Queste leggi sono espressione della tradizione antigiudaica-antisemita dell'Europa romana e cristiana, e seguono quelle di Costantino l'imperatore romano e il pensiero di Martin Lutero il prete riformatore protestante:https://it.wikipedia.org/wiki/Storia_de ... isemitismo I padri della Chiesa e le basi ideologiche dell'antigiudaismo cristianoFabiana Cilotti
7 novembre 2015
http://www.linformale.eu/ciao-mondo Nei primi cinque secoli il rifiuto da parte degli ebrei nei confronti della sempre più pressante dottrina cristiana veniva considerato il principale ostacolo all’apostolato cristiano. È in questo periodo che molti apologeti e teologi cristiani si dedicarono accanitamente a delegittimare e screditare l’avversario ebreo sviluppando un vero e proprio genere letterario adversus Iudaeos, teso a rendere gli ebrei disprezzabili, detestabili e odiosi. Ogni mezzo fu lecito allo scopo: le stesse parole degli antichi profeti delle Scritture vennero adoperate contro gli ebrei, colpevoli di non aver riconosciuto l’avvento di Cristo; i detrattori non esitarono nemmeno ad impossessarsi dei vecchi stereotipi pagani, spesso addirittura enfatizzandoli e caricandoli di nuovi significati.
I cristiani capovolsero addirittura contro gli ebrei le accuse che si diceva che gli ebrei avessero mosso loro: Origene (185-254) sostiene che i giudei, per discreditare i cristiani, avessero fatto circolare una storia in cui si sosteneva che questi ultimi usassero sacrificare un neonato per poi mangiarne la carne; l’argomentazione, rovesciata, dei sacrifici rituali compiuti dagli ebrei (che poi assumeranno il fine di profanare le ostie) perdurerà per tutto il Medioevo ed entrerà a pieno titolo nell’iconografia medievale antigiudaica.
I due punti focali della strategia antigiudaica dei teologi cristiani dei primi secoli furono il discredito e l’accaparramento delle Sacre Scritture. L’accusa di deicidio li delegittimava da ogni diritto sulle Sacre Scritture, di cui gli apologeti cristiani si impossessarono per rileggerle nella prospettiva della venuta del Cristo e rivendicando di esserne i veri destinatari. Gli ebrei, per le loro colpe, non erano più degni delle Scritture, di cui i cristiani puntavano ad essere i soli e veri portatori. In altre parole, gli ebrei non erano più degni di Dio e quindi nemmeno della sua Parola.
Nel IV secolo, mano a mano che la Chiesa rafforza il suo potere politico, il processo di accaparramento si completa mentre parallelamente si realizza la totale delegittimazione degli ebrei:
Per Ilario di Poitiers (315-367) gli ebrei prima della Torah erano posseduti da un diavolo immondo; dimostratisi indegni della Scrittura dopo il rifiuto del Cristo, il diavolo era tornato in loro;
secondo Girolamo (347-420) le preghiere degli ebrei erano simili al grugnito dei maiali e “Se fosse lecito odiare degli uomini e detestare un popolo, il popolo ebreo sarebbe per me l’oggetto di un odio speciale, perché fino ad oggi nelle loro sinagoghe di Satana perseguitano il Signore nostro Gesù Cristo”;
Gregorio di Nissa (335-395) li definì “assassini del Signore”, “ribelli pieni di odio verso Dio”, “strumenti del diavolo”, “razza di vipere”, delatori, calunniatori, avari e duri di comprendonio;
Giovanni Crisostomo (354-407) paragonò gli ebrei ad animali privi di ragione, esseri immondi simili a cani, spregevoli e capaci di ogni nefandezza. Per lui gli ebrei “non vivono che per il ventre” e i loro costumi sono “paragonabili solo a quelli dei porci e dei caproni”: “con le loro mani uccidono la prole per adorare i demoni”. Convinto che Dio odiasse gli ebrei, esortò tutti i cristiani a fare altrettanto con loro: “E’ dovere di tutti i cristiani odiare gli ebrei.”
Crisostomo equipara la Sinagoga a un bordello. La più antica comunità ebraica d’ Occidente viene molestata durante la preghiera del Sabato. Molte sinagoghe vengono trasformate in chiese cristiane. “La sinagoga non solo è un bordello ed un teatro; è anche un covo di ladri e una tana di bestie selvatiche; quando Dio rigetta un popolo, che speranza di salvezza gli rimane? Quando Dio rigetta un luogo, quel luogo diventa una dimora di demoni. I Giudei vivono per il loro ventre. Concupiscono le cose di questo mondo. La loro condizione non è migliore di quella dei maiali o delle capre a causa dei loro costumi sfrenati e della loro eccessiva ghiottoneria. Sanno fare una cosa sola: riempirsi il ventre ed ubriacarsi”.
Crisostomo scrive otto omelie per dimostrare di quali nefandezze fossero capaci i giudei, con il tipico metodo della diffamazione. Sostiene che le “sinagoghe sono postriboli, caverne di ladri e tane di animali rapaci e sanguinari, i giudei sono infatti animali che non servono per lavorare ma solo per il macello, anzi sono animali feroci”: “mentre infatti le bestie danno la vita per salvare i loro piccoli, i giudei li massacrano con le proprie mani per onorare i demoni, nostri nemici, e ogni loro gesto traduce la loro bestialità” e i cristiani non devono avere “niente a che fare con quegli abominevoli giudei, gente rapace, bugiarda, ladra e omicida”.
Per Ambrogio (339-397) vescovo di Milano, il popolo giudaico è “perduto, spirito immondo, preda del diavolo anche all’interno del suo tempio sacro, la sinagoga: anzi la stessa sinagoga è ormai sede e ricettacolo del demonio che stringe entro spire serpentine tutto il popolo giudaico.” – “la sinagoga dannata del diavolo, la più abominevole bagascia intellettuale che sia apparsa sotto il sole.”
Agostino (354-430) si rivolse agli ebrei chiamandoli “figli di Satana” e affermò che essi erano stati condannati alla dispersione in tutto il mondo per volontà di Dio, puniti per l’eternità a testimoniare la propria cecità:
“Figlio primogenito, il popolo maledetto; figlio minore, il popolo amato. Il primogenito sarà schiavo del minore, così gli ebrei in rapporto a noi cristiani”
La sprezzante dottrina di Agostino sugli “ebrei schiavi dei cristiani” testimoniava l’ormai avvenuto consolidamento di una Chiesa vittoriosa e dominante: da questo momento in poi l’antigiudaismo canonico non conobbe più sosta: i suoi obiettivi furono la lotta al giudaismo e il relegare gli ebrei ad una condizione reietta di subordinazione sociale. Gli ebrei divennero progressivamente sempre più isolati e fortemente distinti dal resto della popolazione.
Il popolo eletto era divenuto, a causa dei deicidio, il popolo di Satana, abominio dell’umanità, condannato a vivere come un servo ed escluso dalla redenzione a meno della conversione alla “nuova e vera fede”.
Questo processo si sarebbe definitivamente compiuto quando il governo imperiale avesse tradotto le concezioni teologiche in misure giuridiche, fase cui Costantino diede inizio. Sul finire del IV secolo la Chiesa aveva aumentato la propria forza al punto da influenzare il potere imperiale, tanto che gli ebrei diventarono cittadini di seconda categoria privi di dignità legale e sociale.
Alla vecchia dicotomia cittadino/schiavo si era sostituita quella tra fedele ed infedele.
Costantino il Grande: le radici cristiane dell'antigiudaismohttp://www.linformale.eu/costantino-il- ... igiudaismo Dopo la distruzione di Gerusalemme del 135 d. C., mentre nella provincia di Giudea (ormai rinominata Palestina) veniva istituita la figura del Patriarca (un plenipotenziario rappresentante ufficiale della nazione giudaica, nominato a vita dall’Imperatore e la cui carica era ereditaria), a Roma continuava una politica ondivaga nei confronti della comunità ebraica, tra concessioni e privazioni di diritti, e norme emanate ad hoc a seconda degli Imperatori che si succedevano al potere. Fu ad esempio nel 212 d. C. che Caracalla, con la “Constitutio Antoniniana de Civitate” concesse la cittadinanza romana a tutti gli uomini liberi dell’impero, ebrei compresi.
La situazione però cambiò radicalmente con l’avvento di Costantino il Grande (306-337), la cui politica delineò i presupposti per rendere il cristianesimo religione ufficiale dell’Impero. Il suo regno segnò un mutamento di rotta radicale rispetto al passato. L’editto di Milano del 313, redatto dopo la vittoria di Costantino su Massenzio, accordò in un primo tempo ai cristiani una semplice tolleranza che rendeva loro giustizia dopo le discriminazioni alle quali erano stati precedentemente sottoposti, ma ben presto questo fece sì che il cristianesimo, ormai legittimato, guadagnasse un peso sempre crescente e una sua autonomia normativa che comportò un capovolgimento delle parti: per tutte le altre religioni ne scaturì una condizione di progressiva inferiorità nei confronti di quella che si avviava velocemente a diventare la religione dominante. Gli ebrei, da appartenenti ad una religione e ad una Nazione Giudaica comunque rispettata da cinque secoli (nonostante gli alti e bassi politici e gli episodi di scherno da parte del popolo come della classe intellettuale del tempo), iniziano a scivolare ad un livello sempre più basso ed inferiore sia ai cittadini cristiani che a quelli pagani.
Molte furono le norme emanate da Costantino che colpivano direttamente o indirettamente la comunità ebraica.
Riguardo alle conversioni dall’ebraismo al cristianesimo, punite in modo severo dai tribunali rabbinici, venne emanato l’esplicito divieto di punire i convertiti secondo la consuetudine ebraica, senza risparmiare una pesante dimostrazione di disprezzo verso quella comunità, definita “gruppo bestiale” (feralis secta) e “setta empia”.
Costantino inoltre interviene ripetutamente a tutela di schiavi sia cristiani sia di altre religioni e nazionalità, per vietare che essi rimangano di proprietà di ebrei e che subiscano la circoncisione. Le conseguenze di ciò saranno pesanti, sia sul versante religioso, venendo a costituire un deterrente al proselitismo ebraico, sia su quello economico, introducendo limitazioni nell’attività stessa di commercio degli schiavi. Agli ebrei veniva in questo modo totalmente interdetta la facoltà di circoncidere e di possedere schiavi di altre religioni o etnie, in particolare se cristiani, in base all’osservazione che “non è giusto che chi è stato riscattato dal Salvatore sia tenuto in schiavitù da chi si è macchiato dell’assassinio dei profeti e del Signore”.
Riguardo alla proibizione dei matrimoni misti tra ebrei e donne cristiane, Costantino si rifece alle conclusioni del Concilio di Elvira (Granada) del 306 dove questa proibizione era stata stabilita, mostrando di fatto di assoggettare la legge civile alla legge ecclesiastica.
In occasione della controversia (discussa durante e dopo il concilio di Nicea del 325) sulla data della Pasqua, festa che in Oriente i gruppi cristiani celebravano concordemente alla Pasqua Ebraica il 14 del mese di Nisan e non di domenica (come stabilito per le diocesi di Occidente dal concilio di Arles del 314), Costantino, in due lettere postconciliari inviate a tutte le comunità cristiane dell’Impero, si espresse con termini durissimi nei confronti delle comunità ebraiche, stabilendo che non si dovesse più seguire la tradizione ebraica e che “si conviene che i cristiani si astengano ab illa turpissima societate et conscientia” (“da quella turpissima comunità e mentalità”): “Quale retto pensiero potrebbero infatti avere costoro che, dopo l’assassinio del Signore, con la mente imprigionata dopo quel parricidio, non dalla ragione ma da una sfrenata passione sono guidati dovunque li spinge l’innata pazzia?”.
E quindi “Nihil ergo nobis commune sit cum inimicissima Iudaeorum turba” (“Nulla si abbia in comune con l’odiosissima turba giudaica”).
E’ evidente quindi che Costantino sposa la tesi antigiudaica più diffusa, quella dell’accusa di deicidio, che più tardi costituirà il pretesto ideologico cardine dell’antigiudaismo europeo, fondando su di essa e al contempo giustificando le proprie posizioni di disprezzo. L’accusa di deicidio a carico degli ebrei, dal canto suo, era stato strumento di penetrazione del cristianesimo nella società romana: gli autori cristiani dei primi secoli – ad esempio Tertulliano – avevano cercato di ingraziarsi l’opinione pubblica sforzandosi di deresponsabilizzare i Romani da quella accusa infamante e facendo di essa carico esclusivamente agli ebrei.
Avendo abbracciato la tesi degli ebrei deicidi, Costantino introduce nel suo corpo giuridico espressioni oltraggiose nei loro confronti come nefaria secta (gruppo criminale), impuri homines (uomini sozzi), inimicissima turba (folla ostilissima), Domini interfectores et parricidae (assassini del Signore e parricidi).
La condanna morale dell’ebraismo viene quindi sancita al massimo livello governativo e procede di pari passo con l’affermazione del cristianesimo: l’ebraismo non ha più un valore assoluto in se stesso ma solo quantitativo, relativamente a quante conversioni la chiesa possa ottenere nell’ambito delle comunità giudaiche. La conversione al cristianesimo diviene la via per la salvezza e l’emancipazione morale e sociale di coloro che si sono macchiati della peggior colpa. Questa pressione finisce per legittimare le critiche contro gli ebrei e le reiterate e stereotipate prese di posizione denigratorie nei loro confronti, al fine di spingerli alla conversione e ridicolizzarli ed emarginarli in caso di resistenza.
E’ così che, nei primi decenni del IV secolo, vengono poste le basi del passaggio da una società religiosamente eterogenea e discordante, in cui tuttavia la convivenza era tollerata e possibile, ad una nuova realtà, contraddistinta da uno spiccato antigiudaismo, questa volta di matrice cristiana.
Lutero e l’ebraismo: una questione spinosa - micromega-onlinedi Alessandro Esposito
http://temi.repubblica.it/micromega-onl ... ne-spinosa 1. L’ebraismo nel contesto della società cristiana medievale: una sintesi
Prima di accingerci allo studio specifico relativo alla posizione di Lutero in merito al popolo ebraico ed alla sua tradizione di fede e di pensiero, è opportuno stilare un profilo sintetico di quello che era il quadro offerto dalla società cristiana medievale in ordine alla questione che intendiamo affrontare ed approfondire.
Gli storici dell’età medievale e di quella cosiddetta proto-moderna sono pressoché concordi nel rilevare un alto grado di segregazione e discriminazione a danno degli ebrei in seno ai distinti contesti dell’Europa occidentale cristianizzata: molteplici erano difatti in tal senso i provvedimenti restrittivi messi in atto nei confronti dei sudditi di tradizione culturale e religiosa ebraica, i quali erano estromessi dalla giurisdizione civile per ciò che concerneva l’eredità della terra e di beni immobili, nonché impossibilitati all’esercizio di funzioni pubbliche. Da tale esclusione deriva la dedizione degli ebrei ad attività commerciali e di prestito di denaro, nonché alla professione medica, nella quale eccelsero sin dalla tarda età antica grazie alla loro preparazione scientifica e pratica.
Oltre a ciò, si era sviluppato in ambito cristiano, anche in questo caso sin dalla tarda antichità, un antigiudaismo teologico che rafforzò ed in alcuni casi determinò l’approccio pregiudiziale alla tradizione religiosa e culturale ebraica, vista come inconcepibilmente resistente alla prospettiva messianica compiutasi attraverso la vicenda e la predicazione di Gesù di Nazareth. Questi, dunque, i tratti distintivi del contesto storico, politico e culturale entro il quale Lutero crebbe e si mosse durante la sua vita: ignorarlo porterebbe ad una lettura indebita e parziale, perché non storicizzata, delle opere in cui il monaco agostiniano e professore di Wittenberg trattò la questione ebraica.
2. I primi scritti di Lutero sull’ebraismo
Inizialmente, le posizioni che Lutero espresse in merito alla tradizione ebraica riguardarono le accuse di eresia che erano state rivolte al noto ebraista tedesco Johannes Reuchlin, ritenuto dalla chiesa ufficiale troppo vicino ad una lettura «giudaizzante» del cristianesimo, derivante da un’attenzione precipuamente filologica prestata dallo studioso ai libri della Tanak ebraica (quello che la tradizione cristiana denomina oggi Primo Testamento o Scritture ebraiche). Lutero, che in questi anni era impegnato in una disputa con la chiesa ufficiale ed i suoi rappresentanti, difese Reuchlin dalle accuse mossegli, benché la sua lettura teologica e non appena filologica delle Scritture ebraiche divergesse in maniera sostanziale dalla prospettiva del noto ebraista. Come emerge sin dalle lezioni sul salterio che Lutero tenne nel 1518 a Wittenberg, difatti, il senso dell’ebraismo era per lui racchiuso nella possibilità che quanti appartenessero a questa religione si convertissero a Cristo, unica speranza di redenzione e di salvezza. L’obiettivo della nascente Riforma doveva dunque consistere in un trattamento amichevole degli ebrei, finalizzato però alla loro conversione alla prospettiva messianica incarnata dal messaggio cristiano. Come afferma nel suo commento al Magnificat del 1520:
Non dobbiamo trattare duramente i giudei, perché fra di loro ve ne sono ancora di quelli che nel futuro diventeranno cristiani.
Una volta ancora, l’interpretazione paolina secondo cui «gli ebrei non hanno riconosciuto la vera funzione della legge e quindi […] avevano abbandonato la promessa costruendosi una giustizia basata sulle proprie opere», determinerà il fatto che Lutero riconduca ogni considerazione a tale criterio, irrigidendo in tal modo la propria interpretazione teologica che, come vedremo, si rivelerà speso incapace di accogliere prospettive differenti come possibili e plausibili interlocutrici.
Ad ogni modo, in un contesto entro il quale qualsiasi affermazione che lasciasse intravedere una sia pur limitata apertura e tolleranza nei confronti dell’ebraismo era immediatamente in odore di eresia, Lutero decise di chiarire la propria posizione sulla questione ebraica attraverso uno scritto del 1523, significativamente intitolato: Gesù Cristo è nato ebreo. Anche in questo caso, «scopo primario dello scritto di Lutero [era] offrire una sorta di manuale che aiutasse i cristiani e gli ebrei convertiti nell’opera missionaria verso gli ebrei». Nei confronti di questi ultimi, l’obiettivo precipuo consisteva nel far comprendere loro il fatto che il Primo Testamento andasse letto alla luce del Secondo, rispetto al quale esso svolge un ruolo meramente introduttivo, nell’ottica di una promessa in esso annunciata che trova in Cristo il suo pieno ed univoco compimento. Lo scopo di Lutero era dunque missionario e «catechetico»: la conversione degli ebrei alla prospettiva messianica inverata in Cristo costituisce l’unico sbocco possibile di una fede altrimenti vana, anche perché, nella prospettiva fatta propria da Lutero di una società cristiana omogenea, l’ebraismo non poteva rappresentare in alcun modo una possibilità religiosa legittima.
Due sono i nodi nevralgici da rilevare in quest’opera di Lutero:
I. Da un lato, il fatto che in essa Lutero si esprimesse a favore di una tolleranza nei confronti degli ebrei e di una coesistenza con loro nell’ambito della vita civile: in tal senso, lo scritto del professore di Wittenberg prendeva recisamente le distanze dalla prospettiva escludente e segregazionista seguita dalla maggior parte degli Stati europei.
II. In seconda istanza, l’aspetto chiave riguarda la possibilità, da Lutero espressamente negata, di effettuare una lettura autonoma del Secondo Testamento e delle promesse in esso contenute: queste ultime devono essere considerate pienamente inverate nella persona e nell’evento salvifico di Cristo che, così come nelle lettere dell’apostolo Paolo, rappresenta il contenuto dell’evangelo e non appena colui che lo annuncia e lo vive nella prospettiva di un Regno che dell’evangelo costituisce la reale sostanza.
Questa interpretazione delle Scritture ebraiche univocamente orientata in senso cristologico venne messa in discussione da due dissidenti di formazione umanistica, appartenenti all’ala radicale della riforma, quella anabattista, Hans Denk e Ludwig Hätzer, i quali, prefiggendosi uno scopo filologico prima che teologico, nel 1527 tradussero in tedesco i testi dei libri profetici dall’originale ebraico, avvalendosi a tal fine della preziosissima competenza linguistica e culturale dei rabbini della comunità ebraica di Worms. Ciò indispettì profondamente Lutero, che criticò il fatto che, in questo modo, i due autori erano venuti meno all’irrinunciabile dovere di orientare i testi profetici in senso cristologico. D’ora in avanti, il fronte riformato «classico», capeggiato in Germania da Lutero, incomincerà a prendere le distanze (anche per quel che concerne la questione ebraica) dall’ala radicale della Riforma, la quale rimarrà l’unica a sostenere non soltanto la tolleranza nei confronti degli ebrei, ma anche il diritto di questi ultimi ad effettuare della Tanak una lettura che prescindesse dall’orientamento cristologico, unico plausibile nell’ottica non soltanto del cattolicesimo romano, ma anche dello stesso Lutero.
Questa pretesa di possedere la chiave interpretativa corretta attraverso cui leggere ed interpretare le Scritture ebraiche, insieme con l’affermarsi della Riforma da lui prefigurata in buona parte dei territori tedeschi, condusse Lutero ad assumere una posizione via via più intransigente, che non lasciò spazio alcuno a letture diverse dalla sua.
Il cambiamento di rotta di Lutero è ravvisabile già in uno scritto del 1538, intitolato Contro i sabbatisti, nel quale il professore di Wittenberg polemizza contro quei cristiani che sposano la prassi ebraica di celebrare il culto in giorno di sabato, indulgendo in tal modo ad usanze a giudizio di Lutero del tutto estranee al cristianesimo. Dietro l’assunzione di tale prassi, Lutero intravede l’azione proselitista degli ebrei, che a suo giudizio tentano di sviare i cristiani inducendoli ad assumere tratti «giudaizzanti» nelle loro usanze liturgiche e nella loro riflessione teologica. L’ipotesi tirata in ballo da Lutero è stata sconfessata dagli storici, che hanno definitivamente sancito il fatto che i timori dell’ex monaco agostiniano nei riguardi di un proselitismo ebraico fossero del tutto infondati. In questo scritto, ad ogni modo, Lutero prosegue la sua battaglia finalizzata a cogliere il vero ed univoco senso delle Scritture ebraiche, incominciando ad inclinarsi pericolosamente verso una lettura secondo cui le sofferenze patite dagli ebrei costituiscano la prova storica e teologica lampante del fatto che Dio li abbia abbandonati, a motivo del loro rifiuto di Gesù come messia promesso dai libri della loro stessa tradizione religiosa:
Poiché ora Dio continua ancora e sempre più a lasciarli nella miseria e nello squallore, non parla più loro e non manda più le sue profezie, è allora evidente che Egli li ha abbandonati e che essi non possono più essere il vero popolo di Dio.
Anziché individuare le responsabilità delle sofferenze degli ebrei nella discriminazione in atto in seno alle società dell’Europa «cristiana», Lutero vede in questo dolore il segno dell’abbandono e della riprovazione divina di fronte al rifiuto del messia: si affaccia in tal modo lo spettro del sostituzionismo, che vede nella chiesa cristiana il nuovo popolo che soppianta il vecchio nell’ereditare le promesse divine di riscatto e di salvezza.
3. L’involuzione di Lutero nel suo ultimo scritto sugli ebrei
L’iniziale apertura in direzione della tolleranza degli ebrei entro i confini dei principati tedeschi andrà incontro ad una brusca inversione di marcia nell’ultimo scritto che Lutero dedicherà alla questione ebraica, il suo Degli ebrei e delle loro menzogne, del 1543. In questo scritto dai toni violentissimi e dalle affermazioni oltraggiose ed inescusabili, Lutero si scaglia, al contempo, contro gli ebrei e contro gli ebraisti cristiani che assumevano una prospettiva filologica improntata ai principi della libertà religiosa che incominciavano ad essere difesi dall’ala radicale della Riforma più vicina all’umanesimo. Tra gli ebraisti aspramente criticati spicca la figura di Sebastian Münster, esegeta di spicco della Riforma zurighese, che si avvalse sempre della preziosa competenza del grammatico ebreo Elias Levita, ricorrendo pertanto, nella redazione delle sue opere, alla tradizione ebraica, sia sotto il profilo filologico che dal punto di vista esegetico-interpretativo. Lutero non concordava affatto con questa libertà ermeneutica, che contestava sia agli ebrei che agli ebraisti cristiani, accusando questi ultimi di «giudaizzare» il cristianesimo.
Nei confronti di entrambi, il tono di Lutero è polemico e spregiativo e l’artificio retorico al quale egli ricorre è quello della demonizzazione dell’avversario:
Stai in guardia, caro cristiano, dagli ebrei. Essi sono consegnati dall’ira divina al demonio, il quale li ha privati non solo della corretta comprensione delle Scritture, ma anche della comune ragione umana.
Proseguendo nell’intento di leggere il Primo Testamento come un documento cristiano e non ebraico, Lutero travalica in quest’ultimo scritto i limiti di quell’antigiudaismo teologico che affondava le proprie radici nel pensiero cristiano tardo-medievale e proto-moderno, per farsi portavoce di raccomandazioni rivolte alle autorità civili in ordine alla politica da adottare nei confronti degli ebrei e propagatore di menzogne, le sue e non quelle degli ebrei, che riesumavano leggende infamanti prive di qualsiasi fondamento (dall’accusa rivolta ai «perfidi giudei» di avvelenare i pozzi e diffondere la peste, a quella di commettere infanticidi rituali). In questo scritto a tratti delirante, può purtroppo anche essere rinvenuto quel tragico appello, drammaticamente inveratosi quattro secoli più tardi durante la «notte dei cristalli», a «bruciare le loro sinagoghe».
4. Storicizzare: relativizzare, non giustificare
Come rileva opportunamente e documenta doviziosamente lo storico Thomas Kaufmann nel suo recente ed esaustivo saggio, la ricezione di quest’ultima opera di Lutero in seno alla Riforma seriore ed ai provvedimenti presi negli Stati tedeschi nei confronti degli ebrei ebbe una risonanza minima: diverse furono le voci critiche che si levarono contro quest’opera, la cui stampa e diffusione fu in più di un caso ostacolata ed impedita. Chi la riprese in mano, isolandone alcune – gravissime e, come detto, inescusabili – affermazioni dal loro contesto teologico, furono i teologi del movimento cristiano-tedesco, vicino al regime nazional-socialista. Sebbene alcune affermazioni contenute nell’ultima opera che Lutero dedicò alla questione ebraica prestino indubbiamente il fianco ad interpretazioni che travalicano il perimetro dell’antigiudaismo teologico in direzione di un pregiudizio razziale, è importante sottolineare come il loro utilizzo da parte di teologi filo-nazisti fu del tutto strumentale. Ciò, chiaramente, non esime Lutero da responsabilità gravi in ordine alle sue ingiustificabili affermazioni ed alle loro conseguenze nefaste: ma, sotto il profilo dell’indagine storica, ciò che è necessario svolgere è una lettura critica delle fonti, le quali vanno inserite nel loro contesto. Questo soltanto consente di attribuire a Lutero le giuste responsabilità, evitando la duplice mistificazione operatane da chi di volta in volta ha inteso raccoglierne l’eredità, facendone illusoriamente o l’emblema di un illuminismo ante litteram o, al contrario, il prototipo dell’eroe germanico che risvegliò nel suo popolo un ottuso e fatale orgoglio nazionalista.
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE (Consultabile in lingua italiana)
- AGNOLETTO, A. La “tragoedia” dell’Europa cristiana nel XVI secolo. Dalla giudeofobia di Lutero agli umanisti Jonas e Melantone, Istituto di Propaganda Libraria, Milano, 1996.
- GARRONE, D. Lutero, la Riforma e gli ebrei: alcuni cenni, in: Protestantesimo 70/1 (2015), pp. 5-33, Claudiana, Torino (Rivista della Facoltà Valdese di Teologia).
- KAUFMANN, T. Gli ebrei di Lutero, Claudiana, Torino, 2016 (orig. tedesco del 2014).
- KAENNEL, L. Lutero era antisemita?, Claudiana, Torino, 1999.
(13 giugno 2017)
Lutero l’antisemita - Il Sole 24 OREGianfranco Ravasi
2017-01-13
https://www.ilsole24ore.com/art/cultura ... d=AD97KGLC In questo anno scandito dalla memoria dei 500 anni dall’inizio simbolico della Riforma protestante con l’affissione pubblica delle “95 tesi” di Lutero alla porta della cappella del castello di Wittenberg, riserveremo ogni tanto uno spazio alla bibliografia del mondo protestante, che ha in Italia una presenza autoctona primigenia coi Valdesi (XII sec.) e con la loro vivace e importante editrice Claudiana che ha recentemente inglobato la Paideia di Brescia, la più significativa editrice di testi biblici. Ora, è noto che il protestantesimo si presenta come una galassia la cui mappa non è di facile elaborazione. Per un orientamento generale ricorderemo che esiste una grande matrice storica che è appunto espressa dalle Chiese valdese, luterana, riformata e dalla Comunione anglicana. Si ha poi una seconda fase di “risveglio” nel Sei-Settecento con le Chiese battiste e metodiste, a cui seguirà un terzo orizzonte molto fluido con le varie Chiese “libere” e le successive ondate “pentecostali” dalle mille iridescenze che non di rado attraversano le stesse Chiese originarie.
A questo microcosmo sono da allegare altre tipologie come quelle del protestantesimo avventista o del protestantesimo “radicale” (mennoniti, Amish, quaccheri) fino alle periferie ormai lontane dalla sorgente e del tutto autonome, come lo sono i mormoni o i Testimoni di Geova. La nostra è una semplificazione che, però, conferma l’immagine della galassia a cui siamo ricorsi che non vuol essere un giudizio di valore perché non di rado può significare una ricchezza, pur col rischio della frammentazione, della dispersione, dell’isolazionismo. A questo immenso delta ramificato si associano varie istituzioni con una loro identità. È il caso che vogliamo ora presentare coi Gruppi Biblici Universitari, un’associazione interdenominazionale indipendente sorta nel 1947 come International Fellowship of Evangelical Students e presente in Italia dal 1950 in varie università. Ebbene, questi Gruppi Biblici, che si riuniscono a scadenze regolari per approfondire gli studi delle S. Scritture, hanno un loro strumento editoriale molto attivo, le edizioni GBU la cui sede è a Chieti.
Non è la prima volta che segnaliamo una loro pubblicazione. Ora lo facciamo con un esempio che ci permette di illustrare in realtà una collana inglese di commentari biblici del passato, la Tyndale (dal nome di un personaggio delle origini della Riforma luterana, autore di una traduzione del Nuovo Testamento), ora rinnovata. Si tratta del commento di una teologa britannica, Debra Reid, a un libro biblico molto “femminile”, quello di Ester. È la storia esemplare di una Cenerentola ebrea che riesce a diventare regina, moglie del sovrano persiano Assuero (Serse), sventando un “progrom” ordito da un primo ministro fieramente antisemita. Il testo è giunto a noi in ebraico, ma l’antica versione greca comprende ampie aggiunte ulteriori.
La trama dell’opera è piena di colpi di scena, distribuiti su una trama che la commentatrice ricostruisce e accompagna con le sue spiegazioni piane ma costellate anche da tutte le notazioni filologiche indispensabili. La finalità di questo racconto – che, tra l’altro, è alla base della festa di Purim, il “carnevale” giudaico – è così scandita dalla Reid: «Dio è all’opera nel mondo, lavora tramite le azioni e le reazioni umane, protegge e salva il suo popolo richiamandolo alla fede». È, infatti, attraverso la sua bellezza che Ester (nome “pagano” desunto dalla Venere orientale Ishtar o dal persiano stareh, “stella”, mentre quello originario ebraico era Hadassah, cioè “mirto”) diventa uno strumento divino di liberazione per il suo popolo così da ribaltarne le “sorti” (i purîm, appunto).
È una rappresentazione controcorrente rispetto a una concezione biblica ove la donna è una “minorata” all’interno di un contesto patriarcale. In questa linea un’altra studiosa, l’americana Tammi J. Schneider, cerca di recuperare una matriarca silenziosa e persino un po’ meschina, nonostante il nome pomposo di Sara, in ebraico “principessa”: è la moglie di Abramo che viene presentata nelle pagine della Genesi come spalla del marito, passiva esecutrice dei suoi ordini. Schneider cerca, invece, di rileggere quei capitoli (dall’11 al 23) torcendoli in tutt’altra direzione rispetto all’ermeneutica dominante, anche se non esclusiva, incarnata da tre commentatori classici come Brueggermann, Speiser e von Rad. Ne esce un profilo “femminista”: Dio sceglie Sara allo stesso modo di Abramo e ne fa una testimone della promessa meglio di suo marito, che è invece sottoposto alla famosa prova del monte Moria, rendendola così una vera matriarca, tant’è vero che la sua morte lascerà un vuoto pesante nel figlio Isacco, vuoto che colmerà solo un’altra donna, la moglie Rebecca.
Questo volume è edito dalla citata Claudiana, della quale vorremmo segnalare il fatto che essa offre un’ampia panoramica di testi dedicati all’anno luterano. Ne citiamo per ora solo una trilogia. Il primo è un’imponente biografia di Lutero, opera di uno storico della Humboldt Universität di Berlino, Heinz Schilling, che non teme di aggiungere un altro titolo all’immane bibliografia dedicata al Riformatore (lui stesso ne seleziona una sequenza che occupa oltre trenta pagine, con una netta prevalenza tedesca). La sua definizione del personaggio è quella di «un uomo di un’epoca di fede e di cambiamenti radicali», che nel titolo del libro diventa però «un ribelle in un’epoca di cambiamenti radicali». Il ritratto procede secondo le tavole di un trittico: c’è il tempo delle origini e del monastero agostiniano (1483-1511), a cui subentra la grande svolta di Wittenberg che non esplode all’improvviso ma germina progressivamente, per diventare poi fiammeggiante (1511-1525) e si conclude col terzo quadro, forse meno noto al pubblico comune, quello che occupa gli anni 1525-1546 e che oscilla «tra coscienza profetica e fallimenti terreni».
Di fronte a una storia personale, sociale ed ecclesiale talmente complessa e complicata è facile avere approcci e letture diversificate; tuttavia è interessante seguire la trama di Schilling e i lineamenti che egli documenta di una figura così variegata da intrecciare fede e politica, mistica e carnalità, libertà e servitù, Parola di Dio e polemica aggressiva, antipapismo ma non iconoclastia e così via. A proposito, poi, del legame capitale di Lutero con la Bibbia, è interessante rimandare a un secondo volume della Claudiana, elaborato da un sacerdote cattolico, esperto del protestantesimo delle origini, Franco Buzzi. È naturale partire dalla traduzione tedesca che Lutero esegue sui testi scritturistici originali, adottando una scelta linguistica «sintatticamente semplice, foneticamente chiara e semanticamente trasparente». Pur non creando il tedesco della modernità – come talora si afferma – egli «è stato certamente uno degli scrittori che ha maggiormente contribuito alla nascita di quella lingua nazionale».
Naturalmente la parte maggiore del saggio di Buzzi è riservata ai principi ermeneutici sottesi alla lettura biblica di Lutero e a una ricca e molto suggestiva descrizione delle relative applicazioni sugli scritti antico- e neotestamentari. È facile, a questo punto, concludere con una questione rovente, quella del rapporto del Riformatore con gli Ebrei, da lui vissuta talora con l’ossessione che essi costituissero una minaccia per il cristianesimo. Il suo antigiudaismo, non di rado così veemente da essere stato strumentalizzato persino dal nazismo, viene accuratamente e non apologeticamente vagliato da Thomas Kaufmann dell’università di Göttingen secondo una corretta contestualizzazione: «storicizzarlo non significa affatto giustificarlo o renderlo irrilevante o sminuirlo..., significa collocarlo nel suo mondo e considerarlo entro i limiti che egli stesso vedeva».