Libertà di parola, di pensiero, di critica e di religione

Libertà di parola, di pensiero, di critica e di religione

Messaggioda Berto » gio mar 21, 2019 4:37 am

Non siete più liberi di dire quello che volete. Ora viviamo in una “società giusta”
di Andrew A. Michta

https://www.facebook.com/shar.kisshati/ ... 9216133856

È ora di dirlo: le democrazie in tutto l’Occidente sono in un punto di svolta sulla libertà di espressione e non è chiaro in che modo le cose andranno nei prossimi 20 o 30 anni” scrive lo storico americano Andrew Michta. “In alcuni casi, i governi apparentemente liberali hanno già fatto delle mosse poliziesche e sopprimono ciò che ritengono un discorso inaccettabile. Troppo spesso, sembra non importare ciò che viene detto in una discussione, ma piuttosto chi lo dice e come è detto. E quando le persone esprimono opinioni non ortodosse, è spesso in toni sommessi, per paura che un commento sentito possa uccidere la loro carriera e ostracizzarli dalla società colta (…) L’abbandono di questa fondamentale libertà democratica che è esprimere la propria opinione sembra essere diventata la norma in tutto l’Occidente, come se le nostre élite e governi si precipitassero lungo la strada verso una nuova distopia.

Come siamo arrivati qui? Ormai da decenni la libertà di parlare e di discutere – il diritto fondamentale di un popolo libero – è stata assalita dai sostenitori neo-marxisti di una ‘società più giusta’. Ma è solo di recente che i loro sforzi sono riusciti a chiudere una gamma sempre più ampia di luoghi di dibattito pubblico: prima nel mondo accademico, poi nei media e negli ultimi anni in politica.

Quando la fedeltà ideologica (liberale contro illiberale) è diventata una cartina di tornasole per ciò che costituisce un appropriato discorso pubblico? E come siamo arrivati al punto in cui le espressioni politiche di preoccupazione per il benessere economico e sociale della nazione sono ‘xenofobia’, e dove l’unico lodevole uso del potere americano è quello di abbracciare incondizionatamente la globalizzazione? Perché in Europa oggi la tradizionale generosità dei suoi abitanti è quasi scontata, mentre il desiderio di quella stessa cittadinanza di garantire il proprio benessere e sicurezza e di trasmettere la propria eredità culturale alla generazione successiva è spesso insultato come intolleranza dall’intellighenzia, dai politici e dai media?

Quest’ultima ondata neo-marxista verso la non-libertà è avvenuta nell’arco di una singola generazione, il risultato di uno smantellamento culturale. Ironia della sorte, questo ultimo attacco contro i valori fondanti della nostra tradizione democratica è stato esacerbato dal più grande trionfo ideologico nella storia dell’Occidente e, a ben vedere, anche il nostro momento più pericoloso. L’anno era il 1990 – il primo governo post-comunista era già stato formato in Polonia un anno prima, gli ungheresi avevano aperto i loro confini per permettere ai rifugiati dalla Germania dell’Est di fuggire, e i cechi e gli slovacchi si erano riuniti in piazza Vinceslao per dire alla mafia comunista che era ora di andarsene. Poi il muro di Berlino cadde e i tedeschi trattennero il fiato, sperando contro ogni speranza che il sogno, un tempo impossibile, della riunificazione sarebbe diventato realtà. Il mondo sembrava perfettamente pronto a un nuovo tsunami di libertà. La storia era dalla nostra parte, o almeno così reclamava una pletora di editoriali, articoli accademici e teste parlanti in televisione.

Ora che tutta l’Europa aveva affermato il valore della libertà, non era ovvio che avrebbe conquistato il mondo? Eppure il momento del crollo sovietico portò una minaccia nascosta che, in meno di tre decenni, avrebbe approfondito le nostre divisioni e indebolito le basi della libertà individuale. Il nostro senso di vittoria conteneva al suo interno i semi di un pericolo che l’Occidente non aveva mai affrontato: la certezza ideologica – non solo a sinistra – che avevamo incrinato il codice della condizione umana e potevamo andare avanti con il lavoro di perfezionare l’individuo e la società. Quando non ci fu più l’esperimento tossico dei bolscevichi che costò milioni di vite e creò indicibili miserie umane, la tentazione del trionfalismo si dimostrò troppo seducente. Dal momento che sembrava plausibile a un livello basilare che il capitalismo liberale di mercato avesse sopraffatto il comunismo, ne seguì che non vi erano limiti a ciò che le riforme istituzionali e di mercato potevano conseguire.
Nel suo momento di trionfo, l’Occidente cadde vittima di un’illusione post-illuministica della perfettibilità dell’uomo. Il collasso sovietico ha rafforzato i neo-marxisti e i compagni del progresso in Occidente per volgersi verso l’interno e concentrarsi sul ‘nemico interiore’, cioè, quello del ‘sistema’. Senza un ricordo tangibile di quali sforzi per riprogettare l’umanità aveva prodotto in Europa e altrove, divenne possibile per l’ideologicamente impegnato costruire una narrazione di ciò che il ‘vero socialismo’ avrebbe potuto realizzare se solo gli stalinisti e i maoisti non avessero corrotto il sogno collettivista (…) Sfortunatamente, non è un’esagerazione affermare che la libertà sta calando in tutto l’Occidente, non perché gli eserciti stranieri ci hanno sconfitto in battaglia, o perché tutta la nostra ricchezza è stata prosciugata da un potere economico alieno. Piuttosto, l’Occidente è sempre più a rischio di diventare ‘post-democratico’ perché i suoi valori di base della libertà di espressione e della libertà e della sovranità dell’individuo sono banditi dall’agorà pubblica. L’Occidente si sta frammentando lungo linee razziali, etniche e ideologiche.

Con la libertà di parola sotto l’assalto, l’Occidente, sia come politica che come eredità culturale distinta, è in preda a una battaglia fondamentale per la sopravvivenza delle sue tradizioni democratiche. È tempo per tutti noi di difendere la libertà. E di farlo ad alta voce.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Libertà di parola, di pensiero, di critica e di religion

Messaggioda Berto » ven mar 22, 2019 9:27 pm

Il pericolo per la libertà? Viene dalle università occidentali
Marco Gervasoni
23 Nov 2018

http://www.atlanticoquotidiano.it/quoti ... ccidentali

C’è un luogo in cui la libertà di parola e di pensiero è più minacciata: l’Università. Non stiamo parlando della Turchia, dell’Iran o della Cina. Erdogan, gli ayatollah e i dirigenti del Pc (che starebbe per Partito comunista) non fanno che applicare i vecchi canoni: nelle università non si può criticare il potere politico e quello religioso, e non lo possono fare fuori dalle sue mura neanche docenti e studenti, altrimenti si viene espulsi dall’ateneo e poi si finisce in galera. No, la minaccia alla libertà di cui vogliamo parlare è annidata nelle università del mondo occidentale, laddove essa è, storicamente, cresciuta. Stiamo parlando delle università americane e inglesi, le terre del free speech. Ma vogliamo anche denunciare l’esondazione di tale liquame sul continente e anche da noi, in Italia.

Non vale soffermarsi su singoli e tantissimi casi in cui, in atenei prestigiosi d’oltre oceano e d’oltre manica sono stati intimiditi, minacciati, coartati, quei docenti che osavano criticare il potere, a cui sono stati impediti convegni, e chiuse iniziative, riviste, blog, corsi: fino a chiedere il loro licenziamento, che in alcuni casi è stato ottenuto. Di queste tristi vicende la stampa italica, sempre pronta a trovare la pagliuzza nella trave del nemico e invece assai conciliante con l’amico, tace: ecco perché solo Giulio Meotti su Il Foglio, Francesco Borgonovo su La Verità, e Martino Loiacono su Atlantico, ci informano regolarmente su questa nuova caccia alle streghe. E’ davvero sconcio e intollerabile che Trump e May reprimano la libertà degli atenei! Alt, Wait. La caccia alle streghe di cui stiamo parlando non la promuovono i governi. Semmai, a esser vittima dei nuovi Inquisitori (senza offesa per quelli storici, che erano fior di figure) sono oggi proprio i docenti e gli studenti che simpatizzano per il governo, nel caso americano per Trump. La realtà rovesciata: una volta venivi perseguitato se eri contro il potere politico, oggi se lo difendi.

Il presidente americano incarna il governo federale e anche il potere politico, certo. Ma c’è un altro potere, assai più influente e pericoloso perché pervasivo e non sottomesso a nessuna volontà democratica: il potere dei mandarini della cultura, che hanno occupato in maniera militare negli ultimi decenni i media, i giornali e le università. Gli eredi del commissario politico di staliniana e maoista memoria (molti dei quali maoisti in gioventù) non credono più nel comunismo come i loro padri ma nel progressismo liberal globalista: una fede secolarizzata, una religione politica che non ammette eresia e deviazione dalla linea. Si definiscono liberal o liberali ma la matrice dei loro ragionamenti e delle loro azioni renderebbe orgogliosi Stalin e Mao. I novelli mandarini liberal sono totalitari, ma liberali. Che il totalitarismo non fosse finito nell’Europa occidentale nel 1945 e in quella orientale nel 1989 e che tale modus ragionandi potesse convivere con una forma degenerata di liberalismo, l’hanno spiegato figure diverse come Hannah Arendt, Claude Lefort e soprattuto Augusto Del Noce. Ma ai loro tempi il totalitarismo liberale era solo in nuce e gli studenti e i professori che minacciavano chi non la pensava come loro si rifacevano ad altre tradizioni: Lenin, Stalin, Mao.

La storia è un insieme di processi ciclici, in cui dobbiamo sempre riconoscere gli elementi nuovi presenti in ogni ciclo. E se le contestazioni di fantomatiche organizzazioni studentesche, le complicità dei professori, la vigliaccheria o la malafede dei direttori e dei rettori si erano già viste negli Usa e in Europa occidentale negli anni sessanta e settanta, sbaglierebbe chi volesse interpretare la nuova caccia alle streghe come un semplice coda del passato. Oggi i novelli Inquisitori sono mossi dal culto della identità etnica e di genere, dalla religione politica multiculturalista e dal feticismo dei diritti, che impongono il rifiuto della storia, la battaglia contro la cultura occidentale, giudaico-cristiana, e la sua parificazione a quella dei popoli “sfruttati dall’imperialismo” (quindi Dante o Shakespeare valgono come oscuri poeti africani). E naturalmente la battaglia contro il fascismo, dove fascista è naturalmente chiunque non condivida i precetti della religione politica multiculturalista.

Chi aveva capito dove si stesse andando fu il saggista, e studioso universitario di letteratura, Alain Bloom già nel 1987, con il formidabile “The closing of the American Mind”. Per anni abbiamo creduto (o ci siamo illusi) che la dittatura dell political correctness fosse un caso americano, e pure limitato. Invece non è così. Oggi le facoltà umanistiche di buona parte degli atenei Usa sono dominate da questa dittatura, a cui partecipano, volonterosi o meno, convinti o meno, come carnefici i docenti (se fino a vent’anni fa un professore su tre si definiva conservatore, oggi siamo a uno su dieci). I campus son diventati scuole non di pensiero, ma di dittatura sul pensiero.

Il morbo si è esteso da anni nel Regno Unito, anche per ragioni economiche: molte cattedre sono finanziate da Paesi delle monarchie del Golfo, che però chiedono che l’Islam sia rispettato. Il che vuol dire concretamente, censurare Shakespeare e impedire che qualcuno possa scrivere (persino in una sede scientifica) che il colonialismo britannico in fondo qualche merito positivo l’ha avuto. Ma il controllo occhiuto dei vari Miniluv che devono fare rispettare i principi dell’IngSoc fissati da The Party (nelle università rettori e direttori di dipartimento) si estende anche al di fuori delle mura degli atenei: e invade la vita del docente, controllato in quello che scrive su giornali, social, e persino cosa riporta in conservazioni private! In diversi casi docenti di atenei americani e inglesi sono stati ripresi dai loro cosiddetti “superiori” (che poi non lo sono affatto) perché in una cena privata avevano criticato, chessò, il differenzialismo femministico o peggio avevano confessato di avere votato per Trump. Grazie alla delazione di qualche collega presente a tavola, che ha poi denunciato il misfatto alla organizzazione studentesca, fattasi quindi sentire presso le sfere che contano. “Le vite degli altri”, ma non siamo nella Ddr. Siamo a Princeton, a Oxford, a Parigi, e domani pure a Roma o a Bologna.

Naturalmente, come il Partito di “1984”, anche il nuovo regime del potere totalitario liberale ha fissato delle regole. Sono i codici etici. Norme generiche, regole di condotta a cui il docente dovrebbe attenersi, sempre e comunque, in aula e in biblioteca, nei rapporti con gli studenti ma anche con i suoi vicini di casa, e magari pure all’interno della propria coscienza. Sì, perché ci vogliono convincere che il docente, come un sacerdote, rappresenterebbe l’ateneo e la sua “onorabilità” ovunque, magari anche quando egli si reca alla toilette di casa propria. Cosa dicono queste norme, che un po’ in effetti ricordano lo Stato etico? Che il docente non deve manifestare razzismo, sessimo, pregiudizi alcuni, e deve dimostrare fedeltà alla democrazia. Il problema però è: chi decide se quanto detto o scritto sia razzismo? Quanto alla fedeltà alla democrazia, vogliamo distruggere più di duemila anni di pensiero politico di critica della democrazia? Di Platone non si deve parlare o lo si deve descrivere come il nemico della società aperta, secondo la caricatura che ne diede Popper? Risposta alle tre domande: a decidere cosa sia razzismo e sessismo sono i mandarini, mentre alle altre due domande il responso è un semplice: sì!

Quanto alla norma, essa è generica perché c’è sempre qualcuno che vuole applicare la massima giolittiana: le regole si applicano ai nemici, si interpretano per gli amici. E infatti spesso esse vengono utilizzate per liberarsi di colleghi sgraditi per ragioni di cabale e di piccolo potere accademico. Ma è questione secondaria. La maggior parte dei nuovi Inquisitori del politicamente corretto crede davvero in ciò che fa. Il loro afflato è genuino; pensano seriamente di stare portando la Luce e il Bene sulla Terra, questi novelli gnostici. Proprio come erano in buona fede Stalin, Mao, Pol Pot.

L’epidemia si sta espandendo. In Francia i casi sono già all’ordine del giorno. E in Italia? Anche qui si moltiplicano i segnali preoccupanti. In alcuni atenei si comincia a contestare i docenti perché non sottomessi al culto dei diritti, del gender, della “diversità”, temi su cui si cominciano a organizzare corsi. Così come alcuni Paesi del Medio Oriente prendono anche da noi a finanziare cattedre, che ovviamente non esaltano il lgbitismo, anzi. Ma promuovono un altro tipo di intolleranza, non molto diversa da quella degli adepti della correttezza politica. In questa fase, fautori del multiculturalismo e sostenitori della sharia e della sunna (che in arabo significa appunto codice di comportamento, come i codici etici degli atenei) vanno tatticamente a braccetto. Poi, quando grazie all’appoggio dei primi, i secondi avranno vinto, essi cominceranno a tagliare la lingua ai mandarini del multiculturalismo – in alcuni atenei britannici sta già accadendo.

La minaccia all’Occidente alberga anche e forse soprattutto nelle università occidentali. Chiunque vi si trovi, docente e studente, dovrebbe capire che la libertà di parola e di pensiero è il primo dei nostri valori. E che essa è minacciata dai nuovi mandarini del Big Brother. Quindi non dobbiamo concedere loro nulla, in nome di una malintesa volontà di dialogo o di quieto vivere, e dobbiamo combatterli anche se sono solo all’inizio. Perché una volta che la Bestia sarà cresciuta, tenderà a divorarci anche qui, come sta facendo in America e in Inghilterra.




La più importante e più straordinaria misura firmata da Trump: niente più fondi federali alle università dove non è garantita la libertà di espressione.
La libertà di pensiero e di espressione delle proprie idee è un valore assoluto.



Trump signs executive order to promote free speech on college campuses
https://www.foxnews.com/politics/trump- ... WBqif-fpHQ


Trump signs executive order to promote free speech on college campuses
Adam Shaw

President Trump on Thursday signed an executive order to promote free speech on college campuses by threatening colleges with the loss of federal research funding if they do not protect those rights.

"We’re here to take historic action to defend American students and American values," Trump said, surrounded by conservative student activists at the signing ceremony. "They’ve been under siege."

"Under the guise of speech codes, safe spaces and trigger warnings, these universities have tried to restrict free thought, impose total conformity and shut down the voices of great young Americans like those here today," he said.

FLASHBACK: CONSERVATIVE ACTIVIST ATTACKED ON UC-BERKELEY CAMPUS DURING RECRUITMENT DRIVE

A senior administration official said the order directs 12 grant-making agencies to use their authority in coordination with the White House Office of Management and Budget (OMB) to ensure institutions that receive federal research or education grants promote free speech and free inquiry. White House officials have said it will apply to more than $35 billion in grants.

Public universities seeking funding would have to certify they comply with the First Amendment, which already applies to them. Private universities, which have more flexibility in limiting speech, would need to commit to their own institutional rules.

"Even as universities have received billions and billions of dollars from taxpayers, many have become increasingly hostile to free speech and the First Amendment," Trump said.

TRUMP, ON CPAC STAGE WITH BERKELEY ASSAULT VICTIM, PROMISES EXECUTIVE ORDER ON CAMPUS FREE SPEECH

Trump had announced that such an order was forthcoming at the Conservative Political Action Conference last month, where he said the directive would require colleges and universities to support free speech in exchange for federal research dollars.

He brought on stage Hayden Williams, a conservative activist who was attacked while working a recruitment table on campus at the University of California-Berkeley. The video quickly went viral, with conservatives citing it as further evidence of the stifling and sometimes-violent atmosphere that conservatives face on campus.

OPINION: TRUMP ORDER PROTECTING CAMPUS FREE SPEECH IS RIGHT RESPONSE TO BERKELEY ASSAULT

“He took a punch for all of us,” Trump said of Williams. “And we could never allow that to happen. And here is, in closing with Hayden, here’s the good news. He’s going to be a wealthy young man.”

“If they want our dollars, and we give it to them by the billions, they’ve got to allow people like Hayden and many other great young people and old people to speak,” Trump said. “Free speech. If they don’t, it will be costly. That will be signed soon.”

Talk show host Dennis Prager, who appears in an upcoming documentary called "No Safe Spaces," said Thursday: "It's tragic that in the one country that was founded on liberty--the country that enshrined freedom of speech in its foundational document--this executive order has become necessary. But, thanks to the left, it has. If President Trump can put a stop to the intolerance of non-leftist viewpoints on college campuses and help steer the country in the right direction, there just might be hope."

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Conservative commentators such as Ann Coulter and Ben Shapiro have faced hostile atmospheres when trying to speak at universities -- particularly Berkeley, where Coulter was forced to pull out of speaking and Shapiro faced protests that required police in full riot gear and intense security measures.

White House officials declined to provide specific examples about how universities could lose funding and said implementation details will be finalized in coming months.

Fox News’ Kellianne Jones, Robert Gearty and The Associated Press contributed to this report.




L'ordine esecutivo dei segni di trionfo per promuovere la libertà di parola nei campus universitari
Adam Shaw

Il presidente Trump giovedì ha firmato un ordine esecutivo per promuovere la libertà di parola nei campus universitari minacciando le università con la perdita dei finanziamenti federali per la ricerca se non proteggono quei diritti.

"Siamo qui per intraprendere un'azione storica per difendere gli studenti americani e i valori americani", ha detto Trump, circondato da studenti attivisti conservatori alla cerimonia della firma. "Sono stati sotto assedio".

"Con il pretesto di codici di parola, spazi sicuri e allarmi, queste università hanno cercato di limitare la libertà di pensiero, imporre la totale conformità e chiudere le voci di grandi giovani americani come quelli di oggi", ha detto.

FLASHBACK: UN ATTIVISTA CONSERVATORE HA ATTACCATO IL CAMPUS DI UC-BERKELEY DURANTE LA CAMPAGNA DI RECLUTAMENTO".

Un alto funzionario dell'amministrazione ha detto che l'ordine dirige 12 agenzie che fanno le sovvenzioni per usare la loro autorità in coordinamento con l'Ufficio di gestione e bilancio della Casa Bianca (OMB) per garantire che le istituzioni che ricevono sovvenzioni federali per la ricerca o l'istruzione promuovano la libertà di parola e la libera inchiesta. I funzionari della Casa Bianca hanno detto che si applicherà a più di 35 miliardi di dollari in sovvenzioni.

Le università pubbliche in cerca di finanziamenti dovrebbero certificare che sono conformi al Primo Emendamento, che si applica già a loro. Le università private, che hanno una maggiore flessibilità nel limitare la parola, dovrebbero impegnarsi a rispettare le proprie regole istituzionali.

"Anche se le università hanno ricevuto miliardi e miliardi di dollari dai contribuenti, molte sono diventate sempre più ostili alla libertà di parola e al primo emendamento", ha detto Trump.

TROMBA, SULLA FASE CPAC CON VITTIMA D'ASSALTO BERKELEY, PROMETTE ORDINE ESECUTIVO SUL CAMPUS LIBERTÀ DI PAROLA.

Trump aveva annunciato che tale ordine era imminente alla Conferenza di azione politica conservatrice del mese scorso, dove ha detto che la direttiva avrebbe richiesto a college e università di sostenere la libertà di parola in cambio dei dollari federali per la ricerca.

Ha portato sul palco Hayden Williams, un attivista conservatore che è stato attaccato mentre lavorava a un tavolo di reclutamento nel campus della University of California-Berkeley. Il video è diventato rapidamente virale, con i conservatori che lo citano come ulteriore prova dell'atmosfera soffocante e talvolta violenta che i conservatori affrontano nel campus.

OPINIONE: L'ORDINE VINCENTE CHE PROTEGGE LA LIBERTÀ DI PAROLA DEL CAMPUS È LA GIUSTA RISPOSTA ALL'ASSALTO DI BERKELEY.

"Ha preso un pugno per tutti noi", disse Trump di Williams. E non potevamo permettere che ciò accadesse". Ed ecco, in chiusura con Hayden, ecco la buona notizia. Sarà un giovane ricco".

"Se vogliono i nostri dollari, e noi glieli diamo per miliardi, devono permettere a persone come Hayden e a molti altri grandi giovani e anziani di parlare", ha detto Trump. Libertà di parola". Se non lo fanno, sarà costoso. Questo sarà firmato presto".

Il conduttore di Talk show Dennis Prager, che appare in un prossimo documentario intitolato "No Safe Spaces", ha detto giovedì: "È tragico che nell'unico paese fondato sulla libertà - il paese che ha sancito la libertà di parola nel suo documento di base - questo ordine esecutivo è diventato necessario. Ma, grazie alla sinistra, lo ha fatto. Se il presidente Trump può porre fine all'intolleranza dei punti di vista non di sinistra nei campus universitari e aiutare a guidare il Paese nella giusta direzione, potrebbe esserci una speranza".

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I commentatori conservatori come Ann Coulter e Ben Shapiro hanno affrontato atmosfere ostili quando hanno cercato di parlare nelle università - in particolare a Berkeley, dove Coulter è stato costretto a ritirarsi dal parlare e Shapiro ha affrontato proteste che hanno richiesto la polizia in piena attrezzatura antisommossa e intense misure di sicurezza.

I funzionari della Casa Bianca hanno rifiutato di fornire esempi specifici su come le università potrebbero perdere i finanziamenti e hanno detto che i dettagli di implementazione saranno finalizzati nei prossimi mesi.

Fox News' Kellianne Jones, Robert Gearty e The Associated Press hanno contribuito a questo rapporto.



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Libertà di parola, di pensiero, di critica e di religione

Messaggioda Berto » mer gen 22, 2020 4:47 pm

Criticare l'Islam è una necessità vitale primaria, un dovere civile universale prima ancora che un diritto umano;
poiché l'Islam è il nazismo maomettano.
Non va solo criticato ma denunciato, contrastato, perseguito e bandito.
http://www.filarveneto.eu/forum/viewtop ... 188&t=2811




Dire le cose:

Maometto fu un ignorante, presuntuoso, invasato, esaltato, idolatra che si inventò il suo dio Allah tratto dagli idoli della Mecca, un dio-idolo dell'orrore, del terrore e di morte,
uno che abusò della credulità popolare e che poi si impose con la minaccia, l'intimidazione, il ricatto, la violenza (che non fu affatto per legittima difesa come raccontrano i suoi seguaci per giustificarsi ma fu predatoria, aggressiva, sopraffatrice, assassina);
fu un bugiardo, un ladro, un razziatore rapinatore, sequestratore e ricattatore, schiavista, assassino e sterminatore;
fu un razzista al massimo grado che discriminò chiunque non si sottomettesse a lui e al suo idolo e che depredò, cacciò e sterminò ebrei, cristiani, zoroastriani e ogni diversamente religioso, areligioso e pensante che gli si contrapponesse e non si sottomettesse;
invase, depredò, ridusse in schiavitù e fece strage nei paesi altrui imponendo con la minaccia la sua politica e la sua criminale ideologia-teologia religiosa imperialista e totalitaria;
indusse al suicidio, all'omicidio e allo sterminio e fece dire al suo idolo, dettandolo ai suoi seguaci, ciò che poi
fu scritto nel Corano e che da 1400 anni induce e istiga alla violenza, alla discriminazione, alla falsità, alla minaccia, alla depredazione, al disprezzo degli altri non maomettani, alla riduzione in schiavitù e alla dhimmitudine, all'omicidio, al suicidio-omicidio, all'assassinio e allo sterminio di ogni diversamente religioso, areligioso e pensante della terra che non si sottometta ai suoi seguaci e al loro orrendo idolo Allah.

Le uniche ideologie-teologie-pratiche politico-religiose ammesse e accettabili nei paesi civili sono o dovrebbero essere esclusivamente quelle che non violano i valori, i doveri e diritti umani naturali universali, civili e politici e che sono con essi completamente compatibili:
quindi
non debbono essere violente, minacciose, intimidatorie, costrittive, ricattatorie;
non debbono promuovere e indurre alla discriminazione, alla depredazione, al disprezzo, alla schiavitù, alla dhimmitudine, all'odio, al suicidio, all'omicido, allo sterminio;
non debbono trasformare gli uomini in mostruosità acritiche, fanatiche, ossessionate, criminali, disumane;
non debbono generare conflitti etnici, civili, religiosi e politici sia nazionali che internazionali;
non debbono come esempi esaltare figure criminali di assassini, predatori, bugiardi, sterminatori, invasati;
devono promuovere la pace, la fratellanza, la responsabilità, la proprietà, la libertà di parola di pensiero e di critica, la solidarietà volontaria e non forzata;
debbono rispettare i paesi, i popoli, le comunità, le etnie, le culture, le tradizioni e accettare tutte le diversità che promuovono la vita e il bene e che sono compatibili con i valori, i doveri e diritti umani naturali universali, civili e politici.
Se il nazismo hitleriano e Hitler rientrano in questa casistica e vanno giustamente banditi dal consesso civile, allo stesso modo dovrebbero essere banditi anche il nazismo maomettano e Maometto perché sono mille volte peggio.

Santificare Maometto, il suo idolo Allah e il Corano è santificare il male, un mettersi dalla parte di ciò che di più maligno esista sulla faccia della terra.
Santificare Maometto, il suo idolo Allah e il Corano dichiarandoli elevatori di spiritualità e portatori di umanità, di amore, di pace, di fratellanza, di giustizia, di cultura e di civiltà significa ingannare e illudere l'umanità intera specialmente quella che soffre a causa dell'Islam e che vorrebbe potersi difendere e liberare da tutto ciò;
Santificare Maometto, il suo idolo Allah e il Corano è farsi demenzialmente, irresponsabilmente e vilmente complici del male, e costituisce di per sé un grave crimine contro l'umanità.



I mussulmani cosidetti moderati e l'Islam buono non esistono
http://www.filarveneto.eu/forum/viewtop ... 188&t=2808


Solo coloro che mettono in discussione e criticano apertamente Maometto e il Corano sono credibili e tutti costoro sono eslusivamente ex mussulmani, apostati;
tutti gli altri cosidetti moderati o buoni non mettono mai in discussione né Maometto, né il Corano e anche se normalmente in occidente tengono comportamenti tolleranti e rispettosi delle leggi e dei non mussulmani, laddove però diventano massa islamica e massa preponderante perdono ogni tolleranza e rispetto e diventano come tutti gli ìntegralisti e fondamentalisti o per adesione/induzione naturale o per paura di essere accusati di eresia e apostasia o per semplice opportunismo.

L'unico modo che abbiamo per aiutarci e aiutare il Mondo a liberarsi del nazismo maomettano è quello di dire la verità, sempre e ovunque e di criticare Maometto, il suomidoloAllah e il Corano,
se si tralascia di dire la verità e di criticare questi due fondamenti dell'islam non se ne viene fuori;
non esiste altro metodo a costo di scatenare la rabbia e la violenza dei nazi maomettani, bisogna metterli davanti a se stessi e alle mostruosità dell'Islam, di Maometto e del Corano.

Far finta di niente, lasciar correre, negare la malignità dell'Islam, il santificare il maomettismo come se fosse altro dal nazismo maomettano come ha fatto e fa Bergoglio e come fanno i demosinistri è da irresponsabili, o demenziale o altrettanto criminale del nazismo maomettano di cui tale atteggiamento si fa complice e promotore quando addirittura non lo giustifica colpevolizzando l'occidente europeo e americano, il cristianismo, Israele e gli ebrei.



Maometto, il Corano, Allah e i maomettani cos'hanno di buono? Nulla!
Ma cosa mai hanno da rivelare, insegnare e da trasmettere di buono, di vero, di giusto e di bello Maometto, il Corano, Allah e i maomettani, all'umanità intera e ai non maomettani? Nulla assolutamente nulla!
https://www.facebook.com/alberto.pento/ ... 6123975281
http://www.filarveneto.eu/forum/viewtop ... 188&t=2850

Prendo lo spunto da questa frase attribuita all'imperatore bizantino Manuele II Paleologo del 14° secolo:
"Mostrami pure ciò che Maometto ha portato di nuovo, e vi troverai soltanto delle cose cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere per mezzo della spada la fede che egli predicava"



Criminali e irresponsabili difensori dell'Islam o nazismo maomettano
http://www.filarveneto.eu/forum/viewtop ... 188&t=2263

Immagine
https://www.filarveneto.eu/wp-content/u ... Arabia.jpg



Caso Iran e i difensori della sua orrida dittatura teocratica nazi maomettana, demosinistri cristiani bergogliani e internazi comunisti, destrorsi fascisti e nazisti, antiamericani e antisraeliani (versione moderna dell'antisemitismo/antigiudaismo).

Dalla parte del male ci sta solo il male e non il bene
viewtopic.php?f=188&t=2893
https://www.facebook.com/alberto.pento/ ... 8930464054
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Messaggioda Berto » mer gen 22, 2020 4:48 pm

Il profeta pericoloso.
novembre 15, 2015
Traduzione dell’articolo di Hamed Abdel-Samad pubblicato qui. Abdel-Samad è uno scrittore di origine egiziana naturalizzato tedesco. Figlio di un imam sunnita e un tempo membro dei Fratelli Musulmani, ora è dichiaratamente ateo.

https://wrongdoers.wordpress.com/2015/1 ... pericoloso

Molti mussulmani sono tuttoggi prigionieri della figura misteriosa di Muhammad, il quale visse nel VII secolo. Ma anche il Muhammad storico è un prigioniero: dell’eccesso di venerazione da parte dei mussulmani e della loro pretesa che sia un personaggio intoccabile. L’onnipresenza del profeta nell’istruzione e nella politica e l’esagerata enfasi che si dà alla componente religiosa in molte società islamiche impediscono di poter ricorrere ad altri esempi in base ai quali formare la propria identità. Ogni cosa risale a lui, la sua presenza aleggia dappertutto e determina la quotidianità dei cittadini, politici e teologi mussulmani. Al contempo, il legame emotivo dei mussulmani con Muhammad e la sconsiderata sovrastima del profeta impediscono un confronto storico-critico col fondatore dell’islam.

Quand’ero ancora un fervente mussulmano, pensavo di conoscere tutto su Muhammad, solo perché avevo letto la sua biografia, il Corano e i suoi numerosi hadith (i suoi detti extra-coranici). Tuttavia, come studioso, era necessario che stabilissi una certa distanza critica. Quanto piú mi occupavo di Muhammad, tanto piú mi sembrava di avere in mano un mazzo di tarocchi. Alcune di queste carte davano fiducia e speranza, mentre altre erano terrificanti. Qui appariva come il predicatore meccano dedito all’argomentazione etica, altrove come l’intollerante signore della guerra medinese. Qui come l’essere umano che raccomandava la compassione ed il perdono, altrove come il criminale genocida ed il tiranno psicolabile.

Per tale ragione, non avevo intenzione di scrivere una nuova biografia di Muhammad, quanto, invece, di adottare un approccio del tutto personale alla sua vita, per arrivare ad una specie di resa dei conti. A tale scopo, non mi baso solo su canoni di valutazione odierni, ma anche su criteri morali e sociali di quel tempo, dacché, anche dal punto di vista dei suoi contemporanei, Muhammad ha compiuto molte azioni deprecabili. Inoltre, mi sforzo di capire le ragioni politiche e psicologiche delle sue azioni.

La bramosia di potere e di riconoscimento.

Muhammad era un orfano che non crebbe con la propria famiglia, ma fu nvece allevato da beduini estranei. Tornato alla Mecca, pascolava come schiavo le capre della propria tribú, dalla quale, evidentemente, non veniva preso molto in considerazione. Gli mancarono non solo l’amore e la cura dei genitori, ma anche figure di riferimento. Al ruolo di guerriero solitario era predestinato dalla nascita. Piú avanti, sposò una ricca vedova e nell’impresa di lei divenne un carovaniere di successo. Era benestante e fortunato. Eppure, all’età di 40 anni precipitò improvvisamente in una crisi esistenziale. Vagava da solo per il deserto, meditava in una caverna, aveva visioni e sosteneva che le pietre gli avrebbero parlato. Soffriva di crisi d’ansia e contemplava il suicidio. E credeva che una rivelazione gli sarebbe stata inviata dal Cielo.

Una seconda svolta nella vita di Muhammad fu segnata dalla sua emigrazione a Medina. Lí non solo venne fondato il primo stato islamico, ma si manifestò altresí il profeta violento che per i propri scopi passava anche sul cadavere del prossimo. La differenza fra il Muhammad della Mecca e il Muhammad di Medina è la stessa che passa fra il giovane Lenin teorico marxista e il Lenin capo di stato sovietico. Dopo la conquista del potere, i principi un tempo tenuti in alta considerazione finirono sempre piú sullo sfondo: la logica del potere e la paura del tradimento determinarono quasi tutto. Alle guerre dovettero seguire altre guerre e Muhammad iniziò un’ondata di conquiste ineguagliate che segnano il mondo ancor oggi.

La sua personalità ambivalente si vede anche dalle relazioni con le donne. Non si comportava come un tiranno, bensí piuttosto come un bambino che soffriva di paura della perdita, cosa che influisce tuttoggi sulla condizione delle donne mussulmane. L’imposizione del velo, la poligamia e l’oppressione sono da imputare alle paure di Muhammad. Tuttavia, parlò anche molto positivamente delle donne, al punto che alcuni mussulmani pensano che lui, le donne, le abbia liberate.

Muhammad bramava potere e riconoscimento e li cercò sia presso le donne che in guerra. Soltanto negli ultimi otto anni della sua vita combatté piú di 80 guerre. Ma fu solo all’ombra delle spade che ottenne il riconoscimento cui aveva sempre ambito. Però piú diventava potente, piú era dominato dal suo stesso potere. Piú nemici eliminava, piú cresceva la sua paranoia. A Medina controllava i propri seguaci ad ogni passo. Tentava di regolare e di tenere tutto sotto controllo, persino il loro ciclo del sonno. Li radunava cinque volte al giorno per pregare e, in tal modo, assicurarsi della loro fedeltà. Li metteva in guardia dai tormenti dell’inferno. I peccatori venivano fustigati. I bestemmiatori e gli apostati uccisi. Ciò che era peccato, lo decretava lui.

Un emarginato pieno di risentimento come signore della guerra.

Le ultime sure del Corano, con l’esaltazione della guerra e la condanna dei miscredenti, piantarono il seme dell’intolleranza. Siccome il Corano è ritenuto l’eterna parola di dio che ha valore in tutti i tempi, gli islamisti odierni interpretano i passi relativi alla guerra come legittimazione del proprio jihad globale. Muhammad promise ai propri guerrieri non soltanto il paradiso eterno, ma anche ricche ricompense e belle donne da tenere come schiave già in questo mondo. Quello fu il giorno in cui nacque l’economia islamica. Dopo la morte di Muhammad, le spoglie di guerra, la tratta degli schiavi e l’introduzione del testatico (ovvero jizya, NdT) sugli infedeli rimasero ancora per secoli le fonti principali di entrate dei regnanti mussulmani. Umayyadi, Abbasidi, Fatimidi, Mammelucchi ed Ottomani si rifacevano a Muhammad in questo senso. Al giorno d’oggi il gruppo terroristico dell’ISIS giustifica le proprie azioni di guerra in base alla carriera del profeta, il quale decapitava i prigionieri di guerra ed espelleva gli infedeli dalle proprie dimore.

Eppure, anche nei panni di signore della guerra, Muhammad rimase in un certo senso un bambino. Era un emarginato risentito ed emotivo, un uomo perennemente deluso dal mondo. Sia da pastore che da commerciante, sia da predicatore che da generale, Muhammad era alla continua ricerca di un rifugio. Questo rifugio poteva essere rappresentato da Khadija (la sua prima moglie) o dalle lettere del Corano, oppure dagli uomini credenti o, ancora, dalle sue mogli affettuose. Alla fine, il campo di battaglia divenne la sua ultima casa.

Muhammad morí 1400 anni fa, ma non è mai stato definitivamente sepolto. Ha lasciato in eredità un sistema di regole che determina ancora oggi ogni faccenda nella vita quotidiana dei mussulmani. I suoi approcci sociali del periodo meccano offrono conforto e sono benefici. Le sue guerre del periodo medinese giustificano la violenza. Ha trasmesso ai mussulmani tratti della propria personalità che si potrebbero definire patologici: delirio di onnipotenza e megalomania, paranoia e manie di persecuzione, incapacità di gestire la critica e disturbi ossessivi-compulsivi. La migliore valutazione che Muhammad potrebbe ricevere oggi sarebbe quella di essere visto per l’essere umano che era e di superare la fede nella sua onnipotenza. In altre parole, andrebbe sotterrato un idolo pericoloso.

Che cosa fa un bambino che riceve poca considerazione? Che cosa fa un uomo che non viene riconosciuto dalla propria comunità? Cerca di integrarsi in una comunità piú significativa di quella cui apparteneva originariamente. Oggi, il figlio di immigrati che vive a Dinslaken e che ha a malapena qualche connessione tanto con le proprie radici turche quanto con l’ambiente tedesco circostante e che si sente costantemente escluso, probabilmente va alla ricerca di una comunità immaginaria chiamata umma, ovvero la comunità di tutti i credenti mussulmani. Il giovane trova certi gruppi radicali, che rappresentano solo una frazione della grande identità islamica, in internet e ai margini delle comunità islamiche. Si identifica con le sofferenze e l’oppressione dei mussulmani in luoghi sconosciuti del mondo. Abbandona il vecchio mondo che l’ha ferito e parte per la Siria per divenire parte dell’utopica umma. Taglia la gola agli infedeli e sogna di conquistare un giorno la Germania per vendicarsi.

Metodi mafiosi.

Una vicenda sviluppatasi in tale modo potrebbe essersi verificata anche 1400 anni fa: Muhammad era uno straniero in patria. Il suo clan l’aveva misconosciuto e ferito. Si diede ad una fuga metafisica, alla ricerca di un’identità piú grande. La reazione alla figura di Abramo fu l’inizio. Muhammad non vedeva Abramo solo in qualità di modello, in relazione al monoteismo, bensí anche come progenitore carnale. Nel Corano chiama Abramo umma (16:120, NdT), cioè nazione. Ad Abramo Muhammad giunge attraverso Ismaele, il figlio di Abramo, il quale è stato quasi ignorato nella Bibbia. Muhammad vedeva se stesso come un eletto ed Ismaele come anticipatore di tale elezione. Muhammad diventava furioso se qualcuno contestava la sua affinità con Ismaele, dato che la cosa avrebbe potuto spezzare il suo legame con Abramo e, quindi, distruggere il mito fondante dell’islam.

Gli odierni riformisti dell’islam sostengono che l’islam sarebbe nato come rivoluzione morale e sociale contro l’ingiustizia che regnava in Arabia e che si sarebbe trasformato in una religione guerresca durante il periodo umayyade. I simpatizzanti della mafia argomentano in modo simile, asserendo che la mafia si sarebbe originata come movimento di resistenza al dominio straniero francese. Secondo loro, la parola mafia sarebbe un acronimo di Morte Alla Francia Italia Anela. Tuttavia, la mafia non è mai stata un’organizzazione fondata sull’onestà. Anche l’islam è nato come confraternita giurata unita da una profonda diffidenza per quanti non appartenevano alla famiglia o al clan. L’islam descrive la prima comunità di mussulmani in questo modo: Muhammad è l’inviato di dio e coloro che sono con lui sono spietati con gli infedeli, ma misericordiosi gli uni con gli altri (48:29, NdT). Si è gentili gli uni con gli altri, ma con i nemici si è senza pietà. Un soldato di Muhammad poteva piangere per timore reverenziale durante la preghiera e pochi minuti piú tardi decapitare un infedele. Similmente, in chiesa un mafioso può ascoltare devotamente una predica sull’amore per il prossimo e poco dopo sparare ad un uomo in mezzo alla strada.

Ancora un parallelo: il capo dei capi non può essere né contraddetto né criticato. Un bacio sulla mano simboleggia la fedeltà dei membri e la loro cieca dedizione a costui. Muhammad non accettava scuse dai propri seguaci quando si trattava di partecipare alla preghiera o ad una delle sue guerre. Disse: nessuno sarà mai un vero credente se non ama me piú dei propri genitori, dei propri figli e di chiunque altro (In Bukhari, qui; in Sunan ibn Majah, qui, NdT).

L’islam: una confraternita giurata legata da una profonda diffidenza per chi non vi appartiene.

Certamente, anche i despoti sono semplici uomini. Spesso la loro vita privata non si accorda alla loro immagine di monarchi assoluti. Una persona che decida costantemente chi deve vivere o morire potrà essere talvolta debole. Anche il profeta Muhammad era sopraffatto dal proprio potere. Piú diventava potente, piú diventava solo. Piú invecchiava, piú il suo comportamento nei confronti delle donne si dimostrava immaturo: a volte era amorevole, altre volte era duro, spesso insicuro e geloso. Impose loro il velo integrale, limitò la loro libertà di movimento e permise loro di parlare con gli uomini solo se separate da una parete che li dividesse.

Il problema di Muhammad con le donne.

Verso la fine della propria vita, Muhammad trattava le donne come oggetti da collezionare a piacere. Alla prima moglie Khadija ne seguirono altre undici, nove delle quali vissero con lui contemporaneamente nella stessa casa. Oltre a quelle, ci furono altre 14 donne con le quali sottoscrisse un contratto di matrimonio, ma senza consumare fisicamente l’unione. In piú ci furono due dozzine di donne con le quali fu fidanzato. Senza dimenticare le sue schiave, parte del bottino di guerra o ricevute in dono. Muhammad fu possessivo persino dopo la propria morte e proibí alle proprie mogli di contrarre matrimonio con altri uomini dopo la sua scomparsa. Dev’essere stato particolarmente difficile da sopportare per la giovane moglie ‘A’isha, dato che, secondo le fonti islamiche, divenne vedova all’età di 18 anni.

Quando Muhammad sposò ‘A’isha, lei aveva appena sei anni. Per secoli il matrimonio di ragazze minorenni è stato legittimato grazie al matrimonio di Muhammad con ‘A’isha. Oggigiorno è piuttosto imbarazzate per molti mussulmani moderati riconoscere che il loro profeta ha sposato una bambina di sei anni e perciò cercano disperatamente di cambiare argomento. Molti ricordano che lui la sposò solo formalmente, quando lei aveva sei anni, ma che consumò il rapporto sessuale tre anni piú tardi. Secondo gli apologeti ciò significa che a quel tempo alcune bambine di nove anni sarebbero state precocemente mature. La cosa si può contestare: innanzitutto, è ‘A’isha stessa ad affermare che gli approcci di Muhammad furono di tipo sessuale sin da principio e che lui fece praticamente di tutto con lei, eccetto che penetrarla. In secondo luogo, una ragazzina di nove anni è solamente una ragazzina di nove anni ed ora come allora solamente una bambina. Ai tempi di Muhammad non era per nulla normale che un uomo sposasse una bambina.

Nonostante il grande affetto per ‘A’isha, Muhammad sposò in media una nuova donna quasi ogni sei mesi. Piú in là, l’infedeltà divenne per lui un grosso problema. Di conseguenza, non solo venne imposta la norma del velo integrale, ma vennero introdotte anche nuove leggi per contrastare l’adulterio: chi praticava la fornicazione veniva punito con cento nerbate. Chi commetteva adulterio veniva lapidato a morte. Ancora oggi le donne in Iraq, Siria e Nigeria vengono trattate come bottino di guerra e subiscono violenza fisica quasi dappertutto nel mondo islamico. Nelle società islamiche gli attacchi con l’acido contro le donne che non portano il velo, le mutilazioni genitali, le lapidazioni ed i delitti d’onore rappresentano le forme piú brutali di misoginia. Non si può ritenere che Muhammad ed il Corano siano gli unici responsabili di tutto ciò, ma a tutto questa situazione hanno dato un grosso contributo.

Stando al Corano, la donna ha innanzitutto una funzione da compiere nella comunità islamica: quella di procurare sollievo all’uomo. Prima che i guerriglieri dell’ISIS riuscissero a catturare le donne yezidi e cristiane per usarle come schiave sessuali, i giovani in Siria venivano reclutati con l’assicurazione che lí il jihad del sesso era permesso. Di converso, mussulmane da ogni angolo del mondo, soprattutto dal Nord Africa, si offrono ai jihadisti. I dotti sunniti che sostengono il jihad del sesso, si richiamano al profeta, il quale permise ai propri soldati di contrarre matrimoni di piacere durante le lunghe guerre. In questo caso, la questione non c’entra con l’etica, in quanto si ha a che fare con un principio piú elevato: il jihad.

E, allora, a che cosa somiglia il paradiso? Il paradiso islamico non è altro che un bordello celeste nel quale ad ogni martire spettano 72 vergini e, oltre a queste, 70 servitrici ciascuno. Il teologo medievale al-Suyuti scrisse: dopo che abbiamo dormito con una houri, lei si trasforma nuovamente in una vergine. Il pene di un mussulmano non si affloscia mai. L’erezione dura in eterno ed il piacere dell’unione è infinitamente dolce e non è di questo mondo. Ogni eletto avrà 70 houri, oltre alle mogli che aveva in terra. Tutte loro avranno una vagina deliziosa.

Perché nel XXI secolo Muhammad deve ancora decidere chi può amare o sposare chi e che cosa deve fare, mangire o indossare?

Pochissime parole in arabo hanno piú sinonimi di quella che significa rapporto sessuale. E la maggior parte di queste parole non descrivono un atto d’amore, ma una forma di violenza. Nel primo dizionario della storia araba, il Lisan al-arab dell’anno 1290, alla voce nikah si trovano i seguenti significati: montare, dibattersi, assalire, colpire, violare, esaurire, scoccare, stare insieme, picchiare, calcare, cadere, crollare, penetrare, aggredire, infilare, ululare.

Muhammad stesso non era particolarmente misogino per i suoi tempi. Si espresse piú volte positivamente a proposito delle donne ed esortò i suoi seguaci a trattare amorevolmente le proprie mogli. Inoltre, non ci sono notizie del fatto che lui stesso abbia mai picchiato le mogli. Ciononostante nel Corano ha reso eterno il diritto di un uomo di picchiare la moglie quando lei sia ostinata. Purtroppo, oggi risulta difficile persino ad alcuni mussulmani moderati dire: picchiare le donne è sbagliato senza se e senza ma, indipendentemente da quanto scritto nel Corano. Invece, si cita il profeta lí dove prescriveva che i colpi non dovevano lasciare segni e che il volto della donna doveva essere risparmiato dalle percosse.

Paranoia e mania del controllo.

Il profeta godeva di potere ed influenza nel mondo dal quale era nato. Però perché deve mantenere lo stesso potere e la stessa influenza in un mondo che lui non ha mai conosciuto? Perché nel XXI secolo Muhammad deve ancora decidere chi può amare o sposare chi e che cosa si deve fare, mangiare o indossare? Perché i mussulmani si infilano in questa trappola della storia?

Si può accusare Muhammad di molte cose, ma non del fatto che fosse un bugiardo: il suo fervore, la sua capacità di provare sofferenza e la sua perseveranza dimostrano che era convinto di aver ricevuto messaggi di origine divina. Desiderava che un potere piú alto lo assistesse. All’iinizio cercava la liberazione, ma alla fine divenne egli stesso un prigioniero. Un maniaco del controllo. Non solo l’idea che aveva di dio riflette questo fatto: molti rituali islamici sono caratterizzati da ripetizioni senza senso, ad esempio le prostrazioni della preghiera o le abluzioni rituali. In pratica, anche nelle regioni piú aride, ogni mussulmano doveva lavarsi cinque volte al giorno per la preghiera, bagnandosi ogni parte del corpo per tre volte. Se non ci fosse stata acqua a disposizione, ci si doveva pulire simbolicamente con la sabbia. Muhammad informò i propri seguaci che dio avrebbe bruciato i luoghi del corpo non detersi dall’acqua o dalla sabbia nel giorno del giudizio (in Bukhari, qui, NdT).

Probabilmente era ossessionato dalla pulizia, un disturbo causato sia dal senso di colpa che dalla mania di controllo. Ancora al giorno d’oggi un mussulmano deve lavarsi per la preghiera se prima ha dato la mano ad una donna. In una moschea si deve entrare col piede destro, mentre nella toilette si deve entrare col piede sinistro. Il mussulmano deve recitare una preghiera prima di andare al bagno per proteggersi dai demoni malvagi che sono in agguato in gabinetto. All’uscita è d’uopo recitare un’altra preghiera e si deve ringraziare Allah per essere scampati agli spiriti malvagi. La lista dei precetti che intralciano il mussulmano nell’organizzazione autonoma della propria giornata si potrebbe riempire di innumerevoli esempi.

Per essere un buon mussulmano, il credente deve imitare il profeta in tutto e per tutto. L’autonomia decisoria, la flessibilità e la creatività non sono previste. Agli odierni chierici islamici conservatori si presenta la possibilità di esercitare il proprio potere sui mussulmani. Interi programmi televisivi hanno come scopo di rispondere alle domande dei credenti per agire secondo l’esempio del profeta. Il problema qui non sta tanto nello sforzo di comportarsi in modo ritualmente corretto, quanto nel fatto che è sotteso che tutti coloro che non si attengono ai precetti illustrati sono peccatori impuri. Al giorno d’oggi i sensi di colpa ed il desiderio di espiazione sono i principali motori della radicalizzazione. Gli islamisti si considerano gli autentici eredi del profeta.

Amare la morte piú della vita.

Chi si sopravvaluta, spesso sopravvaluta anche l’ostilità di quanti lo circondano. La tradizione islamica antica conta ben 15 complotti per assassinare il profeta ai quali egli sarebbe sopravvissuto: tre orditi da arabi pagani e dodici da ebrei. Sebbene nel Corano sia scritto che dio ha suddiviso l’umanità in popoli affinché si conoscano l’un l’altro (49:13, NdT), Muhammad profetizzò: i popoli un giorno vi attaccheranno perché diventerete deboli nei vostri cuori. I vostri cuori diverranno deboli, perché amerete la vita e odierete la morte (Sunan Abi Dawud, qui, NdT). Perciò gli islamisti rivendicano il fatto di amare la morte piú della vita. Non per nulla un tipico grido di guerra dei terroristi è: voi amate la vita e noi amiamo la morte.

Il Consiglio Centrale dei Mussulmani in Germania sancisce che Muhammad non poteva sapere che cosa fosse il calcio.

Non c’è un passo del Corano che preveda esplicitamente la pena di morte per chi vilipende il profeta, ma nella biografia di Muhammad vi sono numerosi aneddoti a proposito di persone che furono giustiziate su suo ordine per aver bestemmiato il suo nome. La tradizione menziona piú di 40 vittime, fra cui alcuni poeti e cantastorie, che avevano osato ridicolizzarlo. Nella collezione di hadith di Abu Dawud si legge: il profeta trovò il cadavere di una donna uccisa davanti alla sua moschea. Domandò agli oranti chi l’avesse uccisa. Un cieco si alzò e disse: sono stato io. È la mia schiava e da lei ho avuto due figli belli come perle. Ma ieri lei ti ha offeso, profeta di dio. Le ho intimato di non insultarti piú, ma lei ha ripetuto quello che aveva detto. Non ho potuto tollerarlo e l’ho ammazzata. Al che Muhammad rispose: il sangue di questa donna è stato versato secondo giustizia. (Sunan Abi Dawud, qui, NdT).

L’importanza assoluta data all’islam produce il fondamentalismo.

Ciò che è spaventoso a proposito di questa storia non è soltanto il fatto che un uomo ammazzi la madre dei propri figli (in uno degli hadith il sangue della donna bagna uno dei figli che le si aggrappa alle gambe, NdT), quanto il trasferimento in ambito privato della facoltà di ricorrere alla violenza. L’esecuzione di una sentenza di morte non è privilegio del sovrano o di uno dei poteri dello Stato: ciascun mussulmano ha tale potere. Quando ho tenuto un discorso al Cairo nel giugno del 2014 in cui affermavo che il fascismo islamico è cominciato con Muhammad, un professore dell’università di al-Azhar ha invocato la mia uccisione ed ha citato la storia della schiava del cieco come prova della legittimità della sua sentenza.

All’inizio del 2015 della teppaglia ha lapidato a morte una giovane donna afgana per aver bruciato un Corano. Un’insegnante britannica è finita in carcere per aver chiamato Muhammad un orsacchiotto. La società calcistica Schalke 04 ha sollevato delle critiche, perché il suo inno dice: Mohamed war ein Prophet, der vom Fußball nichts versteht (Muhammad era un profeta che non capiva niente di calcio). In ogni caso, il Consiglio Centrale dei Mussulmani in Germania ha sancito che Muhammad non poteva avere idea di che cosa fosse il calcio.

Le sofferenze del mondo islamico possono venire guarite solamente se i mussulmani si liberano delle molteplici manie e malattie del profeta: delirio di onnipotenza, paranoia, intolleranza alla critica e suscettibilità. Anche l’immagine distorta della divinità, che è diventata l’archetipo del despota, deve essere messa in discussione.

Il fondamentalismo non è una coseguenza dell’errata interpretazione dell’islam, bensí la conseguenza dell’eccesso di importanza che all’islam viene data. La riforma dell’islam comincerà quando i mussulmani troveranno il coraggio di liberare Muhammad dalla sua condizione di intoccabilità. Solo allora potranno essi stessi evadere dalla prigione della fede ed essere parte del presente che non viene determinato da dio, bensí dagli esseri umani.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Libertà di parola, di pensiero, di critica e di religione

Messaggioda Berto » ven gen 31, 2020 7:37 am

"Detesto la religione. Quella del Corano è una religione d'odio. L'Islam è una merda".

https://www.nouvelobs.com/societe/20200 ... 29bhQ1uCRg

Queste parole sono di Mila Orriols, una ragazza francese di 16 anni. Da quando le ha pronunciate - in una storia su Instagram - è finita sotto protezione della polizia francese, si è ritirata da scuola e vive in clandestinità non si sa dove.

"Non posso mettere piede nel mio liceo", dice Mila in un altro video, "né posso cambiare scuola, perché è la Francia intera che vuole la mia pelle".

Il motivo? Migliaia di fondamentalisti musulmani l'hanno minacciata di morte. I cosiddetti "musulmani moderati" hanno detto che "se l'è cercata" (sic!). E persino la ministra della giustizia francese ha commesso l'errore madornale (ma come l'è venuto?) di dire che sì, le minacce di morte sono sbagliate, ma "l'insulto della religione è un attacco alla libertà di coscienza".

Succede oggi, in Francia, nel 2020. La stessa Francia del Bataclan e di Charlie Hebdo. Quella che per molti è considerata un esempio (o forse l'esempio per eccellenza) di laicità costituzionale. Tutto ciò è inaccettabile.

Solidarietà a Mila. Perché, "sacra" o "merda", la religione resta pur sempre un'idea come tutte le altre, e in quanto tale è diritto universale di ogni essere umano poterla dibattere, criticare e sviscerare.

In religione come in politica, non diamola vinta ai fascisti.

#JeSuisMila


Gino Quarelo
È necessario dire le cose:

Le uniche ideologie-teologie-pratiche politico-religiose ammissibili e accettabili nei paesi civili sono o dovrebbero essere esclusivamente quelle che non violano i valori, i doveri e diritti umani naturali universali, civili e politici e che sono con essi completamente compatibili:
quindi
non debbono essere violente, minacciose, intimidatorie, costrittive, ricattatorie;
non debbono promuovere e indurre alla discriminazione, alla depredazione, al disprezzo, alla schiavitù, alla dhimmitudine, all'odio, al suicidio, all'omicido, allo sterminio;
non debbono trasformare gli uomini in mostruosità acritiche, fanatiche, ossessionate, criminali, disumane;
non debbono generare conflitti etnici, civili, religiosi e politici sia nazionali che internazionali;
non debbono come esempi esaltare figure criminali di assassini, predatori, bugiardi, sterminatori, invasati;
devono promuovere la pace, la fratellanza, la responsabilità, la proprietà, la libertà di parola di pensiero e di critica, la solidarietà volontaria e non forzata;
debbono rispettare i paesi, i popoli, le comunità, le etnie, le culture, le tradizioni e accettare tutte le diversità che promuovono la vita e il bene e che sono compatibili con i valori, i doveri e diritti umani naturali universali, civili e politici.
Se il nazismo hitleriano e Hitler rientrano in questa casistica e vanno giustamente banditi dal consesso civile, allo stesso modo dovrebbero essere banditi anche il nazismo maomettano e Maometto perché sono mille volte peggio.





Mila divide la Francia: post anti-Islam? Scatta il linciaggio- Secolo d'Italia
sabato 25 gennaio 2020
di Lara Rastellino

https://www.secoloditalia.it/2020/01/il ... ta-virale/

Il caso di Mila divide la Francia. La ragazzina, minacciata di morte per un post sull’Islam considerato blasfemo, è da giorni al centro di un casus belli che nelle ultime ore ha coinvolto la politica e chiamato in causa, da un lato, il delegato generale del Consiglio francese per il culto musulmano, Abdallah Zekri. E, in replica, il sovranista Nicolas Dupont-Aignan, già candidato alle presidenziali. Tra loro, Marine Le Pen, leader di Rassemblement National.


La 16enne Mila pubblica un video di critica all’Islam: è polemica

L’opinione pubblica d’oltralpe, invece, si è spaccata decisamente a metà: tra chi si schiera a favore della 16enne finita nel mirino della scuola e del web rea per aver pubblicato un video su Instagram giudicato troppo virulento nella critica all’Islam e ai suoi precetti religiosi e chi le è decisamente contro. Ossia, tra chi l’ha eletta a nuova paladina della intoccabile libertà d’espressione. E chi, invece, vorrebbe ostracizzarla e abbandonarla al destino polemico che rischia di travolgerla. E non solo sui social. Tanto che, dal momento che un suo zelante compagno di scuola ha deciso di pubblicare l’indirizzo on line della ragazza, il caso ha registrato un’improvvisa impennata. E la 16enne è diventata il bersaglio nel mirino di nemici, detrattori e semplici odiatori da tastiera. Così, tra post al vetriolo e hashtag di sostegno, in rete fioccano da giorni #IoSonoMila e il suo esatto contrapposto: #JenesuispasMila.

Il caso di Mila divide la Francia

Ma qual è il motivo del contendere? A quanto ricostruisce in queste ore il sito de Il Giornale, tra gli altri, «tutto è cominciato con una diretta su Instagram in cui un uomo cerca di importunarla in strada. Lei si allontana, filma. “Perché non mi piace che mi venga chiesta l’età a ripetizione, così ha iniziato a insultarmi”, ha chiarito su Libération. La scuola ha invece preferito allontanarla affidandola agli psicologi. In un secondo video, dopo aver ricevuto le prime cyber-minacce, il tono di Mila diventa più acceso. “Un ragazzo ha iniziato a chiamarmi sporca lesbica, razzista. L’argomento è scivolato sulla religione e ho detto cosa ne pensavo. “La tua religione è una merda”, risponde. Più tardi, si scusa sui social: “Mi dispiace, non volevo offendere. Ho parlato troppo velocemente. L’errore è umano”».

L’opinione della politica

Ma ormai la bomba è esplosa e online continuano a deflagrare polemiche e accuse. E mentre il video di Mila diventa virale, su Twitter è trend topic l’invito a punirla. Stuprarla. Minacciarla di morte. Come scrive sempre il quotidiano diretto da Sallusti, allora, «il video rilanciato su Twitter da chi invitava a stuprarla, ha superato in poche ore 1,6 milioni di visualizzazioni. Blasfemia o diritto di critica?». Saranno per due le inchieste della magistratura chiamate a risolvere il dilemma. E mentre la scuola (dove Mila non si sta più recando da qualche giorno) non si schiera. E la Francia è divisa in due. Abdallah Zekri, delegato generale del Consiglio francese per il culto musulmano, si limita a trincerarsi dietro un generico «chi semina vento, raccoglie tempesta».


L’appello di Marine Le Pen

Laddove il sovranista Nicolas Dupont-Aignan, già candidato alle presidenziali, si chiede se «la legge «anti haters» appena approvata dal parlamento d’oltralpe, «punirà gli islamisti che la minacciano su Internet o è riservato solo agli oppositori di Macron»… Marine Le Pen, infine, lancia un appello al buon senso politico e alla moderazione: «Le parole di questa ragazza sono la versione orale delle caricature di Charlie Hebdo. Volgari. Ma non possiamo accettare che la condannino a morte in Francia nel XXI secolo»…


Quella Francia muta sull’islam
di Jean Birnbaum
17 dicembre 2020

https://www.ilfoglio.it/esteri/2018/12/ ... am-229524/

Pubblichiamo stralci del libro di Jean Birnbaum, redattore capo della sezione libri del Monde, in uscita in Italia per le edizioni Leg: “Musulmani di tutto il mondo, unitevi!”.

Ancora una volta, ci fu il silenzio. Il 14 novembre 2015, all’indomani degli attentati più sanguinosi che la Francia abbia mai conosciuto, il paese è rimasto colpito dallo stupore. Ovunque, nonostante il divieto di manifestare, sono stati improvvisati dei raduni silenziosi. Davanti ai bar, ai ristoranti in cui gli assassini avevano svuotato i loro caricatori, così come sulla soglia del Bataclan, la sala da concerto che era stata teatro della carneficina, ciascuno era venuto per raccogliersi, accendere una candela, depositare dei fiori. Senza dire una parola. Questo silenzio ne richiamava un altro, altrettanto profondo. All’inizio dell’anno 2015, gli attacchi contro Charlie Hebdo e l’Hypercacher della Porte de Vincennes avevano imposto non solo il terrore ma anche il mutismo. La sera del 7 gennaio, soltanto poche ore dopo l’attacco sanguinoso contro il settimanale satirico, una folla si era raggruppata spontaneamente in Place de la République a Parigi. Oramai regnava il silenzio. E’ stato ancora più impressionante, quattro giorni dopo, quando milioni di persone hanno sfilato attraverso il paese. Era l’11 gennaio. Pochi striscioni, o neppure uno, quasi nessuno slogan.

Se gli attacchi fossero stati rivendicati da un nemico politico conosciuto, a cominciare da un movimento di estrema destra, le cose sarebbero state molto diverse, le parole d’ordine già trovate. Ma, in questo caso, protestare contro chi? Manifestare per cosa? Questo silenzio rifletteva quindi dapprima un immenso senso di smarrimento, un’impossibilità di nominare il colpevole. Tuttavia, all’indomani degli attacchi di gennaio, ci si era affrettati a guardare ad esso con sospetto. Doveva per forza nascondere qualcosa, e si voleva riuscire a farlo parlare. Che cosa avevano da rimproverarsi questi silenziosi camminatori? Molto rapidamente, si è ritenuto che il loro mutismo nascondesse una minaccia.

Ciò che era stato scosso, dalla Repubblica alla Bastiglia e ovunque in Francia, non era un mormorio sparuto, ma un grido di odio. Questa fu la tesi di Emmanuel Todd: le donne e gli uomini che scesero in piazza a milioni difesero la libertà di stigmatizzare, il diritto di odiare in buona coscienza. Tale sarebbe stata la vergognosa verità dell’11 gennaio.

Ma c’è un altro modo di affrontare il silenzio. Consiste nel rispettarlo. Piuttosto che cercare di riempirlo, possiamo prenderlo come tale, in altre parole, come un discorso impedito. Così, il disagio dell’11 gennaio, perché infatti disagio c’è stato, diventa qualcosa di molto diverso: una parola impossibile. Le folle immense ansimavano. I camminatori non sapevano quali parole pronunciare, né con quali termini descrivere l’evento.

Accontentandosi di sfilare per “la libertà di espressione”, rinunciarono a individuare qualsiasi nemico, o anche la più vaga minaccia. Bisogna dire che l’esempio era venuto dall’alto. L’11 gennaio fu lo stato a chiamare a manifestare. I suoi più alti rappresentanti si tenevano in testa al corteo e, prima ancora che la folla si avviasse, avevano indicato la strada da seguire, ripetendo su tutti i toni, un idea e una sola: gli attacchi che hanno appena insanguinato la Francia “non hanno niente a che vedere” con la religione in generale, e con l’Islam in particolare. Gli uomini che hanno commesso questi crimini “non hanno niente a che vedere con la religione musulmana” affermava François Hollande.

“Non lo ripeteremo abbastanza, questo non ha niente a che vedere con l’Islam” insisteva Laurent Fabius. “Circolare, andate avanti gente, non c’entra niente!”. Quando l’impossibilità a dire le cose viene dall’alto, si chiama interdizione. L’immenso raduno dell’11 fu quindi una manifestazione vietata. Autorizzata dalla polizia, certo, organizzata anche dall’alto, ma in realtà vietata, nel senso in cui si dice di qualcuno che rimane interdetto, stupefatto, sbalordito, cheto, di sasso, senza parole. A partire dai vertici dello stato fino alla folla di camminatori anonimi, si osservò un silenzio “religioso”, cioè un silenzio che toccava due volte la religione: non solo per il suo intenso fervore, ma anche e soprattutto perché la religione, quel giorno, fu oggetto di un gigantesco rifiuto. Il silenzio in questione era il contrario di un clamore allucinato, di un trambusto esaltato. Perché gli uomini che avevano appena commesso gli attentati, loro, avevano una buona parlantina. E invocavano la religione.

Il 9 gennaio, nell’Hypercacher della Porte de Vincennes, il giovane Amedy Coulibaly si è presentato così alle sue vittime: “Sono Amedy Coulibaly, maliano musulmano. Io appartengo allo Stato islamico”. Molto rigoroso sui principi confessionali, proclamerà delle idee attribuibili ai jihadisti di tutti i paesi, spiegando in particolare alla giovane cassiera del supermercato: “La differenza tra i musulmani e voi, gli ebrei, è che date un significato sacro alla vita. Per voi, la vita è troppo importante. Noi, diamo un significato sacro alla morte”.

Tra i cadaveri, tra le preghiere, ha anche dissertato sulla geopolitica contemporanea, ed in particolare sugli interventi occidentali in Mali o in Siria, che non erano niente altro, ai suoi occhi, che delle guerre di religione: “Devono smettere di attaccare lo Stato islamico, che smettano di togliere il velo alle nostre donne”, avvertiva in un documento diffuso su radio Rtl.

Più tardi, il giovane uomo invierà al suo comandatario un ultimo messaggio, in forma di testamento, nel quale riaffermerà il suo attaccamento ai comandamenti dell’Islam, chiedendo che si prendano cura di sua moglie, Hayat Boumeddiene: “Vorrei che i miei confratelli si occupino di mia moglie secondo le regole dell’islam. Vorrei per lei che non si trovi sola, che abbia una buona situazione finanziaria e che non sia abbandonata. Soprattutto che impari l’arabo, il Corano e la scienza religiosa. Abbiate cura che lei stia bene religiosamente. Ciò che è più importante è il dine [religione in arabo] e la fede, e per questo lei ha bisogno di essere accompagnata. Che Allah vi assista”. In un video diffuso dopo la sua morte, e accuratamente montato da un compagno d’armi, tornerà ancora sulle sue motivazioni inseparabilmente politiche e religiose:

“Attaccate il Califfato, attaccate lo Stato islamico? Vi attacchiamo! Voi e la vostra coalizione, bombardate regolarmente laggiù, uccidete dei civili, dei combattenti... perché? Perché applichiamo la Sharia? Anche a casa nostra, non abbiamo più il diritto di applicare la Sharia, ora! Siete voi che decidete cosa accadrà sulla terra, giusto? No, non lasceremo che accada, ci batteremo, Inshallah, per innalzare la parola di Allah”, concludeva Coulibaly, precisando di aver coordinato la sua azione, con coloro che chiamava “i fratelli della nostra squadra”, Saïd e Chérif Kouachi, gli assassini di Charlie Hebdo. Così gli uomini che hanno perpetrato gli attentati del gennaio 2015 non hanno scelto il silenzio. In ogni fase della loro radicalizzazione, hanno messo in avanti la religione come la forza propulsiva della loro azione, l’orizzonte permanente delle loro gesta. Ancora una volta, un’ultima volta, il 7, l’8 e il 9 gennaio, Amedy Coulibaly ed i suoi “confratelli” Kouachi hanno voluto “riempire il vuoto con la religione”.

E se i loro itinerari presentano delle peculiarità sociali e nazionali, il loro destino non può essere ridotto a una storia francese […] Molto rapidamente, queste dichiarazioni del presidente della Repubblica e del ministro degli Affari esteri furono amplificate da una moltitudine di commentatori e di intellettuali. In televisione come nei giornali, vari specialisti si alternavano per affermare che per quanto i jihadisti potevano appellarsi al jihad, le loro azioni non dovevano in nessun modo essere collegate a qualche passione religiosa. “Barbari”, “Energumeni”, “Psicopatici”: tutte le qualificazioni erano buone per escludere qualsivoglia riferimento alla fede. I jihadisti sono dei mostri sanguinari che devono essere fermati, tuonava il criminologo.

I jihadisti sono il prodotto di un disordine mondiale per il quale l’occidente è responsabile, correggeva il geopolitico. I jihadisti hanno delle personalità fragili che hanno subito troppe ferite narcisistiche, diagnosticava lo psicologo. I jihadisti sono vittime della crisi, correggeva l’economista. I jihadisti sono dei ragazzini di città che hanno preso la strada sbagliata, aggiungeva il sociologo. I jihadisti sono la prova che il nostro modello di integrazione è fuori servizio, esagerava lo scienziato politico.

I jihadisti sono eredi della moda umanitaria, la loro mobilitazione è paragonabile a quella degli studenti che si arruolano in una Ong dall’altra parte del mondo, sosteneva l’antropologo. I jihadisti sono dei giovani che soffocano in una società vecchia, partono per cercare la novità in Siria come altri diventano cuochi in Australia, precisava il demografo. I jihadisti sono bambini di Internet e dei videogiochi, hanno abusato di Facebook e di Assassin’s Creed, sussurrava lo specialista informatico. I jihadisti sono dei puri prodotti della nostra società dello spettacolo, sono semplicemente in cerca di fama, Charlie è il loro Koh Lanta, riassumeva lo specialista dei media… in breve, che la questione venisse affrontata da un punto di vista puramente poliziesco e della sicurezza, ovvero sotto il suo unico aspetto socio-economico, la faccenda sembrava concordemente definita: proprio come l’islamismo non aveva “niente a che fare” con l’Islam, il jihadismo era estraneo al jihad.

Tanto che, degli attacchi del gennaio 2015, sono state considerate tutte le spiegazioni, tutte le possibili cause, tranne una: la religione. La religione come modo di essere nel mondo, fede intima, credo condiviso. Con costanza, questo fattore, in quanto tale, è stato passato sotto silenzio. […] Questa dimensione simbolica della politica, la sinistra sembra averla persa per strada. Oggi, proprio nel momento in cui la politica spirituale opera un ritorno spettacolare, la maggior parte degli intellettuali di questa corrente sono diventati estranei alle questioni religiose. Tuttavia non c’è nulla di più concreto, è urgente riscoprirlo. Ho citato più di un filosofo qui, nell’intento di sollevare una questione che non è affatto teorica, di porre un problema politico le cui sfide sono tutt’altro che astratte, come questo libro ha cercato di dimostrare.

Se la sinistra vuole sostenere lo choc del “teologico-politico”, è urgente che rompa il silenzio. Che cessi di oscurare la forza autonoma dello slancio spirituale. Che si sbarazzi delle sue certezze e dei riflessi che glielo impediscono. In breve, che faccia un ritorno a se stessa e si riallacci alla sua tradizione critica. Altrimenti, lo spirituale continuerà a terrorizzare gli attivisti dell’emancipazione, a prenderli in giro. E la religione potrebbe benissimo diventare l’ultimo sospiro della sinistra, questa creatura depressa.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Messaggioda Berto » ven gen 31, 2020 9:28 am

Blasfemia e tutela della pace religiosa: i limiti alla libertà di espressione in un recente caso davanti alla Corte europea dei diritti dell'uomo
Claudia Morini

http://www.medialaws.eu/blasfemia-e-tut ... -delluomo/

Corte europea dei diritti dell’uomo, 25 ottobre 2018, E.S. c. Austria, ric. 38450/12

Non è in contrasto con il diritto alla libertà di espressione, riconosciuto dall’art. 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, l’esistenza nel codice penale di uno Stato membro di una norma che punisca la blasfemia in quanto reato. La libertà di espressione di un individuo può, infatti, legittimamente essere compressa qualora quanto espresso urti il sentimento religioso dei credenti. Nei casi in cui le affermazioni incriminate non contribuiscano a un serio dibattito pubblico sui fatti espressi, ma si limitino ad offendere ciò o colui che è oggetto di venerazione da parte di un gruppo religioso, il diritto alla libertà di espressione può subire restrizioni in virtù dell’esigenza di tutelare il sentimento religioso altrui e di garantire la pace religiosa in uno Stato membro.

Sommario: 1. La blasfemia come condotta penalmente rilevante. – 2. La tutela del sentimento religioso dei singoli: l’intervento della Corte suprema austriaca. – 3. Il contributo al dibattito pubblico dell’oggetto della libertà di espressione. – 4. La libertà di espressione e il limite dell’incitamento all’odio religioso. – 5. Considerazioni conclusive: i rischi connessi alla “tutela della pace religiosa”

La blasfemia come condotta penalmente rilevante

La “blasfemia” consiste comunemente in una condotta che offende con parole o con atti ciò che per altri è considerato divino o sacro. Essa, invero, nel panorama europeo è ormai scevra da conseguenze di natura penale, ad eccezione di alcuni Stati, tra i quali l’Austria[1]. A distanza di 4 anni dai tragici fatti di matrice terroristica avvenuti a Parigi il 7 gennaio 2015 nella redazione di Charlie Hebdo, il dibattito sulla tutela della “pace religiosa” come limite alle manifestazioni di pensiero che possano essere connotate come “basfeme”, in quanto potenzialmente offensive del sentimento religioso di alcuni credenti, pare riaccendersi dopo l’emanazione di una sentenza resa dalla quinta sezione della Corte europea dei diritti dell’uomo il 25 ottobre 2018 nel caso E.S. c. Austria[2]. I giudici di Strasburgo hanno in proposito avuto modo di pronunciarsi sul bilanciamento tra la libertà di espressione, garantita dall’art. 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU)[3], e la tutela del sentimento religioso ai sensi dell’art. 9 CEDU[4], proprio rispetto a una condanna penale per blasfemia.

Poiché a livello di opinione pubblica sussiste la tendenza a polarizzare il dibattito su due fronti estremi, per cercare di individuare le coordinate del discorso sono oggi necessarie ulteriori riflessioni. Il primo orientamento propugna la protezione tout court del sentimento religioso di una ben identificata comunità, partendo dall’assunto che tale “sentimento” sia talmente fondamentale nella vita dei fedeli da plasmarne l’identità. Questo approccio tende a voler legittimare e giustificare qualsiasi restrizione all’altrui libertà di espressione. Dall’altro lato vi è poi chi, portando anche la nozione di “laicità” alle sue estreme conseguenze, è fautore di una libertà di espressione illimitata, in quanto nessuna restrizione dovrebbe imporsi al fine di tutelare una religione o un credo qualsiasi.

Il recente caso testé richiamato, ha preso le mosse dal ricorso presentato il 6 giugno 2012 dalla sig.ra E.S., una donna austriaca che nel 2011 era stata dichiarata colpevole di aver “denigrato gli insegnamenti religiosi”, dopo aver tenuto una serie di conferenze su Grundlagen des Islam (Informazioni basilari sull’Islam) presso il Bildungsinstitut der Freiheitlichen Partei Österreichs, un’accademia politica legata al partito di destra austriaco Partito della libertà (FPÖ), attualmente parte della coalizione di Governo.

In occasione dei seminari, un settimanale “di sinistra” aveva fatto infiltrare un suo giornalista tra i partecipanti affinché ne registrasse i contenuti. Successivamente, le trascrizioni dei seminari furono consegnate alla procura di Vienna in quanto attestanti la presunta commissione da parte della ricorrente del reato di incitamento all’odio (Verhetzung), punito in Austria ai sensi dell’art. 283 del Codice penale (Strafgesetzbuch, StGB). La parte dei discorsi incriminata, consisteva in un commento estemporaneo sul fatto che il Profeta Maometto fosse un pedofilo, poiché aveva sposato sua moglie Aisha quando lei aveva solo 6 o 7 anni e aveva consumato il matrimonio quando di anni ne aveva solo 9[5].

Il 15 febbraio 2011, la donna fu ritenuta colpevole di aver “denigrato gli insegnamenti religiosi di una religione legalmente riconosciuta”, ai sensi dell’articolo 188 c.p. (denigrazione di dottrine religiose), in base al quale «[c]hiunque, nelle circostanze in cui è probabile che il suo comportamento susciti giusta indignazione, denigri pubblicamente o offenda una persona, o un oggetto che è oggetto di venerazione da parte di una Chiesa o di una comunità religiosa riconosciuta nel Paese, o un dogma, una consuetudine legittima o un’istituzione legittima di una tale Chiesa o comunità religiosa, sarà passibile di una pena detentiva fino a sei mesi o di una multa da calcolare su base giornaliera, fino a 360 giorni»[6]. L’iniziale accusa di incitamento all’odio, ai sensi dell’art. 283 c.p. era invece decaduta.

La Corte regionale austriaca, invero, aveva rilevato che quanto affermato dalla ricorrente avrebbe potuto indurre l’uditorio a non ritenere Maometto meritevole di venerazione in quanto il suo comportamento sarebbe oggi considerato deplorevole e finanche penalmente perseguibile[7]. Inoltre, un elemento centrale nella decisione era stato l’aver ritenuto le affermazioni della ricorrente dei meri giudizi di valore e non affermazioni basate su fatti comprovati. Quanto da lei asserito nel corso dei seminari, non avrebbe neppure contribuito al dibattito generale su temi sensibili e importanti quali quelli della pedofilia o del fenomeno delle spose-bambine, ma avrebbe avuto l’esclusivo scopo di denigrare il Profeta dell’Islam, offendendo così il sentimento religioso dei suoi fedeli[8].

La condanna consistette, oltre al pagamento delle spese processuali, nella richiesta di pagamento di una multa di 480 euro o, in alternativa, nella pena detentiva di 60 giorni di reclusione. La ricorrente impugnò la sentenza presso la Corte di Appello di Vienna (Oberlandesgericht Wien), ma la sua istanza fu rigettata il 20 dicembre 2011. Infine, la richiesta di un nuovo processo fu respinta dalla Corte suprema austriaca l’11 dicembre 2013.

La tutela del sentimento religioso dei singoli: l’intervento della Corte suprema austriaca

La Corte suprema, pur ravvisando nella condanna subita un’interferenza con la libertà di espressione della ricorrente garantita anche dall’art. 10, par. 1, CEDU, richiamando proprio la giurisprudenza della Corte europea rilevante in materia[9], ha ritenuto lo scopo dell’interferenza, ovvero la tutela della pace religiosa e dei sentimenti religiosi degli altri, un motivo legittimo ai sensi del par. 2 dell’art. 10 CEDU.

Nel suo ragionamento la Corte suprema ha ricordato che la stessa Corte europea ha distinto le ipotesi nelle quali erano ravvisabili condotte espressamente e gratuitamente offensive negli altrui confronti o profane, da quelle che, invece, pur provocando shock, offendendo o essendo provocatorie non costituivano un attacco ingiurioso contro un gruppo religioso, rivolgendosi ad esempio contro un leader o un individuo venerato, come Maometto per l’Islam[10]. In questa ipotesi, invero, secondo la Corte incombe un obbligo in capo agli Stati membri di adottare misure volte a reprimere quelle condotte.

Al fine di verificare se le affermazioni ingiuriose arrivino a ledere il sentimento religioso altrui, provocando così “justified indignation”, è necessario operare un’accurata valutazione del significato e del contesto nel quale sono state svolte le stesse, e se esse siano state fondate su fatti o su meri giudizi di valore.

Nel caso specifico, la Corte suprema ha rilevato che quanto espresso dalla ricorrente non aveva in alcun modo contribuito a un dibattito generale sul rapporto tra Islam e matrimoni con minorenni, ad esempio, ma che aveva avuto il solo fine di diffamare Maometto, accusandolo di pedofilia, screditandolo così agli occhi dei suoi fedeli, e offendendo il sentimento religioso di questi ultimi.

La questione qui evidenziata dell’offesa al sentimento religioso come elemento discriminante per l’inquadramento di una manifestazione delle proprie idee o del proprio pensiero nella categoria di una condotta penalmente sanzionabile richiama alla mente un altro caso deciso diversi anni fa dalla Corte europea: İ.A. c. Turchia. In quell’occasione, i giudici di Strasburgo avevano affermato che «in the context of religious beliefs, [there]may legitimately be included a duty to avoid expressions that are gratuitously offensive to others and profane […] as a matter of principle it may be considered necessary to punish improper attacks on objects of religious veneration» (§ 24). Si è trattato del primo caso in cui limiti alla libertà di espressione sono stati legittimati alla luce della necessità di tutelare il sentimento religioso dei fedeli, con specifico riguardo all’Islam. In particolare, qui l’editore era stato accusato di aver commesso, attraverso la pubblicazione dell’opera Yasak Tümceler (“The forbidden phrases”), il reato di blasfemia contro “Dio, la religione, il profeta e il Libro Sacro”, sanzionato dal Codice penale turco[11].

L’elemento della “offensività” delle affermazioni è stato poi al centro anche di un altro caso relativo all’Islam, che si era però concluso con un esito diverso. L’anno successivo, infatti, la Corte europea nel caso Aydin Tatlav c. Turchia, aveva rilevato che il passaggio del libro incriminato (“The Reality of Islam”) sebbene contenesse un’aspra critica nei confronti della religione islamica, non aveva invero toni offensivi e, pertanto, la condanna penale subita dal ricorrente costituiva una violazione dell’art 10 CEDU[12]. Emerge, quindi, che nella valutazione della legittimità delle limitazioni statali alla libertà di espressione la Corte tiene in considerazione, oltre al contenuto in sé, anche il tono dello stesso: se questo non comporta la ridicolizzazione della religione o non è comunque volutamente offensivo, come può esserlo, ad esempio, nell’ipotesi di accostando di oggetti di venerazione a immagini di natura sessuale, allora le autorità statali possono essere ritenute responsabili di eccedere il margine di apprezzamento loro riconosciuto ai fini dell’applicazione dei limiti ex art. 10, par. 2, CEDU.

Infine, andando più indietro nel tempo, la tutela del sentimento religioso altrui, era stata oggetto anche della prima importante sentenza della Corte europea sul rapporto tra libertà di espressione e libertà religiosa: si tratta del noto caso Otto-Preminger-Institut c. Austria[13]. In quest’occasione, secondo la Corte europea, poi, vi era sì stata un’ingerenza rispetto al diritto garantito dall’art. 10 CEDU, ma questa, oltre ad essere prevista dalla legge, era anche legittima in quanto la misura nazionale mirava a tutelare i diritti e le libertà altrui, in particolare il diritto dei cittadini a non essere offesi nei propri sentimenti religiosi attraverso l’espressione pubblica delle opinioni altrui[14].

Quanto all’aspetto della necessarietà della misura in uno “Stato democratico”, i giudici di Strasburgo avevano rilevato che era vero che l’art. 10 CEDU si prestava a tutelare non soltanto le notizie o le idee accolte favorevolmente o ritenute inoffensive o indifferenti dalla società in cui erano espresse, ma anche quelle che provocavano shock, offendevano o erano provocatorie. Ciò conformemente al principio del pluralismo, a quello della tolleranza e allo spirito di apertura che devono caratterizzare una società democratica. Ciò nonostante, qualora le modalità con le quali tali idee venissero enunciate e diffuse mettessero a rischio quello stesso spirito di tolleranza, sia in ragione del tono con le quali sono espresse che del loro contenuto, allora esse potrebbero legittimamente essere considerate alla stregua di una violazione dell’altrui libertà di religione (§ 49).

Il contributo al dibattito pubblico dell’oggetto della libertà di espressione

Nel caso E.S. c. Austria, il governo e i tribunali interni hanno ritenuto che le affermazioni della ricorrente «had not been part of an objective discussion concerning Islam and child marriage, but had rather been aimed at defaming Muhammad, and therefore had been capable of arousing justified indignation» (§ 37). Sebbene il delicato e importante tema della condanna dei rapporti sessuali tra adulti e minori sia meritevole di essere oggetto di pubblico dibattito, l’accusa mossa dalla ricorrente nei confronti del Profeta dell’Islam, mancando di una sufficiente base probatoria ed essendo invece gratuitamente oltraggiosa nei confronti di Maometto, non poteva contribuire ad un «objective public debate» (§ 37).

Il contributo al pubblico dibattito di affermazioni che potrebbero urtare la sensibilità dei credenti e minare la pace religiosa in un determinato Stato può essere valutato, ad avviso della Corte, proprio attraverso un’attenta disamina sul contenuto stesso di tali affermazioni. In questo modo, la Corte si è posta nel solco delle decisioni nazionali le quali avevano evidenziato la necessità di tenere distinti i meri giudizi di valore da affermazioni oggettivamente fondate su fatti (§§ 47-48).

In passato la Corte aveva già affrontato la questione del contributo al pubblico dibattito. Nel già richiamato caso Otto-Preminger-Institut c. Austria, la Corte aveva infatti affermato che in linea di massima, relativamente alle opinioni e alle convinzioni religiose, esiste un obbligo di evitare espressioni gratuitamente offensive per l’altrui sensibilità, in quanto queste «do not contribute to any form of public debate capable of furthering progress in human affairs» (§ 49).

Quest’obbligo, poi, rileva in modo ancora più stringente nel caso in cui l’evento durante il quale il messaggio o l’idea viene espressa rivesta un particolare carattere di “pubblicità”. Qui, nel bilanciamento delle due libertà fondamentali in rilievo, ovvero quella religiosa ex art. 9 e quella di espressione ex art. 10 CEDU, e alla luce del margine di apprezzamento riconosciuto agli Stati in materie così sensibili e sulle quali non esiste una uniformità di vedute in seno ai membri del Consiglio d’Europa, la Corte ha ritenuto legittima e proporzionata la misura di sequestro del film adottata dalle autorità austriache[15].

Successivamente, la questione del “contributo al dibattito pubblico” è stata ritenuta discriminante in altre decisioni della Corte. In proposito ricordiamo il caso Ginievsky c. Francia, in cui la Corte ha, invece, accolto il ricorso, accertando la violazione dell’art. 10 della Convenzione[16].

Oltre alla questione del “contributo al dibattito pubblico”, anche l’elemento del carattere di “pubblicità” dell’evento durante il quale la manifestazione dell’opinione incriminata si concretizza richiamato nel caso Otto-Preminger, è riemerso nel caso E.S. c. Austria (§ 51). Tale elemento è stato preso in considerazione per contestare una delle motivazioni addotte a propria difesa dalla ricorrente, ovvero che ai seminari avrebbero preso parte solo alcune persone like-minded rispetto al tema oggetto del ciclo di seminari e che, pertanto, nessuno dei partecipanti, sapendo quale sarebbe stato il tenore degli stessi, si sarebbe potuto sentire in alcun modo offeso. Ad avviso della Corte però, così non era stato poiché chiunque avrebbe potuto registrarsi agli eventi pubblicizzati, tanto che era stato possibile per il giornalista partecipare, registrare il contenuto dei seminari e poi sporgere denuncia alle autorità austriache.

La libertà di espressione e il limite dell’incitamento all’odio religioso

L’iniziale accusa mossa alla ricorrente a livello statale, poi decaduta, era stata quella di incitamento all’odio religioso ai sensi dell’art. 283 c.p. austriaco.

Brevemente, a livello normativo europeo e internazionale è possibile ravvisare una comune condanna ad atteggiamenti o a discorsi che incitino all’odio su base, tra l’altro, religiosa. Rilevano, in proposito, strumenti quali il Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966 (art. 20, par. 2)[17], la Raccomandazione 1805 (2007) dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa su “Blasphemy, religious insults and hate speech against persons on grounds of their religion”[18], il Rapporto della Commissione di Venezia (Commissione europea per la democrazia attraverso il diritto) denominato “Report on the relationship between Freedom of Expression and Freedom of Religion: the issue of Regulation and Prosecution of Blasphemy, Religious Insult and Incitement to Religious Hatred”[19], la Risoluzione del Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite 16/18 su “combating intolerance, negative stereotyping and stigmatization of, and discrimination, incitement to violence and violence against, persons based on religion or belief”[20], il “General Comment No. 34 on freedom of opinion and freedom of expression” del Comitato dei diritti umani delle Nazioni Unite[21].

Da questi documenti emerge una condanna netta ai discorsi di incitamento all’odio e un richiamo alle responsabilità degli Stati affinché reprimano queste condotte. Parimenti, si rileva l’indicazione di attivarsi perché la semplice “blasfemia” venga depenalizzata ovunque e non venga reintrodotto il reato di blasfemia laddove già non esista più. La Commissione Venezia, ad esempio, ha ritenuto che la persistenza o la creazione di un “reato” di blasfemia negli ordinamenti dei Paesi membri sia da ritenersi non necessaria e neppure auspicabile. In tal senso si è espresso anche il Parlamento europeo, che nella risoluzione dell’8 settembre 2015 sullo stato dei diritti fondamentali nell’Unione europea si è detto preoccupato «over the application of blasphemy and religious insult laws in the European Union, which can have a serious impact on freedom of expression, and urges Member States to abolish them; strongly condemns attacks against places of worship and urges Member States not to allow such offences to go unpunished» (§ 40)[22].

Ritornando ora al contesto della Corte europea, essa ha spesso fatto leva sull’art. 17 CEDU per dichiarare irricevibili alcuni ricorsi nelle ipotesi in cui il contenuto contestato costituiva ex se una negazione dei diritti e dei valori fondamentali difesi dalla Convenzione[23]. In particolare, questa norma convenzionale è stata utilizzata anche per negare qualsivoglia tutela proprio ai discorsi di incitamento all’odio (c.d. hate speech), impedendo la ricevibilità dei relativi ricorsi. In materia di irricevibilità per incitamento all’odio religioso ricordiamo, ad esempio, il caso Norwood c. Regno Unito, deciso dalla Corte nel 2004[24], il caso Pavel Ivanov c. Russia deciso nel 2007[25], il caso Hizb Ut-Tahrir e altri c. Germania, deciso nel 2012[26] e, infine, il caso Belkacem c. Belgio, del 2017[27].

Nel caso E.S. c. Austria in esame, la Corte europea ha ricordato che quando attacchi impropri ed offensivi nei confronti di un soggetto o di un simbolo che gode di venerazione religiosa si spingono sino al punto di prendere le forme dell’incitamento all’odio religioso, che è la massima espressione dell’intolleranza religiosa, questi non solo possono legittimare interventi restrittivi da parte delle autorità nazionali, ma neppure godrebbero della protezione offerta dall’art. 10 CEDU (§ 43)[28]. Qui, dunque, la Corte da un lato non ha equiparato le affermazioni della ricorrente all’incitamento all’odio religioso, che a livello internazionale ed europeo risulta oggi essere la sola condotta meritevole di essere perseguita penalmente, ma ha, allo stesso tempo, legittimato come proporzionata una sanzione penale per una condotta, la blasfemia, che è, almeno negli ordinamenti della stragrande maggioranza degli Stati membri del Consiglio d’Europa, ormai depenalizzata.

Considerazioni conclusive: i rischi connessi alla “tutela della pace religiosa”

Il governo austriaco, richiamando la nota esplicativa dell’art. 188 c.p., aveva sottolineato come lo scopo principale della norma interna fosse la protezione della “pace religiosa”, che «was to be understood as the peaceful co-existence of the various churches and religious communities with each other, as well as with those who did not belong to a church or religious community». La “pace religiosa”, inoltre, doveva essere tutelata anche in quanto elemento fondamentale della pace in generale nello Stato (§ 36).

La Corte, dal canto suo, ha accolto favorevolmente l’impostazione governativa, rilevando come la protezione della pace religiosa, così come la tutela del sentimento religioso altrui, siano scopi legittimi perseguiti dalla misura penale prevista dall’ordinamento austriaco e rientranti a pieno titolo nel limite della “protezione dei diritti altrui” di cui al secondo paragrafo dell’art. 10 CEDU. Inoltre, nel suo ragionamento sulla necessità in una società democratica di una misura restrittiva di quel tenore, ha ricordato che in capo agli Stati incombe l’obbligo di assicurare la pacifica coesistenza di tutte le religioni e anche dei non credenti in uno spirito di mutua tolleranza. Volendo “giustificare” queste conclusioni, si può ipotizzare che il legitimate aim della difesa della pace religiosa in Austria abbia assunto un peso rilevante in questa decisione anche, probabilmente, per il clima politico attuale nel Paese, retto come è noto da forze di destra che come programma di Governo hanno un approccio più restrittivo rispetto alla convivenza interetnica e interreligiosa. In particolare, il Partito della libertà, nella cui accademia politica sono state fatte le affermazioni incriminate, ha forti tendenze xenofobe.

La Corte, dunque, potrebbe aver voluto dare una sorta di “monito” alla società austriaca, sostenendo la posizione dell’autorità giurisdizionale nazionale che aveva agito “in contenimento” di azioni di esponenti di quelle forze politiche. Il lungo e impegnativo processo di integrazione che le autorità nazionali europee sono oggi chiamate a intraprendere potrebbe, infatti, essere messo a rischio da esternazioni, come quelle della ricorrente, che possano essere causa di tensioni e di violenze sociali e tra appartenenti a diversi gruppi religiosi. Queste circostanze spiegherebbero, in parte, la scelta della Corte di avallare la restrizione alla libertà di espressione della ricorrente ritenendo legittima e proporzionata una misura nazionale implicante una sanzione penale per la blasfemia, anche se a livello europeo il trend va nella direzione opposta[29]. Abbiamo scritto “in parte” perché, a nostro avviso, al seminario avevano partecipato solo una trentina di persone e pertanto, in questo caso, i rischi effettivi di un reale impatto sulla pace religiosa in Austria sarebbero stati quasi nulli. È stata, invece, la successiva denuncia a dare enfasi e maggiore eco alle esternazioni della ricorrente, giunte poi sino alla “cassa di risonanza” della Corte di Strasburgo.

Nel caso in esame, invero, il giornalista presente in sala avrebbe potuto, nel contesto del dibattito in corso, limitarsi a replicare immediatamente e contestare la veridicità delle affermazioni della ricorrente, contribuendo così alla creazione di una discussione aperta e plurale, anziché strumentalizzarle e denunciare la ricorrente.

Date le circostanze, difficilmente il contenuto dei seminari avrebbe potuto minare la pace religiosa e contribuire a creare quei problemi legati al mantenimento dell’ordine in una società democratica che, invero, legittimamente avrebbero richiesto e giustificato misure limitative della libertà di espressione[30]. La tutela del sentimento religioso altrui e della pace religiosa, infatti, richiederebbero misure tanto più incisive e limitative della libertà di espressione, quanto più facile fosse per un credente “subire” contenuti ritenuti offensivi senza avere la possibilità di un serio contraddittorio.

A nostro avviso, la Corte avrebbe dovuto prestare maggiore cautela nell’associare le esternazioni della ricorrente a possibili problemi legati al mantenimento dell’ordine nella società austriaca dovuti a una “interferenza” con la pace religiosa di quello Stato. Far assurgere la “crisi della sicurezza”, che purtroppo e oggettivamente caratterizza le società contemporanee europee, a limite al godimento dei diritti individuali garantiti dalla Convenzione è rischioso e, quantomeno, inopportuno[31]. In questi casi, il ricorrere al criterio del pressing social need per giustificare la legittimità di restrizioni connesse all’esigenza di preservare la pace religiosa/sociale, invece che alla concreta esigenza di garantire l’altrui religiosità, espone la Corte anche al rischio di strumentalizzazione politica delle sue decisioni.

Seppure sia positivamente apprezzabile l’attenzione della Corte verso gruppi religiosi minoritari in un determinato contesto nazionale, le conclusioni cui è giunta la Corte in questo caso possono invero minare quel pluralismo, tanto difeso dalla Corte stessa, che deve caratterizzare le società democratiche europee.

Infine, sebbene nella giurisprudenza più recente in materia di bilanciamento tra libertà di espressione e tutela del sentimento e della pace religiosi la Corte sembra aver adottato un atteggiamento più “rispettoso” nei riguardi della libertà di espressione, la cui protezione non può oggi essere separata dal contenuto delle informazioni o delle idee che si vogliono diffondere, essa dovrebbe prestare maggiore attenzione rispetto alla valutazione di altri elementi, quali l’effettiva risonanza delle affermazioni e la possibilità che esse siano contestate o confutate attraverso un dibattito pubblico, aperto e plurale, e non con la censura ex ante o ex post o infliggendo sanzioni penali. Il case-by-case approach proprio di quella giurisprudenza di Strasburgo che incide su temi particolarmente sensibili, dovrebbe dunque mirare al raggiungimento di soluzioni meno invasive della libertà di espressione dei singoli.

* Ricercatrice senior in Diritto dell’Unione europea – Dipartimento di Scienze giuridiche, Università del Salento.

[1] Vedi M. Gatti, La blasfemia nel diritto europeo: un «reperto storico», in Aa. Vv., Blasfemia, diritto e libertà, Bologna, 2016, 185 ss.

[2] CEDU, E.S. c. Austria, ric. 38450/12 (2018).

[3] Sulla libertà di espressione nella CEDU, vedi in particolare, M. Oetheimer-A. Cardone, Articolo 10, in S. Bartole-P. De Sena-V. Zagrebelsky (diretto da), Commentario breve alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, Padova, 2012, 397 ss. Sul rapporto tra libertà di espressione e libertà religiosa vedi P. Manzini, Libertà di espressione e sentimento religioso nella civiltà giuridica europea, in G. Gozzi-G. Bongiovanni (a cura di), Popoli e civiltà. Per una storia e filosofia del diritto internazionale, Bologna, 2006, 123 ss.

[4] Sulla libertà religiosa ai sensi dell’art. 9 Cedu vedi, tra gli altri, A. Cannone, Gli orientamenti della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo in materia religiosa, in Rivista internazionale dei diritti dell’uomo, 1996, 264 ss.; C. Evans, Freedom of Religion under the European Convention on Human Rights, Oxford, 2001; S. Ferrari, La Corte di Strasburgo e l’articolo 9 della Convenzione europea. Un’analisi quantitativa della giurisprudenza, in R. Mazzola (a cura di), Diritto e religione in Europa, Bologna, 2012, 27 ss.; A. Guazzarotti, Articolo 9, in S. Bartole-P. De Sena-V. Zagrebelski (diretto da), Commentario breve, cit., 370 ss.; D. Loprieno, La libertà religiosa, Milano, 2009; J. Martínez-Torrón, Limitations on Religious Freedom in the Case Law of the European Court of Human Rights, in Emory International Law Review, 2005, 587 ss.; C. Morviducci, La protezione della libertà religiosa nel sistema del Consiglio d’Europa, in S. Ferrari-T. Scovazzi (diretto da), La tutela della libertà di religione. Ordinamento internazionale e normative confessionali, Padova, 1988, 41 ss.; R. Uitz, La liberté de religion, Strasbourg, 2008.

[5] Le testuali parole pronunciate nel corso del seminario erano: «Un 56enne e una bambina di 6 anni? […] Come chiamarlo, se non pedofilia?» (§ 13). Secondo la ricorrente queste affermazioni trovano, invero, conforto nella maggior parte degli hadith (ovvero, raccolte dei detti e dei fatti della vita di Maometto).

[6] Tale norma è contenuta nella sezione 8 del Codice penale che, tra l’altro, elenca una serie di reati contro la pace religiosa.

[7] La Corte regionale asserì che il “contatto sessuale” tra Maometto e Aisha, non poteva essere considerato un atto di pedofilia, sebbene la giovane all’epoca avesse solo 9 anni, perché il matrimonio proseguì sino alla morte del Profeta. Pertanto, ciò dimostrava che Maometto non aveva alcun desiderio esclusivo nei confronti delle bambine ed era, invece, attratto anche da donne più grandi poiché Aisha aveva 18 anni quando egli morì, e le sue altre mogli erano tutte adulte.

[8] Nel suo ragionamento la Corte regionale “giustifica” comunque il comportamento di Maometto, ricordando in ogni caso che la pedofilia e il matrimonio con minorenni/bambine sono due cose diverse e che erano fenomeni non limitati al solo Islam ma, in passato, propri anche di alcune dinastie regnanti europee.

[9] Vedi CEDU, İ.A. c. Turchia, ric. 42571/98 (2005); Aydın Tatlav c. Turchia, ric. 50692/99 (2006); Otto-Preminger-Institut c. Austria, ric. 13470/87 (1994), Wingrove c. Regno Unito, ric. 17419/90 (1996); Giniewski c. Francia, ric. 64016/00 (2006).

[10] In generale, sui diritti garantiti ai gruppi religiosi in seno alla CEDU, ci sia consentito di rinviare al nostro C. Morini, La tutela dei diritti dei gruppi religiosi nel contesto regionale europeo, Bari, 2018.

[11] L’editore era stato riconosciuto colpevole e condannato, in via definitiva, a due anni di reclusione. In seguito, la pena detentiva era stata commutata in una sanzione pecuniaria. La frase contestata era la seguente: «Muhammad did not forbid sexual relationship with a dead person or a live animal». Nella sentenza la Corte aveva affermato che quest’affermazione, come altre, di fatto oltrepassavano il limite di una legittima provocazione essendo, invece, un mero attacco abusivo a Maometto, attacco che le autorità turche potevano legittimamente perseguire ai sensi dell’art. 10, par. 2 CEDU (§§ 29-31).

[12] La Corte, in particolare, aveva qui evidenziato anche il possibile e deprecabile chilling effect che condanne penali irragionevoli avrebbero potuto avere sulla libertà di espressione, e di riflesso sul pluralismo in una società democratica, affermando che «la peine de prison de douze mois fixée à l’encontre du requérant à été convertie en une amende modique […]. Toutefois, une condamnation au pénal, de surcroît comportant le risque d’une peine privative de liberté, pourrait avoir un effet propre à dissuader les auteurs et éditeurs de publier des opinions qui ne soient pas conformistes sur la religion et faire obstacle à la sauvegarde du pluralisme indispensable pour l’évolution saine d’une société démocratique» (§30).

[13] V. in dottrina P. Wachmann, La religion contre la liberté d’expression: sûr un arrêt regrettable de la Cour européenne des Droits de l’Homme, in Revue universelle des droits de l’homme, 1994, 44 ss.; R. Margiotta Broglio, Uno scontro tra liberta: la sentenza Otto-Preminger-Institut della Corte europea, in Rivista di diritto internazionale, 2, 1995, 368 ss.

[14] In un caso simile, relativo alla censura preventiva della proiezione del film L’ultima tentazione di Cristo in Cile, la Corte interamericana dei diritti dell’uomo è invece pervenuta a una soluzione diversa. Nella sentenza del 5 febbraio 2001 (caso Olmeto Bustos e altri c. Cile), ha infatti ritenuto che l’interdizione totale alla proiezione del film costituisse una misura in contrasto con la libertà di espressione garantita dall’art. 13 della Convenzione americana sui diritti dell’uomo (stipulata il 22 novembre 1969 ed entrata in vigore il 18 luglio 1978). Nella norma della Convenzione americana, invero, la censura preventiva rispetto all’esercizio della libertà in oggetto è espressamente proibita.

[15] In particolare, secondo la Corte europea alla luce della situazione esistente a livello locale e in quel frangente storico, le autorità austriache non avevano ecceduto il margine di apprezzamento, avendo invece l’obbligo di proteggere la pace religiosa nella regione del Tirolo, composta per la maggioranza da cattolici, e dovendo impedire che alcuni tra essi si sentissero ingiustificatamente offesi nei loro sentimenti religiosi (§ 56). Vedi anche la sentenza resa nel caso Wingrove c. Regno Unito, cit. dove la Corte ha confermato che la protezione del sentimento religioso attraverso norme che vietino la blasfemia può rientrare nella finalità di protezione dei diritti altrui previsto nell’art. 10, par. 2, CEDU. Vedi, in dottrina, S. Palmer, Blasphemy and the Margin of Appreciation, in The Cambridge Law Journal, 1997, 469 ss.; C. Evans, Freedom of Religion under the European Convention on Human Rights, cit., 7 ss.

[16] CEDU, Ginievsky c. Francia, ric. 64016/00 (2006). Qui i fatti riguardavano un articolo intitolato “L’obscurité de l’erreur” e pubblicato su Le quotidien de Paris nel quale l’autore aveva sostenuto che alcuni passaggi dell’Enciclica papale Veritatis Splendor dimostravano la matrice antisemita della religione cristiana e la responsabilità della sua dottrina anche nello sterminio degli ebrei. La Corte ha però riconosciuto che la condanna in sede civile subita dal ricorrente era stata una restrizione illegittima ai sensi dell’art. 10 CEDU, sia perché il contenuto dell’articolo non poteva essere ritenuto un’offesa a tutta la comunità cristiana, sia perché, in una società democratica, esso era di fondamentale interesse pubblico.

[17]Patto internazionale sui diritti civili e politici, adottato a New York il 16 dicembre 1966. Il testo dei paragrafi rilevanti di questo e degli altri atti internazionali successivamente citati, sono richiamati nella sentenza oggetto di commento ai §§ 26-35.

[18] Adottata dall’Assemblea parlamentare il 29 giugno 2007.

[19] Adottata nel corso della 76a Sessione plenaria (Venezia, 17-18 ottobre 2008).

[20] UN Doc. A/HRC/RES/16/18, adottata il 24 marzo 2011.

[21] UN Human Rights Committee (HRC), General comment no. 34, Article 19, Freedoms of opinion and expression, adottato il 12 settembre 2011 (CCPR/C/GC/34).

[22]European Parliament resolution of 8 September 2015 on the situation of fundamental rights in the European Union (2013-2014) (2014/2254(INI))

[23] In dottrina vedi, tra gli altri, A. Terrasi, Art. 17 Divieto dell’abuso di diritto, in S. Bartole-P. De Sena-V. Zagrebelsky (a cura di), Commentario breve, cit., 570 ss. e M. Castellaneta, La libertà di stampa nel diritto internazionale ed europeo, Bari, 2012, 150 ss. La norma riguarda il c.d. divieto di abuso di diritto: «Nessuna disposizione della presente Convenzione può essere interpretata come implicante il diritto per uno Stato, gruppo o individuo di esercitare una attività o compiere un atto mirante alla distruzione dei diritti o delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione o porre a questi diritti e a queste libertà limitazioni maggiori di quelle previste in detta Convenzione».

[24] CEDU, Norwood c. Regno Unito, ric. 23131/03 (2004). Qui, ad esempio, i giudici di Strasburgo hanno ritenuto che un attacco generalizzato contro un gruppo religioso volto a stabilire un legame tra l’intero gruppo e un grave atto terroristico fosse contrario ai valori convenzionali, tra cui la tolleranza, la pace sociale e la non discriminazione, incitando invece all’odio contro quel gruppo.

[25] CEDU, Pavel Ivanov c. Russia, ric. 35222/04 (2007).

[26] CEDU, Hizb Ut-Tahrir e altri c. Germania, ric. 31098/08 (2012).

[27] CEDU, Belkacem c. Belgio, ric. 34367/14 (2017). In dottrina vedi M. Castellaneta, La Corte europea dei diritti umani e l’applicazione del principio dell’abuso del diritto nei casi di hate speech, in Diritti umani e diritto internazionale, 2017, 745 ss.

[28] I relativi ricorsi sarebbero, pertanto, dichiarati irricevibili.

[29] A fine ottobre, ad esempio, in Irlanda si è svolto un referendum per decidere se modificare la parte della Costituzione secondo la quale la blasfemia è un reato. L’esito è stato a favore dell’abolizione con il 64,85% dei voti. Cfr. In Irlanda non ci sarà più il reato di blasfemia, in Il Post, 28 ottobre 2018.

[30] Secondo il Governo austriaco, infatti, «the applicant’scriminal conviction had pursued the legitimate aim of maintaining order(protecting religious peace) and protecting the rights of others (namely their religious feelings)» (§ 36).

[31] Vedi A. Lollo, Blasfemia, libertà di espressione e tutela del sentimento religioso, in Consulta Online, 3, 2017, 474 ss. Inoltre, condividiamo quanto espresso da altra dottrina quando ha affermato che «[l]egare la questione del bilanciamento tra libertà di espressione e rispetto dell’altrui religiosità ad esigenze di ordine pubblico è, inoltre, una deriva quanto mai pericolosa non solo perché può giustificare, sulla base della paura contingente e della percezione del rischio, eccessive restrizioni alla libertà di espressione, ma anche perché può contribuire, al contrario, ad identificare i fattori di rischio con una particolare comunità religiosa» (M. Orofino, La tutela del sentimento religioso altrui come limite alla libertà di espressione nella giurisprudenza della corte europea dei diritti dell’uomo, in Rivista Associazione Italiana dei Costituzionalisti, 2, 2016, 36).




Alberto Pento

Non vi può essere:
non vi può essere alcuna libertà religiosa per la religione che ...
non vi può essere alcun valore umano superiore e spiritualmente elevato nella religione che ...
non vi può essere alcun buon sentimento religioso da tutelare laddove la religiosità e la religione ...
non vi può essere alcuna speciale tutela per fondatori di religioni e capi religiosi che compiono crimini e inducono a compierli ...
non vi può essere un trattamento diverso tra religione e ideologia laddove la religione oltre ad essere ideologia religiosa è anche ideologia politica e giuridica ...

che:
che viola i valori, i doveri e diritti umani naturali universali, civili e politici e che sono con essi completamente compatibili;
quindi con le religioni o le ideologie e le pratiche religiose (giuridiche e politiche)
violente, minacciose, intimidatorie, costrittive, ricattatorie;
che promuove e induce al disprezzo, alla discriminazione, alla depredazione, alla schiavitù, alla dhimmitudine, all'odio, al suicidio, all'omicido, allo sterminio, alla guerra, al terrore;
che trasforma gli uomini in mostruosità acritiche, fanatiche, ossessionate, criminali, disumane;
che genera conflitti sociali, etnici, civili, religiosi e politici sia nazionali che internazionali;
che esalta come esemplari figure criminali di assassini, predatori, bugiardi, sterminatori, invasati;
che non promuove e non tutela fattivamente la pace, la fratellanza, la responsabilità, la proprietà, la libertà di parola di pensiero e di critica, la solidarietà volontaria e non forzata;
che non rispetta le persone nelle loro diversità, i paesi, i popoli, le comunità, le etnie, le culture, le tradizioni;
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Libertà di parola, di pensiero, di critica e di religion

Messaggioda Berto » dom ott 31, 2021 8:43 pm

Assolto dalla Corte Suprema un comico che nel suo spettacolo aveva fatto battute pesanti su un cantante con malformazioni
Canada, una sentenza contro corrente: "Satira libera anche contro i disabili"

Luigi Guelpa
31 Ottobre 2021

https://www.ilgiornale.it/news/politica ... 1635664250

Satira e disabilità posso coesistere senza limiti? Qualche tempo fa la campionessa paralimpica Bebe Vio rispose in maniera affermativa. «Per me è normale staccarmi il braccio e darlo agli altri. L'ironia mi aiuta a vivere meglio». Il tema della disabilità in chiave satirica è stato trattato da vignettisti, comici e nel mondo del cinema, basti pensare alla riuscita commedia francese Quasi amici. Sulla linea della tolleranza si è posizionata anche la Corte Suprema canadese che ha assolto un comico che aveva deriso durante un suo spettacolo un giovane cantante affetto da una grave infermità fisica. La sentenza è arrivata dopo una battaglia legale di quasi undici anni che ha occupato spesso le prime pagine dei media canadesi. La vicenda risale al 2010, quando Mike Ward, comico del Quebec, noto per il suo stile irriverente e spesso offensivo, ha preso in giro il giovane cantante Jeremy Gabriel (noto come Petit Jeremy), nato con la sindrome di Treacher Collins, una malattia genetica che crea malformazioni alla struttura ossea del viso e sordità. Ward durante lo spettacolo si era lasciato andare a battute pesanti sul suo aspetto, arrivando persino a dire che lo avrebbe annegato volentieri. La situazione era sgradevole, ma il pubblico ha continuato a ridere. Ward disse nei giorni seguenti: «Non sapevo fino a che punto potevo spingermi con quelle battute. A un certo punto mi sono detto, stai andando troppo oltre, smetteranno di ridere. Ma no, non l'hanno fatto».

Com'era prevedibile Gabriel ha citato in giudizio il comico, e il Tribunale per i diritti umani del Quebec si è pronunciato contro Ward per aver superato i limiti della libertà di espressione e aver discriminato sulla base della disabilità. Il comico ha presentato ricorso, ma ha perso anche davanti alla Corte d'Appello che l'ha condannato a risarcire la vittima con 25mila dollari. La corte nella sentenza ha riconosciuto i pericoli della libertà di parola, ma ha insistito sul fatto che la sua «intenzione non è limitare la creatività o censurare le opinioni degli artisti» ma «i comici, come qualsiasi cittadino, sono responsabili delle conseguenze delle loro parole quando superano determinati limiti».

Non soddisfatto della sentenza, Ward nel 2019 si è rivolto alla Corte Suprema, sostenendo che si trattava di una questione di libertà di parola e spiegando che «non dovrebbe spettare a un giudice decidere cosa costituisce uno scherzo sul palco». Venerdì, la Corte Suprema si è pronunciata con una sentenza combattuta (5 a 4), ma che ha ribaltato i precedenti verdetti. In poche parole satira e comicità non violano la carta dei diritti umani. La sentenza ha affermato che Gabriel è stato preso di mira non a causa della sua disabilità, ma per la sua fama, e che anche se alcuni dei commenti erano «vergognosi e di pessimo gusto, non hanno incitato il pubblico a trattarlo come subumano». Per cinque giudici, Petit Jeremy può aver provato una sensazione di disagio nel corso dello spettacolo di Ward, ma nulla più. Gli altri quattro invece hanno spiegato che il giovane cantante è stato «esposto a una crudele umiliazione pubblica». Il dibattito resta aperto.
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