49 am

Bandire il nazismo maomettano dell'umma come è stato badito quello hitleriano ariano e perseguirlo con la Legge Mancino e altre Leggi apposite sia italiane che europee


Bandire l'Islam prima che distrugga l'Europa e il Mondo
viewtopic.php?f=188&t=2374

Bandire il Nazismo Maomettano, il suo Corano e la sua Sharia
https://www.facebook.com/alberto.pento/ ... 1673428520

Denuncia singola e collettiva della dottrina politico religiosa islamica, del suo orrore e terrore, della sua violazione dei Diritti Umani Universali
viewtopic.php?f=188&t=2042
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Re: Leggi razziali: le peggiori sono quelle nazi maomettane

Messaggioda Berto » mer ott 24, 2018 7:50 am

Le leggi razziali politico-religiose nazi maomettane non riguardano solo gli ebrei ma anche i cristiani e ogni diversamente religioso e pensante della terra


Pakistan: Vita o morte per la "blasfema" cristiana?
Raymond Ibrahim

https://it.gatestoneinstitute.org/13147 ... ibi-apello


Asia Bibi e due dei suoi cinque figli, fotografata prima che venisse rinchiusa nel braccio della morte, nel 2010, per "blasfemia".

Il 9 ottobre, presso la Corte Suprema del Pakistan si è aperta l'udienza finale del processo di una donna cristiana detenuta da quasi un decennio nel braccio della morte con l'accusa di aver offeso il profeta Maometto, fondatore dell'Islam. Il destino della donna è ora segnato: "I giudici hanno emesso la sentenza, ma è riservata", ha riferito Mehwish Bhatti, della British Pakistani Christian Association, il quale era all'esterno del tribunale.

Aasiya Noreen – meglio conosciuta come "Asia Bibi" – è una donna di 47 anni moglie e madre di cinque figli che è stata accusata di aver violato circa un decennio fa la famigerata legge sulla blasfemia.

Secondo la sua autobiografia, Blasphemy: A Memoir: Sentenced to Death Over a Cup of Water, il 14 giugno 2009, Asia Bibi era andata al lavoro in un campo a raccogliere bacche. Sebbene fosse abituata a essere emarginata dalle altre donne impegnate nello stesso lavoro a causa della sua fede cristiana, quell'afoso giorno estivo la situazione precipitò quando la donna si recò a prendere dell'acqua da un pozzo comune.

"Non bere quell'acqua, è haram [impura]!" le urlò una donna lì vicino, la quale, rivolgendosi poi alle altre donne che lavoravano nel campo, disse: "Ascoltate tutte, questa cristiana ha sporcato l'acqua nel pozzo bevendo dalla nostra tazza e immergendola più volte. Ora l'acqua è impura e non possiamo berla! A causa sua!" (Tali convinzioni non sono rare nel mondo musulmano. In un video, un religioso egiziano esprime il suo grande disgusto nei confronti dei cristiani, e figuriamoci come potrebbe bere da una tazza che è stata semplicemente toccata da un cristiano!)

La discussione poi degenerò e le donne iniziarono a chiedere ad Asia Bibi di convertirsi all'Islam per salvarsi. E lei rispose: "Cosa ha mai fatto il vostro profeta Maometto per salvare l'umanità?"

Un articolo sintetizza così quanto accadde dopo:

Dopo questo, [Asia] Bibi disse che le donne iniziarono a urlare, a sputarle addosso e l'aggredirono fisicamente. Lei corse a casa spaventata. Meno di una settimana dopo, Asia Bibi si recò a raccogliere la frutta in un altro campo, e si trovò davanti una folla in rivolta, guidata dalla donna che per prima l'aveva urlato contro.

La folla la circondò, la percosse e la condusse al villaggio, al grido di "Morte! Morte ai cristiani!"

L'imam del villaggio disse: "Mi è stato detto che hai offeso il nostro Profeta. Sai cosa succede a chiunque attacchi il nostro santo Profeta Maometto. Puoi redimerti solo con la conversione o la morte".

E Asia Bibi dichiarò: "Non ho fatto nulla. Per favore, ti scongiuro, non ho fatto nulla di sbagliato".

La Bibi fu portata alla stazione di polizia del villaggio, coperta di sangue, e lì la polizia la interrogò e redasse un rapporto. Fu poi fatta salire su un'auto e condotta direttamente in prigione.

E da allora si trova in quella cella.

Nonostante le contraddittorie deposizioni dei testimoni, alla fine del 2010, un tribunale del Punjabi la condannò a morte, davanti a folle esultanti. Da allora, "sono stata rinchiusa, ammanettata e incatenata, bandita dal mondo e in attesa di morire" ha dichiarato Asia Bibi nella sua autobiografia clandestina. "Non so quanto tempo mi rimane da vivere. Ogni volta che si apre la porta della mia cella, il mio cuore batte più forte. La mia vita è nelle mani di Dio e non so cosa ne sarà di me. È una esistenza crudele e brutale".

C'è anche la sofferenza del marito e dei cinque figli: "La amo davvero e mia manca la sua presenza. Non riesco a dormire la notte perché mi manca". Ha spiegato una volta Ashiq Masih:

"Mi manca il suo sorriso. Mi manca tutto di lei. È la mia anima gemella. Non riesco a vederla in prigione. Mi si spezza il cuore. La vita è inesistente senza di lei (...) i miei figli piangono per la loro madre, sono distrutti. Ma cerco di dar loro speranza, dove posso".

Tutto questo per una domanda retorica – "Cosa ha mai fatto il vostro profeta Maometto per salvare l'umanità?" – varianti della quale sono avanzate da secoli dai non musulmani. Verso la fine del 1390, ad esempio, l'imperatore romano Manuele II Paleologo rispose a un gruppo di studiosi musulmani intenzionati a convertirlo all'Islam dicendo:

"Mostrami pure ciò che Maometto ha portato di nuovo e vi troverai soltanto cose cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere per mezzo della spada la fede che egli predicava".

Più di 600 anni dopo, nel 2006, quando Papa Benedetto [XVI] menzionò questa affermazione, una serie di tumulti anticristiani scoppiarono nel mondo musulmano, le chiese vennero bruciate e una suora italiana che aveva dedicato la sua vita a occuparsi degli ammalati e dei bisognosi della Somalia fu assassinata in quel paese.

In Pakistan, tuttavia, una simile "giustizia vigilante" è solo un modo per vendicare l'onore di Maometto. Ai sensi dell'articolo 295 comma C del codice penale pakistano:

"Chiunque, oralmente o per iscritto, o con rappresentazioni visive, o con attribuzioni, o con allusioni o insinuazioni, direttamente o indirettamente, profani il sacro nome del Santo Profeta Maometto (la pace sia con lui) verrà punito con la morte e sarà anche soggetto a una multa".

Poiché i non musulmani – in particolare i cristiani, i quali per definizione sono noti per rifiutare la profezia di Maometto – hanno maggiori probabilità di essere sospettati di blasfemia, e poiché la parola di un cristiano non è valida contro la parola di un musulmano, le accuse di blasfemia lanciate dai musulmani nei confronti dei cristiani sono comuni e comportano abitualmente la reclusione in carcere, le percosse e perfino l'uccisione dei cristiani (come quando 1.200 musulmani, nel 2014, bruciarono viva di proposito una giovane coppia cristiana per presunte offese all'Islam).

In altre parole, la storia di Asia Bibi è la famosa punta di un grande iceberg, seppur occulto. Sembra che in Pakistan non passi un mese – a volte nemmeno una settimana – senza che qualche musulmano accusi dei cristiani di offendere Maometto, spesso solo per risolvere una questione personale (si veda qui, qui, qui, qui, qui, qui, qui e qui) o per appropriarsi dei terreni (si veda qui, qui, qui e qui). Episodi a cui fanno seguito i consueti disordini, gli incendi alle chiese, i pestaggi, l'espulsione dei cristiani e per finire l'arresto e la reclusione del presunto "blasfemo".

Anche se il caso di Asia Bibi ha suscitato indignazione in tutta la comunità internazionale, tutti gli appelli lanciati da quasi dieci anni per il suo rilascio sono caduti nel vuoto. Questo rigetto delle istanze non è tanto dovuto al fatto che le autorità pakistane sono determinate a giustiziarla – un infedele non vale le critiche e il disprezzo da parte del mondo – ma quanto piuttosto al fatto che discolparla per salvare la faccia davanti al mondo intero gli farebbe immediatamente perdere la faccia con molti di loro. Questa considerazione è il motivo per cui, ogni volta che si parla seriamente della possibilità che Asia Bibi possa essere risparmiata, spesso ne derivano proteste e tumulti. Come ha spiegato una volta Ashuq Masih, il marito di Asia Bibi, "i maulvi [le guide religiose] la vogliono morta. Hanno annunciato un premio [in denaro] (...) per chiunque uccida Asia. Hanno perfino dichiarato che se la Corte la assolverà, garantiranno che la pena di morte resti valida".

Anche le autorità che sono solidali o schierate dalla parte di tali "blasfemi" vengono prese di mira. Due dei principali sostenitori di Asia Bibi, ad esempio, il governatore Salmaan Taseer e Shabaz Bhatti, ministro per le Minoranze religiose, furono assassinati nel 2011. Taseer fu ucciso con 27 colpi di pistola da Mumtaz Qadri, la sua guardia del corpo. Dopo l'omicidio, più di 500 religiosi musulmani espressero il loro sostegno a Qadri e lo fecero lanciando petali di rosa.

Questo è forse il motivo per cui le autorità pakistane continuano a procrastinare l'emissione del verdetto finale – per dare alla Bibi il tempo di morire in carcere "per morte naturale" – come è accaduto ad altri cristiani, in circostanze "misteriose". Invece di placare il mondo, facendo però infuriare gli islamisti rilasciandola, o anziché rabbonire gli islamisti, facendo tuttavia inorridire il mondo condannandola a morte, il sistema giudiziario pakistano ha abbandonato da dieci anni Asia Bibi nella trappola mortale di una cella, dove le condizioni terribili, i gravi maltrattamenti, la negazione delle cure mediche, gli abusi psicologici e le percosse avrebbero dovuto portarla alla morte, come è stato fatto a molti altri prima di lei.

Tuttavia, nonostante le vessazioni, "è psicologicamente, fisicamente e spiritualmente forte", ha dichiarato pochi giorni fa il marito di Asia Bibi. "Avendo una fede molto forte, è pronta a morire per Cristo. Non si convertirà mai all'Islam".

Nella sua autobiografia, Asia Bibi si chiede "se oggi essere cristiani in Pakistan non sia soltanto un fallimento, o una nota a tuo sfavore, ma di fatto un crimine". Il suo interrogativo sta per trovare definitivamente una risposta da parte della Corte Suprema del Pakistan.

"In tutto il Pakistan e anche in molte parti del mondo, il senso di attesa (...) per la sentenza finale del processo ad Asia Bibi è ai livelli massimi", ha asserito Leighton Medley della British-Pakistani Christian Association riguardo alla recente udienza finale. "Qui in Pakistan, si avverte la sensazione che, ancora una volta, si stiano tracciando le linee di battaglia: la battaglia fra coloro che sostengono l'odio e l'intolleranza e coloro che combattono per la pace e la giustizia".

Di conseguenza, negli ultimi giorni, i cristiani di tutto il mondo hanno pregato e digiunato, mentre sui social media i musulmani estremisti hanno invocato tumulti, se la "blasfema" sfuggirà alla morte. In ogni caso, "ci saranno proteste da entrambi i lati e scommetto che ci saranno guai in vista", ha aggiunto Medley.

"È davvero il D-Day per Asia, questo è il countdown finale per Asia e sapremo presto se gli estremisti vinceranno o perderanno. E se ci saranno pace e giustizia in Pakistan o solo più odio, pregiudizi e intolleranza che purtroppo sono arrivati a contraddistinguere oggi il paese."

Raymond Ibrahim è autore di un nuovo libro , Sword and Scimitar, Fourteen Centuries of War between Islam and the West, è Distinguished Senior Fellow press oil Gatestone Institute e Judith Rosen Friedman Fellow presso il Middle East Forum.
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Re: Leggi razziali: le peggiori sono quelle nazi maomettane

Messaggioda Berto » mer ott 24, 2018 7:51 am

Antisemitismo nazi comunista e nazi maomettano (e nazi cristiano)
viewtopic.php?f=197&t=2804


Premessa: questo articolo è volutamente riassuntivo e tratta di un tema già noto agli addetti ai lavori.

http://veromedioriente.altervista.org/s ... sraele.htm

Esiste una fortissima ostilità contro Israele, causata da una fortissima propaganda fatta di odio e disinformazione che si concretizza in un vero e proprio lavaggio del cervello di massa per indurre la gente ad odiare Israele e stare dalla parte dei terroristi palestinesi.

Per la questione della disinformazione e della manipolazione delle persone, si rimanda in altre sedi visto che anni ed anni di propaganda hanno creato una vasta letteratura disinformativa che richiede un'altrettanta vasta letteratura di risposta per essere smontata.
Quello che interessa a noi è chi sono i principali attori di questa propaganda disinformativa: sono 4 e sono gli estremisti islamici, gli antisemiti, l'estrema destra.....e la sinistra. Di questi quattro attori, ce ne è uno che ha molto più potere di loro in Europa ed in Italia, ed è la sinistra. Essa è capace di convincere facilmente grandi masse, di piegare alla propria ideologia molti media influenti, e quindi con la falsa informazione crea l'opinione. Perfino il campo dell'attivismo ne viene fortemente influenzato.

In Italia questo meccanismo è estremamente forte e la sinistra ha creato di fatto l'opinione su Israele, sui Palestinesi e su cosa sta accadendo in quelle zone. Ed ovviamente ha praticamente imposto la parte con cui stare.

È inutile dire che ha avuto grande successo, le persone sono facilmente manipolabili su questi argomenti e credono quello che viene detto loro di credere, soprattutto se si hanno i mezzi della sinistra.

Siccome la disinformazione e l'odio cieco contro Israele da parte della sinistra sono noti, quello che a noi interessa spiegare è perché la sinistra ha scelto di odiare Israele, di fare propaganda disinformativa nei suoi confronti e di stare di fatto dalla parte dei terroristi palestinesi che sostiene senza vergogna spacciandoli per "popolo palestinese".

Oltre una presenza millenaria degli ebrei in Palestina, nell'800 incominciarono ad arrivare gli ebrei dall'Europa fuggendo dalle persecuzioni zariste e dai pogrom e "quella Terra" si trasformò, fondarono Petah Tikva nel 1878, Rishon le Zion nel 1882, Rehovot nel 1880 e incominciarono a sviluppare la terra, a lavorare la sabbia sassosa del deserto israeliano che all'epoca copriva tutto il Paese. Questa nuova situazione e la creazione di posti di lavoro portò verso Sion gli arabi egiziani, siriani e di tutto il circondario pronti ad accettare il lavoro che gli ebrei offrivano .

Fino al 1948 quando fu fondato Israele con i voti delle Nazioni Unite, tutto il mondo occidentale riconosceva gli ebrei come legittimi abitanti di Israele, tutto il mondo occidentale sapeva che da quella Terra gli ebrei furono ingiustamente scacciati e che da 2000 anni ad ogni fine di festività ebraica il Popolo gridava "L'anno prossimo a Gerusalemme".

Il mondo occidentale sapeva anche che fino al 1948 , quando cambiarono il nome in israeliani, gli ebrei erano i veri palestinesi, riconosciuti come tali.

Solo nel 1967, quando gli ebrei liberarono Gerusalemme e i territori ebraici (Giudea e Samaria) occupati dalla Giordania per 20 anni, gli arabi si rassegnarono al fatto che non potevano vincere Israele con una guerra diretta ed adottarono una nuova tattica guidata da Arafat, quella di inventare il popolo palestinese da usare come arma contro Israele, prima di allora inesistente.

Nessuno sopportò la vittoria israeliana sui paesi arabi e il risultato fu che nel 1967 il mondo dimenticò tutto quello che aveva conosciuto e riconosciuto per secoli, la Storia fu rinnegata e ne riscrissero una nuova con un popolo inventato e " martire" e un altro descritto come occupante, assassino, discendente dei nazisti.

Si, Il mondo dimenticò tutto, si assoggettò ad Arafat, si vendette agli arabi, ondate di violenza antiebraica scossero tutta Europa, quello che rimase inalterato fu l'odio ancestrale che sentiva per l'ebreo e ne fece ancora una volta il capro espiatorio dei suoi umori.

La grande menzogna divenne storia, politici e intellettuali si fecero comprare, imbrogliare, lavare il cervello dalla propaganda araba, i pacifisti, sempre violenti e pieni di odio antiebraico, divennero eroi, i terroristi divennero martiri, gli assassini furono ricevuti dai grandi del mondo come capi di stato.

Incominciò così il periodo più terribile per Israele, incominciarono gli anni del TERRORE. Ebbe inizio l'incubo del terrorismo quotidiano, 10, 20 attentati al giorno per le strade di Israele, cinema. pizzerie, ristoranti, autobus saltavano per aria portando con se civili israeliani, bambini, donne, famiglie intere che morivano tra le fiamme colpiti da migliaia di pallini di acciaio con cui i terroristi riempivano le loro bombe.

Nessuno in Israele può dire di non avere un parente o un amico morto a causa del terrore palestinese. Nessuno.

Il mondo ha distolto lo sguardo dalle sinagoghe brucianti di Gaza, dalle pizzerie di Haifa e dai banchetti nuziali di Netanya sventrati dagli shahid e dai mullah che considerano gli ebrei armenti da olocausto. Non ha voluto leggerle le piccole grandi storie degli ebrei uccisi perché ebrei. Non hanno visto che l’embrione statuale palestinese è stato trasformato nel retroterra di faide, fltne e lanci di missili sugli asili nido di Sderot.

E la sinistra?

La nascita dello Stato di Israele fu salutata dalla sinistra europea (l'allora URSS votò a favore alla società delle Nazioni) come una "doverosa presenza di una democrazia in un mare di nazioni dominate da un tribalismo medioevale". Ricordo, qualora fosse necessario, lo spirito genuinamente socialista e collettivista che attraversò almeno i primi due decenni della società israeliana. Insomma c'erano tutte le premesse per una duratura luna di miele.

Pier Paolo Pasolini, su Nuovi argomenti del giugno 1967 paragonava l’invasione nazista dell’Italia all’invasione araba del nascente stato ebraico. “Nel Lago di Tiberiade e sulle rive del Mar Morto ho passato ore simili soltanto a quelle del 1944 ho capito, per mimesi, cos’è il terrore dell’essere massacrati in massa. Ma ho capito anche che gli israeliani non si erano affatto arresi a tale destino”.

L'idillio si è interrotto allorché nella sinistra è apparso un forte sentimento anti-americano (erano gli anni della guerra in Vietnam) e, la resistenza e la conseguente vittoria israeliana della "Guerra dei sei giorni" del 1967, cui tutti assistemmo con trepidante preoccupazione anche a sinistra, e ci svelò un Israele forte come una superpotenza. Per la sinistra sembrava quasi intollerabile stare dalla parte del più forte anche se Israele doveva fronteggiare l'odio di feroci eserciti che volevano distruggerlo.

Tanto più che nel 1967, dopo la Guerra dei sei giorni l’Unione Sovietica, tanto amata dalla sinistra, ruppe i rapporti diplomatici con Israele e si schierò definitivamente con gli Stati arabi.

I palestinesi - termine che fino ad allora non aveva una connotazione "nazionale" ma designava gli abitanti arabi al di qua del fiume Giordano, frutto di una spartizione britannica sbrigativa e insolente -, fino allora residenti in quella terra che avevano conteso e perduto a seguito della guerra, si rifugiarono presso gli stati arabi confinanti (e furono organizzati dagli Stati perdenti come una nuova arma da usare contro Israele).

E volete a questo punto che la sinistra non accolga e faccia proprie le "istanze" di un popolo "allontanato" dalla sua terra? E se c'è persino un nascente movimento pronto a coagulare a sé una specie di Risorgimento arabo contro l'aggressore, la sinistra non è invitata a nozze?

A questo aggiungiamoci la sempiterna amicizia americana per Israele tanto odiata dai comunisti dell'epoca, e abbiamo tutti gli elementi. Elementi il cui pregiudizio non è cessato fino adesso.

Da noi la questione palestinese è stata per decenni il cavallo di battaglia di una sinistra pretestuosamente anti israeliana. E di una stampa devotamente allineata. Vittima di una sorta di complesso pavloviano la nostra stampa persevera nelle vecchie abitudini.

La manifestazione più grave di questo cronico riflesso condizionato è l'incapacità, talvolta, di distinguere la causa palestinese da quella di Hamas ritrovandosi così al servizio della propaganda fondamentalista. A differenza dei giornali stranieri molte testate nostrane continuano a raccontarci un'inesistente guerra di Israele ai palestinesi anziché lo scontro con una fazione che ha fatto del terrorismo la sua principale arma. Una fazione che ha attuato violenze di ogni tipo contro il popolo palestinese e contro i civili ebrei.

Ogni volta che i terroristi attaccano Israele costringendolo a rispondere per difendersi, la sinistra italiana, quasi tutta, parlo di quella politica, di quella mediatica e di quella delle persone comuni, non riesce a liberarsi di preconcetti, pregiudizi, terzomondismo di maniera e ottusità nell'analizzare e commentare la guerra in atto fra Israele e la sanguinaria organizzazione terroristica di Hamas

Dopo i crolli dei muri e di un sistema politico che esiste e persiste, nel suo aspetto più deteriore, esclusivamente, in Corea del Nord, la sinistra, orfana di riferimenti ideologici, spiazzata dall'attivismo dei movimenti, impreparata a cogliere e governare le mutazioni economiche e sociali, che la globalità produce, incapace di intercettare le nuove istanze e problematiche dei cittadini, cerca ancora di più rifugio e consenso con un abbraccio mortale con i presunti oppressi : I palestinesi, ovverosia con l'organizzazione terroristica di Hamas, non essendo, neanche in grado, di distinguere gli uni dagli altri ( totale ignoranza della storia mediorientale, Hamas sono dei criminali che schiavizzano ed opprimono i palestinesi).

Si sono bevute tutte le bufale contro Israele, in un delirio crescente di omissioni, falsità e immoralità. La sinistra, ogni qual volta ci sia di mezzo Israele, perde lucidità e razionalità, con una buona dose di malafede e nel tentativo, maldestro, di cercare di far credere di stare dalla parte giusta, che giusta non è.......!!!

PS: nel libro di Valentino Baldacci " 1967. Comunisti e socialisti di fronte alla guerra dei Sei giorni ", è documento quello che accadde in quel momento alla sinistra italiana, riportiamo qui di seguito una beve presentazione tratta da La Stampa.

Lo strappo dell’Unità, le accuse di Rinascita e il cambiamento di posizione dell’Espresso ma anche le risposte dell’Avanti! e i dubbi di Mondo Operaio: Valentino Baldacci descrive Comunisti e socialisti davanti alla guerra dei Sei Giorni in uno studio di 638 pagine che ricostruisce la svolta della sinistra italiana che davanti al conflitto del 1967 si lacerò su Israele a causa dell’influenza dell’Urss sul Pci.
Il valore del libro sta nella mole di documenti raccolti, non solo sui giornali ma sui leader politici, da Giancarlo Pajetta a Enrico Berlinguer, che consentono di rivivere un terremoto di posizioni che cambiò l’identità della sinistra italiana. Protagonista e erede della resistenza antifascista che si era battuta contro le persecuzioni degli ebrei e per la nascita di Israele, il Pci voltò le spalle allo Stato ebraico facendo proprie le posizioni dell’Urss che nel 1967 sposò il rifiuto totale dei Paesi arabi nei confronti di Israele.
Il leader socialista Pietro Nenni e l’Avanti!, con gli articoli di Aldo Garosci, si opposero alla svolta filo-Urss in Medio Oriente del Pci, mostrando però incertezze e venature - a cominciare dalle pagine di Mondo Operaio - che vent’anni più tardi avrebbero portato Bettino Craxi a convergere con il Partito Comunista.

Lo strappo avvenne facendo debuttare in Italia, in maniera quasi istantanea, le tesi sovietiche su «razzismo», «espansionismo» e «imperialismo» del sionismo per delegittimare le fondamenta dell’esistenza di Israele, occidentale e dunque nemico.

Perché l'ideologia di sinistra è errata ed immorale

Premessa: tratto da qui

Nell'anti-israelismo e nell'antisionismo c'è spesso una base tradizionalmente antisemita, questo è chiaro. Israele non è solo lo stato degli ebrei, è l'ebreo degli stati e viene trattato come gli ebrei venivano trattati durante l'esilio: ghettizzato, discriminato, boicottato, sospettato di crimini ridicoli e spesso infamanti, come “ammazzare bambini”.

Grazie a un millennio e mezzo e passa di martellante antigiudaismo cristiano, gli ebrei sono il gruppo che viene facile odiare e il loro stato, che non doveva mai essere costituito secondo la sensibilità cristiana (perché l'esilio dell'ebreo errante faceva parte della punizione del “popolo deicida”) segue la stessa sorte, unico fra gli stati del mondo.

Ma oltre a questa radice teologico-politica, nello schieramento istintivo da parte di molta sinistra a favore del terrorismo arabo vi è qualcosa di più generale, che si ripercuote anche contro Israele: l'idea che bisogna schierarsi con loro, anche se usano metodi di lotta atroci e inumani, perché sono i “più deboli”, “gli oppressi”, e dunque i nuovi proletari, la “moltitudine” di cui parlava Toni Negri nel suo best seller internazionale “Impero”. E' un atteggiamento così diffuso e irriflesso che non si può non farci i conti. Ma bisogna dire che esso è radicalmente sbagliato.

E' sbagliato sul piano etico, naturalmente. Il drone o l'aereo che cerca di uccidere il terrorista può sbagliare, naturalmente e coinvolgere persone che non c'entrano. In guerra è sempre successo, purtroppo, e questo è un buon motivo per cercare di evitare le guerre, per tentare di risolvere le dispute sul piano pacifico. Ma il colpo mira a un bersaglio preciso, a un combattente nemico.
Il terrorista suicida che si fa saltare nella metropolitana, o come è successo spesso in Israele negli autobus nei caffè nei supermercati nei ristoranti non cerca neanche di distinguere, non si dà obiettivi militari, se la prende con la gente qualunque dall'altra parte della barricata. Lo stesso fanno i razzi di Hamas, le molotov e i sassi sulle macchine, gli accoltellamenti casuali, le stragi di civili di altra religione, magari dopo aver marcato la loro casa con un segno infamante come facevano i nazisti.

C'è in questo modo di combattere l'idea, tipicamente razzista, che tutto l'altro popolo sia non solo nemico, ma degno di morire in massa, salvo che eventualmente si sottometta e si converta. Questo modo di combattere senza distinzione fra civili e militari è tipico dell'Islam, è all'origine del genocidio armeno e assiro, della distruzione dei greci che abitavano e avevano fondato le città della costa asiatica dell'Egeo che oggi si dicono turche, delle conquiste islamiche antiche della Spagna, dell'Africa del nord, della Mesopotamia.

Ma in questo modo di vedere le cose vi sono anche degli errori di fatto. Non è vero che gli arabi siano gli “umili”, i “deboli”. Loro non si vedono affatto così. Storicamente hanno sempre pensato a se stessi come i signori e si battono per riconquistare questo ruolo, che considerano oggi provvisoriamente usurpato.

Sono stati storicamente i più grandi colonialisti: partiti dalla penisola arabica deserta e spopolata, hanno conquistato e arabizzato mezzo mondo, accumulando ricchezze gigantesche depredate ai popoli che conquistavano e opprimevano, distruggendo la loro cultura e la loro economia. L'Africa del Nord era il granaio dell'Impero Romano, abitata da popolazioni berbere; la conquista araba le ha rese spopolate, incolte… e arabe; la Mesopotamia era abitata dai babilonesi, la Siria dagli assiri, che parlavano l'aramaico, ora virtualmente estinto.

L'Africa nera fu depredata dai mercanti di schiavi arabi, che per un certo periodo fornirono gli inglesi di carne umana per le colonie americane, ma molto più a lungo servirono il mercato domestico arabo. Le regole del Corano sono tipicamente coloniali: gli indigeni conquistati sono inferiori, se non si convertono devono riscattare la loro sopravvivenza con umiliazioni legali e fiscali senza fine.

Anche il territorio dell'antica Giudea e dell'attuale Israele è stato sottoposto a queste pratiche di arabizzazione forzata e anche di immigrazione islamica dall'Egitto, dall'Arabia Saudita, perfino dall'Anatolia e dal Caucaso. La “questione palestinese” in buona parte deriva da queste pratiche coloniali. E' facile mostrare che la “Nakbah” palestinese consiste esattamente in questa condizione di non essere più i padroni coloniali del Medio Oriente.

Quanto alla miseria, essa è essenzialmente autoinflitta: non c'è regione al mondo che abbia guadagnato tanto senza sforzo nell'ultimo secolo, quanto i paesi arabi del Medio Oriente col petrolio. Quel che non ha funzionato è il meccanismo di redistribuzione, di diversificazione, di investimento. I ceti dominanti arabi hanno usato questo denaro per godere di un lusso illimitato e non hanno pensato affatto a far vivere un'economia produttiva, a elevare la condizione di vita dei loro ceti popolari. I poveri arabi sono stati sfruttati, sì, ma dai loro capi, non dall'Occidente o da Israele.

Con gli ebrei è accaduto l'opposto. Oppressi per secoli in terra di Israele dai loro colonizzatori arabi, trattati come gli ultimi, oppressi spesso sterminati sia nel mondo islamico sia in quello cristiano, quando hanno potuto liberarsi hanno cercato di arrivare in Israele. Ci sono riusciti finalmente in massa a partire dalla seconda metà dell'Ottocento, arrivando per lo più poverissimi, armati solo delle loro braccia, della loro intelligenza e del loro amore per la terra, aiutati in parte da donazioni degli ebrei europei più benestanti a comprare della terra che hanno sviluppato con straordinario successo.

La creazione di Israele è un atto di decolonizzazione sia dagli occupanti britannici sia dai colonialisti arabi. Il benessere attuale di Israele è la dimostrazione che un territorio desertico e desolato può essere reso fruttuoso col lavoro e che il fattore umano è almeno altrettanto importante per l'economia della ricchezza delle materie prime. L'odio arabo per Israele è in buona parte invidia, volontà predonesca di prendersi i beni che sono stati accumulati con la fatica di generazioni – invece di rimboccarsi le maniche e costruirli a propria volta. Gli ebrei sono odiati dagli arabi perché erano oppressi erano schiavi e si sono emancipati.

I progressisti dovrebbero stare dalla parte di una società di schiavi liberati (come già Israele fu all'uscita dall'Egitto). Ma la miopia ideologica impedisce di vedere le radici storiche dei problemi e ne coglie solo gli aspetti superficiali: i “poveri” palestinesi che rivendicano una terra “loro” (cioè che una volta occupavano come colonialisti, o piuttosto emanazione locali dei colonialisti turchi) e dato che l'esercito israeliano ha il torto di impedire loro di ammazzare liberamente gli ebrei, si danno, poverini, al terrorismo.

I palestinesi hanno fatto un ottimo affare prendendo di mira Israele, specialmente negli anni ‘70. Praticare il terrorismo contro lo stato ebraico ha innescato decenni di accuse contro le vittime di quel terrorismo e di giustificazioni per i colpevoli. L’ostilità antisemita che tanti occidentali nutrono nei confronti di Israele, l’ebreo fra gli stati, rafforzò il diffondersi della cultura post-anni ‘60 della colpa occidentale, dell’abiura, della condiscendenza e della legittimazione verso qualunque nemico violento a patto che si potesse dipingere come gente del terzo mondo. Il democratico Israele, costretto a difendersi, venne dipinto come una potenza imperiale e non uno stato assediato, mentre i terroristi palestinesi vennero rappresentati come combattenti per la libertà e non come assassini invasati.

Anziché considerare quanto siano pochi i popoli, molto più sofferenti dei palestinesi, che si danno al terrorismo; anziché domandarsi come mai i palestinesi prendono di mira sistematicamente donne, bambini e anziani innocenti, i portabandiera del “dare sempre la colpa a Israele” ribaltavano la colpa sulla vittima: Israele deve essere reo di chissà quale atroce oppressione per tirarsi addosso un odio tanto spietato, sostenevano i campioni del politicamente corretto invece di analizzare il culto della morte palestinese che alimentava antisemitismo e fondamentalismo islamico.

La condiscendenza occidentale verso il terrorismo palestinese ha dimostrato che lo slogan “il terrorismo non paga” è pura farneticazione: in realtà il terrorismo funziona grazie alla arrendevolezza dell’Occidente. La violenza terroristica impose i palestinesi all’attenzione internazionale, facendoli diventare le vittime per eccellenza agli occhi di tanti terzomondisti totalitari che oggi ne ingigantiscono i patimenti, la debolezza e la centralità.


Appendice: cosa successe nel 1967, quando il mondo dimenticò tutto e cominciò ad odiare ciecamente Israele?

Bisogna fare un passo indietro. Nel 1955 l’Unione Sovietica decise di “cambiare cavallo”: dall’appoggio politico dato a Israele nel 1948, passò ad appoggiare, politicamente e militarmente, l’Egitto, fino a rompere pretestuosa-mente le relazioni diplomatiche con Israele.

L’Egitto di Nasser voleva prendersi la rivincita della sconfitta subita nel 1948 e 1949, e incominciò ad ammassare nel Sinai truppe e mezzi corazzati forniti dall’URSS. Nel 1956 Israele prevenne l’attacco egiziano e travolgendo i mediocri mezzi motorizzati forniti dall’URSS, occupò tutto il Sinai, giungendo fino al Canale di Suez. Le pressioni e le garanzie americane persuasero pochi mesi dopo Israele a ritirarsi da tutti i territori egiziani occupati.

A partire dai primi anni Sessanta l’Egitto ricominciò a preparare una seconda rivincita, con l’aiuto ormai tanto scoperto quanto massiccio, dell’Unione Sovietica, che mirava a sostituire l’influenza americana nella regione con ogni mezzo. I raid di terroristi palestinesi e di commando egiziani contro kibbutz israeliani si moltiplicavano, partendo dalle basi di Gaza. In perfetta sintonia si muovevano dal fronte opposto i siriani, i quali dalle alture del Golan sparavano con le loro artiglierie sui sottostanti insediamenti e kibbutz ebraici di Galilea.

Dopo alcuni mesi di tensione, il 7 aprile 1967 artiglierie e carri armati siriani attaccano pesantemente villaggi ebraici di frontiera. Damasco fa alzare in volo i suoi caccia, ma quelli israeliani ne abbattono sei. L’umiliazione di Damasco è cocente.

L’URSS riprende massicciamente i suoi rifornimenti di armi alla Siria e all’Egitto. Poi a maggio i suoi servizi segreti forniscono a siriani ed egiziani un’informazione falsa. Dicono cioè che Israele ha ammassato truppe e mezzi corazzati ai confini con la Siria. Il Segretario Generale dell’ONU, Sithu U Thant, smentisce: “I rapporti degli osservatori delle Nazioni Unite hanno confermato l’assenza di concentramenti di truppe o movimenti di truppe di qualche rilievo su ambo i lati della linea armistiziale “.

Il 14 maggio è l’Egitto che fa sbarcare numerose unità oltre il Canale per rinforzare il suo già massiccio schieramento nel Sinai. 1116 maggio il Presidente egiziano Gamal Abdel Nasser intima al comandante delle forze dell’ONU nel Sinai e a Gaza, generale Rikhye, di sgombrare le truppe presenti nel Sinai dal 1957, all’indomani del conflitto che aveva visto Israele arrivare al Canale di Suez.

Poi Nasser proclama il 22 maggio il blocco dello Stretto di Tiran: nessuna nave, di nessuna nazionalità, che si rechi al porto di Eilat, in Israele, o che da Eilat parta, potrà più passare. Secondo il diritto internazionale è “atto di guerra”. Le dodici potenze marittime non onorano le garanzie che nel 1956 avevano offerto a Israele per la libertà di navigazione, e non mandano le loro navi da guerra a proteggere la libertà di navigazione. Il 30 maggio re Hussein di Giordania mette le

Truppe egiziane, saudite, irachene affluiscono in Giordania. Truppe irachene, algerine e kuwaitiane raggiungono invece l’Egitto. Il 3 giugno il generale Murtaji, capo delle forze egiziane nel Sinai, dirama un ordine del giorno alle truppe, nel quale invoca “la Guerra Santa con cui voi ristabilirete i diritti degli arabi conculcati in Palestina e riconquisterete il suolo derubato della Palestina “. (Da notare che il generale parla di arabi e di Palestina, ma non di palestinesi, che nessun paese arabo nel 1967 conosceva e riconosceva, tanto è vero che quando la Cisgiordania era parte della Giordania non si sentiva neanche parlare di sovranità palestinese). Il 5 giugno 1967, all’alba, Israele risponde.

Israele vince la guerra e tutto il mondo lo odierà per aver vinto. Da allora diventerà una nazione da diffamare e perseguitare. Potere della stupidità umana.

Come ben ricordato qui, da cui si trae quello che segue, i propagandisti filopalestinesi parlano oggi di “confini del '67” per definire le linee armistiziali stabilite dopo la guerra di indipendenza del '49 e lo fanno perché è stato nel '67, con la guerra “dei sei giorni” che Israele ha liberato Giudea, Samaria, Gaza e il Golan. Di qui parte tutta la problematica attuale di questi territori, secondo loro: la “colonizzazione” e tutto il resto. Sapete che cosa accadde subito dopo?
“Il 19 giugno del 1967, il governo di unità nazionale [di Israele] votò all'unanimità di restituire il Sinai all'Egitto e le alture del Golan alla Siria in cambio di accordi di pace. Il Golan avrebbe dovuto essere smilitarizzato e un regime speciale sarebbe stato negoziato per lo Stretto di Tiran. Il governo deliberò inoltre di avviare i negoziati con il re Hussein di Giordania per quanto riguarda il confine orientale.”
Sapete chi ha scritto queste righe? Chaim Herzog, il padre dell'attuale leader della sinistra, uomo di tutt'altra tempra rispetto a lui (http://en.wikipedia.org/wiki/Chaim_Herzog; la citazione viene da Herzog, Chaim (1982). “The Arab-Israeli Wars”. Arms & Armour Press).



Insomma, immediatamente dopo la guerra trionfale, Israele era disposto a rinunciare a Sinai e Golan e forse anche a buona parte di Giudea e Samaria in cambio della pace: una grandissima occasione per risolvere il conflitto. E sapete che cosa accadde allora? Ci fu una conferenza a Khartoum, un mese e mezzo dopo, cui parteciparono i capi di stato dei più importanti paesi arabi e anche l'Organizzazione per la Liberazione della Palestina che decisero una politica che divenne famosa sotto il nome di “I tre no”: No alla pace, no al riconoscimento di Israele, no alle trattative (http://en.wikipedia.org/wiki/Khartoum_Resolution). Un'altra occasione perduta, forse la più importante di tutte, anche se prima c'era stata la risoluzione dell'Onu nel '47 e poi ci sarebbero state le trattative del '99 e del 2000, e poi quella con Omert.

Poi le cose sono un po' cambiate, il mondo arabo ha delegato all'OLP e all'Autorità Palestinese la guerra a Israele, avendo altro di cui occuparsi, lo stato ebraico si è radicato profondamente e non appare così facile da eliminare di colpo, la strategia si è trasformata in un'impresa a tappe, di lunga durata. E molta acqua è passata sotto i ponti. Israele ha offerto di nuovo possibilità di pace, ma i palestinisti hanno sempre detto di no, perché pensavano che il tempo lavorasse per loro. E ancora lo pensano, grazie all'appoggio della sinistra mondiale, che ormai ha l'egemonia sugli Stati Uniti e l'Europa.

Molte trattative si sono aperte, molte si sono rotte a seguito dei no palestinesi. E' importante ricordarlo, perché di solito non se ne parla.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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