Ungheria: non xenofobia, ma sovranitàRodolfoCasadei
aprile 11, 2018
Come si spiega la grande vittoria dell'”impresentabile” Orban? Bisogna sapere un po’ di storia e comprendere i sentimenti di un popolo
https://www.tempi.it/la-parola-chiave-p ... s-XvJe-mjJ Le elezioni politiche ungheresi del 2018 si sarebbero potute decidere sugli ottimi risultati economici conseguiti dal governo della coalizione Fidesz-Kdnp negli ultimi otto anni e sui vantaggi che alle classi popolari sono venuti dalle politiche governative. Negli ultimi tre anni il Pil è cresciuto sopra il 4 per cento e la disoccupazione è scesa al 3,8 per cento grazie agli investimenti esteri e all’osmosi con l’economia tedesca, che subappalta all’Ungheria molte fasi delle sue produzioni industriali. Ciò ha permesso di aumentare gli importi delle pensioni, ridurre quelli delle bollette di gas ed elettricità, istituire sussidi per le famiglie numerose, “salvare” le famiglie che avevano sottoscritto mutui per la casa in franchi svizzeri, ecc. Argomenti validissimi per la propaganda del governo uscente.
Oppure le elezioni si sarebbero potute decidere sui sempre più numerosi scandali che hanno visto al loro centro ministri dell’esecutivo Orban, imprenditori amici del partito Fidesz, personalità nominate a posti di responsabilità pubblica dal governo, e sulle difficoltà a perseguire in giustizia i casi che li riguardano a causa della crescente subalternità del sistema giudiziario al potere politico. L’insofferenza crescente per il sistema di potere che si è consolidato negli ultimi otto anni, con la sua casta di privilegiati, avrebbe potuto aiutare l’opposizione a risalire la china e, se non proprio a detronizzare Orban, almeno a impedire che l’amministrazione uscente riconquistasse quella maggioranza parlamentare dei due terzi che le permette di fare tutto ciò che vuole.
Invece le elezioni si sono decise su temi apparentemente lunari come la minaccia islamica, l’ondata di migranti illegali (in un paese dove le domande d’asilo l’anno scorso sono state appena 3.397), la prospettiva che la barriera sul confine meridionale costruita nel 2015 al culmine della crisi migratoria venisse smantellata (in realtà nessun partito aveva questo punto nel suo programma), i tentativi di distruggere l’identità dell’Ungheria da parte del finanziere George Soros. Questi sono stati i temi ricorrenti e dominanti dei comizi di Viktor Orban e degli altri esponenti di Fidesz, insieme alla assicurazione che la conferma del governo uscente avrebbe salvato l’Ungheria da queste catastrofi. Fra le misure che Orban ha promesso in caso di vittoria alle elezioni spiccava quella di introdurre una legge che tasserebbe pesantemente le donazioni estere alle Ong ungheresi che si occupano di migranti secondo le prospettive e i valori di George Soros anziché quelli del governo ungherese. Gli elettori hanno ascoltato, si sono recati alle urne con una tasso di partecipazione del 68 per cento (quasi 7 punti in più della precedente tornata del 2014) e hanno premiato la coalizione guidata da Orban col 48,9 per cento dei voti.
Perché nell’Ungheria del 2018 la questione delle frontiere e dei migranti è più decisiva per l’esito delle elezioni degli argomenti che riguardano l’operato in bene e in male del governo? Perché la vertenza che si trascina con l’Unione Europa dal 2015, cioè il rifiuto da parte di Budapest di ricollocare 1.294 richiedenti asilo provenienti da Italia e Grecia, è così importante per governanti ed elettori ungheresi? I media e l’establishment dell’Europa Occidentale e Bruxelles agitano gli spauracchi della xenofobia, dell’antisemitismo, delle risorgenze fasciste o della penetrazione strisciante della Russia di Putin. Un misto di arroganza e ignoranza: Viktor Orban è stato dissidente antisovietico, si è laureato con una tesi su Solidarnosc, ha studiato a Oxford grazie a una borsa di studio della fondazione di George Soros (proprio lui!), la sua formazione politica è da sempre affiliata al Partito Popolare Europeo. Non più tardi del 2006 il partito socialista (Mszp) raccoglieva i voti del 43 per cento degli ungheresi: domenica scorso si è fermato a 12,3. Al secondo posto è finito Jobbik, fino a pochi mesi fa impresentabile partito antisemita e criptonazista, ma riabilitato agli occhi delle cancellerie europee da quando ha seppellito l’ascia di guerra contro Bruxelles e si è dato disponibile per una grande alleanza di tutti i partiti ungheresi contro Orban. Jobbik ha ricevuto il 19,3 per cento dei voti. Questo significa che quasi il 70 per cento dei votanti di domenica scorsa sceglie partiti nazionalisti contrari all’immigrazione di massa in Ungheria. Lo si poteva già intuire dal risultato del referendum contro le quote europee di migranti che il governo Orban promosse nel 2016: 3 milioni e 316 mila elettori – cioè 1 milione in più di quelli che avevano votato Fidesz alle elezioni di due anni prima – votarono contro la decisione europea di redistribuire obbligatoriamente anche in Ungheria una parte dei migranti arrivati in Italia e Grecia.
La parola chiave per capire quello che a livello politico succede in Ungheria e in altri paesi dell’Est che hanno aderito alla Ue (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia) non è xenofobia, ma sovranità. L’Ungheria, come gli altri paesi dell’Europa orientale i cui elettorati hanno votato in massa forze nazional-conservatrici o populiste euroscettiche, è una nazione che ha trascorso metà della sua storia sotto il tallone di potenti vicini: nel suo caso ottomani, austriaci, sovietici. Ha perduto popolazione e territorio in conseguenza delle due guerre mondiali. Non ha partecipato a imprese coloniali, non ha praticato l’imperialismo nei confronti dei continenti extraeuropei nel XIX o nel XX secolo, dunque non nutre complessi di colpa verso africani e mediorientali. Ha aderito all’Unione Europea per godere della prosperità e dell’indipendenza che fino ad allora gli erano state per lungo tempo negate. Ora queste nazioni scoprono che il prezzo della prosperità che l’adesione alla Ue ha certamente favorito è la progressiva rinuncia alla propria indipendenza a vantaggio di una integrazione dove tutte le culture e le storie sono tenute a sciogliersi in un’indistinta unità fondata sulla libertà di mercato e sui diritti individualistici.
Liberatisi della dottrina brezneviana della “sovranità limitata”, in base alla quale nessun paese socialista poteva sperare di riavvicinarsi al capitalismo senza che gli altri paesi socialisti, a cominciare dall’Unione Sovietica, intervenissero con le buone o con le cattive per riportarlo all’ovile, oggi i paesi dell’Est si trovano di fronte a una nuova versione di quella dottrina, concepita stavolta a Bruxelles: nessun paese della Ue può opporsi al progetto di sempre maggiore integrazione fra i paesi aderenti, compresa la delicata materia delle politiche dell’immigrazione, senza rischiare di perdere i diritti di voto e i finanziamenti dei Fondi di coesione. Ma questa linea dura contro Budapest e Varsavia che trova ogni giorno nuovi sostenitori in Europa occidentale e a Bruxelles rischia di aggravare la crisi di coesione dell’Unione anziché risolverla. Occorrerebbe invece contemperare i processi di integrazione con la salvaguardia delle identità nazionali. Come scrive il filosofo Mathieu Bock-Côté: «Il diritto alla continuità storica è vitale per un popolo».
Ungheria, l'orrore del passato che l'Europa dimenticaStefano Magni
12 aprile 2018
http://www.lanuovabq.it/it/ungheria-lor ... F.facebook Sui quotidiani italiani è l’ora della (psico)analisi delle elezioni ungheresi dopo la vittoria del conservatore Orban. Quasi tutti dimenticano un "dettaglio": gli elettori votano ricordando anche la repressione comunista, continuata fino al 1989. Una visita a Budapest, sui luoghi del terrore, servirebbe a rinfrescare la memoria degli europei.
Sui quotidiani italiani è l’ora della (psico)analisi delle elezioni ungheresi. E si scava nella storia, come fa il Corriere, intervistando il politologo austriaco Anton Pelinka. Oppure nella psico-politica, come fa Ezio Mauro in prima pagina su Repubblica.
La tesi di Pelinka (È un paese che si sente punito dalla Storia) è, in estrema sintesi, che gli ungheresi si sentono eterne vittime. Dunque il loro voto riflette, non solo le insicurezze di oggi, ma anche le rivendicazioni del secolo scorso, a partire dalla mutilazione del territorio ungherese, a seguito della sconfitta dell’Impero Austro-Ungarico. Pelinka descrive Orban come un “nazionalista” (dunque un revanscista) e non semplicemente come un “conservatore”. La tesi di Ezio Mauro, invece, è meno storica e più politologica. L’ex direttore di Repubblica si chiede quanto potrà resistere la democrazia ungherese, dopo che si è privata di tutti gli elementi di liberalismo che le permettono di funzionare come garante dei diritti dei suoi cittadini. Venuti meno i principi del liberalismo, sacrificati nel nome della sicurezza per paura del diverso e della globalizzazione, potrebbe venir meno la stessa democrazia.
L’intervista e l’editoriale, sulla prima pagina dei due maggiori quotidiani italiani, sono spiegazioni molto parziali. Perché è vero che gli ungheresi odierni sono inclini a sacrificare parte della libertà per la sicurezza. E (forse) possono ancora provare un certo rancore atavico per la sconfitta del 1918. Ma tutti loro portano una grande ferita molto recente che i nostri analisti tendono troppo facilmente a sottovalutare: mezzo secolo di regime comunista imposto dall’Unione Sovietica. L’Ungheria ha avuto, inoltre, la sventura di subire l’occupazione di entrambi i totalitarismi del Novecento, il nazismo prima (1944-1945) e poi il comunismo (dal 1945 al 1989).
Serve rinfrescare la memoria, magari con una visita più approfondita a Budapest, nei luoghi del terrore nero e rosso, per capire quanto profondo sia stato quell’orrore. Il visitatore parta dalla sede del Parlamento, giri a sinistra verso il Ponte delle Catene, sul lungofiume troverà tante paia di scarpe in bronzo. Sono la riproduzione di quelle lasciate dagli ebrei ungheresi, affogati nel Danubio dai nazisti e dai loro collaborazionisti locali, le Croci Frecciate. Ne sono morti più di 20mila così, incatenati fra loro, spinti nelle gelide acque d'inverno, ammazzati in massa per eliminarne il più possibile nel minor tempo. Gli ebrei avevano trovato rifugio in Ungheria fino a quel momento: benché alleato di Hitler contro l’Urss, l’ammiraglio austro-ungarico Miklos Horthy, ufficialmente reggente (in vacanza del trono d’Asburgo), aveva fino a quel momento tenuto lontano gli orrori della persecuzione nazista dai suoi confini. Fino al 15 ottobre del 1944, quando un golpe delle Croci Frecciate, orchestrato dalla Germania nazista, rovesciò il suo potere e stroncò il suo tentativo di uscire dalla guerra con una pace separata. Fra l’ottobre del 1944 e il febbraio del 1945, Budapest venne governata dal più duro dei regimi collaborazionisti e divenne un campo di battaglia fra nazisti e sovietici. Finì rasa al suolo. I nazisti non fecero a tempo a completare il loro sterminio che subito entrarono in scena i nuovi dominatori, i sovietici, con le loro liste nere di cittadini da eliminare.
Il passaggio di consegne da un totalitarismo all’altro è documentato nella Casa del Terrore, poco lontano. Un tetro edificio, ora museo, prima sede delle Croci Frecciate, poi della polizia politica comunista. Fra i due totalitarismi vi era poca differenza: una sezione del museo è dedicata ai trasformisti. Per i militanti delle Croci Frecciate bastava una firma su una dichiarazione di pentimento per diventare militanti comunisti, usati anche per i compiti più sporchi. Erano chiamati i “piccoli nazisti”, perennemente ricattati dal nuovo regime a causa del loro passato, per questo piegati a un’obbedienza più solerte. I nuovi/vecchi aguzzini vennero scatenati nelle campagne, tradizionalmente più conservatrici, ad aizzare i contadini più poveri contro i proprietari terrieri. Il museo della Casa del Terrore documenta ingiustizie, soprusi, lavaggio del cervello fin dall’istruzione elementare, torture, una giustizia completamente sovvertita in cui era il Partito a decidere chi fosse colpevole e perché, senza prove o “lungaggini borghesi”.
Documenta anche la resistenza tenace di un popolo, aggrappato alla sua fede. Fu la Chiesa a costituire la maggior autorità morale che si oppose al regime, non fu piegata dalle continue campagne contro i “clerico-nazisti” come erano spregiativamente chiamati tutti i sacerdoti e tutti i fedeli. Il cardinal József Mindszenty resistette a torture e umiliazioni in pubblico, in carcere gli fu anche vietato di pregare, osservato a vista giorno e notte. Liberato in seguito alla rivolta del 1956, riuscì poi a rifugiarsi presso l’ambasciata statunitense. Dopo il regime rimase vittima della diplomazia vaticana del cardinale Agostino Casaroli, che al suo esempio di resistenza preferì la distensione con i regimi comunisti. Con compromessi destinati al fallimento.
Tutta la storia contemporanea d’Ungheria è una vicenda di abbandono. Nel 1956, quando il paese ebbe la forza di sollevarsi contro il regime comunista, gli occidentali (gli stessi, talvolta anche le stesse persone, che oggi predicano contro la “democrazia illiberale” di Orban), per paura di una guerra con l’Urss, si voltarono dall’altra parte. I comunisti occidentali di allora, incluso il nostro ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, legittimarono la repressione. Il paese venne nuovamente invaso dai sovietici e subì una punizione ancor più dura. I muri della Casa del Terrore sono costellati delle foto delle oltre 250 vittime della repressione del 1956, uomini e donne tuttora scomparsi e privi di una sepoltura. Nei video, proiettati sugli schermi del museo, si possono ascoltare le testimonianze strazianti dei sopravvissuti, gli orrori a cui hanno dovuto assistere.
Poco fuori Budapest, nel Memento Park, si possono ammirare le vestigia del regime comunista: le statue, i nomi delle strade, i bassorilievi che un tempo non lontano ornavano tutta la città. C’è la statua del “piccolo Lenin”, figura educativa per tutti i bambini, che avrebbe dovuto sostituire il Bambin Gesù. C’è quel poco che resta della statua di Stalin: solo gli stivali. Il resto era stato tagliato e distrutto dagli insorti del 1956. Nella sezione al chiuso del Memento Park, il visitatore può assistere ai video originali di addestramento degli agenti della polizia politica: come spiare i cittadini, come riprenderli, come entrare nelle loro case senza essere scoperti, come ricattarli per trasformarli in collaboratori.
Gli ungheresi non vogliono più tornare in quel passato. Hanno recuperato a fatica la loro identità nazionale e la loro storia, proibite fino a poco fa, non ci rinunceranno troppo facilmente. Hanno vissuto sulla loro pelle entrambi i regimi più mortali del Novecento, sanno riconoscerne i sintomi. Pur senza scadere in facili parallelismi, quando in questi anni vedono che le decisioni che li riguardano sono prese a Bruxelles invece che a Budapest, quando realizzano che le scelte sono fatte da una burocrazia non elettiva invece che da un parlamento nazionale eletto, quando si sentono accusati di essere dei “reazionari” da politici stranieri che parlano a nome del “progresso”… non provereste anche voi un brivido di terrore?