Fascisti, nazisti, comunisti, maomettisti e zingari

Re: Fascisti, nazisti, comunisti, maomettisti e zingari

Messaggioda Berto » lun nov 04, 2019 8:36 am

Testimonianza da un paese nazi maomettano

Enrica Barrera
Nuovo collaboratore di talento · 9 h
Un applauso...


https://www.facebook.com/groups/1349427 ... 885142878/

“Ho vissuto 3 anni della mia vita in un paese musulmano, e non al villaggio Francorosso, dove vanno tra novembre e gennaio i comunisti radical chic con l'offerta "all inclusive", così poi da tornare in patria liofilizzandoci lo scroto dalla mattina alla sera mentre si atteggiano tutti e tutte come profondi conoscitori del mondo arabo e della questione islam, solo perchè nella gita nel deserto del mercoledì hanno fatto un "selfie"in groppa ad un cammello con sullo sfondo la piramide di "Tuttounkamut"...
No, io ero alla Citè Emir Abdelkader , con 2 piedi in una scarpa nello stare più che attento io e famiglia, a non violare nemmeno per sbaglio anche solo uno dei loro dettami religiosi o culturali.
E vi dirò, non lo dico nemmeno con risentimento o rancore, perchè eravamo a casa loro, ed era giusto così.
E vi assicuro che li non vi erano musulmani comunisti, protesi nel rinnegare le loro tradizioni pur di compiacere noi stranieri per qualche astruso calcolo elettorale.
Quando arrivava il Ramadan non vi erano delle aree "accoglienti" riservate agli stranieri ove poterli far sentire legittimati ad esimersi dalle regole. Non fumavavano, non bevevano e non mamgiavano in pubblico nemmeno gli stranieri, e lo si poteva fare giusto chiusi all'interno delle proprie mura di casa , e con serrande rigorosamente abbassate, così da non indurre in tentazione il buon musulmano osservante.
Non vi erano zone "franche" nelle quali le ragazze europee potevano circolare vestite come a Parigi, Roma, o Dublino. Si abbigliavano senza esporre gambe o decoltè eccessivi, e quasi sempre in pantaloni.
A Natale o a Pasqua, non era previsto che gli europei potessero manifestare apertamente il loro credo all'aperto, con processioni, manifestazioni di strada o di piazza.
Anche in quel caso ci si riuniva tra le mura domestiche di qualche connazionale, ed avendo buona cura di non fare schiamazzi che potessero rivelare la natura di quelle riunioni ai vicini locali.
È solo da noi che i cialtroni comunisti, riescono ogni fottuto giorno a spostare l'asticella della sottomissione un pochino più in basso, sempre più giù, fino a mettersi proni e genuflessi a baciare ciabatte nella speranza che a cotanto asservimento, corrisponda prima o poi quell'agognato voticino "micrante" per il PD che questi miserabili cialtroni nemmeno vedranno mai.
Perchè non bastava averci ridotto a nazione con preti e dirgenti scolastici che arrivano a dire che per non "disturbare" le altrui culture, è oramai giunta l'ora di smettere di festeggiare il Natale o allestire presepi.
No, serviva un colpo di reni in più come suggello di questo governo abusivo comunista.
Serviva "IL TORTELLINO ACCOGLIONE", un obrobrio con carni di pollame che va contro ogni nostra tradizione e storia, nell'ambito della consueta sottomissione a fini di compiacimento.
Come se nei paesi nordafricani il Ramadan iniziasse ogni anno con l’orchestra di Raoul Casadei alla “sagra dell’agnolotto di Tunisi”.
Come se l'Egitto fosse celebre per le sue multiculturali braciolate in occasione del “Palio del Cairo".
Perchè la verità è che non è nemmeno colpa degli "ospiti".
La colpa è di una ideologia malata di sinistra, votata anima e corpo ad una autodistruzione della memoria della nostra storia, di tutto ciò che riguarda la nostra impronta socioculturale e la nostra identità.
Di ciò che abbiamo rappresentato per secoli e di quello che quei secoli ci hanno tramandato.
Perchè ormai le tradizioni sono robe da "sovranisti", mentre ora va di moda abbandonarsi ad una folle autolesionista sorta di “vergogna” di essere EUROPEI, Italiani, bianchi, e quella strisciante onta per il fatto di non appartenere a qualche “minoranza dominante”, annichilendoci per bene ed affrettando la nostra definitiva scomparsa, solo perché qualche ricco e potente magnaccio mondialista ha stabilito che dobbiamo essere per forza “multi qualcosa”, in modo che nessuno più in Italia ed Europa, abbia un qualche senso di appartenenza da amare, nel nome di un bel minestrone multietnico che voti indubbiamente PD ogni volta che servirà, in quello che da qualunque parte lo si voglia guardare, rimane inesorabilmente, un
“genocidio del buon senso”.
Ecco perchè per quanto mi riguarda, i vostri "TORTELLINI ACCOGLIENTI", potete gustarveli facendogli fare il percorso digestivo al contrario.
Infilandoveli li dove dovrebbero uscire, uno ad uno.”
(di Fabio Armano)
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Re: Fascisti, nazisti, comunisti, maomettisti e zingari

Messaggioda Berto » ven nov 08, 2019 2:39 am

Trump, schiaffo ai rossi: istituisce il "giorno per le vittime del comunismo"
Luca Romano - Mer, 08/11/2017

http://www.ilgiornale.it/news/mondo/tru ... 60845.html

Donald Trump istituisce la giornata in ricordo delle vittime del comunismo proprio nel giorno dell'anniversario della rivoluzione bolscevica

Più chiaro di così non poteva essere: il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha deciso di istituire una giornata nazionale in ricordo delle vittime del comunismo. E come data ha scelto proprio il 7 novembre, giorno in cui, nel 1917, i bolscevichi hanno dato il via alla rivoluzione russa.

Per rimarcare ulteriormente il valore simbolico del proprio gesto, l'inquilino della Casa Bianca ha scelto di farlo proprio nel centesimo anniversario di quell'avvenimento storico foriero di sviluppi così decisivi per la storia della Russia e di tutto il mondo. Storia di lutti e di morte, come dovunque il comunismo è andato al potere con la violenza.

Durante il viaggio in Asia - e precisamente alla vigilia della visita in Cina - Trump ha dichiarato che "durante il secolo scorso, i regimi totalitari comunisti nel mondo hanno ucciso più di 100 milioni di persone e ne hanno sottomesse molte di più a sfruttamento, violenza e devastazione indicibile".

"Oggi noi ricordiamo quanti sono morti e quelli che continuano a soffrire sotto il comunismo - ha aggiunto il presidente senza timore di conseguenze diplomatiche con gli strategici interlocutori cinesi - Dobbiamo far brillare la luce della libertà per tutti quelli che aspirano a un futuro più libero e più radioso".
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Re: Fascisti, nazisti, comunisti, maomettisti e zingari

Messaggioda Berto » ven nov 08, 2019 3:05 am

Le ultime ore di al-Baghdadi: terrorizzato da congiure e tradimenti
Davide Bartoccini
7 novembre 2019

https://it.insideover.com/terrorismo/gl ... nBQmn1A1g0

Nei suoi ultimi giorni di latitanza, ma sarebbe meglio dire mesi, o addirittura anni, il leader dell’Isis Abu Bakr al-Baghdadi era inquieto, spaventato, temeva le congiure e il tradimento dei suoi fedelissimi che, come infatti è stato, lo hanno venduto alla Cia. Secondo quanto rivelato da fonti ben informate, il Califfo si travestiva da pastore nelle sue brevi sortite fuori dal rifugio nel villaggio al confine dalla Turchia, dove spesso passava il tempo nascosto sotto terra, proprio dove ha trovato la morte durante il raid della forze speciali americane. La “caduta” del Califfo, ricorda gli ultimi giorni di Hitler: richiuso in un bunker, nell’oscurità di un sotterraneo, a lamentarsi per l’andamento della sconfitta e al crollo del suo “impero” con una ristretta cerchia di sopravvissuti.

Nascosto sotto terra, anche quando non ve n’era apparente bisogno; dipendente da una rete sempre più ristretta di fidati, pochi confidenti e familiari. I militanti fatti prigionieri nell’incursione che il 26 ottobre ha portato alla morte di Baghdadi lo hanno dipinto come un uomo ossessionato dal timore di essere trovato. Latitante da anni, cercava di tenersi in vita nei più remoti angoli del deserto siriano che un tempo gli appartenevano – quando le bandiere nere dell’autoproclamato Stato islamico terrorizzavano migliaia e migliaia di chilometri quadrati di territorio in Siria e Iraq. Alla fine, quella sua ossessione per i traditori si è rivelata fondata: venduto da un fedelissimo della sua cerchia sempre più ristretta, è stato individuato dai servizi segreti americani che lo cercavano da anni. Fuggito sotto terra, come era solito fare anche quando sopra la sua testa non c’erano gli operatori delle forze speciali della Delta Force in assetto da combattimento, i cani da guerra K-9 e gli agenti “hunter killer” della Cia, l’intoccabile “califfo” delle milizie islamiste che ordinava esecuzioni, attentati e guerre sante in nome della sharia, ha trovato la morte. Terrorizzato, fino all’ultimo istante, dall’idea di essere catturato dagli americani – che possiamo dirlo, non sarebbero stati riguardevoli nei suoi confronti.

Le parole della “schiava” di Baghdadi

Una giovane ragazza araba di nome, Yazidi , che secondo Associated Press si sarebbe identificata come una delle sue schiave, ha raccontato come Baghdadi si muovesse già in passato con una cerchia di sette fedelissimi: il nucleo più ristretto di coloro che erano rimasti estranei a faide, defenestrazioni, e che erano scampati alle missioni “hunter killer” della Cia. Che non ha mai smesso di condurre raid con i droni armati che sorvegliavano le zone “ostili” del Medio Oriente, e all’occorrenza colpivano obiettivi “high-value” identificati e confermati. Mesi fa il califfo ridotto al silenzio, che era scomparso per tutti e che molti credevano in realtà già morto – dato l’ultimo proclamo rilasciato nel 2017 – aveva delegato la maggior parte dei suoi poteri a un affiliato che è probabilmente l’uomo annunciato dal gruppo come successore e leader di ciò che resta in piedi dell’Isis: Abu Ibrahim al-Hashimi al Qurayshi.

Yazidi, liberata in un raid guidato dagli Stati Uniti a maggio, afferma che già nel 2017 Baghdadi tentava di fuggire dalla provincia siriana di Idlib. Gli spostamenti avvenivano su piccoli convogli che contavano al massimo tre veicoli, sui quali viaggiavano il califfo, la sua famiglia e lo strettissimo entourage addetto alla sua sicurezza. Durante l’ultimo viaggio nel quale era presente anche la “schiava”, il convoglio fu costretto a rimanere una settimana nella città siriana sud-orientale di Hajin (al confine con l’Iraq) per timore di cadere preda di un attacco americano. Da lì il gruppo si spostò a nord di Dashisha, un’altra città di confine in Siria, all’interno del territorio rimasto sotto il controllo dell’Isis. L’ultima volta che la ragazza ha visto al-Baghdadi sarebbe stata nella primavera del 2018.

Braccato e soggetto al crollo nervoso

Qui si lega la parola di altri adepti caduti in mano “nemica” e interrogati, che nel periodo successivo a quello resocontato dalla ragazza, descrivono Baghdadi come soggetto ad un “crollo nervoso”. Era solito lamentare il tradimento dei suoi fedeli e l’andamento catastrofico degli eventi che portavano al travolgimento dell’Isis, le cui milizie indietreggiavano su ogni fronte fino rimanere accerchiate in piccole “sacche di resistenza”, enclaves nel remoto territorio siriano. Secondo un’altra fonte caduta in mano irachena, Mohamad Ali Sajit, i suoi ultimi movimenti erano estremamente limitati. “Camminava con una cintura esplosiva” perennemente, e la teneva accanto a lui anche quando dormiva. Costringeva chiunque lo accompagnasse a indossarne una. L’unico telefono cellulare, che non usava mai in prima persona, era affidato ad un suo fedele Abu Hassan al-Muhajer.

Un Samsung Galaxy 7 per la precisione.

Lo stress che attanagliava il califfo ha contribuito a peggiorare lo stato della sua salute, già messa duramente alla prova dal diabete che costringeva Baghdadi al costante controllo dei livelli di glicemia e alla necessità di dovere reperire scorte e assumere insulina. In quel periodo Baghdadi aveva iniziato inoltre a travestirsi da pastore per non essere notato e per evitare che gli occhi elettronici dei droni americani lo “identificassero”. Il consiglio sarebbe giunto da Abu Sabah, incaricato dal califfo di badare alla sua sicurezza. Quando Sabah era informato della possibilità di un raid americano, il califfo si nascondeva in delle buche che venivano coperte di terra e dove venivano fatte pascolare sopra delle pecore. La ristrettissima cerchia di fedelissimi che lo accompagnava nell’area nord occidentale della Siria – tra le cinque e le sette persone – comprendeva al-Muhajer, al-Zubaie, Abu Sabah,e Abu al-Hakim. Secondo le informazioni confermate dagli Stati Uniti sia Al-Muhajer che Al-Zubaie sono stati eliminati nel corso di due raid mirati.

Il rifugio e la “caduta” del califfo

I funzionari statunitensi hanno dichiarato di non conoscere il periodo e il modo in cui al-Baghdadi ha raggiunto la provincia di Idlib per stabilirsi nel villaggio di Barisha, a circa 5 chilometri dal confine con la Turchia, in un complesso di recente costruzione che era stato adibito a bunker; dotato di appositi tunnel sotterranei per nascondersi dai bombardamenti americani e per fuggire nel caso di una incursione delle forze speciali. Ciò che è noto però, è che per merito del “ponte curdo” che ha reclutato la talpa tra i fedelissimi del califfo, i sevizi segreti americani (e pare francesi) abbiano individuato Baghdadi in questa remota zona che l’intelligence non aveva reputato “adatta” per il suo nascondiglio. La zona era infatti sotto il controllo di una milizia affiliata ad Al-Qaeda, rivale dell’Isis. Il complesso abitativo adibito a rifugio-bunker, che non compare nelle fotografie satellitari precedenti al 2017, apparteneva a un uomo di nome Abu Mohammed al-Halabi: un commerciante di pecore che non aveva legami con il resto del villaggio.

Lì Al-Baghdadi ha trascorso gli ultimi giorni della sua vita, nascosto sotto terra, secondo i resoconti malato e divorato dallo stress e dall’ossessionate di essere trovato e catturato. Fino a quando una dozzina di elicotteri scuri del 160th Special Operations Aviation Regiment non hanno trasportato sul posto il team delle forze speciali che alle 23.00 nel 26 ottobre 2019 ha condotto il raid di due ore che ha portato alla definitiva caduta del Califfo. Baghdadi, fuggito nei sotterranei con i suoi figli, si è tolto la vita. Gli abitanti del villaggio, che all’arrivo degli americani si sono chiusi in casa, hanno dichiarato dopo lo svolgimento dell’operazione (terminata con la distruzione totale del bunker attraverso bombardamento aereo) di non aver mai sospettato che in quella casa si rifugiasse il leader dell’Isis: “Nessuno si aspettava davvero che al-Baghdadi fosse qui”, ha dichiarato un residente agli inviati della stampa internazionale che hanno messo piede a Barisha.
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Re: Fascisti, nazisti, comunisti, maomettisti e zingari

Messaggioda Berto » sab nov 09, 2019 5:01 am

Resta la via al padre dei Gulag: il Pd non vuole cancellare Lenin
Giuseppe De Lorenzo - Ven, 08/11/2019

http://www.ilgiornale.it/news/cronache/ ... 7pr9Z0-RwY

La richiesta a Bologna: cancellare la Viale Lenin dopo la risoluzione Ue su comunismo e nazismo. Ma l'assessore Pd: "La risoluzione

La richiesta era stata presentata un mese fa perché "nel 2019 in nessuna parte del mondo dovrebbe essere intitolata una via a un dittatore". Principio validissimo, ma a quanto pare applicabile solo ad alcuni. A Bologna infatti la via dedicata a Vladimir Il'ič Ul’janov Lenin non si tocca.

Nonostante il voto del Parlamento europeo che equipara nazismo e comunismo.

La denominazione risale al 18 aprile del 1970 ed è "merito" della giunta comunale guidata dall’ex sindaco Guido Fanti. Da allora il padre del marxismo-leninismo campeggia tra le vie cittadine, senza possibilità di revisione. Nel 2012 ci provò un privato cittadino, inutilmente. La commissione toponomastica rigettò la richiesta all’unanimità, giustificando la decisione con il rischio di perdere "la storicità dei luoghi" e di comportare "disagi per i cittadini residenti e per le attività" commerciali. Caso chiuso? Non proprio. Perché Umberto La Morgia, consigliere a Casalecchio di Reno, e Riccardo Nucci, eletto a San Venanzo, hanno provato a smuovere le coscienze di un’Emilia-Romagna "costellata in molte delle principale città da vie intitolate a Lenin, Tito e altri dittatori asiatici". I due consiglieri ritengono “non consona” nel 2019 la permanenza "di una via dedicata a un dittatore responsabile della sofferenza e morte di milioni di persone". A supporto della loro posizione portano la risoluzione del Parlamento Ue sulla comparazione tra nazismo e comunismo, in particolare il punto 18 in cui si stigmatizza "la permanenza" di monumenti e luoghi commemorativi "che esaltano regimi totalitari, il che spiana la strada alla distorsione dei fatti storici circa le conseguenze della Seconda guerra mondiale".

Direte: in occasione dei 30 anni dalla caduta del muro di Berlino ci avranno riflettuto su. Magari valutando che Lenin tutto sommato è il padre biologico di quel regime che ha soffocato l’indipendenza e la libertà di tanti popoli. Invece no. Vladimir non si tocca. A scriverlo nero su bianco è l’assessore ai Lavori pubblici e presidente della Commissione Toponomastica, Virginia Gieri. Cattolica e piddina, l’assessore condivide i ragionamenti sui disagi per i cittadini in caso di modifiche ai nomi delle vie. Ma si spinge anche oltre, aggiungendo un'analisi sul quel voto degli europarlamentari che "ha diviso le forze politiche" a Bruxelles e "nei singoli stati nazionali". "Si può dire - spiega - che, ancor prima di essere stata condivisa, non solo nella politica, ma anche nell’opinione pubblica, il testo di questa risoluzione ha generato smarrimento e disorientamento, suggerendo quasi che la storia si possa scrivere all’interno di luoghi come un Parlamento Europeo". Esatto: smarrimento e disorientamento. Capite? "Prendiamo atto del fatto che non solo la sinistra lascia intendere che esistono dittature buone e dittature cattive, ma anche che il ‘ce lo chiede l’Europa’ è valido solo quando l’Ue dice ciò che è funzionale alla narrazione dei rossi. - attacca La Morgia - Le stragi e le ferite inflitte dal comunismo sono di una gravità che andrebbe riconosciuta a prescindere dalle appartenenze partitiche. Se la nostra identità culturale è antifascista, dovrebbe essere altresì anticomunista".

Per la Gieri però la risoluzione Ue non può rappresentare "un elemento vincolante" per l’amministrazione. Dunque non c’è bisogno di mettere nel cassetto Viale Lenin. La pensa come David Sassoli, neo presidente dell’europarlamento, quando sostiene che "equiparazioni improprie minano la nostra identità” e che non bisogna “alimentare confusione tra chi fu vittima e chi carnefice". Eppure di carnefici il comunismo se ne intende eccome. Scriveva Stéphane Courtois nel capitolo introduttivo de Il libro nero del comunismo: "I fatti parlano chiaro e mostrano che i crimini commessi dai regimi comunisti riguardano circa 100 milioni di persone". Qualcuno potrebbe obiettare che sì, la risoluzione del Parlamento Ue invita a "sensibilizzare, effettuare valutazioni morali e condurre indagini giudiziarie" sui "crimini dello stalinismo e di altre dittature", senza però citare mai Lenin. Vero. Ma come scriveva Antonio Carioti sul Corriere, "quando Lenin venne colpito dal primo ictus (…) il regime bolscevico aveva già assunto le fattezze totalitarie che il suo allievo e successore Stalin avrebbe poi accentuato". Lenin fu il maestro di Stalin e vero padre dei Gulag, come denunciava Robert Conquest. Eppure in Italia, ancora oggi, è impossibile toglierlo dalla toponomastica.
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Re: Fascisti, nazisti, comunisti, maomettisti e zingari

Messaggioda Berto » mar dic 17, 2019 8:03 am

Le Sardine strumentalizzano l'antifascismo per alimentare un clima da guerra civile
Roberto Penna
17 dicembre 2019

http://www.atlanticoquotidiano.it/quoti ... LEILEY2ibw


Le varie sinistre italiane, con tutti i loro supporter in televisione, su carta stampata e social network, hanno ricevuto una cocente delusione dal Regno Unito. Il loro beniamino Jeremy Corbyn – al quale è giunto l’endorsement persino di Gad Lerner, esperto probabilmente di harakiri, visto il noto antisemitismo del leader laburista – ha perso, e non si è trattato nemmeno di una sconfitta dignitosa.

Compagni e compagnucci si sono potuti consolare tuttavia con la presenza di Greta Thunberg a Torino, e successivamente con la manifestazione delle cosiddette sardine in Piazza San Giovanni a Roma. Le istanze sia di Greta che delle sardine sono ormai abbastanza chiare, ma rinfreschiamoci la memoria. La ragazzina svedese è stata messa a capo, da alcuni adulti interessati, di un ambientalismo tanto affascinante quanto inconsistente, che perde subito valore ed utilità, se calato nella realtà globale di tutti i giorni. È quasi fiabesco girare il mondo in barca a vela, peccato però che la maggioranza degli abitanti del pianeta non abbia i soldi sufficienti per permettersi un’imbarcazione ecologica, e nemmeno le costosissime auto elettriche. Chi si sposta invece di parecchi chilometri, più per dovere lavorativo che per piacere turistico, non dispone del medesimo tempo libero di Greta Thunberg, e per giungere a destinazione in tempi accettabili non può che salire a bordo di un aereo. Donald Trump, attraverso uno dei suoi tanti tweet, ha invitato la giovanissima ambientalista a rilassarsi e andare al cinema, ma sarebbe meglio esortare Greta a recarsi a scuola almeno ogni tanto, visto che manca dalle aule scolastiche da molti mesi.

Al loro esordio le sardine sono apparse subito, almeno ad occhi non faziosi, come un qualcosa di costruito e manovrato dagli apparati di una sinistra che non riesce più a mobilitare un numero decente di persone nelle piazze usando solo simboli partitici, ed è costretta pertanto a inventarsi nuove formule. I sospetti dell’inizio hanno poi trovato conferma nelle varie manifestazioni tenutesi finora qua e là per l’Italia, intrise del solito luogocomunismo. Non ci stupiremmo se questo movimento svanisse progressivamente nel nulla, offrendo però l’opportunità di una carriera politica a non più di due o tre sardine. Per esempio, il capo-sardina, chiamiamolo così, Mattia Santori, si trova sempre più a proprio agio dinanzi a microfoni e telecamere, e sembra indirizzato verso qualche candidatura. Buona parte degli attuali partecipanti alle adunate “sardiniste” si sentirebbe tradita ed urlerebbe la propria frustrazione, conscia di essere stata l’utile idiota di turno che permette a pochi di farsi un nome – niente di inedito in Italia.

Oltre alla natura prettamente strumentale, le sardine colpiscono in negativo per il bersaglio delle loro proteste. Caso unico al mondo, non viene preso di mira il “potere”, il governo, bensì il leader del maggiore partito d’opposizione. Il nemico numero uno è Matteo Salvini, ma Giorgia Meloni, peraltro già accusata di lobbismo da L’Espresso, è già la nemica numero due per la sua continua crescita nei sondaggi. Nonostante l’uso distorto di una vecchia Costituzione da riformare e la conseguente formazione di governi impopolari come il Conte 2, l’Italia rimane un Paese democratico, ma queste sardine, che blaterano di dialogo e poi negano a Salvini il diritto di essere ascoltato, ricordano i pretoriani di alcuni regimi tutt’altro che liberi, impegnati ad intimidire qualsiasi voce fuori dal coro. Nel 1990 l’allora presidente rumeno Ion Iliescu, che non ambiva ad una netta discontinuità con il regime dell’ormai defunto dittatore Ceausescu, chiamava i minatori in piazza per interrompere, con le buone e soprattutto con le cattive, le proteste pacifiche e democratiche dell’opposizione. Certo, e lo evidenziamo subito, i minatori di Iliescu furono responsabili di molti atti violenti, mentre le sardine non hanno finora torto un capello a nessuno, ma le parole a volte possono ferire quanto una spada.

E visto che il capo delle sardine vorrebbe togliere a Salvini alcuni diritti, ovvero ridurre all’isolamento un leader politico che rappresenta all’incirca il 30 per cento dei suoi connazionali, sembra opportuno iniziare a fare dei paragoni solo in apparenza infondati. È comunque certo che non si tratti affatto di una forma di protesta trasversale, com’era il grillismo delle origini, bensì abbiamo a che fare con piazze, non sempre stracolme come vogliono far credere, dichiaratamente di sinistra. Questa natura è resa evidente dal continuo e ossessivo uso della celebre canzone partigiana “Bella ciao” e dall’aspirazione delle truppe ittiche di Santori ad essere i partigiani del 2020.

Senz’altro “Bella ciao” non è mai stata di moda quanto negli ultimi giorni, intonata anche da Greta e dai gretini durante il presidio torinese, non molto affollato, di Fridays for future. Cosa c’entri questa vecchia canzone dei partigiani con il riscaldamento climatico o presunto tale, è un mistero, ma tant’è…

Per le sardine rappresenta un chiaro posizionamento politico, considerato che Bella ciao è divenuta storicamente parte integrante dell’antifascismo comunista, il quale, ad onor del vero, si è appropriato negli anni di tutta la lotta al nazifascismo, come se gli angloamericani non fossero mai intervenuti e i partigiani cattolici, liberali e monarchici, non fossero mai esistiti. È lecito tuttavia, a distanza di più di settant’anni dalla caduta del fascismo e dalla guerra di Liberazione, dichiararci stanchi di assistere ancora oggi al ricorso strumentale e di parte di “Bella ciao”? Le sardine sono giovani fuori, ma assai vecchie dentro. Riproporre ad ogni occasione quella canzone partigiana, significa rilanciare una storia, l’antifascismo di sinistra, non priva di numerose ombre, come è stato dimostrato da Giampaolo Pansa e non da qualche nostalgico di Salò. Se l’avversione al fascismo di comunisti, ex comunisti, Anpi e dintorni, fosse stata accompagnata dalla lotta ad ogni tipo di totalitarismo, tutti avremmo sempre cantato “Bella ciao” e continueremmo a farlo, ma l’antifascismo rosso è stato ed è un fenomeno settario e discriminatorio, anche se la sinistra italiana, dal Pci al Pd, ha costantemente preteso di rappresentare l’anima profonda della democrazia italiana.

I giovani-vecchi del movimento delle sardine alimentano un clima da guerra civile strisciante, già sperimentato in passato contro Almirante, Craxi e Berlusconi. I partigiani del 2020 dovrebbero anzitutto lottare contro il loro stesso capo, anche perché l’unico fascismo alle porte pare essere proprio quello di Mattia Santori, che vorrebbe vietare agli italiani di ascoltare Matteo Salvini. Il leader della Lega, ma lo stesso discorso vale anche per Giorgia Meloni, può risultare più o meno simpatico ed essere più o meno votato, ma può essere considerato fascista e persino nazista solo da chi si abbevera alla fonte dell’antifascismo di sinistra, campione della distorsione della storia. Salvini non perde occasione, e fa benissimo ovviamente, per manifestare la propria solidarietà nei confronti degli ebrei e dello Stato d’Israele, e con tutta franchezza, un nazifascista amico di Gerusalemme non si era mai visto.
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Re: Fascisti, nazisti, comunisti, maomettisti e zingari

Messaggioda Berto » sab gen 18, 2020 9:42 pm

Dalla parte del male ci sta solo il male e non il bene
viewtopic.php?f=188&t=2893
https://www.facebook.com/alberto.pento/ ... 8930464054

Stare dalla parte della dittatura teocratica iraniana nazi maomettana e dei suoi capi politico-religiosi e militari è peggio che stare dalla parte di Hilter e della Germania nazista.
Chi difende il regime iraniano non difende il paradiso in terra ma un mondo infernale.
Chiamare eroe un criminale terrorista assassino come Soleimani non è diverso dal chiamare eroe Osama bin Laden o Abu Bakr al Baghdadi o Adolf Eichmann o Heinrich Himmler o Maometto o Stalin o Hitler.
Tutti questi personaggi sono agenti del male che hanno operato contro il bene promuovendo la morte e non si possono in alcun modo definire come eroi che per loro natura promuovono solo il bene e la vita magari morendo loro per salvare altri.
Chi promuove il terrore, l'orrore e la morte e da la morte per affermare il suo idolo, la sua ideologia totalitaria e senza rispetto per gli altri, non è un eroe ma un criminale e chi lo sostiene o lo esalta né è complice.



Le uniche ideologie-teologie-pratiche politico-religiose ammesse e accettabili nei paesi civili sono esclusivamente quelle che non violano i valori, i doveri e diritti umani naturali universali, civili e politici e che sono con essi completamente compatibili:
quindi
non debbono essere violente, minacciose, intimidatorie, costrittive, ricattatorie;
non debbono promuovere e indurre alla discriminazione, alla depredazione, al disprezzo, alla schiavitù, alla dhimmitudine, all'odio, al suicidio, all'omicido, allo sterminio;
non debbono trasformare gli uomini in mostruosità acritiche, fanatiche, ossessionate, criminali, disumane;
non debbono generare conflitti etnici, civili, religiosi e politici sia nazionali che internazionali;
non debbono come esempi esaltare figure criminali di assassini, predatori, bugiardi, sterminatori, invasati;
devono promuovere la pace, la fratellanza, la responsabilità, la proprietà, la libertà di parola di pensiero e di critica, la solidarietà volontaria e non forzata;
debbono rispettare i paesi, i popoli, le comunità, le etnie, le culture, le tradizioni e accettare tutte le diversità che promuovono la vita e il bene e che sono compatibili con i valori, i doveri e diritti umani naturali universali, civili e politici.


Se il nazismo hitleriano e Hitler rientrano in questa casistica e vanno giustamente banditi dal consesso civile, allo stesso modo dovrebbero essere banditi anche il nazismo maomettano e Maometto perché sono mille volte peggio.
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Re: Fascisti, nazisti, comunisti, maomettisti e zingari

Messaggioda Berto » dom gen 26, 2020 8:25 am

Equiparare il comunismo al fascismo significa aprire gli occhi sulla storia
di Sergio Soave
23 settembre 2019

https://www.ilfoglio.it/politica/2019/0 ... D2fLAmCOUs

La decisione del Parlamento europeo di dedicare una giornata alla memoria delle vittime dei regimi totalitari che hanno oppresso gran parte del vecchio continente è, di per sé lodevole. Ma la risoluzione che è stata approvata dagli eurodeputati è stata criticata, soprattutto da sinistra, per la sostanziale equiparazione tra il regime nazista e quello comunista. Naturalmente non spetta alla politica, a una politica liberale, dare definizioni storiche e ancora meno ideologiche, e finché la dissidenza riguarda tale questione di principio è più che accettabile. D’altra parte non si può nemmeno esagerare: il testo di una mozione parlamentare non pretende di scrivere la storia, ha solo una funzione pratica. Il che, se non giustifica, spiega l’approssimazione un po’ frettolosa dei giudizi storici contenuti nella risoluzione.

Il nucleo della critica, però, non è metodologico, bensì parte dalla celebrazione dei milioni di caduti sovietici nella guerra antinazista per condannare alla radice ogni paragone tra i due regimi. Naturalmente dal punto di vista storico la differenza è colossale, e consiste appunto nel fatto che Josif Stalin ha vinto la guerra e Adolf Hitler l’ha persa. Questo dato incancellabile ha segnato profondamente la storia dell’Europa (e del mondo). Le conseguenze, però, sono state diverse per la parte occidentale e quella orientale del vecchio continente, che ha subìto un sostanziale dominio comunista, non scelto liberamente, per circa mezzo secolo. Per questi popoli e questi paesi l’oppressione comunista è stata più durevole di quella nazista ed è quindi comprensibile che venga considerata persino con maggiore sofferenza.

La distruzione del mito di Stalin

Nel “Primo cerchio” Solženicyn fa un brutale affresco dell’Unione Sovietica e dell’enigma di un’enorme nazione che resta sveglia perché il suo sovrano non riesce a dormire. Cinquant’anni dopo, questo libro colpisce un bersaglio molto più ampio, che ci riguarda

Ciò detto, forse si può sfidare l’ira degli storicisti estremisti esaminando sommariamente alcuni elementi, strutturali e ideologici, che si sono affermati in modo assai simile nei due regimi autoritari “opposti”. Dal punto di vista della struttura, oltre all’ovvia identificazione dello stato in un partito unico, che è evidente a tutti, si può accennare al fatto che i due regimi hanno dovuto ricorrere alla schiavitù di massa, nei lager o nei gulag, per sostenere lo sforzo bellico e quello produttivo. Una quota non irrilevante di manodopera gratuita, sottoposta a un regime oppressivo, ha caratterizzato sia il nazismo sia il comunismo (non solo in Europa, ma anche in Asia, dove il Giappone imperiale ridusse in schiavitù grandi masse e in Cina e in Cambogia si sono avuti fenomeni identici da parte dei regimi comunisti). E’ giusto ricordare insieme queste vittime, la cui oppressione era connaturata al nazismo e al comunismo.

Sul piano ideologico si insiste sulla differenza tra una prospettiva di liberazione umana – che è alla base della teoria comunista –, lontanissima dalla gerarchizzazione feroce tipica del nazismo. Però poi da ideologie opposte si giunge a sistemi egualmente oppressivi nella pratica, e questo non può essere cancellato. C’è forse un elemento più sottile di similitudine proprio nel campo ideologico, e consiste in quello che si può definire determinismo. Per i nazisti è l’appartenenza razziale a determinare le scelte e il destino delle persone, per il comunismo è la collocazione nei “rapporti di produzione e di scambio”. Non si tratta di considerare le influenze che l’ambiente nazionale e culturale o lo status sociale esercitano sulle persone, influenze reali e spesso pesanti, ma di considerare queste condizioni determinanti. Il che di fatto abolisce la libertà di scelta, e quindi la responsabilità personale, in sistemi rigidamente dominati da questi “opposti” determinismi. Si può forse osservare che questi determinismi erano presentati come effetto di fenomeni analizzati “scientificamente”, anche se poi l’etnologia e la sociologia hanno dimostrato il contrario. Si tratta di un pericolo sempre presente, anche oggi, per effetto, ad esempio, dello sviluppo straordinario della genetica, che porta alcuni a considerare il comportamento umano “determinato” dal corredo genetico, con analoghi effetti di negazione della libertà e della responsabilità. La storia, che i comunisti rinchiudono nella evoluzione della lotta di classe e i nazisti in quella per la supremazia tra le razze, per fortuna non obbedisce a queste – né ad altre – prescrizioni “scientifiche”: è invece ricerca e confronto. Se anche la discussione su una risoluzione del Parlamento europeo serve a ricordarcelo, ben venga.
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Re: Fascisti, nazisti, comunisti, maomettisti e zingari

Messaggioda Berto » dom gen 26, 2020 8:26 am

Ecco quante vite umane è costato il comunismo
Matteo Sacchi - Dom, 08/10/2017

http://www.ilgiornale.it/news/ecco-quan ... sHf8rhYJuU

Negli anni '70 Robert Conquest fornì agli Usa le prove dei crimini in Urss, Cina e Vietnam

Milioni di morti. Morti di cui a lungo si è preferito non parlare. Sono le vittime dei regimi comunisti, sviluppatisi a partire dalla rivoluzione Russa del 1917. Le spiegazioni del silenzio su questa violenza totalitaria sono abbastanza ovvie.

Dopo la seconda guerra mondiale era facile denunciare gli orrendi crimini del nazismo o del militarismo nipponico. Non erano più parte in causa. Ben diverso il caso dell'Urss, della Cina e dei loro Stati satellite, come Cuba o il Vietnam. Non era facile indagare oltre le cortine, di ferro o di bambù cambia poco. E quindi se l'esistenza della strage era nota restava molto complesso quantificarla. Ed esisteva in Occidente un ampio movimento politico e di opinione che non voleva in alcun modo sentire parlare delle colpe del comunismo. E non soltanto nei Paesi che, come l'Italia, avevano la presenza di un partito comunista politicamente consistente. Anche negli Usa durante la guerra del Vietnam una larga parte dell'opinione pubblica era pronta a stigmatizzare ogni violenza compiuta dalle truppe statunitensi, ma sceglieva di ignorare le violenze dei vietcong o dell'esercito regolare nordvietnamita.

Alla fine fu il parlamento statunitense, quasi cinquant'anni fa, a chiedere agli storici di fare uno sforzo per quantificare il «male» prodotto dai regimi comunisti. Ed è così che è nato il testo che oggi viene ripubblicato in Italia da D'Ettoris Editori: Il costo umano del comunismo (pagg. 200 euro 19,90). Il testo raccoglie testi di Robert A. Conquest, Richard L. Walker, James O. Eastland e Stephen T. Osmer e fu un lavoro assolutamente pionieristico. Ma vediamo di raccontarne un poco la genesi. Agli inizi della presidenza repubblicana di Nixon, il Senato Usa commissionò, attraverso il McCarran Committee tre studi per dotarsi di un argomento forte da opporre alla propaganda comunista. Venne così alla luce nel 1970 The Human Cost of Soviet Communism. A scriverlo fu l'illustre storico britannico Robert Conquest, che della rivoluzione sovietica era uno dei massimi studiosi. Nel 1971 arrivò The Human Cost of Communism in China scritto dall'ambasciatore americano in Corea del Sud, Richard Louis Walker. Il terzo, infine, The Human Cost of Communism in Vietnam arrivò nel 1972 e fu coordinato da James Oliver Eastland, senatore democratico del Mississippi. I numeri che venivano presentati all'interno dei «compendia» - questa la denominazione tecnica senatoria - all'epoca suonarono giganteschi per l'opinione pubblica. Col senno del poi possiamo considerarli spesso sottostimati. In Italia i rapporti vennero notati dalle edizioni del Borghese, fondato da Leo Longanesi e in quel momento diretto da Gianna Preda e Mario Tedeschi, venendo pubblicati nel 1973. Da allora è scomparso dal panorama italiana.

Ovviamente fra i tre, è il saggio di Conquest (1917-2015) ad avere il valore storico più pregnante. Lo storico britannico rielabora qui in breve molti dei materiali del suo celebre Il Grande Terrore pubblicato nel 1968. Conquest espunge dalla sua ricostruzione tutti i morti provocati dagli eventi bellici della Rivoluzione russa e si concentra solo sugli effetti delle azioni politiche mirate e rivolte contro i cittadini dell'Urss stessa. Anche così il numero dei morti provocati dal comunismo, nei vent'anni seguenti alla presa del potere di Lenin, ammonta a più di 21 milioni. Di questi più di 15 milioni morti nei campi di lavoro. I giustiziati tra il 1919 e il 1923 vengono stimati invece in ben 900mila. Sarebbe una cifra enorme se non impallidisse di fronte ai due milioni di giustiziati delle purghe staliniane. Ma non solo numeri. Conquest è bravissimo a ricostruire anche il clima dei processi, il meccanismo delle delazioni. E soprattutto la follia economica dei programmi quinquennali che portò ad affamare, spesso scientemente, intere popolazioni.

Se Conquest è metodologicamente lo studioso più robusto, va però sottolineato che gli altri saggi esplorano ambiti rimasti più a lungo in ombra. Il rapporto sugli effetti del comunismo in Cina arrivò, ad esempio, proprio poco prima della storica visita di Nixon a Pechino, Hangzhou e Shanghai. E fu una voce fuori dal coro rispetto a quella maggioritaria della stampa americana tutta tesa a cantare la forza della Cina o a elogiare la distensione che stava avvenendo a colpi di racchetta da ping-pong. Richard Louis Walker mette invece ben in luce i costi del grande balzo di Mao Tzedong. Solo per prendere il potere, estromettendo i nazionalisti, i comunisti cinesi avrebbero provocato venti milioni di morti. Ed era solo l'inizio. Questo non tanto per l'inevitabile durezza dello scontro ma per una presa di posizione teorica che nel caso di Mao risaliva già al 1927: «Una rivoluzione non è un pranzo di gala, non è un'opera letteraria, un disegno, un ricamo... in parole povere, è necessario creare un breve periodo di terrore in ogni villaggio». L'unica parte di questa teorizzazione a essere messa da parte fu la brevità.

Il rapporto sul Vietnam, Paese satellite e certamente meno importante dei due precedenti, era invece fondamentale per cercare di contenere la pressione dei movimenti pacifisti che premevano per il disimpegno statunitense nel Sud-est asiatico. Non servì allo scopo, però censì per la prima volta i crimini dei vietcong, spiegando quanto la politica del partito comunista vietnamita fosse improntata alla violenza e alla sopraffazione sin dal 1945. Quanto quei foschi precedenti fossero solo un'anticipazione delle violenze future, i vietnamiti del Sud lo vissero sulla loro pelle dopo il ritiro statunitense e la sconfitta. Ma in Occidente si preferì fare finta di niente.
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Re: Fascisti, nazisti, comunisti, maomettisti e zingari

Messaggioda Berto » mer set 02, 2020 7:15 am

"Io, segretario di Togliatti, vi dico che fu il Peggiore". Intervista all'ex-segretario di Togliatti
di Stefano Lorenzetto
02/02/2008

https://www.ariannaeditrice.it/articolo ... H-0A5b1lvY

Mai più si rivedrà, sotto la volta celeste, il circo equestre che vantò fra i suoi cavalli di razza Massimo Caprara, per 20 anni segretario di Palmiro Togliatti. Mai più tornerà in scena la commedia umana che ebbe fra i suoi protagonisti questo borghese napoletano colto e garbato, già sindaco di Portici e deputato, poi eretico col gruppo del Manifesto, saggista, direttore dell'Illustrazione italiana, chiamato al Politecnico da Elio Vittorini e al Giornale da Indro Montanelli. Che gente! Che tempi! C'era Armando, «muratore romano della Garbatella elevato al rango di guardaspalle», rievoca Caprara, «che andava tutti i gior*ni dal macellaio a comprare il cervello da servire panato e fritto al capo comunista perché diceva che il Migliore, essendo il cervello del partito e avendo più cervello di tutti noi, doveva mangiare cervello mezzogiorno e sera per mantenere intatta la sua intelligenza», e ora si comprende meglio l'eziologia dell'ictus che nel 1964 stroncò il despota rosso sulle amene rive di Crimea.
C'era Gennaro, contrabbandi*re di sigarette napoletano «che fungeva da autista e all'occorrenza da uomo di mano, soprannominato Zazà a causa della sua predilezione per le riviste di varietà che si davano al teatro Margherita in Galleria Principe Umberto», cosicché qualcuno avrebbe potuto chiedersi «Dove sta Zazà?» quando lo studente Antonio Fallante il 14 luglio 1948 impiombò per strada il segretario del Pci con tre colpi di Smith and Wesson. E questi erano i comprimari. Poi c'era Lui, il deus ex machina della trama sanguinolenta, il compagno Bessarione nato da una lavandaia e da un ciabattino, il «piccolo padre» che mangiava vivi i propri figli, il demone delle purghe e dei gulag: Josif Vìssarionovic Stalin.
Nel vialetto privato della dacia di Barwika, presso Mosca, che era appartenuta al principe Donskoj, Baffone venne incontro a Caprara adorno delle medaglie di generalissimo, senza berretto, i capelli sorprendentemente grigi. «Era marzo, mulinelli di vento siberiano sollevavano la neve, e io ero uscito dalla dacia con addosso soltanto la giacca, un errore che non commise Nilde lotti, la quale indossava infatti una sontuosa pelliccia di zibellino avuta in prestito dal Comitato centrale del Partito bolscevico. A un certo punto cominciarono a lacrimarmi gli occhi per il gelo. Stalin, credendo che mi fossi commosso alla sua vista, mi battè una mano sulla spalla, esclamando in francese: "Courage, camarade", coraggio, compagno. Dopodiché si mise a parlarmi di Capri». Andare a trovare Massimo Caprara nella sua casa milanese, un fortilizio di libri abbellito da due strepitosi Sìroni e altri pregevoli dipinti messi insieme col senso estetico ereditato da uno zio materno che collezionava Modigliani, Matisse, De Chirico, Morandi e Carrà, è come salire in groppa a un destriero e attraversare al galoppo l'intero Novecento, il secolo delle idee assassine. A ogni stazione di posta, un incontro appassionante: il generale Badoglio che nelle sedute di governo parla con Togliatti in dialetto piemontese per non farsi capire da Benedetto Croce e Caprara, pietoso, che traduce in partenopeo per l'attonito ministro-filosofo; l'avvocato Renato Cigarini che, in un impeto di vanità, rivela all'uomo di fiducia del Migliore d'aver riciclato per ordine di Togliatti il fantomatico oro di Dongo sottratto a Mussolini; Ernesto Guevara de La Sema, meglio noto come il Che, che in viaggio da Ginevra a Praga si ferma a Montecitorio, aspetta a lungo d'essere ricevuto da Togliatti e finisce a parlare di Cuba, di Castro e di imperialismo col suo giovane segretario; l'attore Yves Montand che riceve a Parigi, nella villa con parco, Caprara e Luigi Pintor, inviati del Manifesto, e consegna «per la causa» un bonifico con tutti i diritti incassa*ti dai suoi film in Italia. Oggi Massimo Caprara non è più comunista. «Il dato evidente è la bellezza di Dio», ha scritto. Dev'essersi bevuto il cervello, pensano gli ex compagni. O forse ne avrà mangiato troppo poco pa*nato e fritto alla mensa del com*pagno Ercoli, chissà. Non capi*scono il suo «Riscoprirsi uomo», come ha intitolato il libro che , uscirà a giugno da Marietti, «storia di una coscienza», la sua, scritta a quattro mani con Roberto Fontolan, giornalista vicino a CI. Gli hanno appioppato per questo un nomignolo velenoso: Comuni stone e liberazione. «Sono stato per un quarto di secolo prigionie*ro volontario dell'ideologia comunista, il contrario dell'ideale. L'ideale è speranza, futuro, lar*ghezza dello spirito. L'ideologia è ripiegamento, non più futuro, ma l'essere sempre e comunque conservatori uguali a se stessi. ; Non ho mai incontrato don Giussani e non conosco i capi di CI. Però mi affascinano la libertà e l'amicizia che avverto al meeting di Rimini. Le dico di più: provo la stessa affine emozione anche quando leggo San Josemaria Escrivà de Balaguer, fondatore dell'Opus Dei». Giampaolo Pausa la annovera tra i «coccodrilli senza pudo*re». «Tra le scarpe o tra i coccodrilli veri?». Michele Serra ha scritto che lei da la «malinconica sensazione di un vertiginoso vuoto, non so*lo di stile». «Mi dispiace molto per lui». Quando e come diventò comu*nista? «Nel '39-'40 sui banchi del liceo Manzoni, qui a Milano, dove i miei genitori, abruzzesi di Atri, erano emigrati. Avevo molti pro*fessori antifascisti, da Raffaele De Grada, che era supplente di sto*ria dell'arte in terza liceo, al professor Dino Formaggio, poi ordi*nario di estetica all'Università di Padova, entrambi ancora vivi, no*vantenni. La domenica De Grada portava i migliori di noi, i rampol*li delle famiglie altoborghesi, al parco della Villa Reale di Monza. Ci sdraiavamo nell'erba e lui ci leggeva Marx ad alta voce. Però il. primo libro su Trotzki] lo trovai nella biblioteca dei Gruppi uni*versitari fascisti a Napoli. E su IX Maggio, settimanale dei Guf, riu*scii a pubblicare un articolo a fa*vore dell'Internazionale comuni*sta». Giuri. «Giuro. L'unico che se ne accorse fu Mussolini, che da Roma telefo*nò al federale Nicola Sansanelli, destituendolo all'istante: "Coglio*ne! Vi siete fatto prendere in giro da un comunistello di Posillipo". Sansanelli piangeva, me lo rac*contò lui stesso anni dopo quan*do divenne sindaco di Napoli». Mentre De Grada le leggeva Marx, non coglieva qualcosa di storto in quella dottrina? «Sentivo che era ingiusta. Ma i maestri mi sembravano ottimi. A costoro il 27 marzo 1944 si aggiun*se Togliatti, sbarcato a Napoli di ritorno dall'Urss. Croce, fino ad allora mio nume tutelare, era il passato. Togliatti rappresentava l'avvenire. Croce ci diceva: "Dove*te crescere". Togliatti: "Dovete fa*re". Napoli era monarchica fino al midollo, ogni giorno rivoltella*te e botte. Il sedicente Ercoli bus*sò alla porta della federazione, in Scala San Potito, dichiarando la sua vera identità. "Se tu sei To*gliatti, io sono Stalin!", lo respinse un compagno dallo spioncino». Chi la presentò al Migliore? «Eugenio Reale, che nel 1956 sa*rebbe uscito dal Pci in seguito ai fatti d'Ungheria. Per un mese To*gliatti non mi parlò mai, dico mai, di politica. Solo di letteratu*ra, italiana e francese, soprattutto Rousseau, Voltaire, Malraux. Il 1° maggio mi chiese a bruciapelo: "Che te ne pare di Vittorini ?". Fi*gurarsi io, che dell'autore di Con*versazione in Sicilia ero assiduo corrispondente. Pensai: questo non è un partito, è un salotto lette*rario. Casa mia. Una cosa era il popolo, un'altra la nomenklatura. I capi comunisti erano tutti fi*gli dell'alta borghesia, neanche uno veniva dal popolo. Il segreta*rio selezionava fra loro i più colti, meglio se imbibiti di cultura fran*cese. Io fui nominato sul campo suo segretario e caporedattore di Rinascita». Il primo incarico da segreta*rio? «Letterario. Coincise col primo viaggio di Togliatti fuori Napoli. Lo portai a Capri, nella villa di Curzio Malaparte, che di ritomo dalla guerra finnico-sovietica ave*va scritto per la rivista Prospettive una serie di articoli stupendi dal titolo "Sangue operaio"». Lo seguiva ovunque? «Quasi ovunque. Quando una notte del marzo 1945 ebbe un in*contro segreto in Vaticano con Pio XII, sollecitato dallo stesso pontefice, portò con sé solo Um*berto Fusaroli Casadei, un partigiano che nell'occasione gli fece da autista. Non voleva mai intor*no a sé testimoni scomodi. To-gliatti era di indole cospirativa ed esercitava un'influenza magneti*ca sui suoi immediati collaborato*ri, fino a renderli ogni giorno più riservati e circospetti: "Lo consta*tavo", ha scritto Giulio Andreotti, "in Massimo Caprara, sempre cortesissimo, ma che andava per*dendo, foglia a foglia, la sua napo*letanità per assomigliare a un compassato giovane diplomatico della Mitteleuropa<"». Un momento: ma Fusaroli Ca*sadei non è quel tizio di Berti*noro, Forlì, che nel 2001 confes*sò al Giornale d'averne ammaz*zati a centinaia e di addormen*tarsi tranquillo la sera? «Esatto. Mica è l'unico. I comuni*sti messi insieme sembra che ri*flettano, ma presi individualmen*te sono barbari. Togliatti fece fuggire in Cecoslovacchia il crimina*le Francesco Moranino, detto Gemisto, che aveva fatto fuori 52 combattenti delle formazioni partigiane liberali in Piemonte». A me pare che fosse accusato di sette omicidi... «Dice? Comunque Gemisto fu fat*to eleggere deputato da Togliatti e salvato dai due ergastoli ai quali era stato condannato a Firenze e a Torino». Fusaroli Casadei rivelò anche al Giornale d'essere il coman*dante che la notte fra il 6 e il 7 luglio 1945 diede l'ordine di eli*minare 54 persone detenute nel carcere di Schio, nel Vicenti*no, un modo partigiano di rego*lare i conti col fascismo. «Fusaroli Casadei a me raccontò che Adamo Zanelli, segretario del Pci di Forlì, gli aveva messo in ma*no una pistola ingiungendogli di sparare persino a Togliatti nel ca*so in cui, anziché all'incontro con Papa Pacelli, il Migliore si fosse recato a parlamentare con Um*berto di Savoia, come sospettavano alcuni dirigenti del partito. Co*munque ricordo che in quello stesso anno i responsabili dell'ec*cidio di Schio si presentarono nel mio ufficio a Roma. Togliattì orga*nizzò la loro fuga in Cecoslovac*chia, dove fondarono la sezione italiana del pc cecoslovacco. Due di questi latitanti finirono a lavo*rare a Radio Praga. C'è un filo ros*so che porta dalla mattanza di Schio alle Br. Rapire e ammazza*re Aldo Moro è un compito che puoi affidare solo a chi crede cie*camente nella rivoluzione e vi si è preparato militarmente». Fino a quando Togliatti la ten*ne come segretario? «Fino alla morte, avvenuta nel 1964». E il suo ripudio del comunismo quando sopraggiunse? «La crisi cominciò nel febbraio di quell'anno, all'uscita di Togliatti 1937, un libro, subito fatto spari*re dagli scaffali, scritto da Renato Mieli, padre di Paolo, l'ex diretto*re del Corriere della Sera. Un ebreo perseguitato che era stato capo della divisione esteri del Pci e responsabile milanese dell' Uni*tà. Io l'avevo conosciuto a Napoli nel 1944, dov'era giunto da Geru*salemme col nome di maggiore Merryl al seguito dell'Armata in*glese e mi aveva assegnato la car*ta razionata per stampare Rina*scita. Eravamo diventati amici. In quel libro Mieli parlava per la pri*ma volta di Togliatti negli anni della guerra civile in Spagna. Do*po averlo letto, io e Marcella Fer*rara, la madre di Giuliano, che era segretaria di Rinascita, ci stro*picciammo gli occhi e ci dicem*mo: non può essere vero, sono menzogne». Che cosa non poteva essere ve*ro? «Che Ercoli, alias Togliatti, spedi*to in Spagna dal Komintern, aves*se collaborato al massacro di 600 anarchici e all'eliminazione di Andrés Nin, uno dei fondatori del partito comunista spagnolo, già segretario di Trotzkij a Mosca. C'è una dichiarazione giurata in cui Aleksandr Orlov, famigerato emissario di Stalin, attesta che egli a Barcellona prendeva ordini dal compagno Ercoli. Togliatti e Orlov assoldarono Ramón Del Rio Mercader, il sicario che nel 1940 a colpi di piccozza fracassò il cranio a Trotzkij rifugiato in Messico. Lo sa chi era questo Mer*cader?». No. «Il fratello della moglie di Vittorio De Sica. A incarico concluso, avrebbe dovuto tornare in Rus*sia. Venne liquidato prima, in un albergo in Olanda. All'improvvi*so mi fu chiaro perché il Migliore non parlasse mai della sua vita serpentina durante la guerra di Spagna. Antonio Gramsci diceva che Togliatti "anguilleggiava", procedeva come procedeva Sta*lin. Non aveva trovato in Stalin il suo dittatore preferito: era Stalin lui stesso. E soprattutto taceva e mentiva su un altro crimine or*rendo». Quale? «Il 1° agosto 1937 era stato prele*vato a Barcellona da un aereo mi*litare sovietico e condotto a Mo*sca perché, come vicecapo del*l'Intemazionale comunista, dove*va firmare la condanna a morte dell'intera dirigenza del partito operaio polacco. Quindici perso*ne, trotzkisti ed ebrei. Tutti am*mazzati. Per cui un giorno, men*tre scendevo con lui in ascensore a Botteghe Oscure, gli chiesi: "Scusa Togliatti, ma secondo te che cosa avrebbe fatto Gramsci se si fosse trovato nelle tue stesse condizioni?". Mi fissò algido, lo ri*cordo come se l'avessi ancora qui davanti. Senza volerlo, l'avevo po*sto di fronte al suo vero proble*ma: il confronto col maestro. Ri*spose: "Gramsci sarebbe morto". Lì per lì non capii. Ma poi, ripen*sandoci, compresi che cosa inten*deva dire: Gramsci avrebbe paga*to con la propria vita piuttosto che firmare quell'ordine atroce. Togliatti s'era dato la patente di assassino. Non c'entrava più la politica, ma l'umanità». Il comunismo è davvero mor*to? «Direi di no. È fallito, non è la stes*sa cosa di prima. Ma non cambia il comunismo uomo, l'essere fe*deli solo alla propria ideologia. Ora c'è Putin, c'è una classe politi*ca intelligente, abile, che vince le elezioni e sa gestire la ricchezza, ma che non ha alcun rispetto per la vita altrui. Il comunismo è que*sto: il disprezzo per l'uomo. Se bi*sogna affondare un sommergibi*le nucleare per coprire i segreti militari, lo si affonda. Anche se a bordo ci sono 118 marinai. È mor*ta l'ideologia, rimane la brutalità. Oggi c'è il partito dello Stato sla*vo, che è peggiore di quello bol*scevico». Da chi è stato sconfìtto il comu*nismo? «Dal punto di vista materiale, da nessuno. Non è stato sconfitto in battaglia. Gli ha tenuto testa una minoranza che non ha mai cedu*to. I dissidenti non hanno fatto lo sbaglio di proporre un altro parti*to: hanno semplicemente procla*mato la verità. Arcipelago Gulag di Solzenicyn non è un'opera an*ticomunista: è la verità. Il dissen*so è trascendente, metastorico. Nasce da una rivolta spirituale. Il dottar Zivago di Pasternak non è una divisione di fanteria o di arti*glieria che puoi combattere: è l'amore proposto come verità. E poi c'è stato questo vescovo che tutte le domeniche predicava for*te e chiaro dal pulpito di Cracovia e ha continuato a farlo anche dal soglio di Pietro». L'ha sconfitto il cristianesimo, allora? «Ma i comunisti non erano atei. Togliatti non era stato in semina*rio come Stalin, però nutriva un'autentica devozione per Sant'Ignazio di Loyola e tra i parenti aveva un rettore di santuario e una suora salesiana. La più bella orazione funebre la pronunciò in memoria di don Giuseppe De Luca, il prete della Curia romana che lo accompagnò da Papa Pacelli e in seguito spianò la via an*che all'udienza che GiovanniXXIII concesse al genero di Krusciov. Entrambi, Togliatti e Stalin, non si dichiaravano contrari a Dio. Dicevano un'altra cosa: che si può fare a meno di Dio. La ragione da sola è crudele. Se gli fa comodo, la ragione ammazza. Ecco, io ho scoperto che non si può fare a me*no di Dio. Ma non è stato un per*corso facile, rettilineo». Adesso per chi vota? «Da qualche anno non voto. È dif*ficile, per me. Soffro. Ho dedicato la vita alla politica». Qual è stata la colpa peggiore di Togliatti? «La disumanità. Ne fece le spese anche l'unico figlio». Aldo. «Aldino, sì. Lui del '25, laureando in ingegneria, io del '22. C'era grande affinità fra noi. Il padre lo disprezzava perché si vergogna*va a dire in giro che era il figlio di Togliatti. La sua psiche fu segnata dal lungo esilio al Lux, l'albergo di Mosca in cui risiedevano i gerarchi del Komintem, dove la ma*dre Rita Montagnana faceva a botte con le altre donne per di*sputarsi le stoviglie abbandonate dalle famiglie che di notte veniva*no fatte sparire dalla temutissima Nkvd. Il Lux era l'albergo dei topi. Richiamati dalle farine della pa*netteria Filipov che aveva sede al pianterreno dell'edificio, i ratti ri*salivano dalle fogne lungo le tuba*zioni e scorrazzavano per le ca*mere. La Montagnana mi raccon*tava che ogni nucleo aveva in do*tazione un bastone per ammaz*zarli». Aldo finì in una cllnica privata per malati di mente, mi pare. «Si, Villa Igea, vicino a Modena. È ancora vivo, credo. Sta rinchiuso lì dal 1981. Schizofrenia e auti*smo, pare abbiano diagnosticato i medici. Avrei una voglia immen*sa di rivederlo. Una volta andai. Chiesi: dov'è il figlio di Togliatti? Per me non c'era più, sparito. Gli hanno persino cambiato nome. È diventato "Aldo 227". L'unico autorizzato a vederlo era un co*munista modenese, un operaio metalmeccanico in pensione: 15 minuti d'incontro ogni martedì. Sarà ancora vivo anche lui?». Quanto pesò nelle vicende in*terne del Pci la relazione fra Palmiro Togliatti e Nilde lotti, formosa deputata di Reggio Emilia? «Contro di lui pesò molto. Il capo era il modello, doveva dimostra*re moralità, essere superiore a tut*to, anche alle debolezze della car*ne. Ma nel partito vigevano due pesi e due misure. Ai giovani funzionari si richiedeva la castità pre*matrimoniale. Fu il delfino di To*gliatti, Enrico Berlinguer, all'epo*ca segretario del movimento gio*vanile comunista, a celebrare in un articolo la purezza e il martirio di Santa Maria Goretti. Prevaleva*no anche ragioni di sicurezza: il timore era che qualche sciantosa al soldo dalla Cia traviasse i com*pagni per carpire loro i segreti del Pci. A controllare i più esuberanti l'ufficio quadri aveva messo Anto*nio Cicalini, un vecchio cerbero del Komintern. Era il partito a de*cidere per loro quale fosse la don*na giusta da prendere in moglie. Alla nomenklatura, invece, si per*donava tutto, magari con la scusa che aveva diritto a rifarsi del tem*po perduto al confino o in galera durante il Ventennio. Fioriva lo scambio di fidanzate e di mogli. Si doveva pescare nello stesso mazzo, perché la militanza comu*nista rappresentava il criterio prioritario di scelta. Il privato era talmente pubblico che quando Luigi Longo decise di mollare la moglie Teresa Noce, lei, adiratissima, pretendeva di discuterne in direzione come se fosse un fatto politico». E se ne discusse? «Di sicuro non con la ripudiata, visto che lui le notificò l'avvenuta separazione a mezzo stampa, con un comunicato sull'Unità. Del resto un giorno Longo m'ave*va spedito a prendere la Noce in stazione, e avendogli io obiettato che non sapevo che faccia aves*se, mi rispose gelidamente: "Non puoi sbagliare. È la più brutta che scende dal treno"». Un villano. «I comunisti sono fortemente mi*sogini. Ritengono che la donna abbia un'unica funzione». Riproduttiva? «Magari, sarebbe già indice di no*biltà d'animo. No, ludica. Con le donne ci si diverte e basta». Però il compagno Lenin, una volta rientrato in Russia, aveva troncato con l'amante Inessa e s'era ripreso la legittima con*sorte, l'austera Nadezhda Krupskaya. «Ed è precisamente il motivo per cui Pietro Secchia, campione di marxismo-leninismo, che già era stato da Stalin a parlargli male del Migliore, si rifiutò di affittare un alloggio per Togliatti e la lotti. I due concubini finirono così al se*sto piano del Bottegone, in un ab*baino infuocato d'estate e gelido d'inverno, con le valigie aperte per terra. Della cosa eravamo al corrente in pochissimi. Una not*te venni svegliato di soprassalto da una telefonata: "Dottore, sono la guardia giurata di Botteghe Oscure. Ho sentito dei rumori, ci sono i ladri su in commissione cultura, al sesto piano. La pora di ferro è chiusa dall'interno. Ho sparato alcuni colpi di pistola, ma non sono riuscito ad aprirla". Mi precipitai in sede e trovai i due amanti nel loro rifugio, accovac*ciati per terra in un angolo. Aveva*no rischiato di finire accoppati». Vera o apocrifa quella lettera da Mosca del 15 febbraio 1943, scritta dopo la disfatta dei no*stri alpini a Nikolajewka, in cui Togliatti, segretario del Komintern, affermava che «se un buon numero di prigionieri morirà, in conseguenza delle dure condizioni di fatto, non ci trovo assolutamente niente da dire. Anzi». «Verissima. Molto prima che ap*parisse per la prima volta su Pa*norama nel 1992, me ne parlò co*lui che l'aveva ricevuta, il compa*gno Vincenzo Bianco. Io rimasi scioccato dalla malvagità del teo*rema esposto dal Migliore: "II fat*to che per migliaia e migliaia di famiglie la guerra di Mussolini e soprattutto la spedizione in Rus*sia si concludano con una tragedia, con un lutto personale, è il migliore, il più efficace degli antì*doti"». Lei c'era quando Pietro Ingrao incontrò Togliatti il 4 novem*bre 1956 e gli confidò la sua an*goscia perché i carri armati so*vietici avevano invaso Buda*pest, al che il segretario gli avrebbe risposto: «Io invece ho bevuto un bicchiere di vino in più». «No, non c'ero. Ma l'episodio mi venne riferito da Nilde lotti in per*sona, per cui non ho motivo di dubitarne». Sa qualcosa dell'orologio che Togliatti teneva nel taschino co*me «caro ricordo» della guerra in Spagna e che era stato strap*pato dagli insorti comunisti a un nazionalista fucilato sotto i suoi occhi? «In tutta coscienza devo dire che a me non raccontò mai di come ebbe quell'orologio. Però sono te*stimone di un fatto che fa il paio con questo. Mi accorsi che To*gliatti possedeva un'edizione rarissima del libro Nome e lacrime di Vìttorini, uscita nel 1941 dal*l'editore Parenti di Firenze. Dove l'hai preso?, mi venne spontaneo chiedergli. "Me l'ha dato il com*pagno D'Onofrio, sovrintenden*te all'acculturamento dei prigio*nieri italiani in Russia". Era quel*l'Edoardo D'Onofrio, poi diventa*to senatore del Pci, che dalla Spa*gna aveva segnalato in una rela*zione al Komintern d'aver fatto passare per le armi "28 seguaci di Nin, 34 trotzkisti, 39 fascisti". Nei lager staliniani indossava la divi*sa dell'esercito sovietico e cerca*va d'indrottinare i nostri conna*zionali. Prima di consegnare i più riottosi al plotone d'esecuzione, evidentemente gli fregava i libri». Quanto guadagnava come se*gretario di Togliatti? «Il 40 per cento dello stipendio di un deputato, quindi 25-30mila li*re al mese, circa 6-700mila lire al valore di oggi. E avevo l'auto di servizio, una Topolino». L'ultima volta che lo vide? «Il 9 agosto 1944, quando partì per la Russia con Nilde Iotti. Era così furibondo per quel viaggio... Odiava, ricambiato, Krusciov. In*fatti quest'ultimo si recò in visita ufficiale nelle terre vergini della Si*beria proprio all'arrivo dell'ospi*te indesiderato, che a Mosca era sempre stato accolto col tappeto rosso come un re. E lì cominciaro*no subito i misteri». Cioè? «I russi pretesero di sottoporre To*gliatti a una serie di visite medi*che nella clinica del Cremlino che non erano state né richieste né previste. Sembrava la vigilia di un colpo di Stato. È probabile che il Migliore trescasse con Breznev per il defenestramento di Krusciov. Fatto sta che alla fine Togliatti fu caldamente esortato ad andare in vacanza a Yalta, sul Mar Nero. Dove lo invitarono a tenere un discorsetto in russo ai pionieri locali, facendogli rag*giungere il luogo del raduno a pie*di e lasciandolo senza cappello sotto il sole cocente. Venne colpi*to da emorragia cerebrale». Sospetta che i sovietici l'abbiano «aiutato» a congedarsi? «Di sicuro attesero il ritorno di Krusciov prima di prendere qualsiasi decisione. Ora anche un bambino sa che l'ictus richiede trattamenti tempestivi. Invece l'intervento chirurgico fu tentato soltanto dopo sette giorni. Mario Spallone, medico personale di To*gliatti, baciò le mani del collega Alexander Arutiunov prima che entrasse in sala operatoria. Non servì». Se Togliatti era il Peggiore, chi fu il Migliore tra i comunisti? «Gramsci, senza alcun dubbio». E tra quelli con cui lei ha lavorato? Forse Giorgio Amendola, figlio di un liberale? «Amendola? Quando una leuce*mia gli portò via la figlia giovanis*sima, per il dolore non volle percorrere mai più la strada di Capodimonte dov'era morta. Ma se do*veva decidere la fucilazione di qualcuno, lo faceva fucilare sen*za tante balle. Appena fui radiato dal Pci, lo incrociai in Transatlan*tico a Montecitorio. Procedeva sulla passatoia rossa con l'incede*re solenne di un alto dignitario. Giunto a un palmo da me, schivò la mia mano tesa. Per scansarmi, fece un'impercettibile deviazio*ne, senza una parola, né uno sguardo, né un sussulto. Sempli*cemente proseguì, come se fossi trasparente. Non fu solo l'annientamento di un rapporto che era stato affettuoso, ma una delibera*ta ingiuria. Mi sentii lo scarafag*gio della Metamorfosi di Kafka, un ciottolo, un inciampo. Il gesto simbolico era un mostruoso anti*cipo di quella cancellazione del*l'altro, tipica del comunismo, che prelude a ogni tipo di violenza». Fra gli ex comunisti che oggi guidano i Ds, chi assomiglia di più a Togliatti? «Massimo D'Alema. Infido. Ingra*to. Concorrenziale. Non vorrei stare nei panni di Passino e di Pro*di. È uno di cui bisogna aver pau*ra». Non a caso il senatore Giusep*pe D'Alema, suo padre, disse a un mio amico che lavorava al*l'Istituto Gramsci: «A volte mio figlio mi fa paura». «Non stento a crederlo. Ha la stes*sa cupidigia di potere, la stessa su*perbia intellettuale, la stessa cini*ca freddezza di Togliatti: il partito siamo noi, il partito deve vince*re». Non fosse morto Enrico Berlinguer, oggi esisterebbero i Ds? «Se avessero vinto uomini come Luciano Lama o Giorgio Napolita*no, avremmo avuto un Pci diver*so. Berlinguer scaricò i dissidenti del Manifesto al 12° congresso nel 1969. Ci tradì bassamente dopo averci assicurato protezione. È ter*ribile dover votare per alzata di mano. Il partito non è una fetta della tua vita. È la vita stessa. Non è che al mattino fai il comunista e il pomeriggio un'altra cosa. Quan*do sei comunista, lo sei sempre, anche mentre dormi o ti lavi i den*ti». L'oro di Mosca lei l'ha mai vi*sto? «Sia quello di Mosca che quello di Dongo». Cominciamo da quello di Mo*sca. «Più di me l'ha visto Armando Cossutta. Se mi recavo a Praga, la fra*se di rito era: "Passa dal partito ce*co che ti devono dare qualcosa"». Cosa? «Pacchetti. Di dollari, naturalmente. Ma gli affari più grossi si facevano con le aziende amiche. Tanto che quando Berlinguer spedì un funzionario a Mosca per informare il Pcus che il Pci inten*deva rinunciare ai fondi neri, i di*rigenti sovietici, dopo averne pre*so atto, lo fermarono sulla porta chiedendogli: "Scusa, compa*gno, e il denaro per l'oleodotto Urss-Italia chi l'ha intascato?"». E l'oro di Dongo? «Lo amministrava Renato Cigarini, residente a Milano in corso Sempione. Nell'appartamento sottostante al suo abitava Augu*sta Bondanini, vedova di Arnaldo Mussolini, fratello del duce. In se*guito andarono a vivere insieme ad Arma di Taggia. Cigarini, ex le*gionario di Fiume e avvocato matrimonialista alla Sacra Rota, era stato incaricato di nascondere nelle banche elvetiche il tesoro sottratto ai gerarchi fucilati a Dongo: oltre un miliardo di lire, 150mila franchi svizzeri, 16milioni di franchi francesi, 66mila dol*lari, 2mila sterline, 10rnila pesetas. Inoltre mi disse che aveva rici*clato 100 chili d'oro, 40 chili d'ar*genteria, 4mila monete d'oro, anelli con brillanti, persino il Rolex d'oro di Marcello Petacci, fra*tello di Claretta. L'avvocato face*va la spola tra l'Italia e la Svizzera. Ogni mese si presentava alle Bot*teghe Oscure portando i quattri*ni necessari al sostentamento del Pci. Prima vedeva Togliatti al secondo piano, poi saliva al terzo da Egisto Cappellini, amministra*tore del partito. Infine, al quarto, faceva visita a Secchia, cioè a co*lui che aveva affidato l'esecuzio*ne di Mussolini a un professioni*sta, un agente del Komintern, e non, come si volle far credere, a Walter Audisio, che era un insigni*ficante ragioniere della Borsalino». E come venne in possesso Cigarini dell'oro di Dongo? «Lo ebbe in custodia da Dante Gorreri, segretario della federazio*ne comunista di Como, che era stato mandato in zona per sbriga*re la pratica. Fu Gorreri l'unico a riconoscere il duce travestito sul camion tedesco diretto in Svizze*ra. Gorreri era di Parma e si fida*va di Cigarini, originario della stessa città. Alcuni partigiani avrebbero voluto consegnare l'oro di Dongo allo Stato. Scoppiò una faida tra compagni, con una dozzina di omicidi». E perché l'avvocato Cigarini avrebbe spifferato proprio a lei uno dei segreti meglio custodi*ti della storia italiana? «Aveva assolutamente bisogno di raccontarlo a qualcuno, non pote*va tenere tutta per sé una golosità del genere. E siccome era un tipo simpatico e mi considerava un amico...». È vero che il 10 giugno 1946 Togliatti, ministro della Giustizia, bloccò la proclamazione del*l'esito del referendum monarchia- repubblica perché non era sicuro d'aver vinto? «Certamente la Repubblica è na*ta con un parto cesareo. L'ostetri*co fu Togtìarti, aiutato da Marcel*la Ferrara e da me. Il computo dei voti veniva fatto al ministero del*la Giustizia, non so se mi spiego... Eravamo efferati, ma non stupi*di. I passaggi più delicati li ho visti tutti». Sta confermandomi i brogli? «Le dico solo questo: avevamo fat*to stampare più schede del nume*ro dei chiamati alle urne. In caso di necessità...». Del dossier Mitrokhin che cosa pensa? «Quale consulente della commis*sione parlamentare d'indagine, non posso parlare. Forse dovreb*be chiedere a un giornalista che in quella commissione rappre*senta la sinistra e che era stipen*diato regolarmente da Mosca». E ora lei scrive con Vittorio Mes*sori sul Timone, mensile di apo*logetica. Una bella piroetta... «Ho fatto un grande incontro». Con chi? «Col Vangelo». Non l'aveva mai letto? «Soltanto sfiorato, pur essendo di madre cattolica, battezzato, cresi*mato. Ho incontrato questo og*getto immateriale, così ricco di umanità, di semplicità. Ho sco*perto che la mia strada era quella: seguire un libro, non una perso*na». Ma come mai tutti quelli che erano eretici in tempi di orto*dossia alla fine diventano ferre*amente ortodossi in tempi di eresia? Ci sono più brigatisti rossi da don Mazzi o nell'Opus Dei che in galera. «Sono pochi quelli che sanno ra*gionare. Noi, mi perdoni la perentorietà, siamo tra quelli. Abbiamo sbagliato tanto. È venuta l'ora di correggere. Non mi assolvo. Ma neppure mi macero. Non piango sulle piaghe delle mie sconfitte. Non dimentico e non rifiuto nul*la. Non nutro risentimenti. Cerco la forza di dare testimonianza da buon cristiano. Il mio modo di non essere più comunista non è quello di diventare anticomuni*sta, ma di ascoltare e di pensare». E quando pensa al suo passato che cosa prova? «Sofferenza».
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Re: Fascisti, nazisti, comunisti, maomettisti e zingari

Messaggioda Berto » mer set 02, 2020 7:16 am

Piero Gobetti andrebbe letto anche quando scrisse che Lenin e Trotsky esaltavano il liberalismo
di Giuseppe Bedeschi
2 agosto 2020

https://www.ilfoglio.it/cultura/2020/08 ... mo-329510/


Che senso ha riproporre oggi il pensiero di Piero Gobetti, la sua interpretazione del fascismo come “autobiografia della nazione”, la sua rivendicazione di una “rivoluzione liberale”? Me lo sono chiesto leggendo sull’ultimo numero della rivista Paradoxa (dedicato al tema “Essere (o non essere) italiani”, a cura di Gianfranco Pasquino) i saggi di Paolo Bagnoli (“Piero Gobetti: l’autobiografia della nazione”) e (condotto con maggiore cautela critica) di Pier Giorgio Zunino (“Appunti sul tema ‘il carattere degli italiani’”).

C’è un aspetto del pensiero di Gobetti che non emerge in questi saggi, e che invece è centrale per una valutazione critica dello scrittore torinese: il suo giudizio sulla rivoluzione bolscevica in Russia, da lui giudicata una rivoluzione “liberale”. Egli scriveva infatti: “L’opera di Lenin e di Trotsky rappresenta questo. In fondo è la negazione del socialismo e un’affermazione e un’esaltazione di liberalismo. La storia dovrà riconoscerlo. È morto lo zarismo e la mentalità zarista. La Russia si eleva al livello della civiltà dei popoli occidentali”. Erano affermazioni singolari, queste di Gobetti, e non soltanto alla luce del senno del poi. Perché esse lasciavano intravvedere una concezione del liberalismo affatto estranea alla tradizione del pensiero liberale occidentale. Questo pensiero, infatti, con la parola ‘liberalismo’ ha sempre inteso, in primo luogo ed essenzialmente, la teoria e la prassi della protezione giuridica, attraverso lo stato costituzionale, delle libertà individuali. Questa accezione del liberalismo non sembrava invece trovare posto nel pensiero di Gobetti.

Questo aspetto della concezione politica gobettiana è, ovviamente, di grandissima importanza, poiché l’atteggiamento verso la rivoluzione bolscevica russa costituiva una cartina di tornasole non solo all’interno dello schieramento liberale, ma anche all’interno di quello socialista. Si deve tenere presente, infatti, che i socialisti democratici, sia in Italia (Turati), sia in Germania (Kautsky), denunciavano la costruzione in Russia, a opera dei bolscevichi, di uno stato integralmente totalitario, fondato sul controllo capillare esercitato dalla polizia politica al servizio della fazione al potere e sul terrorismo di massa. Kautsky aveva affermato che il regime bolscevico era, sotto l’aspetto politico, una dittatura burocratica, e sotto l’aspetto economico, un capitalismo di stato. Una “nuova classe di funzionari” (una definizione, questa di Kautsky, destinata a grandi sviluppi futuri) si era impadronita, in Russia, del potere sia politico sia economico, generando la più grande servitù sociale che si fosse mai vista nella stessa Russia. Altro che socialismo: si trattava, in realtà, del dispotismo più oppressivo che la Russia avesse mai conosciuto.

Gobetti conosceva assai bene questa letteratura socialdemocratica, ma si dimostrava del tutto insensibile alle sue critiche. Anzi, occupandosi sul Resto del carlino, il 5 aprile 1921, della dura polemica fra Trotsky e Kautsky a proposito del saggio di quest’ultimo su Terrorismo e comunismo (1919), egli non aveva alcuna esitazione a schierarsi dalla parte di Trotsky. “Il quale – egli diceva – afferma per primo, in Russia, una visione liberale della storia”. Poco importava che i bolscevichi imponessero i loro programmi con la violenza e il terrore, perché, diceva Gobetti, “la violenza si può usare quando vi sia persona capace di esercitarla, e gli altri la tollerino. E questo esercitarla e questo tollerarla sono l’espressione esterna di un fatto interiore che ha la sua radice negli spiriti. In Russia il fatto che spiega è precisamente l’adesione degli animi al governo del Soviet”.

Sono affermazioni, queste, che oggi suonano, a dir poco, singolari, e, in ogni caso, assai poco liberali. Nell’accettazione, e direi quasi nell’esaltazione gobettiana della violenza – che “si può usare quando vi sia persona capace di esercitarla e gli altri la tollerino” – si avverte una precisa influenza di Sorel (un autore che Gobetti richiama spesso), del suo mito fondato sul ruolo decisivo e purificatore della violenza proletaria, che annienta un mondo vecchio e decrepito, al quale sostituisce, senza incertezze e senza patteggiamenti, un mondo interamente nuovo. E non si può non aggiungere che le affermazioni di Gobetti (che anticipano, nella sostanza, quelle di Giovanni Gentile – un filosofo da lui molto amato, al quale egli dedicò un intero numero della sua rivista “La rivoluzione liberale” – sulla capacità di convinzione del manganello), oltre a essere assai poco liberali, suonano oggi anche non poco patetiche, perché della violenza avrebbe dovuto far prova egli stesso, personalmente e tragicamente, non molto tempo dopo, quando lo stato liberale cadrà sotto i colpi del fascismo.
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