Ospitalità, non sempre è sacra - accoglienza come crimine

Ospitalità, non sempre è sacra - accoglienza come crimine

Messaggioda Berto » dom ott 11, 2015 8:43 am

Ospitalità, non sempre è sacra - accoglienza come crimine e tortura
http://www.filarveneto.eu/forum/viewtop ... 141&t=1911

Con chì non bussa alla porta e con chi arrivando con le armi, con la violenza, con l'inganno e la prepotenza o in gran numero, l'ospitalità non è più un dovere.


L'accoglienza forzata è un crimine contro l'umanità econtro natura, una forma orrenda di tortura, anche se di donne e di bambini! Si tratta di una deportazione all'incontrario ... !



Refuxà, axiłanti, diriti omàni, obligasion e reałixmo
http://www.filarveneto.eu/forum/viewtop ... 194&t=1811

Rifugiati politici, richiedenti asilo, diritti umani, convenzioni internazionali, obblighi e non obblighi
https://www.facebook.com/groups/altridi ... 3106597034
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Re: Ospitałetà no senpre lè sagra

Messaggioda Berto » dom ott 11, 2015 8:43 am

???

Ecco perché l'ospitalità fonda la nostra civiltà

http://mobile.avvenire.it/Commenti/Pagi ... bruni.aspx

Il dovere di ospitalità è il muro maestro della civiltà occidentale, e l’abc dell’umanità buona. Nel mondo greco il forestiero era portatore di una presenza divina. Sono molti i miti dove gli dèi assumono le sembianze di stranieri di passaggio. L’Odissea è anche un grande insegnamento sul valore dell’ospitalità (Nausicaa, Circe...) e sulla gravità della sua profanazione (Polifemo, Antinoo). L’ospitalità era regolata nell’antichità da veri e propri riti sacri, espressione della reciprocità di doni. L’ospite ospitante era tenuto al primo gesto di accoglienza e, nel congedarlo, consegnava un "regalo d’addio" all’ospite ospitato, il quale dal canto suo doveva essere discreto e soprattutto riconoscente.

L’ospitalità è un rapporto (ed è bello che in italiano ci sia un’unica parola, ospite, per dire colui che ospita e colui che è ospitato). Al forestiero che si accoglieva a casa non veniva chiesto né il nome né l’identità, perché era sufficiente trovarsi di fronte a uno straniero in condizione di bisogno affinché scattasse la grammatica dell’ospitalità. La reciprocità delle relazioni d’accoglienza era alla base delle alleanze tra persone e comunità, che componevano la grammatica fondamentale della convivenza pacifica tra i popoli.

La guerra di Troia, l’icona mitica di tutte le guerre, nacque da una violazione dell’ospitalità (da parte di Paride). La civiltà romana continuò a riconoscere la sacralità dell’ospitalità, che veniva anche regolata giuridicamente. La Bibbia, poi, è un continuo canto al valore assoluto dell’ospitalità e dell’accoglienza dei forestieri, che, non di rado, vengono chiamati "angeli". Il primo grande peccato di Sodoma fu rinnegare l’ospitalità a due degli uomini che erano stati ospiti di Abramo e Sara alle Querce di Mamre (Genesi, 18-19), e uno degli episodi biblici più raccapriccianti è una profanazione dell’ospitalità – lo stupro omicida dei beniaminiti di Gabaa (Libro dei Giudici, 19). Il cristianesimo raccolse queste tradizioni sull’ospitalità, e le interpretò come una declinazione del comandamento dell’agape ed espressione diretta della predilezione di Gesù per gli ultimi e i poveri: «Ero straniero e mi avete accolto» (Matteo 25,35).

In quelle culture antiche, dove vigeva ancora la "legge del taglione", dove non era riconosciuto quasi nessuno dei diritti dell’uomo che l’Occidente ha conquistato e proclamato in questi ultimi secoli, l’ospitalità fu scelta come prima pietra di civiltà dalla quale è poi fiorita la nostra. In un mondo molto più insicuro, indigente e violento del nostro, quegli antichi uomini capirono che l’obbligo di ospitalità è essenziale per uscire dalla barbarie. I popoli barbari e incivili sono quelli che non conoscono e non riconoscono l’ospite. Polifemo è l’immagine perfetta dell’inciviltà e della disumanità perché divora i suoi ospiti invece di accoglierli. L’ospitalità è la prima parola civile perché dove non si pratica l’ospitalità si pratica la guerra, e si impedisce lo shalom, cioè la pace e il benessere.

Smettiamo allora di essere civili, umani e intelligenti quando interrompiamo la pratica antichissima dell’ospitalità. E se l’ospitalità è il primo passo per entrare nel territorio della civiltà, la sua negazione diventa automaticamente il primo passo per tornare indietro verso il mondo dei ciclopi, dove regnano solo la forza fisica e l’altezza.
I popoli saggi sapevano che l’ospitalità conviene a tutti, anche se individualmente costa a ciascuno. Per questo occorre proteggerla e parlarne molto bene, se vogliamo che resista nei tempi degli alti costi. La reciprocità dell’ospitalità non è un contratto, perché non c’è equivalenza fra il dare e il ricevere, e soprattutto perché il mio essere accogliente oggi non genera nessuna garanzia di trovare accoglienza domani quando ne avrò bisogno.

Non esiste un contratto di assicurazione per la non accoglienza domani di chi è stato accogliente oggi. Per questo l’ospitalità è un bene comune, e quindi fragile. Come tutti i beni comuni viene distrutto se non è sostenuto da una intelligenza collettiva più grande degli interessi individuali e di parte. Ma come tutti i beni comuni, una volta distrutto il bene non c’è più per nessuno ed è quasi impossibile ricostruirlo.

L’Europa è nata dall’incontro tra umanesimo giudaico-cristiano e quello greco e romano fondati sull’ospitalità (???). Ma in Occidente è sempre rimasta viva anche l’anima beniaminita e polifemica, dominante per lunghi periodi, sempre bui. È l’anima che vede gli ospiti solo come minacce o prede. Oggi questo spirito buio, incivile e non-intelligente sta riaffiorando, ed è urgente esercitare il prezioso esercizio del discernimento degli spiriti. Evitando, ad esempio, di credere a chi ci racconta che Polifemo ha divorato i compagni di Ulisse perché sarebbero stati in troppi a bordo e la nave poteva affondare nel ritorno verso Itaca, o che i beniaminiti volevano incontrare gli ospiti di Lot solo per controllarne i documenti. Il riconoscimento del valore e del diritto dell’ospitalità viene prima di tutte le politiche e le tecniche per gestirla e renderla sostenibile.

L’ospitalità è uno spirito, uno spirito buono. Quando non c’è si vede, si sente. Gli spiriti vanno conosciuti, riconosciuti e chiamati per nome, e quelli cattivi vanno semplicemente cacciati via. Nella casa degli umani se non c’è posto per l’altro non c’è posto neanche per me. Sta scritto: «Non dimenticate l’ospitalità; alcuni, praticandola, hanno accolto degli angeli senza saperlo» (Lettera agli Ebrei).


Nò, l'ospitałetà lè na tradision e on valor kel ga çentenara de miłara se no' miłioni ani e no lè nato co łi ebrei o co Cristo o co i greghi e i romani.
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Re: Ospitałetà no senpre lè sagra

Messaggioda Berto » dom ott 11, 2015 8:45 am

http://www.etimo.it/?term=ospite
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Ospetałetà venetega:

Venetkens
viewtopic.php?f=85&t=150
https://docs.google.com/file/d/0B_VoBnR ... VGVjQ/edit
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Ost, osts, ostis, ostiala, ostiaco, hostihavos
viewtopic.php?f=89&t=142
https://docs.google.com/file/d/0B_VoBnR ... s5Q28/edit
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Ospite
https://it.wikipedia.org/wiki/Ospitalit%C3%A0
La parola "ospite" deriva dal latino hospes, che a sua volta condivide la radice con hostis, nemico: il primo indica uno straniero "favorevole", il secondo uno "ostile", ma il grammatico latino Sesto Pompeo Festo indicava come hostes le persone straniere con gli stessi diritti dei cittadini romani, dando al verbo hostire il significato di "ricambiare". Da questa etimologia Émile Benveniste trae nel Vocabolario delle istituzioni indoeuropee la conclusione che l'ospitalità si fonda sull'obbligo di ricambiare un dono con un controdono. Benveniste definisce dunque l'ospitalità come un rito, appunto attraverso lo scambio di doni, come un fenomeno economico perché comporta il passaggio di ricchezze e come l'atto di stabilire un legame fra gruppi sociali (ad esempio famiglie o tribù). Un esempio di questa pratica è il potlatch dei nativi americani.

Per i greci l'ospitalità (xenia), pur non essendo regolata da norme scritte, prevedeva la tradizione di scambiare beni o favori. L'ospite, protetto da Zeus in quanto tale, era accolto senza conoscerne l'identità. Fra chi arrivava e chi lo accoglieva si stabiliva un vincolo di solidarietà.

Presso i romani, invece, l'ospitalità trovò una dimensione normativa attraverso la formalizzazione della tessera hospitalis, che indicava i nomi dell'ospite e dell'ospitato: il primo garantiva per il secondo, consentendogli in questo modo di accedere a Roma e ottenendo in cambio lo stesso trattamento nella città d'origine dell'ospitato. Allo scambio di doni si fa risalire il nome di una dea romana, Hostilina, citata da Sant'Agostino come la divinità chiamata a vigilare sull'equilibrio fra il lavoro svolto nei campi e il raccolto prodotto.


Xenia
https://it.wikipedia.org/wiki/Xenia_%28antica_Grecia%29
La xenia (dal greco ξενία, xenía) riassume il concetto dell'ospitalità e dei rapporti tra ospite ed ospitante nel mondo greco antico, della cui civiltà costituiva un aspetto di grande rilievo.

La xenia si reggeva su un sistema di prescrizioni e consuetudini non scritte che si possono riassumere in tre regole di base:

il rispetto del padrone di casa verso l'ospite
il rispetto dell'ospite verso il padrone di casa
la consegna di un "regalo d'addio" all'ospite da parte del padrone di casa.

Il padrone di casa doveva essere ospitale e fornire all'ospite cibo e bevande, la possibilità di lavare il corpo e indossare vesti pulite. Non era considerato educato porre domande fino a che l'ospite non lo avesse "concesso". Ciò era molto importante soprattutto nei tempi antichi, quando si pensava che gli dei potessero assumere sembianze umane: se il padrone di casa avesse trattato male un ospite dietro le cui vesti si celasse un dio, avrebbe potuto incorrere nella collera divina. Il dono d'addio dimostrava che il padrone di casa era stato onorato di accogliere l'ospite. Vitruvio, a tal proposito, ci tramanda che gli artisti dell'antica Grecia chiamavano "xenia" un genere pittorico (vicino alla moderna natura morta) che rappresentava galline, uova, ortaggi, frutti e altri prodotti della campagna che venivano solitamente donati all'ospite.

Dal canto suo, l'ospite doveva essere gentile e non invadente. La xenia comportava anche il dovere di ricambiare l'ospitalità ricevuta e quello di badare a qualunque ospite. Possiamo dire che era un modo per rendere l'ospite "membro temporaneo" della comunità che stesse visitando, ma poteva anche indicare, più semplicemente, che il visitatore non era un membro "vero e proprio", ma solo un ospite temporaneo.
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Re: Ospitałetà no senpre lè sagra

Messaggioda Berto » dom ott 11, 2015 8:46 am

Cristo e el dar da magnar a łi afamài

https://it.wikipedia.org/wiki/Comandamento_dell'amore
Nel Vangelo di Matteo sono presenti inoltre altri richiami al tema, caratteristico di Luca, dell'amore per il prossimo. Questo avviene, in particolare, in una parabola relativa al giudizio finale:
« Allora il re dirà a quelli che stanno alla sua destra: Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo. Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi. Allora i giusti gli risponderanno: Signore, quando mai ti abbiamo veduto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando ti abbiamo visto forestiero e ti abbiamo ospitato, o nudo e ti abbiamo vestito? E quando ti abbiamo visto ammalato o in carcere e siamo venuti a visitarti? Rispondendo, il re dirà loro: In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me. » (Matteo 25,34-40)

Opare de mixerecordia
https://it.wikipedia.org/wiki/Opere_di_misericordia
Le opere di misericordia sono quelle richieste da Gesù nel Vangelo (Matteo 25) per trovare misericordia (ossia perdono per i nostri peccati) ed entrare quindi nel suo Regno.

La tradizione cattolica ne elenca due gruppi di sette:

Le sette opere di misericordia corporale

Dar da mangiare agli affamati.
Dar da bere agli assetati.
Vestire gli ignudi.
Alloggiare i pellegrini.
Visitare gli infermi.
Visitare i carcerati.
Seppellire i morti.

Le sette opere di misericordia spirituale

Consigliare i dubbiosi.
Insegnare agli ignoranti.
Ammonire i peccatori.
Consolare gli afflitti.
Perdonare le offese.
Sopportare pazientemente le persone moleste.
Pregare Dio per i vivi e per i morti.
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Re: Ospitałetà no senpre lè sagra

Messaggioda Berto » dom ott 11, 2015 8:46 am

Stranieri con Dio. L’ospitalità nelle tradizioni dei tre monoteismi abramitici
Claudio Monge, Stranieri con Dio. L’ospitalità nelle tradizioni dei tre monoteismi abramitici, Prefazione di Enzo Bianchi (Incontri a Sichar 5), Edizioni Terra Santa, Milano 2013.
Matteo Crimella | mercoledì 18 dicembre 2013

http://www.oasiscenter.eu/it/recensioni ... abramitici


Scrivere oggi di ospitalità nel contesto di una società pluralista e sempre più caratterizzata dal meticciato culturale, appare quasi scontato. Gli articoli, gli studi, i pamphlet sull’argomento puntuali giungono in libreria. Il libro di padre Monge si colloca su un piano differente. Egli anzitutto è un frate che da circa dieci anni vive a Istanbul, responsabile del Centro domenicano per il Dialogo interreligioso e culturale in quella città. L’ospitalità l’ha sperimentata sulla propria pelle, apprendendo il turco e lasciandosi plasmare dal ritmo di vita a quelle latitudini. Il suo volume trasuda d’esperienza, pur non concedendo nulla al dettaglio autobiografico. Egli, al contrario, intende compiere una riflessione teologica. Afferma: «Vorremmo dimostrare che l’ospitalità, nella tradizione dei tre monoteismi abramitici, rappresenta e, molto spesso, coinvolge il divino» (p. 12). La prospettiva non si limita dunque alla sola antropologia culturale.

Il volume si divide in due parti. Nella prima Monge analizza l’ospitalità anzitutto nella tradizione ebraica: in primo luogo il testo biblico nella sua ricchezza e poliedricità, poi la letteratura rabbinica che del testo ispirato è erede e interprete. L’Autore mette bene in luce la tensione fra etnocentrismo e universalità, per distendersi poi a precisare le regole dell’ospitalità codificate nella Torah. L’indagine sulla letteratura profetica e sapienziale fino all’ellenismo mostra momenti molto differenti attraversati dal popolo eletto, che nella sua storia ha conosciuto tendenze addirittura contraddittorie a proposito dell’accoglienza. Molto interessante è la ricostruzione del rituale dell’ospitalità nel mondo ebraico: i preliminari dell’accoglienza, il passaggio della soglia, le abluzioni, il pasto, lo scambio di doni. Monge nota che «in parecchi racconti di accoglienza, l’ospite ricevuto è identificato con un angelo o un messaggero di Dio, quando non con Yahvé stesso» (p. 81). Segue un capitolo sull’accoglienza nel Medio Oriente, inteso come area non solo geografica ma anche culturale, profondamente segnata da tre grandi imperi musulmani (Omayyade, Abbaside e Ottomano). La tenda è il luogo dove si riceve l’amico, l’ospite, il pellegrino, lo straniero. Chi entra sotto la tenda deve onorare il suo proprietario, ma è pure difeso da colui che lo ospita. Il domenicano analizza sia le infrazioni alle regole, come pure il vocabolario coranico dell’ospitalità.

Il terzo capitolo della prima parte è dedicato al mondo cristiano. Dichiara: «La fede nel Dio che si fa uomo in Cristo cambia necessariamente non solo i rapporti tra l’universo divino e umano, ma anche i rapporti degli uomini tra di loro. Ecco perché, ancora più chiaramente che nell’Antico Testamento, è evidente che l’ospitalità non si esprime nella retorica di formule astratte, ma si traduce in atteggiamenti concreti che rivelano agli uomini il disegno di salvezza di Dio stesso» (pp. 125-126). Oltre all’analisi dei testi neotestamentari Monge prende anche in considerazione la storia della Chiesa: non potendo in poche pagine rendere conto di una vicenda complessa, l’Autore si accontenta di porre alcuni accenti sui Padri del I e II secolo, sul movimento monastico e sull’evoluzione medievale nelle infinite forme di cura e di carità nei confronti dei poveri.

La seconda parte del volume è un notevole esempio di quella che tecnicamente viene chiamata Wirkungsgeschichte, cioè, “storia degli effetti” di un testo. Monge affronta la ricezione e l’interpretazione di Genesi 18, il celebre episodio dell’accoglienza dei tre ospiti da parte di Abramo. Dopo un’accurata lettura esegetica (precisa ma non tecnica), capace di far emergere il senso di quell’episodio all’interno del più ampio contesto del racconto genesiaco, sono presentate le letture delle tre tradizioni monoteistiche. Queste pagine non possono essere riassunte; vanno lette per gustare la penetrazione che ha dimostrato l’intelligenza della fede nelle differenti tradizioni religiose.

Conclude il volume un importante e bellissimo epilogo, che è la chiave di lettura dell’intero saggio. In esso l’Autore sintetizza i tre livelli fondamentali della pratica ospitale: quella individuale, quella che coinvolge la società e quella più propriamente teologale. In quest’ultima accezione il divino è colui che dà, ma anche colui che riceve l’ospitalità. Nella vicenda d’Israele «Yahvé adotta Israele nell’ambito dell’elezione ma si fa anche accogliere dagli uomini. […] In Cristo siamo tutti invitati ad accogliere il Padre, mediante l’azione dello Spirito. In altre parole, l’ospitalità a livello dell’umano è avvolta nel mistero stesso dell’ospitalità intra-divina» (p. 276). Le conseguenze teologiche sono notevoli; scrive ancora Monge: «È importante ribadire la convinzione che solo un radicamento profondo nella propria identità credente può favorire una migliore comprensione della fede dell’altro, del nostro interlocutore. Questo radicamento non ci impedisce neppure di mettere eventualmente in discussione le nostre proprie rappresentazioni di Dio, non tanto per aderire superficialmente alle rappresentazioni dell’altro, ma per constatare che Dio è propriamente al di là di tutte le rappresentazioni umane» (p. 279).
Quale atteggiamento ne consegue? La scoperta dell’estraneità (Monge parla anche di ”stranierità”) dell’altro non è percepita come una minaccia, ma al contrario come una possibilità che propizia la conversione. «Il vero dialogo non è mai un cavallo di Troia per mezzo del quale insinuarci nelle fortezze dell’altro, ma un fine in sé, una vera e propria necessità» (p. 288). Alienando gli altri perché diversi «si finisce per alienare se stessi da un mondo nel quale si vorrebbe essere maggiormente integrati» (p. 290).
Crediamo che il volume di Monge sia un prezioso contributo non solo per comprendere la pratica dell’ospitalità nelle tradizioni abramitiche, ma anche per riflettere sul senso teologico del dialogo.


Matteo Crimella
Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale (Milano)
Pontificia Università Urbaniana (Roma)
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Re: Ospitałetà no senpre lè sagra

Messaggioda Berto » dom ott 11, 2015 8:48 am

L'ospetałetà e ła prostitusion sagra

https://it.wikipedia.org/wiki/Prostituzione_sacra
La prostituzione sacra (o prostituzione del tempio o prostituzione religiosa) è un rituale sessuale che consiste principalmente in un rapporto sessuale o in un'altra attività di tipo erotico svolta nel contesto del culto religioso predominante, in prevalenza all'interno degli stessi luoghi di culto, forse come forma di rito di fertilità e del "matrimonio divino" o ierogamia.
Gli studiosi hanno a lungo considerato tali pratiche come esser di uso comune nel mondo antico, soprattutto nelle civiltà orientali del Vicino Oriente (all'interno della civiltà babilonese, tra i fenici e gli abitanti dell'Assiria), ma non mancano attestazioni in Grecia (a Corinto; cfr. Strabone, Geografia, VIII, 378) e altrove (a Erice; cfr. Cicerone, Divinatio in Caecilium, 55): del resto, il verbo greco-antico κορινθιάζομαι [pr. korinthiàzomai] significava "frequentare prostitute". Tuttavia alcune tra le ricerche più recenti hanno messo in discussione quest'immagine, dubitando in parte dell'effettiva affidabilità delle fonti antiche.

Vicino Oriente antico

Nelle società del Vicino Oriente antico erano presenti molti santuari e templi (definite anche "case del Cielo") dedicate a vari tipi di divinità femminili, soprattutto lungo il corso dei fiumi Tigri ed Eufrate; secondo lo storico greco del V secolo a.C. Erodoto, che ne dà una descrizione dettagliata delle modalità (e che, fatti salvi i particolari, non dovevano differire molto da quelle di altre religioni), i riti compiuti in questi templi includevano anche i rapporti sessuali, quello cioè che gli studiosi più tardi hanno denominato propriamente prostituzione sacra.

Un'usanza babilonese, narra lo storico antico, costringe tutte le donne, almeno una volta nella loro vita, ad avere un incontro intimo con uno sconosciuto all'interno del tempio della Dea dell'amore; vi è una gran moltitudine di donne che vanno e vengono: gli uomini passano e gettando delle monete in grembo alla prescelta la invitano così in nome di Mylitta (il termine assiro per indicare Afrodite). La donna non può mai in alcun caso rifiutare, perché ciò costituirebbe un peccato e una grave infrazione; alcune di queste donne possono rimanere in una tal condizione come servitrici del tempio anche per diversi anni. Vi è infine un costume del tutto simile in alcune parti di Cipro:
« La donna deve andare nel santuario di Afrodite una volta nella vita ed unirsi ad un estraneo (…) Nel santuario di Afrodite si mettono sedute molte donne con una corona di corda intorno al capo; le une vengono, le altre vanno. Gli estranei scelgono. Quando una donna è giunta lì può tornare a casa solo quando uno degli estranei le getta in grembo del denaro e si sia unito a lei fuori del tempio. Gettando il denaro egli deve dire queste parole: "Io invoco la Dea Mylitta". Gli Assiri chiamano infatti Mylitta Afrodite (…) La donna segue il primo che le abbia gettato del denaro e non lo respinge (…) Quelle che sono belle di aspetto presto se ne vanno, mentre quelle che sono brutte rimangono per molto tempo, non potendo soddisfare la legge; e alcune tra loro rimangono anche per un periodo di due, tre, o quattro anni. Anche in alcune città di Cipro c'è un'usanza simile a questa. »
(Erodoto,Storie 1.199.)

https://it.wikipedia.org/wiki/Storia_de ... stituzione
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Re: Ospitałetà no senpre lè sagra

Messaggioda Berto » dom ott 11, 2015 9:03 am

Le "devadasi", da danzatrici sacre a prostitute bambine
http://www.opam.it/1/le_devadasi_da_dan ... 93702.html

Qualche giorno fa l'India ha lanciato, primo paese asiatico, una sonda spaziale verso Marte, fra qualche polemica, confermandosi un paese dal grande fascino ma dalle mille contraddizioni: dai primati nelle scienze, dall'economia in forte sviluppo, GRUPPO dall'essere stato culla di grandi religioni, dal patrimonio di una grande diversità culturale ai fenomeni di fanatismo religioso e di odio sociale, alla povertà assoluta di gran parte della popolazione, al sistema delle caste, al permanere di tradizioni e riti antichi. Quasi emblematico e rappresentativo è il cosiddetto "sistema devadasi": originato da un culto Indù molto antico legato soprattutto ai riti propiziatori della fertilità e della prosperità, esso è ancora praticato in alcuni stati del sud dell’India, anche se è stato messo fuori legge, ormai degradato al solo aspetto sessuale più deteriore e privo dello spirito originario, religioso e artistico.

LE DANZATRICI SACRE. In questa pratica religiosa, giovani fanciulle in età prepuberale venivano consacrate a un Dio o a una divinità locale di un tempio indù, con un rito di iniziazione durante il plenilunio, perfezionato, quando le ragazze entravano nell'età puberale, con una seconda cerimonia in cui avveniva la loro iniziazione sessuale a opera di un importante personaggio, sacerdote, re o patrono del tempio.

DANZATRICE

A queste fanciulle viene dato l’appellativo di "devadasi", parola composta che, in sanscrito, significa letteralmente "schiava di dio": esse sono dedicate al piacere e al divertimento del dio del quale sono le “cortigiane” (soprattutto Yellamma, dea della fertilità, venerata nel cuore dell’India antica), non si sposano perché già sposate alla divinità (Nitya-Sumangali, “sposate per sempre”), non diventeranno mai vedove e questo è considerato di buon augurio. Oltre ai servizi per la divinità del tempio e per l'assistenza ai sacerdoti, svolgevano un complesso di atti rituali e di intrattenimento della comunità e della corte del re, patrono del tempio, accompagnavano i riti religiosi con danze (come il Bharatanatyam, la più antica delle danze tradizionali indiane), musica e canti. All’aspetto religioso era legato quello sessuale: le devadasi (chiamate anche “prostitute sacre”) erano parte della prostituzione religiosa praticata in India fin dal 3° sec. d.C. I loro rapporti erano con la casta sacerdotale dei Brahamani e con il re (râja), ma, in seguito, anche con i signori, patroni e mecenati del tempio dove esse vivevanoi. I primi riferimenti alle devadasi sembrano comparire in un'iscrizione Tamil nel tempio di Tanjor (oggi Thanjavur) che risale al 1004 d.C., in cui veniva indicato in 400 il numero delle devadasi del tempio. Il Medioevo indiano (600 – 1500 d.C.) è stato il periodo di maggior diffusione e splendore di questa tradizione che aveva messo solide radici nella cultura indiana. Agli inizi, le devadasi provenivano da famiglie di casta alta, venivano educate ed avevano una cultura raffinata e umanistica: le sole donne, oltre alla regina, a saper leggere e scrivere, ad avere diritto di possedere beni. Erano selezionate e avviate alle arti e alla danza con il sostegno di râja e uomini importanti; la loro era considerata una casta e godevano di un alto stato sociale. YELLAMMA Il numero delle devadasi nel tempio era spesso un indice della ricchezza e dell’importanza dei templi indù.

LA DECADENZA. Quando iniziò la decadenza dei templi e dei regni indù con le prime invasioni arabe e i saccheggi nel nord dell’India, anche lo status delle devadasi decadde e la pratica continuò soprattutto al sud. Durante il periodo coloniale inglese il sistema fu condannato come immorale e poi, con l'opera di evangelizzazione dei missionari cristiani, le ragazze delle caste elevate, istruite ed educate, abbandonarono i templi per avvicinarsi alla fede cristiana. Le devadasi, non più sostenute dai templi e dai loro mecenati divenuti meno potenti e ricchi, s’impoverirono e la loro professione degenerò: per sopravvivere, queste ragazze, ormai provenienti dalle caste inferiori, costrette a vivere da recluse, cominciarono a prostituirsi con i pellegrini e i visitatori del tempio.

IL CAMBIAMENTO. Il sistema mano a mano è mutato, sostenuto ancora da fattori quali religione, tradizione (desiderio di placare l’ira degli dei), povertà, arretratezza, superstizione (deformazioni della pelle magari causate da malattie, uno o più nodi tra i capelli, erano considerati segni che le bambine erano state scelte dalla dea Yellamma). E’ diventato una pratica alimentata dalle famiglie delle caste più povere: con il pretesto di continuare a mantenere viva la tradizione, genitori e nonne decidono che le loro figlie diventeranno devadasi quando sono ancora piccole. Il voto e la cerimonia avviene in segreto al raggiungimento della pubertà. Le fanciulle non intuiscono cosa le aspetta fino al momento in cui la loro verginità viene venduta ad un uomo del luogo di una casta alta o ad un parente. Il commercio dei corpi delle bambine viene giustificato dal "dovere verso la divinità", ma avviene per motivi essenzialmente socio-economici: la famiglia della devadasi non deve provvedere alla cospicua dote indispensabile per sposarsi e i genitori sperano di assicurarsi un sostegno per la vecchiaia. PICCOLA DANZATRICE 1 Generazioni di bambine, vendute per poco o per una misera rendita per la famiglia, non sono riconosciute come cittadine, non hanno padri, vengono private di relazioni affettive autentiche. Oggetto di biasimo e disapprovazione, diventano come schiave col dovere pseudo-religioso di soddisfare i desideri sessuali degli uomini della comunità, di ogni origine e casta. Nel tempo queste giovani, in massima parte della casta degli intoccabiliii, sono diventate vere e proprie prostitute, molte di loro finiscono nei bordelli delle città indiane. Quelle più a rischio sono proprio le bambine delle devadasi che crescono nelle comunità matriarcali delle devadasi, comunità rigide che già esistevano all'interno dei templi. Si stima che il 70% delle bambine-prostitute indiane siano devadasi.

OGGI. Da tempo, autorità religiose e governative degli stati indiani stanno cercando di mettere fine al sistema delle devadasi. Nel 1984 lo stato del Karnataka ha proibito la grande festa popolare con cui, ogni anno, molte centinaia di bambine venivano consacrate alla dea Yellamma; ha consentito alle devadasi, contro la tradizione, di sposarsi, e i loro figli sono considerati legittimi. Nel 1988 il governo di Delhi ha dichiarato illegale il sistema delle devadasi in tutta l'India, ma, anche se proibito, esso continua a essere praticato clandestinamente negli stati del sud. Nello stesso Karnataka, una ricerca del 2008 di un organismo statale ha rilevato che, nel solo distretto di Raichur, vi erano 5.051 devadasi. PICCOLA DANZATRICE 2 Altri studi sottolineano che il sistema è ancora un'istituzione in alcuni templi indù. Di fatto, queste giovani non riescono a sposarsi, non trovano alternative al loro stato e sono indotte a proseguire nella prostituzione; alcune convivono per anni con un solo uomo che si prende cura anche dei figli, ma poi vengono abbandonate quando l'uomo decide di sposarsi. Esse devono crescere da sole i figli e vivono in grande povertà, senza entrate fisse, con le offerte magre e irregolari dei clienti; le meno giovani, sono costrette a mendicare o a svolgere i lavori più umili. C'è poi la piaga dell'AIDS, circa il 60% delle prostitute sono sieropositive, una delle più alte percentuali al mondo. E proprio i bambini sono i più vulnerabili e incontrano i problemi peggiori, non hanno un padre, sono disprezzati dalla società, non possono andare a scuola, per le bambine quasi sempre il futuro è di diventare devadasi come le madri.

L'EDUCAZIONE. Sono molte le iniziative e le campagne volte alla sensibilizzazione, alla prevenzione, alla riabilitazione e al reinserimento nella società di queste ragazze e donne. Il mezzo più potente ed efficace è quello dell'educazione: anzitutto delle donne devadasi, perché prendano coscienza della loro condizione culturale e dell'oppressione esercitata su di loro dalle credenze religiose per liberarsene, e poi della società perché capisca veramente che cosa è diventato il sistema devadasi e cessi la discriminazione verso queste donne e i loro bambini. Organizzazioni governative e non, missionari e istituzioni cristiane, associazioni umanitarie e di volontariato sono in prima linea in quest'opera di cambiamento: aiutano le ex devadasi, le donne che vogliono uscire da quel sistema e i loro figli, fanno formazione di base e professionale, educano i bambini, li aiutano a inserirsi nella scuola e li sostengono agli studi, aiutano le donne a raggiungere l'indipendenza economica insegnando un mestiere, fornendo varie forme di assistenza, e infine sopperiscono anche alle carenze del sistema sanitario (Vedi il Progetto 1994). Il miglioramento della loro condizione culturale e economica può fare la vera differenza per le ex devadasi e per i loro figli.

Franco Di Tella

i Da uno studio per l’UNESCO del 1982 su un "approccio culturale alla prevenzione e alla cura dell’AIDS"

L’origine e l'esistenza della prostituzione sacra in India è stata imputata a diversi fattori. Il fatto che i templi richiedevano persone completamente dedicate al loro servizio era il principale; questo, a sua volta, ha portato alla convinzione che la consacrazione alla divinità, la dedizione delle donne e la loro accettazione della pratica sessuale, avrebbe placato gli dei e garantito la fertilità. Quindi queste donne hanno sviluppato un loro status sociale, ruoli e rituali, partecipando a cerimonie religiose e di buon auspicio per la comunità. Nel corso del tempo, la consuetudine ha incoraggiato lo sfruttamento di donne di una parte della società - in particolare delle famiglie povere delle caste inferiori da parte degli uomini delle altre caste, per appagare il loro desiderio avendo anche il pretesto dell’approvazione religiosa. Vengono indicati anche altri fattori che potrebbero aver contribuito a questa sub-cultura (la lista è ripresa da uno studio del sociologo indiano Prof. Shankar Jogan, dell'Università di Mangalore):

l'usanza di dedicare le ragazze ai templi si impose come un sostituto dei sacrifici umani, per placare le divinità e garantire in tal modo la loro benedizione per la comunità

è un rito per propiziare la fertilità della terra e l'aumento della popolazione umana e animale

è parte del culto fallico, che esisteva in India dai primordi

probabilmente la prostituzione sacra nasce dalla consuetudine di dare ospitalità anche sessuale agli sconosciuti, e se le spose mortali di una divinità avessero offerto questa ospitalità, la prosperità sarebbe stata assicurata

l'unione sessuale con le danzatrici-prostitute sarebbe stata considerata un sacramento, simbolo dell'accoppiamento tra cielo e terra che rende fertili i campi

il sistema Devadasi rappresentava un culto licenzioso offerto da una parte della società, asservita agli interessi degradati della classe sacerdotale

il sistema Devadasi era una consuetudine volutamente creata in India per consentire lo sfruttamento delle caste inferiori da parte delle caste e classi superiori, favorendo la creazione di un ordine di prostitute autorizzate a svolgere la loro professione con lo scudo protettivo delle credenze religiose. Il sopravvivere del sistema a causa della povertà assicura ai maschi delle classi superiori la disponibilità delle donne di casta inferiore per soddisfare il loro desiderio carnale.

ii Attraverso il rito del passaggio alla pubertà l'intoccabile diventa "sacra", così anche l'uomo di casta elevata può avvicinarsi a lei.
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Re: Ospitałetà no senpre lè sagra

Messaggioda Berto » dom ott 11, 2015 9:04 am

L'ospitalità sessuale

http://www.studioiannetti.it/it/scheda- ... .php?id=54

Un aspetto curioso dello studio dei comportamenti sessuali è costituito dalla cosiddetta ospitalità sessuale, presente in varie etnie. Tra i Mongo-Nkundu dell'Africa i fratelli del marito hanno diritto di copulare con la moglie ogni volta che gliene viene il ghiribizzo e non è bene per la donna rifiutarsi. Anche tra i Bantu e gli abitanti dell'Africa Orientale è diffusa l'ospitalità sessuale.
Tra i Maasai la buona educazione vuole che il marito esca dalla capanna e lasci sola la moglie con l'ospite.
Le donne sposate sono libere di avere rapporti sessuali con qualunque uomo abbia all'incirca l'età del marito.
Anche tra gli antichi ebrei, alle origini, veniva praticata probabilmente l'ospitalità sessuale. Lo stesso Lot, prima della caduta di Sodoma, offre agli uomini la sua figlia vergine.
L'ospitalità sessuale, anche se contraria ai precetti islamici, ha avuto buona diffusione in tutto il Medio Oriente. Tra i Dard e i Burusho è obbligo dell'uomo mettere a disposizione dell'ospite maschio la propria moglie.
Tra gli Akhvakh nel Caucaso l'ospite può usare liberamente di una ragazza della casa purché l'imene rimanga intatta. Nei gruppi dove è presente la schiavitù le schiave sono a completa disposizione dell'ospite.
Tra i Koryak della Siberia orientale il rifiuto della moglie o della figlia da parte dell'ospite viene considerata dal marito grave offesa che potrebbe essere lavata perfino col sangue.
I Koryak nomadi, a differenza degli altri, non praticano l'ospitalità sessuale anzi sono piuttosto "esplosivi" al minimo sospetto di aver subito l'adulterio. Perciò le donne, per evitare spiacevoli conseguenze, fanno di tutto per imbruttirsi e non apparire attraenti. Tra le donne koryak sedentarie e quelle nomadi c'è un vero abisso sotto questo aspetto, in quanto le prime dedicano molto tempo al trucco e all'indossare begli abiti.
Nella Polinesia (è risaputo) l'ospitalità sessuale è una consolidata istituzione. Del resto, con diverse accentuazioni, il fenomeno è presente tra gli abitanti delle Samoa, delle isole Marchesi e tra i Maori.
A proposito di questi ultimi si racconta un aneddoto.
Un vescovo anglicano in visita, con un suo accompagnatore, a una tribù maori si vide offrire in segno di benvenuto da parte del capotribù una moglie provvisoria. Alla reazione orripilata dell'ospite il capotribù equivocò e per non contrariarlo disse ai suoi: "Va bene, se non gliene basta una dategliene due".
L'ospitalità sessuale e lo scambio delle mogli sono sempre esistiti presso gli Eschimesi e i Aleut, anche a fini eugenetici e procreativi. L'ospitalità sessuale e il prestito della moglie avveniva presso i Tarahumara (forse per ragioni di euforia) dopo aver cacciato determinati animali come il formichiere, l'armadillo e il pecari. In altre società limitrofe esisteva una singolare classe di donne che si offrivano gratuitamente. Esse vengono definite "giocose" e si vestono con abiti da festa. I parenti non hanno nulla da ridire e non mettono in atto azioni ostative.
Chi conosce i serbi di oggi e la loro grande suscettibilità circa la fedeltà della donna, forse si meraviglierà nel sapere che anticamente, in quella stessa area geografica, era piuttosto diffusa l'ospitalità sessuale.
Tra i serbi, anche in tempi più recenti, un prete o un monaco poteva fungere da vicario in assenza del marito.
Non so se tale pratica oggi possa incrementare le vocazioni sacerdotali e ripopolare i seminari vuoti.
Ma chissà che, tra le altre misure, chi di dovere non prenda in considerazione anche questa.

https://books.google.it/books?id=8fuf4k ... si&f=false
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Re: Ospitałetà no senpre lè sagra

Messaggioda Berto » dom ott 11, 2015 9:05 am

Migranti, rifujanti o axilanti, clandestini, invaxori
viewforum.php?f=194

Ki ospitaria a caxa mia?
https://www.facebook.com/groups/chiospi ... aimigranti
https://www.facebook.com/groups/chiospi ... 5053701159

Migranti, Merkel: «Non me la sentirei di ospitarli a casa»
La cancelliera tedesca confessa in un’intervista: «Pur con tutto il rispetto per quelli che lo fanno, è un qualcosa che non al momento non riesco a immaginare»

http://www.corriere.it/esteri/15_ottobr ... 6c35.shtml

La cancelliera tedesca, Angela Merkel, ha ammesso che non se la sentirebbe di ospitare profughi in casa sua. «Pur con tutto il rispetto per quelli che lo fanno, è un qualcosa che non al momento non riesco a immaginare», ha dichiarato in un’intervista alla Bild in cui ha ribadito le linee guida di Berlino per l’accoglienza dei migranti, dopo i malumori emersi nella stessa Cdu.

«Diritto alla protezione ma chi non ha i requisiti....»

Nella lunga intervista a Bild, Merkel insiste sul dovere di accogliere coloro che fuggono da persecuzioni politiche e guerre civili: «C’è un diritto alla protezione dalla guerra e dalla persecuzione sancito dalla nostra Costituzione e dalla Convenzione di Ginevra che è valida in tutti i Paesi europei», ha ricordato la cancelliera. «A quanti non possono reclamare questo diritto - ha precisato Merkel, restando ferma sul fatto che coloro che non possiedono i requisiti per ottenere asilo devono lasciare il Paese - dobbiamo dire che devono abbandonare il Paese, per difficile che questo sia per loro». «Questa è l’amara verità che ci costringe a non arrendersi, ma al contrario: dobbiamo raddoppiare gli sforzi per trovare una soluzione politica», ha concluso.

Selfie e lacrime

Non è la prima volta che la cancelliera tedesca mostra il lato «cattivo» nella questione profughi e rifugiati da parte della Germania. Se da un lato hanno fatto il giro del mondo le foto di Merkel che si fa i selfie con i migranti, dall’altro destò non poche polemiche, a luglio, il video di una ragazzina palestinese che si era messa a piangere durante un incontro proprio con Angela Merkel in una scuola a Rostock. La ragazzina - scappata con la famiglia quattro anni fa dal Libano - aveva preso la parola per racconta alla Cancelliera di avere paura di essere rimandata nel suo Paese d’origine. «Non so come sarà il mio futuro, perché non so se potrò restare. Anch’io ho dei progetti, vorrei studiare», raccontava la ragazza. «Lo capisco, sei estremamente simpatica, ma nei campi profughi palestinesi in Libano ci sono migliaia e migliaia di persone e non siamo in grado di far venire tutti», fu la replica di Merkel.
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Re: Ospitałetà no senpre lè sagra

Messaggioda Berto » mer feb 03, 2016 2:16 pm

Porte di casa aperte ai migranti? L’ora dei dietrofront
Dal premier finlandese Sipila alla «prima ministra» scozzese Sturgeon, da Bob Geldof e al miliardario Sawiris: le promesse non mantenute
di Alessandra Muglia
2 febbraio 2016

http://www.corriere.it/esteri/16_febbra ... ed0a.shtml

Apriamo le porte di casa nostra ai migranti, avevano detto. Ma dove ha portato la gara di solidarietà scattata a settembre sull’onda dell’emozione per l’immagine del piccolo Aylan, morto affogato mentre cercava di raggiungere la Grecia? Qual è stato il seguito di slanci e promesse fatte in Italia e all’estero tre mesi fa?
C’è chi si sottrae a dar conto delle proprie azioni (mancate) come Bob Geldof con la stampa inglese e chi sbandiera «motivi di sicurezza» per giustificare un clamoroso dietrofront, come il premier finlandese. Juha Sipila, 54 anni, 5 figli era stato il primo, a settembre, a dare il buon esempio, mettendo a disposizione pubblicamente — dagli schermi della tv Yle — la sua casa di campagna. La casa di Kempele, 500 km a nord di Helsinki, due piani in mezzo alle betulle, «sarà libera e a disposizione a partire dal primo gennaio 2016», era stato annunciato. Scattata l’ora di aprire le porte, è arrivato invece il contrordine: l’offerta fatta dal premier in autunno non è più valida perché avrebbe portato «troppa attenzione» sulla casa, spiega la Bcc online. La generosità e l’impegno sociale di Sipila sono stati sopraffatti dal timore che la casa del premier diventasse l’oggetto di manifestazioni contro i migranti, come spiega un articolo pubblicato dal giornale Iltalehti.

I timori della «premier» scozzese

Un ripensamento della prima ora era stato quello della «prima ministra» scozzese Nicola Sturgeon. La leader dell’amministrazione autonoma scozzese Sturgeon in un’intervista tv si era detta «assolutamente felice» di aprire a qualche migrante le porte di Bute House, la townhouse del Settecento adibita a residenza ufficiale del First Minister a Edimburgo. Due settimane dopo, con i primi arrivi di rifugiati siriani, la Sturgeon deve essere tornata sulla decisione: non esisteva nessun piano di ospitalità a Bute House, facevano sapere dal suo entourage.

Il silenzio di Geldof

Non ha dato più soddisfazioni nemmeno un altruista di lungo corso come Bob Geldof: la rockstar -attivista irlandese si era offerta di ospitare «immediatamente» ben quattro famiglie di siriani. «Io e Jeanne siamo pronti a prendere 3 famiglie immediatamente nella nostra casa in Kent e una famiglia nel nostro appartamento a Londra», aveva strombazzato Geldof. Contattato due mesi dopo da Steerpike, che cura un blog sullo Spectator, ha glissato non solo su eventuali rifugiati ospitati ma anche su eventuali piani futuri. Tutto evaporato.

L’isola che non c’è

E che dire di miliardario egiziano Naguib Sawiris, che si era detto pronto a comprare un’isola «in Grecia o in Italia» per ospitare i migranti del Mediterraneo? Aveva stabilito il budget (da 10 a 100 milioni di dollari). E persino il nome: «Aylan», come il piccolo profugo.
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