Casta ademocratica italico-europea

Re: Casta ademogratega tałego ouropea e Brexit

Messaggioda Berto » ven lug 01, 2016 4:09 pm

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BREXIT: gli antichi hanno sempre ragione?! (o Sulla Democrazia)
June 28, 2016
Irene Piccolo

http://www.ameimportasoltantodisapere.c ... bc2451d3a6

Uno dei motti preferiti da mio padre era “Gli antichi hanno sempre ragione”. Così in questi giorni mi son venuti in mente frasi fatte e modi di dire che hanno acquistato ai miei occhi significati nuovi, anzi significati più consapevoli, di quelli che avevo sempre dato loro: “troppi cuochi guastano la cucina” e molti altri ancora.

Tuttavia, prima di partire voglio fare una precisazione: se nel corso della lettura sarete tentati di classificarmi, fermatevi, perché non sarò il tipo di blogger adatta a voi. Mi spiego meglio: quando ho scritto del TTIP mi hanno dato della complottista o della grillina (a piacere!), quando ho detto che le potenze occidentali hanno violato il diritto internazionale intervenendo in Siria mi hanno definita anti-americana o filorussa (a voi la scelta!), quando ho detto che per il caso Marò la giurisdizione appartiene all’Italia e sono state commesse numerose violazioni mi son presa della fascista o, nella migliore delle ipotesi, della militarista. Ora, a parte fare fatica a inquadrarmi contemporaneamente in tutte queste categorie, e pur essendo consapevole che già solo il fatto di pubblicare mi espone a un giudizio ed è un rischio che ho accettato di correre già da molto tempo, il mio invito non è a non classificarmi bensì a essere consapevoli che, nel momento in cui mi state classificando, state sbagliando a identificarmi.

Mi rendo conto che ci troviamo in un mondo in cui si è così poco abituati ad avere di fronte persone veramente libere per cui l’approccio con cui ci si avvicina a ogni cosa, e soprattutto persona, è quello di farla rientrare in uno schema, per meglio “comprenderla”, misurarla, dargli una posizione e quindi poterla catalogare. E, al contempo, se non rientri in una categoria, in questo mondo, finisci per non essere nessuno.

Visto che proprio una categoria bisogna trovarla allora ve la suggerisco io: classificatemi semplicemente come “persona libera”. Non ho l’obbligo di usare toni diplomatici, non devo compiacere nessuno e non devo convincere nessuno. Scrivo perché vedo tante cose che non mi piacciono e soprattutto sento tante di quelle cose che so essere menzogne al punto da avere il rifiuto interiore a stare zitta, sto quasi male fisicamente a sentirle certe cose. È il dolore fisico dell’indignazione.

E non considero menzogne le opinioni che non condivido, né mi sento la depositaria della verità. In genere, invece, le mie riflessioni partono dal fatto che qualcuno, il più delle volte in TV, sta tentando di convincere la gente che 2+2 fa 5, ma la gente questo non può coglierlo perché magari, giustamente, non ha sotto mano un articolo di una qualche convenzione internazionale. Ma se io che conosco quell’articolo mi rendo conto che chi sta in TV racconta solo una parte di quell’articolo, che magari – nel suo prosieguo taciuto – prevede deroghe, eccezioni, precisazioni interpretative, allora consentitemi di dire che quello è un inganno! Non si tratta di interpretazione libera di una norma: quella è nella migliore delle ipotesi - perché non c’è cattiva intenzione – ignoranza; nella peggiore è malafede e truffa. A danno degli individui.

Esempio concreto: ipotesi portata avanti da alcuni, di uscire dall'Euro ma rimanendo nell'Unione Europea. Ve lo dico già da adesso: questa possibilità non esiste!

Il Trattato sull'Unione Europea così come quello sul suo funzionamento, e altrettanto può dirsi per il diritto europeo nel suo complesso, non prevede la possibilità di uscire dall'Euro - una volta che ci sei dentro: o opti per non entrarvi fin dall'inizio (vedi Regno Unito, Danimarca) o, una volta che l'hai adottato, "te ne puoi liberare" solo uscendo dall'Unione nel suo complesso. Non si può avere "la botte piena e la moglie ubriaca". Per cui chi vi dice che al momento si può fare, vi sta raccontando una bugia.

Ovviamente non posso escludere che in un futuro futuribile gli Stati si riuniscano, decidano di modificare i Trattati e allora questa possibilità venga contemplata. Al momento così non è.

Ora partiamo.

Questioni di egemonia

Il Regno Unito, per tradizione, non ha mai voluto occuparsi dei fatti europei fintantoché qualche Paese continentale non avesse deciso di fare l’egemone e quindi rischiasse di “romperle le uova nel paniere” (altro detto!). L’esempio classico è l’intervento negli affari del continente quando Napoleone rischiava di far diventare la Francia concorrente dell’Inghilterra.

Altrimenti, in generale, l’Inghilterra, in quanto isola, non si è mai sentita parte dell’Europa e ha sempre guardato altrove: in linea di massima a tutto ciò che era extraeuropeo (Nord America, Africa, Asia, Australia) e, specificamente, verso l’Asia Centrale da quando a fine Ottocento alcune teorie geopolitiche hanno elaborato il concetto di “isola mondo” e soprattutto “cuore del mondo” (altrimenti noto come Heartland, sebbene la traduzione italiana non sia letterale), identificando quest’ultima appunto con l’attuale Asia centrale.

Se tutti si scannano su determinati pezzi di terra, vedi Vietnam, Afghanistan, Medio Oriente in generale, c’è un motivo: o quei pezzi di terra coincidono perfettamente con il “cuore del mondo” o costituiscono un ingresso al suddetto “cuore del mondo”. Per cui, gli Stati geograficamente lì vicini si troveranno quasi sempre a “giocare in difesa” - che può essere anche una difesa di tipo aggressivo eh! -, ma in linea di massima reagiscono a una minaccia del loro posizionamento rispetto al “cuore del mondo” (vedi la Russia); gli Stati invece geograficamente lontani li ritroveremo sempre lì in trasferta, con scuse più o meno valide (vedi gli Usa, e ancor prima Gran Bretagna e Francia, che guarda caso tra India, Indocina e Cocincina, si erano tutti belli piazzati proprio alle porte del “cuore del mondo”. E nel momento in cui, con la terribile battaglia di Dien Bien Phu nel 1954, il generale vietnamita Giap caccia i francesi e fa loro perdere la guerra di Indocina, gli americani danno il cambio alla Francia: infatti, sebbene l’invio di truppe risalga al 1965, già a partire dall’amministrazione Eisenhower gli Stati Uniti faranno avere il loro supporto al Vietnam del Sud tramite finanziamenti, rifornimenti e invio di consiglieri militari e agenti della CIA).

Tutto questo affannarsi si ha perché, secondo la teoria geopolitica che vi ho appena citato, “chi possiede il cuore del mondo possiede l'isola mondo e chi possiede l'isola mondo possiede il mondo”. Se adesso la politica statunitense con Obama è tornata ad essere “Pivot to Asia” c’è un perché, di certo non solo legato all’espansione economica – e di altro tipo - della Cina con la sua collana di perle. Ritrovate in questa cartina dove sta l’Afghanistan. Fatevi due conti di quali sono i posti cui gli USA guardano di più. Se dopo la caduta dello scià, gli USA si sono comunque fatti piacere l’Arabia Saudita un motivo ci sarà..


Ciò spiega per quale motivo gli Usa stiano abbandonando il Mediterraneo e, in parte, anche il Medio Oriente (rispetto ovviamente alla presenza assicurata in precedenza). Gli Usa, tuttavia, non sono andati via senza nominare un “delegato – protettore dell’Europa”. E questo delegato non è, come ci si potrebbe aspettare per affinità elettive con gli americani, la Gran Bretagna; il delegato americano è la Germania.

Quando il Regno di Sua Maestà mise piede in Europa

Il Regno Unito aveva tentato fin dal 1961 di entrare nell’allora Comunità Economica Europea, non tanto perché si interessasse troppo ai fatti europei quanto per assicurarsi di non essere tagliata fuori; ma ben due volte De Gaulle gli diede il ben servito. Al terzo tentativo De Gaulle non c’era più e il suo sostituto, Georges Pompidou, non si oppose all’ingresso britannico.

Inquadriamo un attimo il periodo: prima metà degli anni ’70.

Il 15 agosto 1971 Nixon annuncia il fallimento del Gold Exchange Standard, altrimenti noto come sistema di Bretton Woods (gli accordi di Bretton Woods furono quelli, per intenderci, in cui furono creati la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale). Questo sistema prevedeva che la moneta di ancoraggio del sistema internazionale fosse il dollaro statunitense, il cui valore era però ancorato all’oro. Tradotto: il cambio del dollaro era sempre uguale (35$= un'oncia d’oro), mentre il cambio di tutte le altre monete era stabilito in base al dollaro. Quindi il dollaro veniva ad essere l’ago della bilancia. Tuttavia, per via delle molte spese della macchina americana, non da ultimo l’impegno militare in Vietnam, più altre problematiche di rilievo, il dollaro non ce la fece più a reggere il sistema, quindi Nixon si “arrese”, dichiarando fallito il sistema e da allora si avviò il sistema dei cambi flessibili, che è sostanzialmente quello che conosciamo adesso. Preferibile o meno che sia, il sistema di cambi flessibili fa fluttuare il valore della moneta e questo significa, necessariamente, imprevedibilità, non stabilità, continui su e giù. Così l’economia dei Paesi del mondo, chi più chi meno, inizia a fare anch’essa su e giù;

nel 1972 la diplomazia triangolare di Kissinger fa sì che la Cina nazionalista (ora Taiwan) venga estromessa dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite a favore della Cina popolare di Mao Zedong;

nel 1973 scoppia la prima seria crisi petrolifera (basti ricordare quando nascono le targhe alterne);

nel 1974 c’è la Rivoluzione dei Garofani in Portogallo, che fa terminare la dittatura di Salazar e comporta anche la decolonizzazione di Angola e Mozambico sino ad allora colonie portoghesi;

nel 1974 ha termine, in Grecia, la “dittatura dei Colonnelli”, il governo della Giunta (ἡ Χούντα) iniziato nel 1967;

nel 1975 muore Francisco Franco e anche la Spagna fa la transizione dalla dittatura alla democrazia richiamando Juan Carlos sul proprio territorio;

nel 1975 c’è la Conferenza di Helsinki, sulla Sicurezza e la Cooperazione in Europa, cui partecipano l’Est e l’Ovest del mondo, dalla Russia (rectius, Unione Sovietica) agli USA, e in cui si fissano i principi di democrazia e diritti umani cui ancora ci rifacciamo nella maggior parte degli atti giuridici internazionali e nelle decisioni di politica internazionale, quali il riconoscimento di nuovi Stati (vedi i fatti di Crimea di alcuni anni fa).

L’Italia quando il Regno Unito fece il suo ingresso

In quegli stessi anni, l’Italia era piuttosto forte a livello comunitario: nel 1970 il ruolo della guida della Commissione spettava all’Italia e Moro, allora Ministro degli Esteri, decise di mandarvi Franco Maria Malfatti come presidente, affiancandogli tra i commissari Altiero Spinelli. L’agenda dell’Europa in quel momento era davvero complessa:

il negoziato per l’adesione di Regno Unito, Norvegia, Danimarca, Irlanda alla CEE;

la trasformazione del bilancio comunitario;

i primi progetti di creazione di una politica monetaria europea (lo SME, meglio noto come “serpentone” vedrà la luce poco dopo);

le difficili relazioni economiche con gli Stati Uniti.

Malfatti fece buone cose ma commise un errore che molto gli fu rimproverato: si dimise con alcuni mesi di anticipo rispetto alla scadenza del mandato naturale, al fine di potersi candidare in Italia per altri incarichi. Questo fu visto dagli ambienti politici e di stampa europei come la prova che l’impegno europeista dell’Italia era solo di facciata; molte parole ma poco effettivo interesse. Purtroppo, sebbene il gesto di Malfatti non sia di per sé, a mio modo di vedere, davvero indicativo, il sentire comune da allora fino ai nostri giorni è tuttora questo: se ci pensate, chi si manda al Parlamento europeo? Veline, cantanti, politici di cui ci si vuole sbarazzare nel contesto nazionale. Insomma, coscienti o incoscienti, quel che mandiamo ogni volta a Bruxelles son gli scarti. E a Bruxelles se ne accorgono.

Ora, in tutta onestà, se non vi prendete/ci prendiamo cura del nostro giardino, davvero poi possiamo lamentarci del fatto di venire punti dai rovi che nel nostro giardino sono cresciuti per colpa della nostra incuria?

Mi si opporrà che tanto il Parlamento europeo non conta nulla. A parte dirvi che state sbagliando, perché conta in molte cose solo che preferiscono farvi credere che non conti nulla perché così possono tranquillamente continuare a mandarci chi pare a loro tanto a voi non interessa, e uno varrà l’altro, vi dico anche un’altra cosa: ammettiamo che davvero il Parlamento europeo non conti nulla. Esso è divenuto eleggibile solo nel 1979. Ciò significa che prima i parlamentari erano scelti dagli Stati e non dai cittadini. Quindi, teoricamente, contava ancor meno di adesso.

Allora, mi sapete dire per quale strano assurdo motivo l’Italia in Europa contava di più prima che dopo il 1979?

Al posto di Malfatti, l’Italia nominò Carlo Scarascia Mugnozza, che aveva come competenze all’interno della Commissione la politica agricola, quella dei consumatori, dei trasporti e dell’informazione: in questi anni l’Italia iniziò a conseguire alcuni vantaggi nel quadro della PAC (Politica Agricola Comune), che negli anni ’70 assorbiva il 70% del bilancio europeo, mentre attualmente solo il 34% è destinato all’agricoltura.

In quegli anni la Francia aveva ottenuto – dopo che nel 1965 De Gaulle si era dato alla “politica della sedia vuota” - che le spese destinate alle politiche agricole fossero coperte essenzialmente dalle c.d. risorse proprie europee: tradotto, con l’IVA. Sì, l’IVA è un’imposta che viene introdotta (in Italia nel 1972) in virtù dell’appartenenza all’Europa per favorire l’agricoltura soprattutto dell’Europa meridionale ma, poi, l’alta protezione accordata dalla CEE ai suoi prodotti agricoli trovò la forte ostilità di Stati Uniti e di tutti gli altri Paesi che non riuscivano ad accedere coi propri beni agricoli al mercato europeo.

"Batti e ribatti si piega anche il ferro" e, soprattutto, l’allargamento verso nord della CEE porta a modificare la PAC europea, al punto che – per fare selezione e quindi ridurre la quantità di prodotti agricoli europei da piazzare sul mercato – si è passati all’iper-regolamentazione. Così vedi le quote latte, le quote sugli agrumi che hanno costretto il Sud d’Italia a vedere marcire sul terreno arance e mandarini. Ecc. ecc. ecc.

Pur non essendo mai in toto protagonista assoluta, l’Italia era ben vista e abbastanza riconosciuta fino ad allora dagli altri Paesi europei. In quegli anni, proprio con il negoziato per l’allargamento, qualcosa cambia. All’inizio del 1970 l’ambasciatore britannico a Roma, sir Patrick Hancock disse:

“Il nostro maggior interesse per ciò che concerne l’Italia è stato ovviamente quello relativo all’Europa.
Con l’abbandono del Ministero degli Esteri da parte di Nenni, quando nel luglio è caduto il governo Rumor,
l’Italia si è rivelata meno efficace nei negoziati europei.
Il suo successore, Moro, è noto per la sua abilità di non dire niente con tante parole.
È risultato quindi deludente sebbene non sorprendente che nelle settimane che hanno preceduto il vertice dell’Aja gli italiani abbiano offerto un’impressione di confusione e debolezza.
Con Nenni in carica forse essi sarebbero stati in grado di mantenersi fermi su quanto desideravano ottenere dal vertice, in particolare un accordo sulla PAC di carattere provvisorio e non definitivo.
In realtà, alla fine del vertice gli italiani hanno capitolato su questo punto per paura di restare isolati.
Né Moro né Rumor hanno giocato un ruolo significativo nei lavori svoltisi all’Aja. Gli italiani restano sostenitori dell’ingresso britannico nella Cee. Ma in base al fatto che non risultano molto efficaci neppure nel difendere i propri interessi, non possiamo aspettarci molto da loro nel difendere i nostri.

Il massimo che ci possiamo attendere è che, nel caso di coincidenza fra i loro e i nostri interessi (cosa che avviene spesso) facciano quanto possano”

Questo non è solo il pensiero degli inglesi di allora, bensì più o meno il sentire comune con cui gli Stati europei ci percepiscono da allora fino ad ora, con piccole rare eccezioni.

Anche se eleggessimo direttamente tutti i nostri delegati in Europa, se la loro qualità non migliora, credete davvero che l’elezione da parte nostra ne cambierà i risultati? No, se non cambia la qualità, anche i risultati rimarranno sempre gli stessi. Se non cambia la mentalità e soprattutto il campanilismo becero italiano, così come sono divisi adesso gli italiani a Bruxelles lo saranno anche quando saranno stati eletti uno per uno. Il valore aggiunto sarà stato solo che il loro campanilismo e le loro divisioni saranno state avallate anche da un voto popolare: questa sì che la definirei una conquista…

La mia visione della Brexit

Dal suo ingresso nella CEE (1973), il Regno Unito è stato disposto a cessioni di sovranità a lento rilascio a favore dell’organizzazione europea, ma la sua condizione è sempre stata quella di “tenere il piede in due scarpe”. Quando si è trattato di entrare nell’area Schengen, ha detto no. Nella disciplina di Dublino, sul sistema d’asilo, ha adottato l’opt-out. Sull’Euro idem. Non è stata di certo l’unica a farlo: la Danimarca non è da meno. E altri Stati hanno fatto un po’ e un po’. Solo che il Regno Unito fa più notizia, ovviamente.

Per tutte queste ragioni, tuttavia, fare un continuo paragone tra l’uscita del Regno Unito e quella (ipotetica) dell’Italia non regge. Non regge perché da un lato l’Italia non ha il sistema economico del Regno Unito, hanno solidità (o insolidità) economiche diverse; dall’altro lato, il Regno Unito non ha gli stessi lacci normativi – regolamentari da sciogliere dell’Italia, che in caso di #exit si ritroverebbe in un intreccio molto più complesso.

Come leggere quindi questa #brexit? Una delle letture che a me risultano più lampanti è che, dal 2008, quando Obama è stato eletto e ha iniziato concretamente a realizzare la strategia Pivot to Asia, lasciando nelle mani della Merkel (da tre anni già cancelliere tedesco) la guida dell’Europa, il Regno Unito ha iniziato ad avere moti di “disagio” interno. Sia ai vertici che nei vari strati della popolazione.

Parlando un attimo dei vertici, la mia visione è che – non essendo riusciti a contrastare di fatto l’egemonia tedesca – hanno tentato il ricatto ed è andata male. Quindi la vedo non la vittoria di chi si è liberato dalle catene comunitarie, bensì la sconfitta di chi non è riuscito ad imporre la propria leadership a un gruppo (i Paesi UE) ed è andato via sbattendo la porta.

Il Regno Unito non ha mai voluto fare da comprimario a nessuno; non è fatto per stare in comunità se non come primus inter pares (vedi il Commonwealth). Non è adatto alla comunità non tanto perché, come sentito negli ultimi giorni, ha ancora pensieri imperialisti. Forse qualche inglese sì, nella propria testa li ha, ma per lo più l’isolamento “sociale” del Regno Unito è legato al suo essere isola. Come sempre la geografia spiega tante cose: essa influenza un popolo nel suo sviluppo e nelle caratteristiche che acquisisce.

La Germania, invece, per quanto ci abbia provato nei secoli, non è mai riuscita ad essere un vero impero: sembrava andarci vicino con Bismark a fine Ottocento, ma di fatto – dopo quella breve parentesi - è sempre uscito sconfitto da tutti i tentativi di imperialismo portati avanti. Anche adesso, nonostante il mandato e la benedizione americana, la Germania non riesce ad essere un vero leader: quando le si riconosce autorità, le si dà la stessa autorità che si dà a un tiranno.

Dal canto suo la Germania di adesso preferirebbe farsi gli affaracci suoi anziché doversi occupare, ovviamente per interessi suoi, anche degli affari degli altri. Lo fa a malincuore e, potremmo dire, per causa di forza maggiore. Una copertina molto azzeccata dell’Economist mi è sempre rimasta molto impressa: quella in cui la Germania era definita “L’egemone riluttante”.

La rivoluzione inglese

Dal punto di vista degli altri strati della società (tradotto: il popolo), la cosa è ancora più interessante. Tutti sapete che il Regno Unito non ha una Costituzione scritta. Esso vive e le sue istituzioni si reggono prevalentemente su consuetudini, regole non scritte, desunte da accordi fatti nel tempo e qualche decreto qua e là. Quindi potrete facilmente capire:

l’astio naturale per l’iper-regolamentazione della normativa comunitaria (che sebbene non sia una britannica, sta in odio anche a me);

l’incapacità psicologica di comprendere la necessità di un Trattato - Costituzione europea, come la si voleva fare nel 2004 (ricordate il meeting a Roma per la sua firma?), sebbene poi a farla fallire non siano stati i britannici ma siano bastati i referendum tenuti in Francia e Olanda;

quanto per i britannici il referendum non sia la massima espressione della sovranità.

Ok, qui lo so, vi ho spiazzato!
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Casta ademogratega tałego ouropea e Brexit

Messaggioda Berto » ven lug 01, 2016 4:10 pm

II Parte

Dunque, riflettiamo su una cosa: la democrazia inglese (nel senso di suo “impianto costituzionale”), in molti manuali di diritto pubblico comparato, viene fatta risalire al 1215 quando il re Giovanni Senza Terra (sì, il famoso principe Giovanni dei racconti su Robin Hood, il fratello di Riccardo Cuor di Leone) emanò la Magna Charta Libertatum. In un moto di tirannide (esattamente come descritto nel popolare racconto), il re aveva un po’ esagerato e le famiglie nobili decisero di metterlo al proprio posto - ve la sto semplificando al massimo, mi pare evidente - facendogli emanare una carta recante le libertà “fondamentali” per cui i baroni si liberavano dall’eccessiva tassazione, dagli arresti arbitrari (garanzia dell’habeas corpus) e da tante altre cosucce che servirono a dare una prima limitazione agli eccessi reali.

Altri manuali, invece, sostengono che i tratti veri del costituzionalismo inglese si delineano in seguito alle due rivoluzioni inglesi: la prima scoppia quando un altro re che aveva un po’ esagerato viene messo a posto stavolta da una rivoluzione "popolare" che porterà alla sua decapitazione (Carlo I, unico sovrano inglese a fare questa brutta fine) e l’instaurazione – per pochi anni – di una repubblica guidata da Cromwell che piano piano diventerà dittatore.

Singolare e molto simbolico ho sempre trovato un episodio legato a questo periodo: un giorno Carlo I si presenta al Parlamento, seguito da guardie armate e cortigiani, con l’idea di far arrestare cinque deputati colpevoli, a suo dire, di tradimento. Lo speaker della Camera dei Comuni (assimilabile al nostro presidente della Camera dei deputati), Lenthall, gli sbarra il passo dicendo:

“Col permesso di Vostra Maestà, io non possiedo né occhi per vedere né lingua per parlare in questo posto,
ma poiché la Camera si è compiaciuta di ordinarmi…”.

Con questa composizione arzigogolata, insomma, il caro Lenthall disse al re che la Camera gli aveva ordinato di non farlo passare. Da allora nessun altro re ha mai più osato mettere piede nella Camera dei Comuni. Ancora oggi, quando ai primi di novembre il sovrano tiene il discorso annuale, lo fa nella Camera dei Lord. Quel giorno, un gentiluomo di corte (Gentleman Usher of the Black Rod) viene mandato alla Camera dei Comuni per chiedere che “questa onorabile Camera” (This honourable House) si rechi nella Camera alta (la House of Lords) per ascoltare il discorso del re (o della regina, attualmente). Quando bussa la prima volta, la porta gli viene letteralmente sbattuta in faccia. Dopo tre tentativi gli viene aperto e il “povero” gentiluomo può finalmente formulare l’invito. A quel punto, lo speaker della House of Commons guida una processione che dalla Camera bassa si dirige alla Camera alta, dove il sovrano leggerà il suo Gracious Speech.

L’episodio risale al 1642; son passati quasi 400 anni e ancora il non ingresso del re nella Camera dei Comuni è parte delle regole del costituzionalismo inglese... parliamone! Iniziate a percepire come il Parlamento inglese sia davvero sovrano?

Continuando la nostra storia, dopo la morte di Cromwell, il figlio di Carlo I (il decapitato) riesce a ritornare sul trono d’Inghilterra ma scoppia subito la seconda rivoluzione inglese, nota anche come “Gloriosa rivoluzione”, e tutto questo porterà all’insediamento di un re “straniero” (Guglielmo d’Orange, dai Paesi Bassi con furore). Il tutto si conclude, a lieto fine, con un secondo atto giuridico, tuttora sacro per gli inglesi tanto quanto la Magna Charta del 1215, e cioè il Bill of Rights (dichiarazione dei diritti) del 1689. Esso sostanzialmente ribadisce i diritti sanciti dalla Magna Charta (in particolare l’habeas corpus che negli ultimi decenni era stato violato un po’ troppe volte, vedi gli arresti arbitrari che il re Carlo tentò di eseguire nell’episodio che vi ho appena narrato) e rafforza definitivamente il Parlamento a discapito della monarchia, la quale deve avere ben chiaro che finché rimane al proprio posto regge; se invece esagera verrà bacchettata.

Ora, perché vi ho parlato di queste due cose? Per farvi comprendere e sottolineare come per gli inglesi la democrazia stia nel Parlamento. Per loro il Parlamento è sacro. Quando in Francia non esisteva ancora lo Stato nazionale, quando la Germania era messa da parte addirittura dai suoi governanti che preferivano alloggiare nella bella Italia (mi riferisco ad esempio a Federico II di Svevia, che pur essendo stato imperatore del Sacro Romano Impero volle che le sue spoglie mortali risiedessero nel Duomo di Palermo), ecc. ecc. ecc., il Regno Unito aveva un Parlamento – ovviamente - e da lì è nata la democrazia britannica.

Quindi no, per gli inglesi la massima espressione della democrazia non è il referendum (quello dello scorso 23 giugno è il secondo nella storia inglese), ma per loro la massima espressione della democrazia sta nelle elezioni che nominano il Parlamento.

Tant'é che è il governo stesso a decidere se indire o no un referendum (su propria o altrui istanza) e l’esito del referendum non limita affatto l’arbitrio decisionale del governo – questo vuol dire che, teoricamente e anche praticamente, il Parlamento inglese e il governo non sarebbero obbligati a far uscire il Regno Unito dall’UE. Non so a quanti di voi sia chiara questa cosa.

Quindi, semmai, la grande prova di democrazia la avrete non dal popolo inglese, bensì dal Parlamento inglese che, pur non essendo costretto a farlo, molto probabilmente, anzi direi certamente, seguirà l’indicazione che il popolo gli ha dato.

Ogni volta che mi sento ripetere che bisogna far passare tutto attraverso il referendum, mi rendo conto che:
molti son convinti che il referendum sia la sola forma di democrazia;
molti altri non si fidano più della c.d. democrazia rappresentativa, cioè quella in cui io voto i miei rappresentanti e loro poi decidono per mio conto.



Democrazia diretta e democrazia rappresentativa hanno lo stesso valore

A questo punto mi vengono in mente due personaggi: il buon Jean - Jacques Rousseau e Platone.

Come tutti ricorderete, Rousseau parlava dell’uomo che esce dallo stato di natura siglando un contratto sociale con gli altri uomini, vale a dire un patto tacito tra individui che rinunciano al loro individualismo per farsi società e quindi, pragmaticamente, migliorare il proprio stile di vita.

Egli parla di “società giusta” in cui l’individuo “affida” i proprio diritti, intesi più che altro come particolarismi, alla società di cui fa parte. Dall’io particolare si passa dunque all’io comune all'interno del quale si possa realizzare la libertà, dal momento che nessuno è sottoposto all’arbitrio di qualcun altro bensì solo alla volontà generale che egli stesso concorre a formulare e a esprimere attraverso la legge.

L'obbedienza al corpo sovrano (sia esso monarca, governo, presidente ecc. ecc.) non rappresenta quindi una costrizione, dal momento che l'individuo non fa che obbedire a se stesso, al suo "io comune".

Affinché però ciò si realizzi, è necessario che tutti rinuncino completamente alla propria libertà particolare: questo è il presupposto dell'uguaglianza tra i contraenti che stipulano il contratto sociale.

Tuttavia, Rousseau, pur essendo astrattamente un grandissimo fautore della democrazia diretta (cioè quella esercitata direttamente dal popolo), la considera non concretamente realizzabile perché non tutti gli uomini hanno la virtù necessaria alla democrazia: vale a dire, la virtù di mettere tra parentesi il proprio io individuale in nome del bene comune.

Tradotto: già è difficile che a pensare al bene comune siano i soli parlamentari (un migliaio, in Italia); figuriamoci se a pensare al bene comune debba essere ciascun cittadino italiano! Praticamente e statisticamente impossibile.. ci sarà sempre qualcuno che si farà gli affaracci suoi. Rousseau infatti dirà:



"Se ci fosse un popolo di dei, si governerebbe democraticamente.

Un governo tanto perfetto non si addice agli uomini."



Così alla fine egli conclude che sia più funzionale una forma di governo mista, che recuperi gli aspetti positivi del regime democratico temperandone i difetti.



Ora, non è un caso che Rousseau fosse ginevrino; la democrazia diretta fa parte della struttura sociale e dell’identità svizzera. Se ciononostante, pur impregnato di quel modo di concepire i rapporti individuo - Stato, Rousseau stesso arriva a sconsigliare l’applicazione della democrazia pura (così come delle altre forme di governo, sia chiaro!) a beneficio di sistemi misti (o temperati, come li definisce egli stesso), che prevedano un po’ e un po’, evidentemente anche la democrazia, come ogni creazione umana, non è perfetta.



Faccio un inciso: quando parlo di democrazia diretta mi riferisco a tutte quegli strumenti attraverso i quali il popolo esprime la propria volontà direttamente (referendum, petizione, proposta di legge di iniziativa popolare) anziché farlo attraverso i propri rappresentanti (che prende il nome di democrazia rappresentativa).

L’Italia è quello che Rousseau definirebbe sistema temperato, magari non perfetto ma comunque temperato, dal momento che prevede sia strumenti di democrazia diretta che strumenti di democrazia rappresentativa.

Su Platone ci sarebbe da dire molto e molto, il suo Protagora così come la Repubblica andrebbero letti e riletti, non necessariamente per dar ragione alla lettura platonica del mondo quanto perché leggerli sottopone la nostra mente a continue domande e riflessioni: quanto l’uomo è cambiato nel corso dei millenni? Quanto ritroviamo oggi di quel che descrive Platone? I vizi? I difetti? I pregi? Le qualità? Le ambizioni? Quanto sono cambiati, se sono cambiati, da allora?

Platone nella sua trattazione sulle forme di governo, quando parla della democrazia, afferma che essa non tiene conto del fatto che gli uomini non sono affatto uguali e soprattutto costituisce una rinuncia al principio di competenza.

In particolare però Platone mette in evidenza qualcosa, cioè quello che prende il nome di paradosso della libertà o della democrazia: l'eccesso di libertà induce i cittadini a consegnarsi a un difensore, solitamente un demagogo, il quale sollecita le istanze irrazionali degli individui e riesce a farsi consegnare ‘democraticamente’ il potere, trasformandosi in tiranno, ed eliminando tutte le libertà della democrazia.

Come smentire l’affermazione di Platone che gli uomini non sono uguali?

Io non sono in grado di farlo. Sono un’accesa sostenitrice dell’eguaglianza giuridica (tutti quanti abbiamo eguali diritti e doveri e pari dignità davanti alla legge) ma non riesco in alcun modo a dire che esiste l’eguaglianza sostanziale: ciò perché la Natura non è una forza democratica. In base a quale criterio la Natura avrebbe deciso di dare a me un naso a patata mentre a qualcun altro lo ha dato all’insù? In base a quale criterio, se non casualità o libero arbitrio, avrebbe dato a me più propensione per la matematica anziché per il disegno?

L’eguaglianza sostanziale non esiste e il voler continuare ad affermare, senza comprendere a pieno la portata dell’affermazione, che siamo tutti uguali senza distinguo è la prima forma della discriminazione e dell’ingiustizia. Non a caso, per fortuna, in molti processi pedagogici si sta affermando che i bambini, per il loro pieno e più sano sviluppo, debbono essere trattati in modo EQUO non UGUALE.

Due aggettivi che hanno significati molto diversi: il primo significa dare a tutti le giuste opportunità che servono per esprimere e sviluppare al meglio la propria individualità, la seconda invece significa applicare lo stesso metodo (per es. di apprendimento) indipendentemente dalle caratteristiche peculiari, e quindi caratteristiche diverse (leggi: non uguali) della persona che si ha di fronte. Concretamente la si sta discriminando e la si sta mettendo in difficoltà. Il paradosso dell’uguaglianza!

Ora, in questi giorni più che mai vedo chi, da un lato, dà degli ignoranti ai componenti del popolo britannico che hanno votato per l’uscita dall’UE e, dall’altro lato, chi dà a sua volta degli ignoranti a chi ha fatto propria la prima affermazione.

Ora, così come ho sempre sostenuto che il diritto di voto non è un voto davvero libero se si è formato in base a informazioni errate, distorte o addirittura non date, allo stesso modo sostengo che probabilmente molti dei britannici che hanno votato per il leave – così come probabilmente per il remain – non avessero esattamente ben chiaro cosa stessero facendo.

E in questa affermazione non c’è alcuna distinzione tra anziani e giovani; solo perché ho trentuno anni non credo che gli anziani debbano essere “rottamati” (per usare un termine in voga) perché non possono comprendere il mondo di oggi che non è fatto a loro misura e non credo affatto che solo i giovani siano in grado di leggere i tempi attuali.

Qui si ripropone il problema, che vi ho evidenziato all’inizio, di dover mettere sempre tutto all’interno di una categoria: giovani da un lato, anziani dall’altro; europeisti da un lato, antieuropeisti dall’altro. E così troppo spesso ci si dimentica che la società si compone di tutte queste “categorie” e tutti abbiamo bisogno di tutti; gli anziani non sono e non dovrebbero essere un peso; i giovani non sono e non dovrebbero essere scansafatiche o carni da macello iper-sfruttati.

La società ha bisogno di tutte le fasce d’età così come ha bisogno di tutti i lavori (se da avvocato ti consideri superiore a un netturbino evidentemente non cogli la differenza di puzzo ed igienica che passa tra una strada pulita e una sporca, e di certo non sono gli avvocati ad alzarsi alle 3 di notte per fare la pulizia delle strade. Né si può affermare che siccome le strade, ad es. qui a Roma, sono vere zozzure in certi punti allora i netturbini non servono. Probabilmente ci saranno netturbini scansafatiche così come ci sono avvocati “furbacchioni”; esattamente come ci saranno netturbini che lavorano ma - essendo in sottonumero - non riescono a completare al meglio il proprio lavoro tanto quanto avvocati onesti che davvero lottano per la giustizia ma che si trovano imbrigliati nelle maglie del malfunzionamento del sistema giudiziario e quindi impossibilitati a portare fino in fondo le proprie battaglie).

Maggiore competenza in un campo non significa superiorità. Sono due cose diverse.

Altre categorizzazioni dannose alla democrazia sono quelle che attribuiscono a determinati gruppi l’onestà o la superiorità morale.

L’onestà non è di un partito o di un movimento, l’onestà è di tutte le persone oneste. E se tu (tu impersonale) provi a togliere loro il riconoscimento dell’esistenza di quest’onestà, sei tu lo scorretto.

La superiorità morale non è di un partito o di un movimento. La superiorità morale di un gruppo non esiste, per il semplice fatto che la morale è qualcosa di individuale. Mi spiego meglio: il termine "morale" sta a indicare la condotta di un individuo che si comporta in quel modo perché ritiene che una certa norma (religiosa o laica che sia) così lo indirizza e, spesso, l'agire di tanti individui nella stessa direzione costruisce proprio i comportamenti sociali. Per citare Cicerone nelle sue Catilinarie: "O tempora, o mores!".

Si tratta di una condotta individuale, non collettiva.

Per cui se tu (tu impersonale) la ricolleghi a un gruppo stai snaturando la parola “morale” e soprattutto stai affermando che gli individui che fanno parte di quel gruppo son fatti con lo stampino, uno identico all’altro, per cui la morale dell’uno – che dovrebbe essere qualcosa del tutto personale – è sovrapponibile alla morale dell’altro. In pratica, robot o persone spersonalizzate.

Inoltre, se vogliamo proprio ipotizzare che la superiorità morale esista, essa ha la sua prima manifestazione nell’umiltà: chi è moralmente superiore non ha bisogno di gridarlo e sbandierarlo ai quattro venti; lo è e basta e, se questa superiorità davvero c’è, gli altri non potranno far altro che riconoscerla. E qui mi torna in mente un altro detto “Chi si loda si sbroda”.

Ora, tornando a noi: chi ha votato a favore del rimanere nell’UE e chi per andarsene? Citando Clark Gable, “francamente me ne infischio”. Per il semplice fatto che tutti avranno espresso il loro voto sulla base di quella che è la loro percezione dell’UE nelle loro vite. E chi sono io per dire loro che è giusto o sbagliato? È comunque un voto che rispetto. Uno Stato deve andare dove vuole il suo popolo e solo il Tempo potrà dirci se è stato un errore o meno.

Mi chiedo solamente, però, se un referendum sia lo strumento più adeguato per prendere cotanta scelta. A mio modo di vedere no, ma non perché io sia una tiranna. Bensì perché mi chiedo:

Quanto le persone, non solo gli inglesi, ma anche gli italiani, sono in grado effettivamente di misurare quali sono le conseguenze sulle loro vite dovute alle politiche UE? Quali quelle connesse alle politiche nazionali? E quali sono una combinazione diabolica delle due? Chi può garantire a quegli inglesi che hanno votato per l’uscita, che una volta usciti non si ritroveranno comunque faccia a faccia con quelle problematiche nella stessa eguale misura?

Quanto le persone sono in grado di misurare, in termini macroeconomici, le conseguenze di una decisione di questo tipo? Un conto è decidere di aderire a un’organizzazione “politica”, di cui è più semplice veicolare e comprendere il messaggio e quindi anche più semplice decidere: sì mi piace, no non mi piace. Ma davvero vi sentite in grado di misurare le conseguenze, finanziarie e non, dell’entrata o dell’uscita da un’organizzazione di integrazione economica, per di più sui generis, come l’UE? Se sì, chapeau! Io studio questi temi dal 2004 e ciononostante non mi sento in grado di avere una visione convinta di tutti i risvolti, perché la materia è molto complessa. E' più facile decidere se fare guerra o meno alla Francia per antipatia che decidere se uscire o rimanere nell'UE, dal mio punto di vista.

Quanto le persone sono in grado di distinguere gli effetti negativi che veramente l’UE ha causato da quelli che i politici attribuiscono all’UE per non prendersi il demerito di aver fallito loro con le loro politiche nazionali? L’arte dello scaricabarile è molto usato e abusato in Italia. Alcuni degli altri Paesi non sono di gran lunga differenti su questo fronte.

Cultura e consapevolezza

Ieri ho provato – riuscendoci a stento – a far capire a mio fratello, che ha un buon comprendonio e una buona cultura, la differenza tra politica fiscale e politica monetaria e perché sia preferibile che queste viaggino a braccetto. Già conoscendo questa differenza, si potrebbe comprendere metà della realtà comunitaria: cause, decisioni ed effetti. Ma io non posso pretendere che tutti la sappiano, e infatti non lo pretendo. Ma che tutti pretendano di poterne fare a meno e pensare di fare comunque una scelta consapevole, beh, la considero arroganza.

La cultura va difesa perché è l’unico mezzo che ci consente di essere consapevoli. Nel momento in cui la declassiamo, pensando di poterne fare a meno, non siamo più padroni del nostro destino.

La mia non vuole essere una considerazione classista: il mio sito nasce proprio per diffondere la cultura, soprattutto internazionale, a tutti i livelli. Uscire dall’accademia e parlare con tutti coloro che riesco a intercettare. Se lo faccio è perché sono convinta che tutti abbiano in sé i semi per poter comprendere e conoscere.

Ma tra i semi e le piantine c’è un percorso, concime e innaffiatura. Nel percorso di crescita culturale, concime e acqua sono costituiti da studio e approfondimento. Se senza aver fatto quello, i semini pretendono di essere e comportarsi come piantine stanno in primo luogo mentendo, a se stessi soprattutto. E in secondo luogo stanno facendo un gran peccato di presunzione.

Inoltre, così facendo sminuiscono il valore della cultura e dello studio: declassare questi due valori ci ha portato a dove stiamo adesso. Continuare a farlo non potrà che far peggiorare le cose.

Per prendere alcune decisioni, è necessario riconoscere di averne o non averne le competenze. Tu, padre di famiglia, prima di prendere una decisione quanto ci rifletti su? Quanto pensi a come sono messe le finanze generali, le condizioni dei tuoi figli, se puoi permetterti un passo oppure no? Ebbene, perché tu, padre di famiglia, non dovresti informarti ed essere effettivamente consapevole di come stanno le cose prima di prendere una decisione come l’uscita dall’UE che influenzerà indubbiamente la tua vita quotidiana?

Certo, il primo pensiero è: se esco dall’Unione Europea finalmente non dovrò più stare attento alle curvature delle banane o alla larghezza delle vongole. Finalmente!

Ma qualcuno gli dirà mai che l’Unione europea garantisce diritti minimi al di sotto dei quali le leggi nazionali non possono andare? E che invece, uscire dall’UE, significa che quelle soglie minime possono essere modificate al ribasso e nessuno potrà più dire nulla al legislatore nazionale visto che i sindacati o sono “conniventi con il potere” o semplicemente “se ne infischiano”? Nel caso britannico, una delle prime cose venute in luce è la tutela delle donne in maternità: la legislazione europea prevede un certo standard. Quella inglese uno standard più basso. Le prossime mamme inglesi quanto saranno contente di ciò?

Siamo davvero molto abituati a sentirci dire cosa non va nell’UE. Ma molte poche persone ce ne raccontano i pregi. E troppo poco spesso si pensa a cosa saremmo adesso se l’UE non ci fosse mai stata. Probabilmente l’Italia sarebbe un moscerino schiacciato dal gigante cinese. Economicamente surclassato.

Io sono la prima ad aver messo sotto la lente di ingrandimento le criticità e le incongruenze della c.d. Unione Europea, ma non necessariamente guardare la realtà in faccia e chiamare le cose con loro nome – anziché raccontarsi la bella storiella dell’Europa dei popoli perfetta e impeccabile – significa esserle contraria. Anzi, è un po’ come quando rimprovero mia sorella o le faccio notare qualcosa che non va. Di certo non lo faccio con le intenzioni di distruggerla, ma con quella di aiutarla a migliorarsi.

Conseguenze

Ora, quali saranno le conseguenze della Brexit:

a. probabilmente i balzelli della borsa dureranno per un po’, nessuno era davvero preparato all’eventualità dell’uscita inglese, neanche lo stesso Cameron che ha invocato il referendum;

b. molte cose cambieranno per i cittadini e per le imprese, ma il Regno Unito, a ben vedere, non ha ancora presentato la notifica di cui all’art. 50 del Trattato sull’Unione Europea (adottato a Lisbona nel 2007. Prima era impossibile, giuridicamente, per gli Stati lasciare l’Unione).

Vi riporto per completezza l’articolo per esteso, soprattutto perché voglio puntualizzare una baggianata che ho sentito dire l’altro giorno in TV da un giornalista molto accreditato, in riferimento al paragrafo 4 (ve lo evidenzio in grassetto):

“1. Ogni Stato membro può decidere, conformemente alle proprie norme costituzionali, di recedere dall'Unione.

2. Lo Stato membro che decide di recedere notifica tale intenzione al Consiglio europeo. Alla luce degli orientamenti formulati dal Consiglio europeo, l'Unione negozia e conclude con tale Stato un accordo volto a definire le modalità del recesso, tenendo conto del quadro delle future relazioni con l'Unione. L'accordo è negoziato conformemente all'articolo 218, paragrafo 3 del trattato sul funzionamento dell'Unione europea. Esso è concluso a nome dell'Unione dal Consiglio, che delibera a maggioranza qualificata previa approvazione del Parlamento europeo.

3. I trattati cessano di essere applicabili allo Stato interessato a decorrere dalla data di entrata in vigore dell'accordo di recesso o, in mancanza di tale accordo, due anni dopo la notifica di cui al paragrafo 2, salvo che il Consiglio europeo, d'intesa con lo Stato membro interessato, decida all'unanimità di prorogare tale termine.

4. Ai fini dei paragrafi 2 e 3, il membro del Consiglio europeo e del Consiglio che rappresenta lo Stato membro che recede non partecipa né alle deliberazioni né alle decisioni del Consiglio europeo e del Consiglio che lo riguardano. Per maggioranza qualificata s'intende quella definita conformemente all'articolo 238, paragrafo 3, lettera b) del trattato sul funzionamento dell'Unione europea.

5. Se lo Stato che ha receduto dall'Unione chiede di aderirvi nuovamente, tale richiesta è oggetto della procedura di cui all'articolo 49.”

L’esimio giornalista di cui sopra ha interpretato la parte in grassetto in questo modo: le condizioni dell’uscita saranno decise solo dall’Unione perché il Regno Unito non può partecipare alle deliberazioni sul punto.

Dunque, quello che l’articolo dice è un’altra cosa: giustamente il testo stabilisce che, dal momento che si tratta di un accordo UE-Regno Unito, il rappresentante del Regno Unito che sta dentro al Consiglio UE non può votare due volte, altrimenti avremmo il Regno Unito che da un lato, come governo, contratta l’accordo e, dall’altro lato, il Regno Unito che tramite i suoi rappresentanti all’interno dell’Unione controfirma lo stesso accordo. In pratica, se la canta e se la suona. Nella migliore delle ipotesi, potremmo chiamarlo conflitto d’interessi.

Quindi non è assolutamente vero che il Regno Unito, come qualunque altro Paese che decidesse di uscire, non potrebbe contrattare le condizioni dell’uscita. Ora è vero tutto, ma tirannica fino a questo punto l’UE non lo è!

c. Son pressoché certa, tuttavia, che il governo inglese presenterà la notifica di recesso a meno che, dopo un’approfondita analisi (di cui io non posso disporre), venisse fuori che l’uscita equivarrebbe a dissesto finanziario. Due anni al massimo per l’uscita, nel tempo umano, sembrano molti; ma economicamente 2-3 anni è quello che viene detto “breve periodo”. Uno Stato può in così breve tempo prepararsi a un cambiamento così radicale?

d. C’è da notare che la principale ricchezza del Regno Unito è la finanza, senza nulla togliere al resto. La City è ancora qualcosa di molto importante e può macinare terreno a dispetto di ogni previsione. Sta alla bravura dei finanzieri e degli operatori economici. Diverso sarà per la bilancia commerciale: verso dove esporterà i suoi prodotti, non finanziari, il Regno Unito? Probabilmente dovrà comunque fare riferimento al mercato europeo, ma – a meno che – non strappi in trattativa condizioni vantaggiose, per entrare nel mercato europeo adesso si ritroverà i dazi che l’UE potrebbe mettere ai confini. Per intenderci, un oggetto hi-tech prodotto in Inghilterra lì costerebbe 2, l’UE all’ingresso mette il dazio di 1, quindi nel mercato europeo quel prodotto sarebbe venduto a 3, diventando svantaggioso in termini di competizione perché magari lo stesso prodotto in Italia costa 2,5. Quindi, se il Regno Unito fosse stato ancora nel mercato europeo il suo prodotto lo avrebbe venduto (2 contro 2,5), con il dazio invece ci rimette (perché è 3 contro 2,5).

Paradossalmente, quindi, mi viene da pensare che la Brexit sia più dannosa per il Regno Unito che per l’UE. Però, trattandosi del Regno Unito, è un’economia che potrebbe reggere, in linea di massima.



Il messaggio per gli altri Paesi dell’Unione potrebbe essere “ci stiamo disgregando, may day may day!”. In realtà io la vedo più come il momento delle “pulizie”: è davvero tanto tempo che non siamo più Unione, bensì Disunione Europea. Per cui fare chiarezza su chi vuole davvero stare dentro e chi invece vuole andarsene non fa altro che chiarire le idee a tutti quanti.

D’altronde, l’allargamento spasmodico, foraggiato a tutti i costi dalla Germania, del 2004, verso Paesi che non erano pronti a stare al passo, per deficienze strutturali che ancora richiedevano tempo per essere sanate, ha trasformato l’Unione Europea in una organizzazione di beneficenza. Anche se altri Paesi dovessero andare via, il risultato sarebbe duplice:

Rimane il nocciolo duro di chi è davvero convinto dell’ideale europeo e magari, finalmente, lo si riesce a realizzare o comunque ad andarci più vicino;

Si sancisce il fallimento della politica europea della Germania che per l’ennesima volta nella sua storia anziché unire ha diviso.

Tuttavia, pensare che l’Italia possa essere tra coloro che potrebbero abbandonare subendo "solo" gli stessi danni che subirà il Regno Unito, è da sognatori. L’Italia non ha al momento le strutture economiche per sopportare l’onda d’urto da cui sarebbe investita e, soprattutto, i cittadini si ritroverebbero a dover constatare amaramente che il 90% dei problemi che attribuivano all’Europa non erano dovuti all’Europa. Se li ritroveranno ancora tra i piedi, e dovranno riconoscere di essere stati ingannati.

???

No la me ga convinto, ansi, lè na statalista, la voria n'Ouropa castual come la Talia. No!
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Messaggioda Berto » sab lug 02, 2016 5:10 pm

Luciano Canfora: la tentazione dei liberali è togliere il voto alla gente
Secondo lo storico e filologo le polemiche del dopo Brexit (“devono votare anche gli ignoranti?”) rivelano l’antico sogno liberale di “addomesticare” la democrazia. Ecco perché l’idea di restringere il diritto di voto su temi importanti non può funzionare, ed è antidemocratica
di Dario Ronzoni

http://www.linkiesta.it/it/article/2016 ... -gen/31033

Pochi argomenti, nella storia, sono stati trattati così tanto da aver raggiunto la consumazione. Uno di questi è, senza dubbio, il diritto di voto. A chi spetta? Chi può votare? È giusto che lo facciano tutti? Le sensibilità, nel corso degli anni, sono cambiate. E così le posizioni in merito. Ma capita – ed è successo con il voto della Brexit – che certe idee (che si credevano archiviate) riaffiorassero, quasi dalla notte dei tempi, per ritornare nel discorso pubblico. È il caso del “voto agli ignoranti”: è giusto che anche chi non capisce voti? Tutti i voti valgono allo stesso modo? Secondo il professor Luciano Canfora, filologo classico e storico, docente di Filologia greca e latina all’Università di Bari, sono tutte asserzioni «insostenibili». Vecchie tentazioni che, nonostante siano nella bocca di persone molto conosciute, non meritano di essere considerate.

Quindi è giusto che il voto delle persone incolte valga come quello delle persone istruite?
È una tematica già trattata in ampiezza e profondità. Le risponderò così: l’altra sera ero a Taranto, in occasione di un incontro per il comitato per il No al referendum, quando dal pubblico mi è stata fatta proprio questa domanda. Sembra che, in riferimento al risultato del voto sulla Brexit un uomo di solito molto compassato come Mario Monti abbia affermato che sia ora “di smettere di chiedere al popolo di votare”. O qualcosa di simile.

Ha parlato di un “abuso di democrazia” da parte di Cameron.
Ecco. E anche un filosofo come Umberto Galimberti avrebbe sostenuto in un’occasione pubblica che il voto intorno a questioni importanti non dovrebbe essere esteso a tutti. Direi che si tratta di un argomento apparentemente razionale. Ma in ultima analisi insostenibile.

Perché?
Perché qualunque votazione che abbia in oggetto la cosa pubblica possiede tali implicazioni da richedere sempre, e in ogni caso, un ragionamento simile. Non vale e non può valere solo per il referendum sull’uscita dall’Unione Europea. Se il criterio è la competenza dell’elettore, allora per ogni votazione, anche per le elezioni politiche, europee, cittadine, ci vorrebbero mesi di studio sui programmi dei candidati e seminari interi per comprendere le tematiche che affrontano, che sono sempre complesse e non alla portata di tutti. Per cui l’argomentazione della preparazione è debole. Rivela, piuttosto, un’altra cosa.

Cioè?
Che è un ragionamento che conduce al voto ristretto, un antico sogno dei regimi liberali – quando il grande proprietario terriero aveva un voto che valeva cinque, mentre il piccolo contadino valeva uno. La spiegazione era che, avendo il grande proprietario terriero una proprietà più ampia, era più esposto ai rischi e perciò vantava un diritto maggiore per dare una direzione alle decisioni. Ma sono visioni passate, archiviate, già consumate. Appartengono all’antichità.

A proposito di antichità, se si parla di democrazia non si può evitare di pensare all’antica Grecia.
Ecco, io vorrei sottrarmi a questo tipo di confronto. Se si prende il caso di Atene, siamo in un contesto in cui il voto era già ristretto. Qui potevano votare, al massimo, 20mila cittadini. Era un diritto non riconosciuto agli schiavi, che erano moltissimi, e alle donne, il cui solo dovere era di stare zitte.

Però il dibattito – questo dibattito – esisteva comunque.
Diciamo che, anche in un contesto del genere, nondimeno, il ceto dei cittadini pleno iure era diviso tra ricchi e poveri (anche se non poverissimi: uno schiavo se lo potevano sempre permettere). Anche allora alcuni filosofi aristocratici sollevavano il problema della competenza.

Lo stesso di oggi.
Oggi il nostro problema riguarda la complessità della materia. Ma come si stabilisce chi sia in grado di votare? Io stesso, per esempio, sull’economia politica non sono un esperto. Leggo e mi documento, certo. Ma tra me e Draghi, per fare un esempio, l’unico che avrebbe diritto di voto sarebbe lui.

Funzionano, a suo avviso, i casi di democrazia diretta? Un esempio è la Svizzera.
No, non sono un caso attendibile. È vero, come si dice, che in Svizzera si vota per qualsiasi cosa. Ma sono tutte votazioni senza quorum e nella maggior parte dei casi vota solo il 10%. Prevale il non-voto, l’assenteismo. Proprio quel fenomeno che, con un’espressione stupida, si attribuisce “alle grandi democrazie”. E i pennivendoli lo interpretano come un segno di maturità. Democratica.

Ma allora dove si può trovare una democrazia vera?
La democrazia non indica un ordinamento costituzionale, come è ovvio. Ma la situazione dei rapporti di forza delle classi di una società. L’autunno caldo è un segno di democrazia, per capirsi. È un contesto in cui l’ordinamento resta il medesimo, come è in Italia dal dopoguerra, ma i rapporti di forza tra le classi sociali cambiano. Negli anni ’60 le classi più ricche hanno arretrato e fatto diverse concessioni alle classi subalterne, che si sono tradotte in norme di legge, come ad esempio l’articolo 18. Adesso Matteo Renzi lo ha cancellato. Ha cancellato anche la concertazione – che era stata introdotta da Giolitti. Sono tracce formali di una diminuzione di democrazia? Di sicuro l’unico strumento formalizzato per ridurre la volontà popolare e calpestarla è la legge elettorale.

In che senso?
Il maggioritario, ad esempio. Serve a consentire a una minoranza di prendere il potere, con la scusa della governabilità. Un modo tranquillo per infischiarsene della volontà popolare. Ci sono forme più dolci e rispettose e forme più dure, come il doppio turno alla francese, o come il Porcellum e l’Italicum. Sono importanti perché orientano gli equilibri di potere. Sono decisive per questo. Perché, come disse Raniero La Valle, l’unica vera riforma costituzionale è la legge elettorale.
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Messaggioda Berto » lun gen 30, 2017 6:58 pm

PARLANO DI FALLIMENTI DEL MERCATO, MA NON LI SANNO DIMOSTRARE
di MATTEO CORSINI

http://www.miglioverde.eu/parlano-di-fa ... dimostrare

“La richiesta di dimostrare un fallimento del mercato non è corretta, perché richiede di dimostrare troppo a chi invoca un intervento”. Noah Smith non fa mistero di essere un sostenitore dei correttivi agli esiti del libero mercato. Al tempo stesso, ritiene che sia ingiusto che i fautori del libero mercato chiedano agli interventisti di dimostrare in cosa consisterebbe il fallimento del mercato che loro vorrebbero correggere, perché tale dimostrazione potrebbe essere eccessivamente ardua.

Questo ovviamente non gli fa sorgere il dubbio che gli interventisti tendano a definire un fallimento l’esito di interazioni volontarie che, molto semplicemente, essi ritengono (soggettivamente) sgradevoli. Smith lamenta il fatto che molte persone assumano che il libero mercato sia “lo stato naturale delle cose”, per cui l’intervento dello Stato sarebbe un elemento artificiale. A suo parere “l’economia è per lo più una costruzione umana”, per cui “non c’è ragione per non credere che non dovremmo cercare di migliorarla”.

Che l’economia dipenda dall’azione umana (e la scienza economica rientri nello studio dell’azione umana) è certamente vero, e indubbiamente il libero mercato non rappresenta lo “stato naturale delle cose”, in senso letterale, essendo piuttosto un ordine spontaneo dato da scambi determinati da scelte volontarie di chi compra e chi vende un certo bene o servizio. Non è detto, quindi, che una “costruzione umana” debba essere una costruzione statale, o comunque ottenuta mediante l’imposizione di scelte ad altri da parte di qualcuno in violazione del principio di non aggressione.

E va da sé che i miglioramenti derivino dalle iniziative di chi partecipa al processo di mercato. Non è affatto detto che il miglioramento debba essere imposto dall’alto, perché ciò che Tizio ritiene essere migliore potrebbe non esserlo per Caio. Resta il fatto che se Tizio e Caio effettuano uno scambio volontariamente, significa che entrambi attribuiscono minor valore a ciò che cedono nello scambio rispetto a ciò che ricevono. Mentre se Tizio impone a Caio uno scambio, non si può dire che ciò rappresenti un miglioramento per Caio.

La tendenza degli interventisti è quella di ritenere che lo Stato debba sostituirsi al volere degli individui per il bene di tutti, perché molti individui sono considerati irrazionali. Ma, anche in questo caso, a essere definito irrazionale è semplicemente un comportamento che non si allinea a ciò che l’interventista ritiene essere razionale. Smith ammette che “spesso una politica serve a correggere i fallimenti di un’altra”. Ma, contrariamente a Mises, che individuava in questa stratificazione di interventi la via verso il socialismo, Smith non vede alcun problema.

Che invece esiste, eccome. Perché ammettere che nessuno è onnisciente e infallibile, salvo poi pretendere di considerare necessario che lo Stato continui a intervenire procedendo per tentativi e correttivi, equivale a dare per scontato che tra lo Stato e i cittadini vi sia un rapporto contrattuale. Una impostazione per nulla nuova, ma che i “contrattualisti” non riescono a giustificare a chi chiede loro di farlo, così come gli interventisti non riescono a dimostrare i fallimenti del mercato. Se una cosa non la si riesce a giustificare, non sarà per caso ingiustificabile?
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Re: Casta ademogratega tałego ouropea- Brexit e Trump

Messaggioda Berto » lun gen 30, 2017 7:01 pm

Donald Trump o Francesco Bergoglio ?
Io preferisco mille volte Donald Trump
viewtopic.php?f=141&t=2462

https://www.facebook.com/alberto.pento/ ... 8457388171

Trump Donald
viewtopic.php?f=141&t=2262
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Messaggioda Berto » gio feb 02, 2017 9:11 pm

È arrivata l'Inquisizione! La Boldrini vuol mettere FB sotto controllo
Secondo il presidente della Camera i social media rischiano di "alterare gli assetti democratici" e lancia una proposta choc: "Attenzionare i gruppi chiusi su Facebook".
2 Febbraio 2017
http://www.ilpopulista.it/news/2-Febbra ... rollo.html

"È arrivato il tempo della responsabilità per tutti noi delle istituzioni ma anche il tempo della responsabilità per chi opera nella sfera digitale che sarà sempre più parte nostra vita. Un uso distorto va ad alterare gli assetti democratici. A questo si aggiungono le fake news e si capisce bene che è un fatto esplosivo a livello di tenuta democratica, noi dobbiamo dare priorità a questo tema esigendo impegni concreti". Lo afferma il presidente della Camera Laura Boldrini, nel corso della riunione della commissione Cox alla Camera chiedendo di "attenzionare anche i gruppi chiusi di Facebook" quale sia la "policy", se "questi gruppi violano la dignità delle persone, e se chi li denuncia invece viene oscurato: per me - ha sottolineato - è una cosa inaccettabile".

"A breve lancerò un appello per il diritto ad una corretta informazione: 'basta bufale'. - ha affermato Boldrini - Un appello che vorrei lanciare a tutti i cittadini, perché ritengo che sia giunto il momento di dare alle persone la facoltà di esprimersi direttamente rispetto a questo fenomeno che sta prendendo corpo". "Si tratta - ha affermato - di azioni spregiudicate, le bufale non sono goliardate, non c'è nulla di cui poter sorridere, le bufale sono azioni spregiudicate che vengono fatte a scopo commerciale o politico e comunque sono azioni che danneggiano enormemente individui e la stessa collettività. Quindi ritengo che sia necessario proporre azioni per arginare questa deriva, che rimette in discussione un principio della nostra Costituzione, il diritto ad essere informati, non disinformati".

La Commissione Cox sull'intolleranza, la xenofobia, il razzismo e i fenomeni di odio, intitolata alla parlamentare britannica Jo Cox e istituita il 10 maggio 2016, secondo i promotori, dovrebbe avere il compito di condurre attività di studio e ricerca su tali temi, anche attraverso lo svolgimento di audizioni.
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Re: Casta ademogratega tałego ouropea- Brexit e Trump

Messaggioda Berto » lun feb 13, 2017 6:54 pm

La presidente della Camera scrive al ceo di Facebook
La lettera: Caro Zuckerberg, troppo odio sui social
di LAURA BOLDRINI
13 febbraio 2017

http://www.repubblica.it/tecnologia/soc ... -158175479

Caro direttore, chiedo ospitalità sul suo giornale per rivolgermi a Mark Zuckerberg, fondatore e amministratore delegato di Facebook.

Signor Zuckerberg, come molti sono preoccupata per il dilagare dell'odio nel discorso pubblico. Fenomeno non generato certo dai social network, ma che in essi ha un veicolo di diffusione potenzialmente universale. Questo dev'essere quindi per tutti il tempo della responsabilità: tanto maggiore quanto più grande è il potere di cui si dispone. E il suo è notevole. Lei ha affermato che "su Facebook non c'è spazio per l'odio". Mi tocca dirle che, almeno in Italia, non è vero. Le faccio pochi esempi. Una ragazza, Arianna Drago, ha richiamato l'attenzione sull'inquietante fenomeno dei "gruppi chiusi". Ha avuto il coraggio di pubblicare alcuni commenti di utenti che avevano postato foto di donne ignare, facendone il bersaglio delle loro violente sconcezze.

Facebook ha oscurato il profilo della ragazza, e soltanto dopo che io avevo deciso di condividerne la denuncia ha fatto sapere che era stato sospeso "per errore". C'è voluta invece qualche settimana perché i gruppi segnalati da Arianna fossero chiusi. E ancora ne esistono diversi di questo tipo che agiscono indisturbati, nonostante le numerose segnalazioni. Il problema è analogo per le pagine di gruppi politici estremisti e violenti. Una ricerca dell'Associazione Nazionale Partigiani d'Italia ha catalogato 300 pagine che su Facebook esaltano il fascismo. L'apologia del fascismo da noi è un reato, ma i rappresentanti italiani della sua azienda rispondono che non è compreso nelle regole di Facebook e che "gli standard della comunità devono poter valere in ogni Paese".

Del resto, parlano chiaro i dati di applicazione del codice di condotta contro "la diffusione dell'illecito incitamento all'odio in Europa", che anche la sua azienda ha sottoscritto a maggio 2016 con la commissione Ue. La prima verifica semestrale dice che risulta cancellato appena il 28% dei contenuti segnalati come discriminatori o razzisti. Una media che si ricava dal 50% di Germania e Francia e dal misero 4% italiano. Mi domando se questo dato allarmante lo dobbiamo anche all'assenza di un ufficio operativo di Facebook in Italia.

Un'Italia che sconta scarsa collaborazione da parte della sua azienda anche sul fronte della disinformazione, al contrario di quanto avviene in Germania o in Francia. Su questo tema ho da poco lanciato una campagna di sensibilizzazione (www.bastabufale.it). Proprio perché sono convinta che le fake news - create ad arte per fini di lucro, delegittimare l'avversario o generare tensioni sociali - provochino danni alle persone e spesso rappresentino l'anticamera dell'odio.

Prima di essere eletta Presidente della Camera dei deputati, ho lavorato per 25 anni nelle agenzie delle Nazioni Unite, occupandomi di crisi internazionali e di rifugiati. Ho visto quanto siano importanti la Rete e i social network anche nei luoghi più remoti del pianeta e nei campi profughi. E proprio perché ne conosco lo straordinario valore, ritengo si debba agire presto e su più livelli affinché i social non diventino ostaggio dei violenti. Ho avuto modo di parlarne di recente con Richard Allan, vicepresident public policy di Facebook per l'area Europa-Medio Oriente-Africa, che ho incontrato a Montecitorio su sua richiesta. Mi ha contattato dopo che, in occasione della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, avevo postato una selezione delle oscenità che costantemente arrivano a me, come a quasi tutte coloro che hanno una presenza nella sfera pubblica. Ho denunciato anche che Facebook non si cura a sufficienza di rimuoverle. E lei sa bene che la mancata rimozione di un contenuto umiliante può provocare tragedie come quella accaduta recentemente a Napoli, dove la trentunenne Tiziana Cantone si è tolta la vita per la vergogna di un video divenuto virale.

Ad Allan ho avanzato tre proposte. Due di natura tecnica. La terza riguarda l'apertura in Italia di un ufficio operativo per i 28 milioni di utenti che Facebook ha nel Paese. Le risposte giunte dopo due mesi sono evasive e generiche. A questo punto chiedo a lei, signor Zuckerberg: da che parte sta Facebook, in questa battaglia di civiltà?
(L'autrice è la Presidente della Camera dei deputati)


Questa politicante di parte si è dimenticata tutte le pagine dei social che esaltano il nazismo maomettano, l'internazismo comunista, il razzismo contro i nativi europei e i loro diritti umani e molte altre pagine che manipolano i Diritti Umani in generale falsificando, nascondendo, mortificando la democrazia, la libertà di pensiero e di critica religiosa e politica.
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Messaggioda Berto » mer feb 22, 2017 8:31 pm

Manipolatori e malversatori dell'Ordine Naturale dei Diritti Umani Universali
viewtopic.php?f=141&t=2023


ONU - UNESCO e altri FAO - UNICEF (no grazie!) - e Facebook ?
Mito e organizzazioni parassitarie e criminali che non promuovono affatto i diritti umani, le libertà, il rispetto e la fraternità tra gli uomini, le genti, i popoli, le etnie, le nazioni, gli stati.
https://www.facebook.com/alberto.pento/ ... 5542336059
viewtopic.php?f=205&t=2404


Quante falsità raccontano questi criminali manipolatori della realtà e dei Diritti Umani Universali

Il rapporto Amnesty: "L'odio populista avvelena il mondo"

La retorica dei movimenti populisti trova sempre più spazio e si tinge di sfumature nazionaliste e xenofobe, con una sintesi pericolosa che individua “noi contro loro” e non si limita ai contesti di scontro aperto: è questa la visione sconsolante che emerge dal rapporto annuale di Amnesty International, presentato a Roma in contemporanea con le altre capitali mondiali
di GIAMPAOLO CADALANU
22 febbraio 2017

http://www.repubblica.it/solidarieta/di ... -158907965

Un mondo avvelenato da discorsi velenosi, dove la retorica dei movimenti populisti trova sempre più spazio e si tinge di sfumature nazionaliste e xenofobe, con una sintesi pericolosa che individua “noi contro loro” e non si limita ai contesti di scontro aperto: è questa la visione sconsolante che emerge dal rapporto annuale di Amnesty International, presentato a Roma in contemporanea con le altre capitali mondiali. A parlare di questa perversa contrapposizione è stato il segretario generale Salil Shetty, secondo cui «il 2016 stato l’anno in cui il cinico uso della narrativa del “noi contro loro”, basata su demonizzazione, odio e paura, ha raggiunto livelli che non si vedevano dagli anni Trenta».

Il gioco di far leva sulle paure. La denuncia non potrebbe essere più chiara: ci sono politici che sfruttano le paure legate all’incertezza economica legandole a temi identitari, aprendo quindi il vaso di Pandora delle pulsioni nazionaliste, privilegiando i calcoli elettorali a ogni ragionamento sulla convivenza. E se oggi sono il filippino Duterte, l’ungherese Orban, il turco Erdogan e persino l’americano Trump, domani lo stesso meccanismo potrebbe essere scatenato in Italia, o in Francia.

Il puntare l'indice verso "l'altro". Le campagne elettorali divisive, che indicano “l’altro” come eterno responsabile di ogni problema, ne sono l’esempio più evidente, a partire da quella di Donald Trump, «basata sulla xenofobia, la discriminazione e l’omofobia», ha sottolineato Gianni Rufini, direttore generale di Amnesty Italia. E la retorica dell’“uomo forte”, da Ankara a Manila, finisce spesso per diventare un mezzo di repressione delle istanze femminili e di discriminazione sulla base delle tendenze sessuali. I meccanismi di Cooperazione internazionale sono in seria difficoltà, “disastrati” li definisce Rufini, mentre al posto degli spazi di dialogo tornano a fiorire muri e filo spinato. E alla fine i diritti dei gruppi più deboli, dai migranti alle persone LGBT, dai rifugiati ai Rom, dalle minoranze religiose alle donne, finiscono per essere considerati sacrificabili.

Come fermare questa marcia dell'odio. Contro tutto questo, sottolinea Amnesty, serve l’azione. Tocca alla società civile fermare la marcia verso l’odio e l’intolleranza. E la disponibilità ad agire in prima persona, la prontezza a “mettersi di traverso” dalla parte dei valori fondamentali di solidarietà e uguaglianza, è già evidente nella compassione mostrata dalla gente comune di fronte alle tragedie dell’immigrazione, una compassione che invece la politica non mostra, né suscita.



Il rapporto. Amnesty: «C’è un clima d’odio, come negli anni Trenta»
Luca Miele mercoledì 22 febbraio 2017
https://www.avvenire.it/mondo/pagine/amnesty-rapporto

Una sorta di guerra strisciante in alcuni casi, manifestamente dichiarata (se non urlata) in altri, sta avvolgendo nei sui tentacoli l’intero pianeta. Con un unico “nemico”: la figura del rifugiato. L’atto di accusa arriva da Amnesty International, nel rapporto annuale sul rispetto dei diritti umani. Una «politica dell’odio» che mina profondamente «la democrazia» e che richiama, in maniera inquietante, il clima agli Anni Trenta del Novecento, segnato in Europa dall’esplodere delle dittature, dei totalitarismi, dei campi di concentramento, della tragedia della Seconda Guerra mondiale.
Una “guerra” che non risparmia nessuna latitudine e che ha spinto i governi a siglare «accordi che pregiudicano il diritto a chiedere asilo». L’Australia «ha inflitto di proposito sofferenze inaudite ai rifugiati intrappolati a Nauru e sull’isola di Manus». L’Unione Europea «ha firmato un accordo illegale e irresponsabile con la Turchia per rimandare indietro i rifugiati in un contesto insicuro». Messico e Usa «hanno continuato a espellere persone dall’America centrale, dove la violenza ha raggiunto livelli estremi». Il Rapporto 2016-2017, stilato dalla Ong, denuncia che 36 Paesi hanno violato il diritto internazionale, rimandando illegalmente rifugiati in Paesi dove i loro diritti umani erano in pericolo.

Ma questa «narrazione dell’odio e dell’esclusione» – secondo la denuncia di Amnesty International – avrebbe trovato nel presidente americano Donald Trump il suo “cantore”: «Il presidente Trump ha tradotto in azione la sua odiosa campagna elettorale xenofoba firmando decreti per impedire ai rifugiati di ottenere il reinsediamento negli Usa e per vietare l’ingresso nel Paese a persone in fuga dalla persecuzione e dalla guerra, come nel caso della Siria». Non solo. Secondo Amnesty – che ha inviato una lettera aperta al ministro della Giustizia Andrea Orlando per sollecitare l’introduzione del reato di tortura nel codice penale italiano – Cina, Egitto, Etiopia, India, Iran, Thailandia e Turchia «hanno attuato massicce repressioni».
«Invece di stare dalla parte dei diritti umani, molti leader hanno adottato un’agenda disumanizzante per finalità politiche, violando i diritti di gruppi presi come capri espiatori per ottenere consenso o per distrarre gli elettori dai fallimenti delle politiche economiche e sociali», ha dichiarato Salil Shetty, segretario generale di Amnesty International. «Le odierne politiche di demonizzazione spacciano vergognosamente la pericolosa idea che alcune persone siano meno umane di altre, privando in questo modo interi gruppi di persone della loro umanità», ha concluso.


Amnesty International attacca le democrazie e perdona le tirannie islamiste
https://it.gatestoneinstitute.org/9610/ ... l-tirannie
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Messaggioda Berto » gio mar 02, 2017 1:34 pm

Né populisti né moderati. Rivoluzionari cercasi
2 Mar 2017 • di STEFANIA PIAZZO

http://www.lindipendenzanuova.com/ne-po ... ri-cercasi

Il populismo di destra e di sinistra fa sempre breccia nel cuore dei delusi. C’è populismo e populismo, però.

Scriveva Alain de Benoist: “Come il “comunitarismo”, il “populismo” è diventato oggi una parola per nascondere di tutto. Ne è prova il fatto che personaggi molto differenti tra loro come Nicolas Sarkosy, Marine Le Pen, Jörg Haider, Silvio Berlusconi, ma anche Mao Zedong, Mussolini… si sono visti attribuire questa etichetta”.

“La parola è dovunque, la sua definizione da nessuna parte” diceva lo storico Phlippe Roger. La politica, infatti, non sta più da nessuna parte.

Quando scatta il populismo renziano o salviniano? “L’emergenza del “populismo” è certamente anzitutto il segnale di una crisi, in occasione di una disfunzione della democrazia: discredito dell’intera classe politica, aumento dell’astensionismo, voti di pura protesta, fossato che si scava tra “l’alto e il basso”, sentimento comune di uno spodestamento dei valori democratici”.

Il populismo di destra e di sinistra ha una costante comune: presenta come possibili da raggiungere degli obiettivi che non raggiunge mai. Oggi, per di più, la caccia del voto di centro, moderato, è in crescita. Dunque, c’è il populismo rivolto agli indecisi. E’ lì che si fa man bassa. E’ lì che pesca Renzi, è lì che pesca Salvini. Sono trasversali entrambe, varcano destra e sinistra come camere comunicanti.

La democrazia rappresentativa è sparita, perché privata dalla sua rappresentanza.

Chi invece rappresenta la democrazia elettiva, anzi, dei nominati, forma gruppi dominanti, da una parte o dall’altra. Non servono più delle élites, nel senso di persone che sono in grado di essere classe dirigente, bastano dei buoni comunicatori, affiancati da web master e specialisti di social network per spacciare il populismo informatico in democrazia. Peggio, in rappresentanza. Speranze messianiche si aggirano su twitter e facebook, sui manifesti e nelle sfilate in piazza.

De Benoist parla non a torto di una “nuova classe politico-mediatica, che unisce, all’interno di una medesima situazione elitaria di potere e di apparenza, dirigenti politici, uomini d’affari e rappresentanti dei media, tutti intimamente legati gli uni agli altri, tutti convinti della pericolosità delle aspirazioni popolari”. Quindi il populismo le controlla e le dirige. Una volta si era capitalisti o anticapitalisti, iperliberisti o statalisti. Oggi si è renzisti o salvisti, categorie ideologiche che oscillano dagli 80 euro in busta paga allo stop agli immigrati. E nessuna delle due ozpioni è risolutiva. Entrambe prospettano l’impossibile: arrivare a fine mese, bloccare per magia gli sbarchi e il costo sociale del welfare tutto sbilanciato oramai verso gli stranieri. I sindaci della Lega lo sanno ma nessuno ha mai osato stilare una sorta di “busta paga dell’immigrato”, al netto degli assegni sociali, dei bonus affitto e bebè.

Così pure il Pd non osa dire che cosa pensi della nuova classe operaia e della disoccupazione che erode il loro storico bacino elettorale. Oramai si è alla conta algebrica: per ogni 2000 sbarchi, la cronaca regala 2000 licenziamenti al giorno.

Non esiste più quindi l’operaio ma neanche il ceto medio. Esiste lo straniero e il nominato. Nel mezzo ci stanno miriadi di professionisti, artigiani, in progressiva infartuazione del lavoro. L’ictus sociale. Ex lavoratori, ex pensionati, perché le pensioni stanno sparendo. Più che di indecisi, occorrerebbe formulare la categoria dei sopravvissuti.

C’è populismo e populismo, si diceva. Quello contemporaneo, che fa politica senza popolo, e quello storico, infatti, che nacque in Russia e negli Usa, per svegliare le coscienze e ribellarsi alle lobbies. Per un ritorno alla democrazia e alla giustizia sociale, agraria.

Ma che accade se il popolo per davvero volesse interessarsi di politica? Lo aveva espresso acutamente l’amico Giuseppe Reguzzoni, tempo fa sulla sua pagina facebook. Ecco cosa scriveva magistralmente, richiamando Thomas Mann:

“Considerazioni di un impolitico. Oggi non abbiamo bisogno di una forza politica moderata: c’è già ed è l’attuale classe politica, tesa solo a mantenere tutto cosí com’è. Il patto del Nazareno è vivo, e ingloba anche le cosiddette opposizioni, che sono come le vuole chi comanda: uno sfogo per la pancia della gente. Oggi non abbiamo bisogno di una forza liberal- borghese, centrata sul sistema di potere romano, ma di una minoranza rivoluzionaria e consapevole. Quel che oggi si chiama democrazia, non è che oligarchia mascherata e marketing elettorale alla ricerca di posti. Ogni compromesso è accettazione del sistema. Per questo oggi, se liberi e forti, siamo tremendamente soli e non vediamo alcuna luce in fondo al tunnel“.

Passerà anche questa nottata.
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Messaggioda Berto » lun apr 03, 2017 2:29 pm

Il Parlamento europeo censura la sua libertà di espressione
di Judith Bergman
3 aprile 2017
Pezzo in lingua originale inglese: European Parliament Censors Its Own Free Speech
Traduzioni di Angelita La Spada

https://it.gatestoneinstitute.org/10153 ... eo-censura

Il Parlamento europeo ha introdotto una nuova norma procedurale, che consente a un presidente di seduta di interrompere la trasmissione in diretta dell'intervento di un parlamentare "in caso di linguaggio o comportamento diffamatorio, razzista o xenofobo da parte di un deputato". Inoltre, il presidente dell'Europarlamento può anche "decidere di eliminare dalla registrazione audiovisiva delle discussioni le parti di un intervento di un deputato che contengono un linguaggio diffamatorio, razzista o xenofobo".

Nessuno, però, si è preoccupato di definire ciò che costituisce un "linguaggio o comportamento diffamatorio, razzista o xenofobo". Questa omissione implica che il presidente di seduta è libero di decidere, senza linee guida o criteri oggettivi, se gli interventi degli eurodeputati siano "diffamatori, razzisti o xenofobi". La sanzione per i trasgressori potrebbe arrivare a circa 9.000 euro.

"Si è registrato un aumento dei casi di politici che dicono cose che oltrepassano ogni limite di una normale discussione o dibattito parlamentare", ha dichiarato l'europarlamentare britannico Richard Corbett che difende il regolamento. Corbert, tuttavia, non specifica che cosa "oltrepassa ogni limite".

Nel giugno 2016, Mahmoud Abbas, presidente dell'Autorità palestinese, ha pronunciato un discorso al Parlamento europeo, attingendo alle vecchie calunnie del sangue antisemite, come accusare ingiustamente i rabbini israeliani di chiedere al governo israeliano di avvelenare l'acqua utilizzata dagli arabi palestinesi. Questo discorso chiaramente incendiario e antisemita non solo è stato consentito dagli eurodeputati sensibili e "anti-razzisti", ma è anche stato salutato da una standing ovation. Evidentemente, le feroci e antisemite calunnie del sangue pronunciate dagli arabi non sono "cose che oltrepassano ogni limite di una normale discussione o dibattito parlamentare".

Il presidente dell'Autorità palestinese Mahmous Abbas riceve una standing ovation al Parlamento europeo a Bruxelles, il 23 giugno 2016, dopo aver sostenuto falsamente nel suo discorso che i rabbini israeliani chiedono di avvelenare le acque palestinesi. Abbas ha in seguito ritrattato e ammesso che la sua accusa era falsa. (Fonte dell'immagine: Parlamento europeo)

L'Europarlamento a quanto pare non ha nemmeno pubblicizzato il nuovo regolamento. Ne ha parlato solo il quotidiano spagnolo La Vanguardia. Sembrerebbe che gli elettori non siano tenuti a sapere che gli si potrebbe precludere la possibilità di ascoltare le dirette degli interventi dei parlamentari da loro eletti per rappresentarli nell'UE, se qualche presidente di seduta decide arbitrariamente che il contenuto di un intervento è "razzista, diffamatorio o xenofobo".

Il Parlamento europeo è l'unica istituzione dell'UE ad essere eletta direttamente dal popolo. Secondo Helmut Scholz, del partito tedesco di sinistra Die Linke, i legislatori dell'Unione Europea devono essere in grado di esprimere le loro opinioni su come l'Europa dovrebbe lavorare: "Non si può limitare o negare questo diritto". Beh, si può esprimerle (ma fino a quando?), peccato che nessuno fuori dal Parlamento le sentirà.

Il regolamento colpisce il cuore stesso della libertà di parola, vale a dire i politici eletti, ai quali la Corte europea dei diritti dell'uomo riconosce una speciale protezione. I membri dell'Europarlamento sono stati eletti per far sentire la voce dei loro elettori in seno alle istituzioni dell'Unione Europea. Limitare la loro libertà di parola è antidemocratico, preoccupante e sinistramente orwelliano.

Il regolamento può avere solo un effetto raggelante sulla libertà di parola nel Parlamento europeo e forse si rivelerà un valido strumento nel tentativo di chiudere la bocca a quei deputati che non rispettano la narrazione politicamente corretta dell'Unione Europea.

Ultimamente l'Europarlamento sembra aver dichiarato guerra alla libertà di espressione. All'inizio di marzo, esso ha revocato l'immunità parlamentare alla candidata alle elezioni presidenziali francesi Marine Le Pen. Il suo crimine? Aver twittato nel 2015 tre immagini di esecuzioni dell'Isis. In Francia, "la pubblicazione di immagini violente" costituisce un reato, che può comportare una pena di tre anni di carcere e una multa di 75.000 euro. Revocando l'immunità di Marine Le Pen, mentre quest'ultima corre per l'Eliseo, il Parlamento europeo invia il chiaro segnale che divulgare la lampante e orribile verità dei crimini commessi dall'Isis, anziché considerarlo un avvertimento su ciò che potrebbe presto accadere all'Europa, dovrebbe invece essere punito.

Questo è un bizzarro segnale da inviare, soprattutto alle vittime cristiane e yazide dell'Isis, che continuano a essere ampiamente ignorate dall'Unione Europea. Gli eurodeputati, evidentemente sono troppo sensibili per affrontare i crudi omicidi di persone indifese in Medio Oriente e sono più interessati a garantire la persecuzione di messaggeri, come Marine Le Pen.

Così, la correttezza politica, che è a tutti gli effetti la "polizia religiosa" del discorso politico, non ha solo conquistato i media e il mondo accademico, ma ora anche gli eurodeputati dovrebbero sostenere il politicamente corretto oppure saranno letteralmente stroncati. Nessuno ha impedito al Parlamento europeo di approvare questo regolamento antidemocratico che disciplina la libertà di parola. Perché nessuno dei 751 eurodeputati ha lanciato a tempo debito un grido d'allarme? E cosa ancora più importante, quando avrà fine questo impulso chiaramente totalitario e chi lo fermerà?

Judith Bergman è avvocato, scrittrice, editorialista e analista politica.
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