Israele non ha rubato e occupato alcuna terra altrui

Re: Israele non ha rubato e occupato alcuna terra altrui

Messaggioda Berto » mer mag 19, 2021 7:31 am

Realtà e mito
David Elber
il 18 Maggio 2021

http://www.linformale.eu/realta-e-mito/

Uno degli argomenti più utilizzati dalla propaganda antiebraica in merito al conflitto con gli arabi è la questione dei territori che il popolo ebraico avrebbe sottratto alla popolazione araba, per di più considerata come quella “nativa”.

Alla “cupidigia” ebraica, nel corso dell’ultimo secolo si è aggiunto di volta in volta l’imperialismo britannico e/o quello USA, il tutto finalizzato ad aiutare l’impresa “coloniale” ebraica. Questa tesi è priva di qualsiasi argomentazione seria e plausibile. Inoltre, essa è spesso e volentieri accompagnata da cartine volutamente parziali ed omissive coadiuvate da cifre e percentuali territoriali altrettanto parziali e del tutto decontestualizzate, come ad esempio quelle utilizzate per spiegare il rifiuto arabo nei confronti della Risoluzione 181 del 1947 Da tutto questo nasce il mito sempre più inscalfibile che agli arabi sarebbe stato letteralmente “sottratto” un proprio Stato da sotto i piedi.

Per prima cosa è necessario definire il territorio in questione. Impresa che appare più semplice oggi perché si fa riferimento a cartine che rappresentano Israele (anche se con confini talvolta controversi) o cartine che rappresentano il Mandato di Palestina del 1922, che l’ha preceduto e che ne ha sancito i confini legali per il diritto internazionale. Ma questi confini, oggi noti, sono una creazione moderna (consolidatosi in modo quasi definitivo tra il 1920 e il 1927). Quindi, come punto di partenza della nostra disamina partiremo dalla sistemazione territoriale del Medio Oriente uscita dai trattati di pace di Sevrès e Losanna che sancirono la fine dell’Impero ottomano. Infatti, nei quattro secoli precedenti – quelli del dominio ottomano – come si può ben vedere comparando le cartine 1 e 2 relative al Mandato di Palestina e alla suddivisione amministrativa ottomana dell’area fino al 1917, l’area interessata alla nostra ricerca, era suddivisa amministrativamente in maniera del tutto diversa e con criteri e logiche assai differenti. Il termine stesso di “Palestina”, nei quattro secoli di dominio ottomano, non era in uso essendo un termine europeo e cristiano in modo particolare. A ciò è doveroso aggiungere che mai è esistito uno Stato arabo (o più Stati se consideriamo tutto il Medio Oriente) nel senso moderno del termine. La dominazione araba era di fatto terminata all’inizio del XVI secolo.




Con la cartina 3 sottostante si può chiaramente visualizzare il territorio della Palestina mandataria come era stata costituita nel 1922. È bene subito precisare che il Mandato di Palestina è stato deciso dalla Società delle Nazioni (l’ONU dell’epoca) per creare le condizioni per realizzare uno Stato per il popolo ebraico. Questo lo si evince in modo inequivocabile leggendo il preambolo del Mandato nonché i suoi articoli 2,4,6,7 e 11.


Perché allora la cartina 3 raffigurante il territorio del Mandato di Palestina è di due colori differenti? Perché la Potenza mandataria, cioè la Gran Bretagna, in base all’Articolo 25 del mandato decise di dividere amministrativamente il Mandato in due: la parte ad ovest del fiume Giordano per portare a compimento i dettami del Mandato stesso cioè la creazione di uno Stato ebraico; la parte ad est del Giordano per creare un futuro Stato arabo per la popolazione locale non ebraica. È però da precisare che questa suddivisione non era di fatto contemplata dalla Statuto del Mandato di Palestina, fu una “forzatura” interpretativa britannica per favorire la popolazione araba numericamente maggioritaria (oltre che favorire la famiglia hascemita sua alleata). Di fatto del territorio mandatario complessivo, circa il 72% fu destinato agli arabi e il 28% per il popolo ebraico. Questo a partire dal 1922. Erroneamente da quell’anno si fa comunemente riferimento al Mandato di Palestina solo sulla sua porzione ad ovest del Giordano, scordandosi molte volte e volutamente della sua parte est: denominata Transgiordania che fino al 1946 (data di riconoscimento della sua indipendenza come Stato arabo) faceva parte a tutti gli effetti del Mandato di Palestina.

A questo punto nasce il primo mito: quello legato alla presunta “ingiustizia” subita dagli arabi con la spartizione proposta dall’Assemblea Generale dell’ONU nel 1947. Qui non entreremo in merito al valore legale della Risoluzione 181 cosa di cui ci siamo occupati sull’ Informale in vari articoli. Qui accenneremo solo alla presunta ingiustizia che la spartizione territoriale prevedeva: 55% del territorio al popolo ebraico, 43% alla popolazione araba e circa il 2% come territorio internazionale (il territorio di Gerusalemme e dintorni).

I sostenitori della presunta “spartizione ingiusta” prevista con la Risoluzione 181 omettono di dire che le percentuali sopra descritte riguardavano solamente il 28% del territorio originario (come abbiamo visto il restante 72% era già sotto controllo arabo con la creazione della Giordania nel 1946) e per di più si trattava della totalità del territorio già assegnato in precedenza al popolo ebraico. Quindi, quella del 1947, è stata una seconda spartizione relativamente al 28% del territorio complessivo che portò al controllo arabo dell’83% del territorio mandatario complessivo e al controllo ebraico del 16%, mentre il restante 1% rimaneva sotto il controllo internazionale. Quindi anche dal punto di vista della popolazione complessiva (ebraica ed araba) l’83% di territorio premiava ampiamente la maggioranza araba.

Un altro mito legato alla spartizione prevista dalla Risoluzione 181 (si veda la cartina 4 sottostante) è l’autentica leggenda che asserisce che agli ebrei fossero stati assegnati tutti i terreni più fertili. Ma come chiunque può vedere ben oltre il 60% del territorio assegnato agli ebrei era composto dal deserto del Negev.


È vero che oggi il popolo ebraico è riuscito a far fiorire anche questo deserto ma allora era totalmente inospitale. Mentre la maggior parte delle altre terre a loro assegnate erano originariamente paludose e malariche. Fu solo grazie al duro lavoro degli agricoltori che divennero fertili. La logica della spartizione della 181 era esclusivamente demografica e non territori fertili agli uni e pietrosi agli altri. Infine, un altro imperituro mito vede nel rifiuto arabo alla spartizione del 1947 il motivo che tutti gli arabi, sia quelli locali che quelli appartenenti add altri Stati, si sentirono vittime di una ingiustizia in quanto veniva assegnato agli arabi “solo” il 43% del territorio pur essendo la maggioranza.

Come già evidenziato il calcolo territoriale corretto è dell’83% agli arabi e il 16% agli ebrei, ma detto questo, in nessun verbale ONU o della Lega araba risulta una proposta araba di spartizione anche con percentuali diverse: dai verbali raccolti dalla Commissione ONU (UNSCOP) incaricata di studiare la divisione territoriale del mandato nel 1947 in avanti, le uniche dichiarazione arabe furono di assoluta contrarietà alla spartizione e alla nascita di uno Stato ebraico in qualsivoglia porzione del territorio mandatario. Principio questo, che del resto era stato già ribadito dagli arabi alla Commissione Peel nel 1937 quando questa commissione britannica fu incaricata dal governo britannico di studiare una soluzione ai disordini scoppiati a partire dal 1936 ad opera degli arabi. Come si può vedere dalla cartina 5, questa soluzione affidava circa il 70% del territorio della Palestina propriamente detta (esclusa la parte transgiordana) agli arabi e il 30% al popolo ebraico.

Anche questa proposta fu rifiutata dagli arabi mentre anche fu accettata dalla dirigenza ebraica. E’ da notare che la stessa Commissione Permanente dei mandati della Società delle Nazioni l’aveva bocciata perché contraria ai dettami mandatari. In conclusione non una sola proposta di spartizione territoriale è mai stata accettata dagli arabi il resto è solo leggenda e propaganda.



I terroristi nazi maomettani palestinesi di Gaza stanno bombardando Israele
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Gli ebrei d'Israele non hanno rubato e occupato alcuna terra altrui e non opprimono nessuno
http://www.filarveneto.eu/forum/viewtop ... 205&t=2825
Gli ebrei d'Israele non hanno rubato e non hanno occupato nessuna terra altrui, nessuna terra palestinese poiché tutta Israele è la loro terra da 3mila anni e la Palestina è Israele e i veri palestinesi sono gli ebrei più che quel miscuglio di etnie legate dalla matrice nazi maomettana abusivamente definito "palestinesi" e tenute insieme dall'odio per gli ebrei e dai finanziamenti internazionali antisemiti.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Israele non ha rubato e occupato alcuna terra altrui

Messaggioda Berto » ven lug 16, 2021 7:54 pm

Israele è stato comprato, non rubato
Daniel Pipes
25 giugno 2011

https://it.danielpipes.org/9941/palesti ... acquistato

"I sionisti hanno rubato la terra dei palestinesi". È questo il mantra che l'Autorità palestinese e Hamas insegnano ai loro bambini e diffondono nei media. Quest'asserzione riveste un'enorme importanza, come spiega Palestinian Media Watch: "Presentare la creazione dello Stato [israeliano] come un atto di ladrocinio e la sua esistenza come un'ingiustizia storica funge da base per il non-riconoscimento da parte dell'Ap del diritto d'Israele ad esistere". L'accusa di furto mina altresì la posizione dello Stato ebraico a livello internazionale.

Un'immagine palestinese: uno squalo-Stella di David divora la Palestina.

Ma quest'accusa è fondata?

No, non lo è. Paradossalmente, la costruzione di Israele è l'esempio della più tranquilla ondata di immigrazione e della più pacifica creazione dello Stato della storia. Per comprenderne il motivo, occorre vedere il sionismo nel suo contesto. In poche parole, la conquista è la norma storica. Ovunque, il potere è stabilito con l'invasione e quasi tutti gli Stati sono stati fondati a spese di un altro. Nessuno comanda a tempo indeterminato, le radici di tutti riconducono altrove.

Le tribù germaniche, le orde dell'Asia Centrale, gli zar russi e i conquistadores spagnoli e portoghesi hanno ridisegnato le carte geografiche. I greci moderni hanno un debole collegamento con i greci dell'antichità. Chi può contare il numero di volte in cui il Belgio è stato invaso? Gli Stati Uniti sono nati sconfiggendo i Nativi americani. I re hanno razziato l'Africa, gli Ariani hanno invaso l'India. In Giappone, coloro che parlavano Yamato hanno eliminato tutti i piccoli gruppi come gli Ainu.

Il Medio Oriente, grazie alla sua centralità e alla geografia, ha subito un eccessivo numero d'invasioni, tra cui quella greca, romana, araba, dei Crociati, selgiuchide, timuride, mongola e degli europei moderni. In seno alla regione, le lotte dinastiche hanno costretto lo stesso territorio a essere conquistato e riconquistato, come nel caso dell'Egitto, ad esempio.

Gerusalemme ha conosciuto numerose guerre: nel 70 d.C., l'imperatore Tito celebrò la sua vittoria sugli ebrei con la costruzione di un arco di trionfo sul quale sono rappresentati dei soldati romani che trasportano una menorah sottratta dal Monte del Tempio.

La terra su cui ora sorge Israele non ha fatto eccezione. In Jerusalem Besieged: From Ancient Canaan to Modern Israel, Eric H. Cline scrive così di Gerusalemme: "Nessun'altra città è stata più ferocemente contesa nel corso della sua storia". E avvalora quest'affermazione contando "almeno 118 differenti conflitti per e dentro Gerusalemme negli ultimi quattro millenni". Cline calcola che Gerusalemme è stata completamente distrutta almeno due volte, 23 volte assediata, 44 conquistata e 52 attaccata. L'Ap fantastica che i palestinesi di oggi discendono da un'antica tribù cananea, i Gebusiti; però, di fatto, sono nella stragrande maggioranza una progenie di invasori e di immigrati in cerca di opportunità economiche.

Ma in questo quadro di conquiste incessanti, di violenze e di sconfitte, gli sforzi sionisti di stabilire una presenza in Terra Santa fino al 1948 appaiono come sorprendentemente miti, essendo stati i sionisti più mercanti che militari. Due grandi imperi, quello ottomano e britannico, hanno governato Eretz Israel. Al contrario, i sionisti non avevano una forza militare. Non è stato loro possibile diventare uno stato a tutti gli effetti attraverso la conquista.

Piuttosto, hanno acquistato i terreni. L'obiettivo dell'impresa sionista fino al 1948 era di acquisire proprietà dunam dopo dunam, e così per le aziende agricole e le case. Il Fondo nazionale ebraico, istituito nel 1901 per acquistare terreni in Palestina onde "contribuire alla creazione di una nuova comunità di ebrei liberi impegnati in un progetto attivo e tranquillo" era l'istituzione chiave – e non l'Haganà, l'organizzazione clandestina di difesa ebraica fondata nel 1920.

I sionisti hanno focalizzato altresì l'attenzione sul risanamento di ciò che era arido e considerato inutilizzabile. Non solo hanno fatto fiorire il deserto, ma hanno bonificato le paludi e le terre incolte, depurato i canali d'acqua, imboschito le colline spoglie, rimosso le rocce e il sale dal suolo. La bonifica ebraica e le misure igieniche hanno all'improvviso ridotto il numero di decessi per malattie.

Fu solo quando la potenza mandataria britannica rinunciò alla Palestina nel 1948, cui fece subito seguito un ostinato tentativo da parte dei Paesi arabi di annientare ed espellere i sionisti, che questi ultimi impugnarono le armi per difendersi e andarono a procurarsi la terra con la conquista militare. E anche allora, come dimostra lo storico Efraim Karsh in Palestine Betrayed , la maggior parte degli arabi abbandonò le loro terre e solo pochissimi furono costretti ad andarsene.

Questa storia contraddice il racconto palestinese che "le bande sioniste rubarono la Palestina ed espulsero il suo popolo" che ha portato a una catastrofe "senza precedenti nella storia" (secondo un libro di testo dell'Ap per gli alunni di 17-18 anni) o che i sionisti "depredarono la terra palestinese e gli interessi nazionali, fondando il loro stato sulle rovine del popolo arabo palestinese" (scrive un editorialista nel foglio dell'Ap). Le organizzazioni internazionali, gli editoriali dei quotidiani e le petizioni che circolano negli atenei reiterano questa menzogna in tutto il mondo.

Gli israeliani dovrebbero tenere la testa alta e far rilevare che la costruzione del loro Paese fu basata sul movimento più civilizzato e meno violento che abbia mai avuto qualunque popolo nella storia. Le bande non hanno rubato la Palestina: i mercanti hanno acquistato Israele.

Aggiornamento del 21 giugno 2011: Per altri punti non trattati in questo articolo, si veda il pezzo del mio blog, "Supplemento d'informazione riguardo alla questione che i sionisti hanno acquistato Israele e non hanno rubato la Palestina".




Quando i critici di Israele non sopportano la sovranità ebraica
Se l'esistenza stessa delle Forze di Difesa israeliane è intollerabile, e Israele è intrinsecamente illegittimo, nessun uso della forza per quanto giustificato risulterà mai accettabile
Di David E. Bernstein
(Da: Times of Israel, 4.7.219

https://www.israele.net/quando-i-critic ... ta-ebraica

Dopo eventi come la recente guerra Israele-Hamas, la gente inevitabilmente si domanda come mai schermaglie relativamente minori che coinvolgono Israele catturano così tanta attenzione nel mondo, mentre conflitti molto più sanguinosi e geo-politicamente significativi fanno a malapena alzare un sopracciglio nella comunità interazionale. Penso che la risposta sia ovvia, anche se viene data di rado: molte persone sono affascinate dal fatto che gli ebrei, oggi, hanno uno stato sovrano dotato di forza militare; ma sono molte di più le persone (compresi tanti ebrei e non-ebrei filo-ebraici) che al contrario si sentono disgustate dalla sovranità e dalla forza militare di Israele.

A tale proposito, si consideri che la teologia cattolica tradizionale postulava che gli ebrei fossero condannati a vagare per la Terra, apolidi e senzatetto, come punizione per aver rifiutato Gesù. Vedere gli ebrei esercitare sovranità politica su se stessi e su comunità di cristiani e musulmani in Terra Santa è una amara pillola teologica molto difficile da ingoiare, e infatti la stessa Chiesa cattolica ha impiegato decenni per decidersi a farlo. Ma se la Chiesa ha in gran parte mutato atteggiamento, molti cristiani tradizionalisti non l’hanno fatto. Dal canto loro, le teologie cristiane più liberal rimangono ancorate all’idea che il martirio, così come l’ha sofferto Gesù, è la più elevata forma di virtù. Questi liberal riconoscono e si rammaricano per le ingiuste sofferenze patite dagli ebrei nel mondo cristiano per secoli. Tuttavia, vedono questa sofferenza come edificante per gli ebrei, con gli ebrei nel ruolo di martiri del peccato cristiano come Gesù lo è stato per i peccati del mondo. Alla luce degli orrori della Shoà, il ruolo assegnato agli ebrei è diventato quello di usare il proprio martirio per farsi voce profetica a favore della pace, anzi del pacifismo, e di operare per la redenzione dell’umanità. In questo senso, non rientra assolutamente nel loro ruolo edificare uno stato sovrano e forte, munito di un potente esercito capace all’occorrenza di infliggere durissimi colpi militari. Paradossalmente, gli ebrei che rifiutano il ruolo di vittime vengono percepiti come un tradimento degli ideali cristiani. Ecco perché i censori cristiani di Israele accusano così spesso gli ebrei di “non aver imparato nulla dalla Shoà”: nella loro mente, la Shoà è una storia che ruota attorno a un peccato cristiano e alla possibile redenzione attraverso il comportamento delle vittime/martiri. In questa visione, il destino del popolo ebraico in quanto popolo è, nel migliore dei casi, del tutto irrilevante.

È interessante notare come molti ebrei di estrema sinistra si ritrovino in una ridotta ideologica simile a quella dei liberal cristiani, sebbene su basi ideologiche marxiste anziché cristiane. Da quando lo affermò lo stesso Karl Marx, esiste tutto un significativo filone di pensiero di sinistra secondo il quale gli ebrei non sono un gruppo etnico legittimo, ma semplicemente dei derelitti nomadi asiatico-europei emersi come gruppo al solo scopo di servire gli interessi di classe, dapprima dei governanti feudali, poi dei capitalisti, non essendo dotati di per sé né di una religione legittima (perché nessuna religione è legittima), né di una cultura legittima (perché sono ebrei), né di alcuna legittima rivendicazione all’autodeterminazione. Non avendo nessun altra legittima ragione di esistere, l’unico modo per gli ebrei di giustificare se stessi continuando ad esistere come collettivo è quello di utilizzare l’esperienza ebraica dell’ingiustizia come motivazione per contribuire a tutti i vari movimenti di liberazione: a patto di non includere il movimento di liberazione ebraico, cioè il sionismo. Secondo questa visione, il sentimento nazionale ebraico non è altro che un nazionalismo reazionario basato su un insensato sentimentalismo o, peggio, su nozioni razziste di superiorità ebraica. Il motivo esatto per cui la solidarietà ebraica sarebbe razzista, mentre non lo è la solidarietà in tutti gli altri gruppi umani, non viene mai spiegato chiaramente. Ma intanto serve per affermare che Israele non ha diritto a nessun uso legittimo della forza per difendersi giacché Israele stesso non può essere legittimo.

Nel mondo musulmano la narrazione dominante è che Maometto, dopo aver mostrato la propria maestria militare massacrando le tribù arabo-ebraiche locali, ha magnanimamente concesso agli ebrei di vivere in pace sotto sovranità musulmana. Secondo il mito comunemente accettato, ebrei e musulmani hanno vissuto in totale armonia sotto il dominio musulmano per i successivi milleduecento e passa anni, fino a quando non sopraggiunse il sionismo a rovinare tutto. L’indipendenza e la forza militare di Israele, per contro, abbattono due miti correlati. Uno è che il dominio musulmano sui dhimmi ebrei fosse benevolo, e quindi gli ebrei del Medio Oriente non avevano alcun motivo per desiderare e difendere una loro indipendenza. L’altro è che i musulmani, in quanto gruppo religioso prediletto da Dio, avrebbero sempre governato sugli ebrei e mai viceversa. Vedere un esercito ebraico sconfiggere costantemente gli avversari musulmani, in contrasto con le vittorie di Maometto sugli ebrei nel Corano, destabilizza la visione del mondo di molti musulmani. Non basta. Maometto avviò il suo impero a partire da un territorio limitato e da un piccolo esercito, per poi espandersi in tutto il Medio Oriente e il Nord Africa. Qui entra indubbiamente in gioco un qualche latente timore che Israele possa allo stesso modo essere la miccia dell’espansionismo ebraico. Naturalmente ciò significa fraintendere totalmente il sionismo e l’ebraismo, ma il musulmano medio sa ben poco dell’ebraismo e gli è quindi del tutto naturale presumere che l’ebraismo sia espansionista e universalista come l’islam.

Infine, bisogna ricordare che le idee anti-israeliane di cui si è detto non sono sorte del tutto spontaneamente, ma sono in parte il prodotto di intense campagne antisemite istituzionali condotte nel corso dei decenni dalla Chiesa, dalla Russia zarista, dalla Germania nazista, dall’Unione Sovietica e da una varietà di stati arabi e musulmani. La propaganda sovietica che rifiuta Israele in quanto illegittimo stato colonialista, fondato da “sionisti” che non avevano alcun titolo per rappresentare il popolo ebraico, ha esercitato un impatto particolarmente duraturo sull’opinione mondiale. Oggi molti giovani di sinistra ripetono gli stessi slogan degli organi della propaganda sovietica Izvestia e Pravda di cinquant’anni fa, senza nemmeno rendersi conto della loro provenienza.

La conclusione più importante di tutto ciò è che le condanne dell’uso della forza militare da parte di Israele non possono essere attenuate né mitigate da un diverso “comportamento” di Israele. Il principale capo d’accusa non è il modo in cui Israele usa la forza ma la repulsione, ideologicamente fondata, verso il fatto stesso che degli ebrei esercitino collettivamente la forza militare attraverso il loro stato sovrano. Questo è il motivo per cui, stando alla mia esperienza, quando i censori di Israele sostengono che Israele sta facendo un uso “sproporzionato” della forza, non si riesce mai a capire quale livello di forza sarebbe per loro accettabile. Se per loro l’esistenza stessa delle Forze di Difesa israeliane è insopportabile, e Israele è intrinsecamente illegittimo, nessuna quantità di forza, per quanto rigorosamente difensiva e oculatamente calibrata, potrà mai essere tollerabile.
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Messaggioda Berto » sab set 25, 2021 7:57 am

QUANDO HAMAS PERDE UNA BUONA OCCASIONE PER TACERE
Michelle Mazel
19 luglio 2021

https://www.facebook.com/permalink.php? ... 8174765883

Mercoledì 14 luglio, Hamas ha rilasciato una precisazione, o meglio una condanna, a seguito di un annuncio dell'Autorità per le Antichità israeliane che egli considera tanto falso quanto scandaloso. Giudicate voi: un team di archeologi israeliani che lavorano nel Parco Nazionale della Città di David sotto il Monte del Tempio, ha portato alla luce la sezione di un muro risalente a circa 2.700 anni fa. Questa sezione, con uno spessore di cinque metri, sarebbe la vestigia del muro che circondava Gerusalemme e che fu distrutto nel 586 a. C. dalle armate di Nabucodonosor. Il sovrano babilonese, nella spedizione contro il regno di Giuda, aveva assediato Gerusalemme, la sua capitale, prima di conquistare la città, di distruggere il tempio e di costringere gli abitanti all'esilio in Babilonia.
Cosa c'era dunque di tanto sconvolgente nel ritrovamento di questo tratto di muro, una scoperta in linea con la storia e con il racconto biblico? E’ che qui ci sono due elementi che contraddicono formalmente la narrativa palestinese. Ascoltiamo Muhammad Hamadeh di cui sappiamo poco, salvo il fatto che nelle sue foto appare tutto sorridente e che è il portavoce di Hamas, questa organizzazione terroristica che ha cacciato i rappresentanti dell'Autorità Palestinese nel 2005 e che nega qualsiasi legittimità a Israele: secondo lui, è inutile che Israele insista a disinformare e falsificare la storia distorcendo i fatti, in particolare negando una presenza palestinese assai precedente all'arrivo degli ebrei .
“Gerusalemme rimarrà la capitale della Palestina e della sua identità arabo-islamica.” Identità arabo-islamica? La scoperta del muro e il ricordo della distruzione di Gerusalemme e del suo tempio evidenziano il fatto che esisteva una presenza ebraica già molto prima dell'arrivo degli arabi e della nascita dell'Islam nel VII secolo della nostra era e che tale presenza è stata poi resa concreta da uno Stato la cui capitale era Gerusalemme. Cosa ancora più grave, senza dubbio, in questa Gerusalemme ebraica c'era un tempio ebraico - il Tempio di Salomone - che si trovava su quella che gli arabi chiamano “la Spianata delle Moschee”, dove loro vorrebbero vietare l’accesso agli ebrei "che la contaminano con i loro piedi sporchi”, per citare il Presidente Abu Mazen. Inoltre, ancora oggi Hamas - e l'Autorità palestinese - rifiutano di riconoscere qualsiasi legame tra gli ebrei e “il complesso di Al Aqsa” che comprende l'insieme di ciò che gli ebrei chiamano il Monte del Tempio. Ai loro occhi, il Tempio di Salomone, il secondo Tempio e il Tempio ricostruito da Erode non sono mai esistiti; per loro è una finzione sostenuta dagli ebrei nella loro tremenda lotta per “giudaizzare” Gerusalemme. A proposito, cancellano dai libri di storia le tradizioni cristiane e la centralità del Tempio di Gerusalemme nella vita e morte di Gesù di Nazareth. Bisogna mettere bene in evidenza che le nazioni cristiane d'Europa che hanno permesso che l'UNESCO approvasse delle risoluzioni che negano il legame tra ebraismo, ebrei e Gerusalemme, evidentemente non sentono il bisogno di protestare.
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Messaggioda Berto » sab set 25, 2021 7:57 am

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Israele non ha rubato e occupato alcuna terra altrui

Messaggioda Berto » sab set 25, 2021 7:58 am

???
La soluzione a due stati è praticabile? No, risponde chi odia Israele
Quelli che non credono più alla soluzione a due stati sono coloro che probabilmente non l’hanno mai voluta (perché non tollerano che esista uno stato ebraico)
Salo Aizenberg,
(Da: Times of Israel, 31.8.21)
15 Settembre 2021

https://www.israele.net/la-soluzione-a- ... ia-israele

Alla fine di agosto la rivista Foreign Affairs ha pubblicato un sondaggio tra 64 “esperti”, interpellati circa la loro opinione sulla possibilità che una soluzione a due stati per Israele e Palestina sia ancora praticabile. Agli esperti è stato chiesto di scegliere tra cinque possibili risposte (molto d’accordo, d’accordo, neutrale, in disaccordo, molto in disaccordo) rispetto alla seguente affermazione: “La soluzione a due stati al conflitto israelo-palestinese non è più praticabile”. Venticinque intervistati si sono detti d’accordo o molto d’accordo, mentre 32 si sono dichiarati in disaccordo o molto in disaccordo. Sette si sono definiti neutrali.

Un attento esame del risultato mostra un chiaro insieme di caratteristiche uniformi che contraddistingue coloro che credono o non credono nella fattibilità della soluzione a due stati. Coloro che sono decisamente anti-israeliani e parlano di Israele nei termini più aggressivamente negativi sono quelli che non credono che i due stati siano praticabili. Coloro che sostengono l’esistenza di Israele come stato ebraico e non vedono Israele come l’unico violatore dei diritti umani sono quelli che considerano praticabile la soluzione a due stati, anche se non è possibile raggiungerla a breve termine. La domanda sulla soluzione a due stati risulta quindi molto più utile come cartina di tornasole per determinare il punto di vista, ostile o a difesa di Israele, dell’esperto intervistato, che non per capire l’effettiva fattibilità della soluzione in questione.

Dalla pagina Facebook di Fatah, il movimento che fa capo ad Abu Mazen. Coloro che detestano Israele non sono interessati a una soluzione a due stati perché permette l’esistenza di uno stato ebraico

La realtà è che gli esperti anti-israeliani, tutti contrari all’idea che i due stati rimangano praticabili, nelle risposte riflettono le loro speranze e i loro sogni: la fine della sovranità ebraica in Terra Santa (Terra d’Israele/Palestina) a favore di uno stato che sia controllato da una maggioranza arabo-palestinese. Naturalmente, rifiutano l’idea che i due stati siano praticabili dal momento che qualsiasi soluzione che permetta a uno stato ebraico di persistere integro è l’ultimo esito da loro auspicato.

Quasi tutti gli intervistati che ritengono non praticabile una soluzione a due stati sono noti per le loro posizioni anti-israeliane: la maggior parte di loro utilizza alcune o tutte le più consuete e virulente rappresentazioni anti-israeliane come “impresa di insediamento coloniale”, “stato di apartheid”, “pulizia etnica” e “criminale di guerra”, miscelate con dosi variabili di negazione della storia ebraica. Nei loro brevi commenti pubblicati nel sondaggio, incolpano sempre e solo Israele per la mancanza di pace e non riescono nemmeno a concepire l’idea che i palestinesi possano in qualche modo esserne responsabili, poiché ai loro occhi i palestinesi possono essere soltanto le vittime permanenti dell’oppressione. Molti di questi intervistati sono loro stessi palestinesi o sono persone legate da stretti rapporti con leader o accademici palestinesi. Ecco alcuni esempi di esperti intervistati sul versante della “soluzione non praticabile”, che manifestano opinioni condivise dalla maggior parte del gruppo.

Yousef Munayyer è uno scrittore e analista politico palestinese-americano ben noto per le sue virulente opinioni anti-israeliane. Frequente collaboratore della pagina editoriale del New York Times, Munayyer considera Israele uno stato di apartheid e parla regolarmente delle “mire coloniali” di Israele. Paragona i palestinesi ai nativi americani decimati dai coloni europei, rifiuta il carattere autoctono degli ebrei in Terra Santa (Terra d’Israele), afferma che “la soluzione a due stati è morta e l’ha uccisa Israele” senza mai menzionare le offerte di spartizione avanzate dai primi ministri israeliani Ehud Barak ed Ehud Olmert e rifiutate dai palestinesi.

Nadia Abu El-Haj

Nadia Abu El-Haj, professoressa di antropologia al Barnard College e alla Columbia University, è nota per il suo libro Facts on the Ground: Archaeological Practice and Territorial Self-Fashioning in Israeli Society, in cui sostiene che gli israeliti non vivevano nella terra dove oggi c’è Israele. La premessa del libro è che l’archeologia israeliana è un’ossessione nazionale mediante la quale vengono rivendicati identità e diritti nazionali ebraici e viene “concretizzata la fantasia storica colonial-nazionale” israeliana. Nadia Abu El-Haj ritiene che attraverso la non praticabile soluzione a due stati, Israele potrebbe indirizzarsi “verso una pulizia etnica più radicale del tipo che abbiamo visto nel 1948”.

Ali Jarbawi è professore di scienze politiche alla Birzeit University, in Cisgiordania, ed ex ministro del governo dell’Autorità Palestinese. Ha scritto diversi editoriali sul New York Times in cui accusa Israele di “giudaizzare Gerusalemme”, di trasformare Gaza in una “prigione gigante” e chiede la fine dell’”unica occupazione coloniale rimasta oggi nel mondo”. A suo avviso, la soluzione a due stati non è praticabile “a causa delle azioni israeliane in Cisgiordania e Gerusalemme”. Nessuna colpa o responsabilità viene attribuita ai palestinesi.

Sullo fronte opposto, quasi tutti i trentadue intervistati che ritengono ancora praticabile la soluzione a due stati non considerano Israele uno stato illegittimo nato nel peccato, né uno dei peggiori violatori di diritti umani al mondo. Fra i sostenitori dei “due stati” si contano diversi ex diplomatici e negoziatori di pace americani (come Aaron David Miller, Dennis Ross e Martin Indyk), studiosi israeliani e americani ed ex funzionari israeliani. All’interno di questo gruppo i punti di vista sul conflitto variano ampiamente. Tuttavia, con forse un paio di eccezioni, tutti sostengono Israele come stato ebraico e uno stato arabo palestinese separato.

Martin Indyk

Martin Indyk offre, a mio parere, la migliore risposta complessiva a sostegno dei due stati: “Non c’è altra soluzione che possa effettivamente risolvere il conflitto. Le altre ‘soluzioni’ non faranno altro che perpetuarlo. Tuttavia, al momento le parti non sono pronte a perseguire la soluzione a due stati. C’è bisogno di un processo di maturazione che generi nuovi leader, una nuova volontà di assumersi dei rischi e rinnovati sforzi per ricostruire la fiducia nelle intenzioni della controparte”. Indyk afferma apertamente che nel dicembre 2000 Ehud Barak aveva accettato i parametri di Clinton per uno stato palestinese, mentre fu il leader palestinese Yasser Arafat a respingere la proposta con la sua mancata risposta. Indyk ricevette nelle sue mani il fax di Barak con la risposta positiva israeliana e fu testimone del rifiuto di Arafat. Indyk respinge il revisionismo di coloro che sostengono che i fatti non si sono svolti come dicono i suoi ricordi personali (corroborati da numerosi resoconti simili), al solo scopo di tentare di assolvere Arafat dalla colpa storica d’aver rifiutato lo stato palestinese.

Una delle poche risposte neutre è assai significativa. Nabil Famhy ha indicato una risposta neutrale alla fattibilità di una soluzione a due stati, spiegando: “Rimane l’unica ‘soluzione pacifica’ praticabile perché garantisce a israeliani e palestinesi l’espressione della loro identità nazionale. Con un approccio diverso e un pacchetto completo e conclusivo rimane possibile, anche se con prospettive in calo. L’opzione dello stato unico e l’opzione giordana, sebbene sempre più probabili, sono ricette per ulteriori conflitti e frustrazioni”.

Nabil Fahmy

Nabil Fahmy è stato ambasciatore egiziano negli Stati Uniti all’epoca di Camp David (luglio 2000) e dei parametri e Clinton, e all’inizio di gennaio 2001 si trovava letteralmente nella stessa stanza con Yasser Arafat e il principe saudita Bandar poche ore prima che Arafat incontrasse, come previsto, il presidente Clinton per rispondere ai suoi parametri. Prima dell’incontro, Arafat venne informato da Bandar e dallo stesso Fahmy che i loro governi, così come la Giordania e gli stati del Golfo, sostenevano i parametri proposti da Clinton e l’accettazione da parte di Arafat di quella proposta per uno stato palestinese e la fine del conflitto. Il messaggio era che Arafat avrebbe dovuto accettare il piano. Alla fine Arafat non rispose al presidente Clinton, respingendo di fatto la proposta. E’ logico che Fahmy, più di vent’anni dopo, creda che il piano a due stati non sia morto giacché sottolinea il sostegno del suo paese per quella soluzione e fu testimone oculare del tragico rifiuto da parte di Arafat.

In conclusione, il recente sondaggio di sessantaquattro esperti non ci dice assolutamente nulla sull’effettiva fattibilità di una soluzione a due stati e non fornisce alcuna analisi del motivo per cui finora è fallita. Ma conferma ciò che già sapevamo: coloro che detestano Israele non sono interessati a una soluzione a due stati se permette a uno dei due stati di continuare a essere uno stato ebraico.


Presa ferma sulla realtà: Intervista a Martin Sherman
Niram Ferretti
5 Agosto 2018
Commenti

http://www.linformale.eu/presa-ferma-su ... n-sherman/

Pochi, come Martin Sherman, possiedono una conoscenza così approfondita del conflitto arabo-israeliano o israelo-palestinese (così riqualificato dopo la guerra dei Sei Giorni ). Fondatore e presidente dell’Istituto Israeliano per gli Studi Strategici, ex segretario generale del movimento politico Tsomet e autore di “Into the Fray” una tra le migliori rubriche di analisi politica sul Medio Oriente e Israele, Sherman è un empirista risoluto con una presa ben ferma sulla realtà.

Come spesso capita a coloro che vedono bene ma non sono abbastanza ascoltati, già nel 1992 aveva previsto con estrema precisione cosa sarebbe accaduto a Gaza se Israele avesse lasciato la Striscia, così come vide con esattezza nella duplicità di Gonan Segev, l’uomo il cui tradimento politico fece da levatrice ai perniciosi accordi di Oslo.

A distanza di un anno, L’informale lo ha incontrato di nuovo in Israele.

Martin Sherman, è noto a chi ha famigliarità con la sua linea di pensiero, che per lei l’unica soluzione praticabile al conflitto arabo-israeliano sia quello che lei chiama “il paradigma umanitario”, il quale comporta la fine della soluzione dei due stati. Potrebbe illustrare brevemente su cosa si sostanzia?

È mia opinione che il paradigma umanitario il quale spinge per l’immigrazione incentivata dei residenti arabi della Giudea e Samaria ed eventualmente di Gaza, è fondamentalmente l’unico paradigma non violento il quale possa garantire l’esistenza di Israele come stato nazione del popolo ebraico. Perché Israele possa perseverare come nazione del popolo ebraico deve affrontare due imperativi, quello geografico e quello demografico. Se non affronta con successo questi due imperativi, diventerà ingestibile geograficamente o demograficamente o entrambe le cose. Nell’affrontare questi due imperativi Israele deve gestire due sfide mortali. Una è la soluzione dei due stati, la quale non affronta in alcun modo efficace la sfida geografica, e l’altra è quella demografica. E’ molto facile mostrare che se Israele dovesse cedere abbastanza territorio per una entità palestinese appena sostenibile, non sarebbe in grado di difendere i propri confini, i confini del 1967 ai quali Abba Eban si riferiva correttamente come i confini di Auschwitz. La soluzione dei due stati renderebbe semplicemente Israele ingestibile geograficamente nei confronti di qualsiasi forza ostile che dalle colline si affaccerebbe sulla piana costiera, il che significa che essa sarebbe in grado di interferire a proprio piacimento sulla sua routine socio-economica. Prenda in considerazione quello che è accaduto a Gaza recentemente con i palloni e gli aquiloni incendiari, e immagini questo tipo di situazione in relazione all’area densamente popolata della costa, Tel Aviv, Haifa, ecc.

Ma anche l’imperativo geografico è destinato al fallimento in quanto non sarebbe in grado di creare una struttura coesa e coerente. La società israeliana degenererebbe in uno scenario libanese che sarebbe lacerato da conflitti etnici. E’ praticamente impossibile immaginare come si possa gestire un paese dove il 40% della popolazione non solo non accetta la natura ebraica del paese, ma la rigetta violentemente. Dunque, se si è d’accordo sul fatto che Israele debba essere gestibile geograficamente e demograficamente, questo scenario ridurrebbe drasticamente la natura ebraica del paese insieme a una progressiva riduzione dell’immigrazione ebraica. Questo stato di cose porterebbe eventualmente a una leggera predominanza ebraica la quale verrebbe erosa progressivamente e rimpiazzata da una maggioranza musulmana e questo comporterebbe la fine dello Stato ebraico in quanto tale. L’unica modo di affrontare con questi due imperativi è quello di mantenere il territorio e ridurre la presenza araba. Ciò significa indurre il suo trasferimento attraverso incentivi positivi per andarsene e negativi per restare. Ritengo che Israele debba mettere sul tavolo delle rilocazioni molto generose le quali possano indurre gli arabi non belligeranti a progettare un futuro più prospero per loro in paesi terzi. Gli incentivi negativi sarebbero la riduzione da parte di Israele dei servizi diretti come l’acqua, l’elettricità, il gas nei confronti della popolazione nemica in modo da creare la pressione necessaria per costringerla ad andarsene accettando una rilocazione generosa. La soluzione dei due stati chiama in essere un’altra entità musulmana misogina e omofobica la quale diventerebbe un bastione per il terrorismo jihadista. Quello che prospetto è l’opportunità per i palestinesi non belligeranti di liberarsi dalla presa di quelle cricche che per decenni gli hanno soggiogati, in modo da trovare una vita più sicura e prospera altrove. Se si dovessero paragonare i meriti morali di questi due paradigmi, credo che la scelta si imporrebbe da sola. Per quale motivo chiunque, in modo particolare un liberale, preferirebbe il venire in essere di una entità islamica tirannica e intollerante invece di offrire l’opportunità ai palestinesi non belligeranti di farsi una vita migliore altrove? Non c’è veramente molto da scegliere qui.

Secondo il professor Efraim Karash, il processo di pace di Oslo “ha portato alla creazione di una entità terroristica inestirpabile alle porte di Israele, ha approfondito lo sfaldamento interno di Israele, destabilizzato il suo sistema politico e indebolito la sua posizione a livello internazionale”. E’ d’accordo?

La risposta breve è, sì, completamente. La cosa tragica non è solo che la situazione descritta da Karsh è corretta ma che fosse del tutto prevedibile. Il processo di Oslo è stato un fallimento previsto. Chiunque possedesse una conoscenza minima di elementi base di scienza politica o di discipline connesse come relazioni internazionali o teoria dello stato nazione, sapeva che non avrebbe mai potuto funzionare. Negli anni Novanta si poteva finire in carcere per sostenere una soluzione politica sulla linea di Oslo, era considerato tradimento. Quello che sono stati capaci di fare non è stato di fare propria una posizione che non solo era marginalizzata ma era anche illegale e trasformarla nel principale paradigma politico non solo a livello internazionale ma anche qui in Israele. Dunque non posso che essere d’accordo con Karsh nel giudicare Oslo un disastro. Posso solo sperare che si sbagli quando dice che è un disastro inestirpabile, in altre parole, irrevocabile. Spero che attraverso la volontà politica e sufficienti risorse a disposizione sia possibile cambiare la situazione e questo è il motivo per il quale promuovo il paradigma umanitario. A questo proposito, quando ne ho parlato prima non ho menzionato due fattori che vorrei evidenziare.

Prego.

Uno è la necessità di una pressione politica nei confronti delle nazioni arabe per fermare l’opposizione alla diaspora palestinese nei paesi arabi. Come è noto, la Lega Araba si rifiuta di permettere ai palestinesi di acquisire la cittadinanza nei loro paesi di residenza nel mondo arabo. Una volta, il portavoce della Lega dichiarò, “Se dovessimo concedergli la cittadinanza non avrebbero alcuna ragione di andare in Palestina”. Questo è il punto. Il secondo è la dissoluzione dell’UNRWA. Nel 2008 feci una presentazione alla Knesset durante la quale suggerì fermamente che Israele si impegnasse per la dissoluzione dell’UNRWA in quanto il suo scopo è quello di perpetuare il mito dello statuto di rifugiato palestinese il quale crea una forte pressione su Israele affinché riconosca uno stato palestinese. Provi a immaginare cosa accadrebbe nel caso in cui fosse creato uno stato palestinese, se la diaspora palestinese venisse immessa al suo interno di propria sponte o attraverso l’espulsione forzata da parte degli stati arabi. Sarebbe una situazione completamente ingestibile per Israele a livello infrastrutturale. Un quantitativo massiccio di palestinesi destituiti separati dal prospero Israele da una barriera o da un muro di dieci centimetri. Sarebbe un disastro totale.

Sempre per restare in tema degli Accordi di Oslo, Secondo lei a chi va conferita la maggiore responsabilità per il loro venire in essere, a Shimon Peres, Isaac Rabin, o Yossi Beilin?

Il responsabile maggiore fu Rabin, perché nutriva fortissime apprensioni sull’accordo ma non volle contrapporsi ai suoi rivali politici all’interno del partito e tristemente andò contro la propria coscienza pur di mantenere la propria posizione. Se si fosse opposto agli Accordi di Oslo avrebbe perso la sua posizione all’interno del partito. Malgrado Peres e Beilin abbiano una grande colpa per la loro iniziativa, la responsabilità maggiore fu di Rabin, per non esservisi opposto.

Donald Trump ha modificato drasticamente l’atteggiamento degli Stati Uniti nei confronti di Israele dopo gli anni assai problematici dell’Amministrazione Obama. Ha determinato cambiamenti notevoli dichiarando Gerusalemme la capitale di Israele, spostando l’ambasciata americana, tagliando i fondi all’UNRWA e all’Autorità Palestinese. John Bolton, il quale è sempre stato un risoluto critico del paradigma dei due stati, è oggi il Consigliere per la Sicurezza Nazionale. Non è questo il momento migliore per Israele per chiedere un nuovo inizio, un completo cambiamento di scenario?

Ancora una volta la risposta breve è, sì decisamente. La cosa triste relativamente al grande progresso strategico di Israele, è che questo progresso si è determinato a causa di due sviluppi nessuno dei quali è stato prodotto dalla politica israeliana, dalla sua prudenza o preveggenza. Uno è l’inaspettata elezione di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti e l’altra è la salita al potere di Al Sisi in Egitto. Perché, se le cose fossero andate come da previsioni, con Hillary Clinton presidente, credo che oggi ci troveremmo in una situazione molto molto difficile e la stessa cosa sarebbe avvenuta se i Fratelli Musulmani fossero ancora al potere in Egitto. Dunque sì, ritengo certamente che questo sia un momento molto opportuno per Israele e che dovrebbe essere sfruttato al meglio, ma non credo che sia quello che sta facendo il governo in carica. E’ questo il momento per sistemare le cose in modo irrevocabile.

Nel 2010, Geert Wilders, il politico olandese e fondatore del Partito della Libertà, in un discorso pronunciato qui in Israele ha dichiarato che uno stato palestinese esiste già ed è la Giordania. Più di recente, in un articolo apparso sul Jerusalem Post, l’ex ministro israeliano Gideon Saar ha sottolineato che fino al 1988 i palestinesi che vivevano in Cisgiordania avevano tutti passaporti giordani. Lei crede che sia una opzione realistica che il fragile regno hashemita sarebbe disposto ad assorbire quei palestinesi che vivono nelle aree A e B della Cisgiordania?

Penso che sia giusto affermare che storicamente, geograficamente e demograficamente la Giordania è la Palestina. La Giordania ha avuto la parte più grande della Palestina che è stata strappata via dal Mandato e Gideon Saar ha di certo ragione quando dice che fino al 1988 i palestinesi della Giudea e della Samaria avevano un passaporto giordano che gli è stato illegalmente tolto dal Re di Giordania. Il fatto che i residenti palestinesi della Giudea e della Samaria siano apolidi non ha nulla a che fare con Israele, ma con l’azione illegale del sovrano giordano. Certamente la Giordania è uno degli Stati in cui potrebbero risiedere gli abitanti della Giudea e della Samaria. L’ipotesi di lavoro sulla quale dovrebbe concentrarsi il governo israeliano deve tenere conto del fatto che la dinastia hashemita ha una vita molto breve. È molto difficile capire fino a quando questo regime possa perdurare. D’altra parte, ha resistito molto più a lungo del previsto. Penso che, quantomeno, si dovrebbe ipotizzare cautamente un arco di vita limitato e Israele dovrebbe pensare al dopo; e se si verificasse un cambio di regime in Giordania sarebbe perfettamente logico definire il paese come uno Stato palestinese, visto che ha già una maggioranza palestinese. Per molti versi, la popolazione palestinese in Giordania offre un esempio di un possibile risultato del Paradigma Umanitario. Non so esattamente in quale paese i palestinesi dovrebbe reinsediarsi, ma non vi è nulla che precluda alla Giordania di essere uno di questi paesi o addirittura il paese principale. Se il reinsediamento dovesse essere accompagnato da massicci aiuti finanziari forse, tale paese potrebbe essere la Giordania. Qualcuno, come il mio amico Ted Belman, ritiene che subentrerà un regime molto benevolo. Spero che abbia ragione, non sono sicuro che sarà così, che un futuro regime sarebbe meglio disposto verso Israele. La differenza sostanziale tra il paradigma giordano-palestinese e il Paradigma Umanitario è che nel primo caso ci sarebbe bisogno di trovare un accordo con il futuro regime; con la mia soluzione, invece, non occorre un accordo con la collettività araba, saranno necessari degli aiuti finanziari affinché i palestinesi abbiano diritto a risiedere in altri paesi.

L’anno scorso, qui in Israele, Daniel Pipes mi ha detto durante una intervista, che è fuori dubbio che i palestinesi abbiano perso e che vivono in un “mondo di fantasia”. Lei è d’accordo?

Mi congratulo vivamente con Daniel Pipese per la sua iniziativa dell’Israel Victory Project, perché occorre molto coraggio intellettuale per questo tipo di iniziativa e sono d’accordo con lui sul fatto che la vittoria che i palestinesi pensano di aver conseguito, quando invece dovrebbero ammettere di essere sconfitti, sia una precondizione per qualsiasi soluzione duratura. Concordo con lui su quello che deve accadere, sono meno d’accordo su ciò che è accaduto e che ha indotto i palestinesi ad avere buone ragioni per non sentirsi sconfitti. Se si guarda a quanto successo dal 1967 dopo la travolgente vittoria dell’Idf, quando nessuno avrebbe preso seriamente in considerazione uno Stato palestinese come una opzione praticabile e se si guarda a ciò che è stato conseguito oggi – il completo ritiro di Israele sotto il profilo diplomatico in tutto il mondo e lo Stato palestinese che da decenni è diventato il dominante paradigma politico – penso che i palestinesi abbiano buoni motivi per non sentirsi sconfitti. Sono d’accordo sul fatto che le loro condizioni economiche sono terribili, ma questo non è un paradigma davvero importante per la loro leadership. Si pensi ai russi contro i tedeschi a Stalingrado in gravi difficoltà e prossimi a morire di fame. Detto questo, sono un forte sostenitore dell’Israel Victory Project, ma penso che dovrebbe concentrarsi un po’ di più sull’obbiettivo da raggiungere e non aspettarsi che i palestinesi all’improvviso si addentrino in qualcosa di cui non sono stati capaci in cento anni e dichiarino di essere sconfitti. Non lo faranno.

Non sono sicuro che vivano in un mondo di fantasia perché ogni volta che Israele offre una soluzione contro di loro, essi trovano una contromisura. Quando Israele ha eretto una barriera di recinzione per difendersi dagli attentatori suicidi, i palestinesi hanno iniziato a lanciare razzi, e dopo che [il sistema antimissile] Iron Dome ha intercettato i razzi, essi hanno cominciato a costruire tunnel e così Israele ha avviato la costruzione di una barriera sotterranea da un miliardo di dollari per fermarli. Immaginiamo di doverlo fare in Giudea e Samaria, non su un fronte di 50 km, ma di 500 km. All’improvviso abbiamo questa supercostosa barriera sotterranea e i palestinesi hanno cominciato a mandare gli aquiloni e i palloni incendiari incredibilmente economici che hanno bruciato centinaia di acri di coltivazioni agricole. La mia grande paura è che un giorno saranno in grado di inviare uno sciame di droni dotati possibilmente di carichi esplosivi non convenzionali da lanciare sulle comunità israeliane. Penso che abbiamo costretto i palestinesi a riarmarsi, rinnovarsi, riorganizzarsi, senza spezzare la loro volontà di combattere. Ormai avrebbero dovuto essere tornati in sé, ma non lo hanno fatto. Se si confronta da dove provengono e dove sono oggi, la situazione è migliorata fino a diventare irriconoscibile. Si sono sostituiti a re Hussein nel rivendicare la Giudea e la Samaria. L’unico modo per infliggere la sconfitta ai palestinesi è quello di smettere di trattarli come un possibile partner di pace e considerarli per quello che sono, nemici inconciliabili, e delineare di conseguenza una politica adeguata. Gli esempi della vittoria e della sconfitta attinti dalla Seconda guerra mondiale sono fuorvianti perché la Germania non era circondata da un mondo teutonico e il Giappone non faceva parte di un grande mondo nipponico che poteva inviare ribelli o istigare contro qualsiasi accordo raggiunto. Questo è l’errore di calcolo che gli americani fecero in Iraq e in Afghanistan. È stato facile per loro rovesciare i regimi al potere, molto facile, ma circa il 90% degli stanziamenti per la guerra in Iran e in Afghanistan è stato impiegato dopo la deposizione di Saddam Hussein e dopo il colpo inferto ai Talebani, e il 95% di quel denaro è stato utilizzato per stabilizzare la situazione. La Germania e il Giappone, come ho detto prima, non potevano contare sulle risorse provenienti da persone con la stessa affinità etnica. Posso accettare la divisione del lavoro di Daniel. In America, egli dice che il compito del Victory Project è quello di convincere l’amministrazione statunitense del fatto che Israele abbia bisogno di ottenere la vittoria ed è compito degli israeliani decidere quale sia la vittoria. Sono d’accordo con questo. Ma la vittoria non può essere avere il medesimo significato per tutti. Si deve decidere che cosa occorre infliggere ai palestinesi affinché ammettano la sconfitta e ottengano una vittoria netta. Nella Guerra d’Indipendenza del 1948, da parte israeliana si registrarono 6.000 caduti, l’1%della popolazione. A seconda di quanti palestinesi si pensi che siano – 2 o 3 milioni – occorre causare 20-30mila vittime o ucciderne ancora di più perché Israele venga accettato come uno stato accanto al quale vivere in pace. Credo che questo sia un obiettivo molto difficile da raggiungere. Quello che penso è molto più facile da conseguire e consiste nell’incentivare l’immigrazione in altri paesi, invece di uccidere decine di migliaia di palestinesi.

Parliamo della situazione di Gaza. Sembra chiaro che Israele non voglia realmente il rovesciamento di Hamas in quanto questo provocherebbe una situazione destabilizzante e peggiore di quella attuale. Allo stesso tempo, nonostante i tumulti, il lancio di missili, gli attacchi incendiari tramite gli aquiloni e i palloncini, anche Hamas non sta cercando un altro conflitto con Israele perché probabilmente sarebbe l’ultimo per il gruppo terroristico. Qual è la sua opinione relativamente alla situazione nella Striscia, cosa consiglia?

Nel 1992 scrissi un articolo su quello che sarebbe accaduto se Israele avesse lasciato Gaza. Chiunque avesse avuto una buona conoscenza di scienze politiche avrebbe potuto predire facilmente quale sarebbe stato il risultato. Appena Israele si fosse ritirato da Gaza in un contesto dove non sussisteva una eredità politica consolidata, era abbastanza chiaro che il partito che avrebbe preso il potere sarebbe stato il più violento ed estremo, pronto a fare cose che i più moderati erano incapaci o non intenzionati a fare. In rapporto all’attuale situazione di Gaza, è già un incubo per la sicurezza di Israele. La vita è diventata completamente invivibile per gli ebrei che vivono nei dintorni dell’area di Gaza ed è solo una questione di tempo prima che i palestinesi possano estendere la loro presa. Abbiamo già assistito a tutto ciò. Ogni volta che Israele trova il modo di frenare una delle modalità di aggressione di Hamas, Hamas trova un modo per aggirarla. L’unica maniera per affrontare la situazione è modificare il proprio approccio nei suoi confronti. Non c’è altra via. Dobbiamo vedere i palestinesi non nella prospettiva di un partner per la pace, ma come un nemico implacabile e allo stesso tempo non possiamo considerare la collettività di Gaza come vittime di Hamas ma come il crogiuolo dal quale questa leadership è emersa. Questo approccio permette di vedere che la soluzione non è la ricostruzione di Gaza ma la sua descostruzione, o il cerchio della violenza si continuerà a ripetersi senza fine. Provi a immaginare per un momento cosa accadrebbe nel centro di Israele se invece di avere un confine di 50 km da controllare, Israele dovesse controllare un’area densamente popolata di 500 km dalla quale non dei missili, ma aquiloni e palloni incendiari venissero mandati nella direzione di Kfar Saba o Ra’anana o verso l’autostrada 6. L’unico modo per assicurarsi su chi governa Gaza è governarla in proprio e l’unico modo di governare Gaza senza governare un altro popolo è rimuovere questo popolo dal proprio controllo. E’ semplice logica matematica ed è anche una situazione che si può giustificare moralmente in modo assai semplice. Se il proprio punto di partenza è che gli ebrei sono titolati ad avere un loro Stato ebraico allora bisogna conferire a questo stato le condizioni per la sua sussistenza. Quindi non si può avere una concentrazione di popolazione il cui obbiettivo sia la sua distruzione.

Parliamo del Monte del Tempio. In questo momento, c’è una battaglia intramusulmana in merito al Monte del Tempio tra la Giordania, l’Arabia Saudita e la Turchia allo scopo di impadronirsi del posto, un gioco di spade che Israele sorveglia. Che ne pensa a riguardo?

Devo ammettere, da persona prettamente laica, e non osservante, di non aver mai dato grande importanza al Monte del Tempio, ma penso di aver sbagliato e che Israele dovrebbe riaffermare la propria sovranità su di esso. Questo perché ogni volta che Israele ha fatto benevoli concessioni all’altra parte ciò si è dimostrato sbagliato, come nel caso del Monte del Tempio, dove i radicali arabi hanno preso il sopravvento. Sarebbe molto pericoloso se la Turchia dovesse subentrare perché questo fa parte dell’ambizioso e megalomane comportamento di Erdogan, ma sono anche molto scettico nei confronti della Giordania e di qualsiasi altro custode musulmano, e penso che Israele dovrebbe gradualmente iniziare a riaffermare il proprio controllo sul sito. Dico questo non da un punto di vista religioso, ma da una prospettiva nazionalistica.

Sembra abbastanza chiaro che l’amministrazione Trump miri a un cambio di regime in Iran indebolendo fortemente la sua già fragile economia. L’Iran è percepito come la più grande minaccia alla sopravvivenza di Israele. Per questo motivo, c’è ora una convergenza strategica tra gli stati sunniti, guidati dall’Arabia Saudita, dagli Stati Uniti e da Israele. Da acuto osservatore del Medio Oriente, cosa ne pensa di questa convergenza strategica e quali sono i suoi timori e le sue speranze per il futuro?

Sono certamente d’accordo sul fatto che la sola soluzione per l’Iran sia un cambio di regime. Penso che la situazione ora abbia registrato un enorme miglioramento, ma sono molto scettico riguardo alla durata della nostra alleanza con i sunniti. Una volta che la minaccia iraniana sarà sotto controllo, l’animosità potrebbe riaffermarsi. Quindi, sarebbe un grave errore fare concessioni irrevocabili su qualsiasi fronte della coalizione sunnita. Hanno bisogno di noi, non è necessario fare alcuna concessione. Vorrei precisare che quello che succede ora in Iran rivela la disonestà e la doppiezza di quanto sostenuto dall’amministrazione Obama, per la quale o ci sarebbe stata una guerra oppure ci sarebbe dovuto essere il Piano d’azione congiunto globale (JCPOA). La fragilissima situazione socioeconomica in Iran dimostra chiaramente quanto fosse disdicevole presentare le cose in questo modo e che se Obama avesse proseguito con le sanzioni probabilmente ora saremmo stati più vicini a un cambio di regime. Invece, Obama ha consolidato il regime. La cosa molto difficile a proposito della politica di Obama è che quando si vedono queste deplorevoli conseguenze non si può mai sapere se siano state causate intenzionalmente o meno, se fossero parte di un piano o se siano state frutto di un mero errore. Detto questo, abbiamo di certo bisogno di avere una opportunità adesso. L’Iran sta attraversando un periodo molto difficile, la sua moneta è stata drasticamente svalutata, soffre di una grave siccità e ci sono segnali di molteplici disordini. Pertanto, sì. Ritengo che la prospettiva di un attuale cambio di regime sia più tangibile ora di quanto lo sia stata in passato.

Traduzione dall’originale inglese di Niram Ferretti e Angelita La Spada
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Re: Israele non ha rubato e occupato alcuna terra altrui

Messaggioda Berto » dom set 26, 2021 8:30 am

Palestinesi rifugiati?



Il problema dei rifugiati: L'UNRWA

http://www.linformale.eu/il-problema-de ... wOV-RAo-4M


Nell’articolo dedicato alla questione dei rifugiati e pubblicato il 13 novembre si è affrontato il tema dei rifugiati provocatiti dagli avvenimenti bellici a seguito dell’invasione araba del 1948. In questo articolo si entrerà nel dettaglio dell’agenzia ONU costituita per fronteggiare il problema dei rifugiati della Palestina.

UNRWA

Con la Risoluzione 302 dell’Assemblea Generale, l’8 dicembre 1949, si stabiliva la creazione di una specifica agenzia per i profughi della Palestina: l’UNRWA, (Agenzia delle Nazioni Unite di Soccorso e di Interventi per i rifugiati della Palestina in Medio Oriente).

L’UNRWA doveva durare un tempo limitato ma, nel corso dei decenni, è stata continuamente rifinanziata nonostante a partire dal dicembre 1950 venne creata una specifica agenzia ONU per i rifugiati: l’UNHCR, cioè l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, che da allora si è occupata di tutti i rifugiati del mondo ad esclusione di quelli palestinesi. Dal 1950 l’ONU ha dunque due agenzie per i rifugiati: l’UNHCR per tutti i rifugiati del mondo e l’UNRWA: l’agenzia per i soli rifugiati palestinesi. La peculiarità di questa situazione è la diversa definizione di rifugiato per le due agenzie.

Per l’UNHCR il rifugiato è colui che a causa di eventi naturali, guerre o per persecuzioni religiose, razziali o politiche è costretto a lasciare la propria casa o il proprio paese per trovare rifugio in un altro luogo (la definizione ONU completa la si trova nella Risoluzione 429 del 14 dicembre 1950 dell’Assemblea Generale). Per l’UNRWA la definizione si estende dal rifugiato vero e proprio a tutte le persone in successione maschile, cioè i discendenti, per matrimonio, per adozione e per chi volontariamente ha lasciato la propria abitazione nel 1948 alla nascita di Israele. Questo seconda definizione assai elastica ha creato il caso dei “rifugiati” nati e cresciuti in Canada o negli USA e che non sono mai stati in Medio Oriente.

Nella Risoluzione 302 che costituì l’UNRWA, non vi è alcuna menzione relativamente a questa applicazione pratica dello statuto di rifugiato. Si tratta di una prassi che è andata a consolidarsi nel tempo. Più che una agenzia preposta alla sistemazione dei rifugiati l’UNRWA è diventata una vera e propria fabbrica per la loro moltiplicazione.

La tabella 1 esemplifica molto bene come i criteri dell’UNRWA appena descritti hanno modificato radicalmente la situazione attuale del numero dei rifugiati palestinesi:




In sintesi con i criteri dell’UNRWA, al giorno d’oggi i rifugiati palestinesi sono oltre 5.500.000, con i criteri utilizzati dall’UNHCR – che valgono per tutti gli altri rifugiati del mondo – sarebbero solo 30.000. Cifra, questa, del tutto accettabile in ogni trattativa in merito alla soluzione del loro problema. Ma non ci sono dubbi che questa situazione creata ad arte sia un potente strumento politico messo in atto allo scopo di non giungere a nessun compromesso. Infatti, il “problema” dei rifugiati è da tempo l’ostacolo più grosso nelle trattative di pace tra Israele e i palestinesi.

E’ bene ricordare ancora una volta che Israele non è responsabile della situazione dei rifugiati palestinesi, essendo la causa principale la guerra scatenata dai paesi arabi nel 1948. Ciò nonostante, dovrebbe essere Israele, secondo i paesi arabi e la UE che dovrebbere riassorbirli per giungere alla “pace”. Il che significherebbe, inevitabilmente che Israele, uno Stato di facendo ciò di 9.0000.000 di abitanti, se assorbisse 5.0000.000 cosiddetti rifugiati palestinesi, ceserebbe di esistere come Stato ebraico. E questo è infatti l’obiettivo palese.

Entrando più nel dettaglio di questa agenzia, si scoprono altre cose davvero “uniche”.

Per prima cosa salta subito all’occhio il budget e il personale dell’UNRWA rispetto a quello dell’UNHCR. Per fare un esempio, nel 2016, dai dati forniti dall’ONU si evince che l’UNRWA ha speso 246$ per ognuno dei 5.3 milioni di rifugiati e discendenti palestinesi, mentre l’UNHCR lo stesso anno ha speso 58$ per ognuno dei circa 68 milioni di rifugiati nel mondo. Dal 1950 ad oggi l’ONU, tramite la sola UNRWA, ha speso oltre 25 miliardi di dollari per i rifugiati palestinesi, cioè il doppio dei soldi del piano Marshall con cui è stata ricostruita l’Europa dopo la Seconda guerra mondiale. Cosa altrettanto sorprendente è il personale delle due agenzie. L’UNRWA impiega poco più di 30.000 persone per prendersi cura dei 5.3 milioni di rifugiati e discendenti, cioè la ragguardevole cifra di un dipendente ogni 176 rifugiati. Mentre l’UNHCR ha a disposizione circa 11.000 persone per gestire l’emergenza di 68 milioni di persone, cioè una ogni circa 6.100 rifugiati.

È da sottolineare che di questo cospicuo personale, la stragrande maggioranza sono palestinesi stessi. Tra i loro compiti c’è la gestione delle scuole e la pubblicazione dei testi scolastici. Questo è un aspetto rilevante della gestione dell’UNRWA. Va subito precisato che i testi scolastici utilizzati sono diventati, da numerosi anni, un strumento di propaganda e di vero e proprio odio antiebraico. Cosa che non ha precedenti. Soprattutto in considerazione del fatto che sono realizzati, pubblicati e diffusi con i soldi dell’ONU, della UE e degli USA. La cosa è diventata talmente grave che perfino l’ONU stessa, dopo ripetute segnalazioni, si è dichiarata “preoccupata” in un rapporto, del 29 agosto 2019, redatto dalla commissione contro le discriminazioni razziali.

La vignetta sopra riportata è presa da un testo scolastico palestinese di studi sociali del 2017. L’intento è quello di demonizzare gli scavi archeologici di Gerusalemme visti solamente come tentativo di distruggere le moschee e il patrimonio culturale islamico.

La UE, dopo anni di inutili segnalazioni, nell’aprile 2018 ha formalizzato una commissione d’inchiesta, sui testi scolastici palestinesi, che ha portato il parlamento europeo a votare per il congelamento di 17 milioni di euro di fondi, ad ottobre del 2018, a causa “dell’incitamento all’odio” presente nei testi scolastici. Qui si riporta, in parte, quanto emerso dall’indagine presentata al parlamento europeo sui testi scolastici:

“The curriculum for 2018-2019 “deliberately omits any discussion of peace education or reference to any Jewish presence in Palestine before 1948,”. […]

“Most troubling, there is a systematic insertion of violence, martyrdom and jihad across all grades and subjects in a more extensive and sophisticated manner, embracing a full spectrum of extreme nationalist ideas and Islamist ideologies that extend even into the teaching of science and mathematics”.

Traduzione: “Il curriculum per il 2018-2019″ omette deliberatamente qualsiasi discussione sull’educazione alla pace o riferimenti a qualsiasi presenza ebraica in Palestina prima del 1948″. […] “cosa ancora più preoccupante, c’è un inserimento sistematico di violenza, martirio e jihad in tutti i gradi e materie in un modo ampio e sofisticato, abbracciando una gamma completa di idee nazionaliste estremiste e ideologie islamiste che si estendono anche all’insegnamento della scienza e della matematica”.

L’immagine 1 è presa da un altro testo scolastico palestinese di studi sociali.

Il testo in arabo recita:

Titolo: La mappa della Palestina.

“Attività 1-A: osservate la seguente mappa, traete le conclusioni e quindi rispondete:”

“Distingueremo tra le città palestinesi occupate dai sionisti nel 1948 e quelle che occuparono nel 1967”.

La dettagliata analisi di moltissimi testi scolastici palestinesi è del Dr. Arnon Groiss del Centro Meir Amit (www.terrorism-info.org.il).

Questa è solo la punta dell’iceberg. Già nel 2014 si era palesato a Gaza, in occasione dell’operazione militare israeliana “Margine protettivo”, iniziata dopo l’uccisione di tre adolescenti ebrei e il lancio di numerosi razzi, come le sedi dell’UNRWA e soprattutto le sue scuole venivano utilizzare regolarmente dai terroristi di Hamas come depositi per razzi, armi e munizioni. Va sottolineato che varie indagini hanno dimostrato che molti dipendenti stessi dell’UNRWA erano, e sono, membri di Hamas. Nessun provvedimento, da parte di un qualsiasi organismo internazionale, è mai stato preso per porre fine a questa situazione che si protrae da innumerevoli anni.

Oltre a tutto ciò dall’estate scorsa, tutta la dirigenza generale dell’UNRWA è finita sotto inchiesta dell’ONU per malversazione, nepotismo e gestione “poco trasparente” dei fondi, ad iniziare dal suo direttore generale, lo svizzero Pierre Krähenbühl. Krähenbühl è stato costretto a dimettersi dall’incarico in attesa della conclusione delle indagini. Al suo posto è stato nominato il 6 novembre, ad interim, l’inglese Christian Saunders. Vari paesi hanno deciso di bloccare i fondi che annualmente versano all’agenzia, tra gli altri la Svizzera, il Belgio, l’Olanda e la Nuova Zelanda. L’Italia, invece, ha deciso di aumentare il suo contributo annuo.

Gli USA dell’amministrazione Trump si sono dimostrati i più critici all’operato dell’UNRWA. Così nel corso degli ultimi due anni hanno progressivamente diminuito, fino a congelare, il loro cospicuo contributo annuo che si aggirava sui 350 milioni di dollari (pari a circa il 25% del budget totale).

Un’ultima annotazione la si può fare in merito al numero ufficiale dei rifugiati soccorsi dall’UNRWA. L’agenzia ONU riporta come dato “ufficiale”, nel 2019, il numero di 5.5 milioni di rifugiati. Ma è interessante osservare che, leggendo tutti i documenti ONU in merito, si evince che un censimento ufficiale non esiste perché non è mai stato fatto. Questo è in parte dovuto al fatto che i criteri che definiscono i rifugiati palestinesi, come abbiamo visto, rendono molto difficile il loro conteggio, oltre al fatto che politicamente è “sconveniente” accertarlo. Si può però segnalare il fatto che, nel 2017, in Libano dalle autorità locali è stato fatto un primo – e per ora unico – tentativo di censimento. Quello che è emerso è sorprendente: quasi 300.000 persone registrate presso l’UNRWA semplicemente non risultavano… cioè il numero reale dei rifugiati era del 62% inferiore rispetto alle stime ufficiali (quelli esistenti risultavano essere 174.422 rispetto ai 459.292 registrati). E la stessa cosa stava emergendo per i rifugiati della Cisgiordania. Poi la cosa è stata velocemente insabbiata. In pratica il dato di 5.5 milioni di rifugiati è gonfiato ad arte per ottenere più soldi da spendere in modo “poco trasparente” come l’indagine ONU stà evidenziando in questi mesi.

Dopo tutti questi dati non è blasfemo dichiarare che l’UNWRA è parte sostanziale dell’impossibilità di trovare un accordo di pace tra Israele e i palestinesi.
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Re: Israele non ha rubato e occupato alcuna terra altrui

Messaggioda Berto » dom set 26, 2021 9:01 am

L’invasione araba della Palestina nel VII secolo, di Michele Piccirillo

http://www.gliscritti.it/blog/entry/4490


Riprendiamo su nostro sito un brano da M. Piccirillo, La Palestina Cristiana. I-VII secolo, Bologna, EDB, 2008, pp. 195-201. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. le sezioni Alto Medioevo e Islam.

Il Centro culturale Gli scritti (22/4/2018)

LA FINE DELLA PROVINCIA DI PALESTINA

[…]

Nella lunga storia dell'impero romano su tutto il fronte orientale c'erano state scorrerie dei nomadi arabi provenienti dal deserto e dalla steppa alla ricerca di qualcosa da razziare spinti spesso dalla fame all'interno della terra abitata. Gli imperatori avevano cercato di arginare questo pericolo incombente sulle popolazioni sedentarie stringendo alleanze con le confederazioni tribali più vicine e creando una rete continua di forti lungo le strade dell'impero.

Malgrado ciò il pericolo non era scongiurato. Con la nascita e lo sviluppo del movimento monastico, gli eremiti del deserto furono spesso le prime vittime di queste incursioni nomadiche che qualche volta prendevano l'aspetto di vere e proprie invasioni di beduini ancora pagani che ricevevano i titoli più o meno ingiuriosi di saraceni, agareni, ismaeliti, amaleciti, ladroni madianiti.

Nel VI secolo l'imperatore Giustiniano aveva deciso di affidare la difesa del confine agli arabi cristiani della confederazione dei Bani Ghassan guidati dai loro capi, i filarchi, con il titolo di re. Prima al-Harith ibn Jabala (Areta in greco), poi il figlio al-Munthir ibn al-Harith (Alamundaros in greco) avevano efficacemente svolto il loro compito nelle province di Siria e di Arabia. In Palestina la pace era stata assicurata dal fratello di Areta, ed Abu Karib ibn Jabala. I santi monaci come Simeone in Siria ed Eutimio in Palestina avevano partecipato al mantenimento della pace e della sicurezza delle popolazioni sedentarie dell'interno operando in favore della conversione dei nomadi. I cronisti bizantini tenevano a ricordare insieme con i grandi fatti della vita dell'impero anche queste incursioni, fortunatamente sempre passeggere, che lasciavano sul loro cammino uccisioni e distruzioni oltre al senso di insicurezza.

Ma negli anni trenta del VII secolo avvenne qualcosa di nuovo che ebbe ripercussioni durevoli sulla vita delle popolazioni cristiane delle province di Siria, di Arabia, di Palestina e d'Egitto, perché l'impero, uscito vittorioso ma stremato dal lungo confronto con la Persia, non riuscì più a ricacciare dai suoi confini l'invasione che veniva direttamente dal cuore dell'Arabia da parte delle tribù galvanizzate dalla predicazione del profeta Maometto.

«Mentre la Chiesa in quel tempo era turbata in tal modo da imperatori e preti empi (riferendosi al dibattito teologico che si riaccese al tempo di Eraclio) - scrive Teofane sunteggiando tutto questo periodo -, Amalec si sollevò nel deserto, colpendo noi il popolo di Cristo. E lì successe la prima terribile caduta dell'esercito romano, mi riferisco al massacro di Gabithas (al-Jabiyah sul Golan), di Hiermouchas (il fiume Yarmuk), e Dathesmos (Dathin vicino a Gaza). Dopo ciò, ci fu la caduta della Palestina, di Cesarea e di Gerusalemme, poi il disastro egiziano, seguito dalla cattura delle isole tra i continenti e di tutto il territorio romano, con la perdita completa dell'esercito romano e della flotta a Phoinix, e la devastazione di tutte le popolazioni e terre cristiane, che non cessò finché il persecutore della Chiesa non fu miserabilmente sgozzato in Sicilia».

La prima spedizione che si mosse nel 629 (anno ottavo dell'Egira), vivente Maometto, contro il territorio orientale della Palaestina Tertia, composta di 3000 uomini al comando di Zayd ibn Haritha, fu fermata a Mota nei pressi della città di Kerak nella Moabitide dalla guarnigione romana con l'aiuto di contingenti di arabi federati.

L'anno seguente, anno nono dell'Egira chiamato l'«anno delle ambasciate» (sanat al-wufud), da Medina Maometto, alla testa di un nuovo esercito, riuscì a raggiungere l'oasi di Tabuk sul confine del territorio del wadi al-Qura controllato dagli arabi federati. Sul mar Rosso, Maometto riuscì a siglare un trattato di pace con i cristiani di Aila porto della Palestina. In cambio della jiziah (un denaro d'oro per ogni maschio), Maometto garantiva alla popolazione sicurezza e libertà di movimento. Condizioni che furono imposte anche alle altre città della regione, man mano che vennero conquistate e che confluiranno in quel corpus legislativo consuetudinario che dai giuristi musulmani posteriori è conosciuto come il Patto di Omar.

Nell'autunno del 633, un anno dopo la morte del profeta avvenuta l'8 giugno 632, il califfo Abu Bakr, scelto come successore (califfo) del profeta, comandò una nuova campagna contro il territorio dell'impero bizantino (Bilad al-Sham, Paesi del Nord per gli storici arabi musulmani). L'esercito era composto da tre distaccamenti ciascuno di 3000 uomini guidati uno da 'Amr ibn al-'As che prese la strada costiera verso Aila e Gaza; l'altro da Yazid ibn abi Sufyan che si diresse verso nord prendendo la Tabukiyah, cioè la strada che, passando per l'oasi di Tabuk, raggiungeva Ma'an e il territorio della Palestina Tertia, della provincia di Arabia e di Siria; e il terzo da Shurahbil ibn Hasanah che si diresse nella steppa per raggiungere Bostra e Damasco da oriente.

Il primo scontro con le truppe bizantine avvenne nel wadi Arabah, dove Yazid sconfìsse il patrizio Sergio dux di Palestina che, da Cesarea, con soli 5000 uomini, si era mosso per sbarrargli la strada. Davanti alla superiorità numerica, questi allora decise di ripiegare su Gaza. Lo scontro ci fu nei pressi del villaggio di Dathin. Alla battaglia, nella quale cadde anche il dux Sergio, seguì un massacro di 4000 contadini cristiani, Giudei e Samaritani intenzionati a difendere le loro terre dall'incursione dei nomadi venuti dal deserto che si spinsero fino a Cesarea, metropoli della provincia.

Venuto a conoscenza della gravità della situazione, l'imperatore Eraclio da Edessa (al-Ruha) inviò un esercito al comando di suo fratello Teodoro per respingere l'invasione. Come contromisura, il califfo Abu Bakr chiamò tutte le sue forze a raccolta. Khalid ibn al-Walid, che si trovava in Iraq, risalì con le sue truppe il wadi Sirhan e dal nord scese verso Damasco giungendo alle spalle dell'esercito bizantino. Dopo uno scontro combattuto il 24 aprile del 634 a Marj Rahit a circa 15 chilometri a est di Damasco, si riunì agli altri contingenti nei pressi della città di Adra'at (Der'ah). Probabilmente, le forze congiunte musulmane attaccarono Bostra, la capitale della provincia Arabia.

I bizantini decisero di contrattaccare nel territorio della Palestina muovendovi il grosso dell'esercito che pose il campo nella località di Jilliq. Anche l'esercito musulmano fu obbligato a spostarsi a ovest del fiume Giordano. La battaglia fu combattuta a 'Ajnadayn il 13 luglio del 634, probabilmente una località tra Beit Gibrin e Lidda, dove l'esercito imperiale subì la prima sconfitta.

Teodoro dal campo di battaglia salì a Gerusalemme prima di ripiegare con le truppe superstiti su Beisan, nella valle del Giordano, e riattraversare il fìume per riprendere posizione sul Golan, lasciando il territorio palestinese in mano ai musulmani. Nella valle del Giordano, Shurahbil con il suo contingente diede battaglia ai bizantini nei pressi della città di Fihl (Pella) che si arrese il 23 gennaio del 635.

Per l'insicurezza che regnava nella regione, il nuovo patriarca di Gerusalemme Sofronio, che era succeduto a Martirio dopo sei anni di sede vacante, non poté recarsi a Betlemme per celebrarvi la festa della Natività. In una omelia tenuta nella basilica della Nea Theotokos a Gerusalemme, fa riferimento alla situazione precaria che si viveva in quei giorni: «Che i magi e i divini pastori vadano a Betlemme, ricettacolo di Dio, che essi abbiano la stella per compagna e guida della strada [...]. Per noi, noi siamo impediti di dirigere i nostri passi verso questo luogo e di esservi presenti, perché malgrado noi e tuttavia per nostra colpa, noi siamo obbligati a restare qui non perché ritenuti da legami corporali, ma incatenati e inchiodati dal terrore dei Saraceni [...] (come l'angelo sull'ingresso del paradiso, Betlemme è guardata) da una spada feroce, barbara e piena di sangue».

Sul Golan si concentrarono anche tutte le forze musulmane affidate al comando supremo di Abu Obayda. Dopo un primo scontro a Jabiyah, la battaglia decisiva fu combattuta il 20 agosto 636 in una giornata infuocata sulla sponda del fiume Yarmuk. Fu una sconfitta totale per l'esercito bizantino. Anche Teodoro cadde combattendo. I superstiti si ritirarono verso il nord. Racconta Teofane: «In questo anno i Saraceni – un’enorme moltitudine di essi - (usciti dall’) Arabia fecero una spedizione nella regione di Damasco. Quando Baanes lo venne a sapere, inviò un messaggio al sakellarios imperiale, chiedendogli di venirgli in aiuto con il suo esercito, vedendo che gli Arabi erano molto numerosi. Perciò il sakellarios si unì a Baanes e, muovendosi da Emesa, essi si incontrarono con gli Arabi. Fu data battaglia e, nel primo giorno, che era un martedì, il 23 del mese di Loos (luglio), gli uomini del sakellarios furono sconfitti [...]. Poiché un vento del sud soffiava nella direzione dei Romani, essi non poterono fronteggiare il nemico a causa della polvere e furono sconfitti. Buttandosi nelle forre del fiume Yarmuk, tutti perirono, l'esercito di entrambi i generali di circa 40.000 uomini. Avendo ottenuto questa brillante vittoria, i Saraceni vennero a Damasco e la presero, come pure la regione della Fenicia, e si accamparono lì e fecero una spedizione in Egitto».

Dopo la battaglia dello Yarmuk, Shourahbil sottomise le città di Tiberiade, Acca, Tiro e Seforis. Nel 637 ci fu la capitolazione di Gaza, dove 60 soldati vennero fatti prigionieri. Nel luglio dello stesso anno ritornò in Palestina 'Amr ben el-'As che occupò Sebastia, Neapolis, Yabneh, Amwas, Lod e Beit Jibrin. Resisteva Gerusalemme sulla montagna di Giudea. Dopo la battaglia, e alla vigilia della presa di Gerusalemme, gli storici arabi ricordano la venuta del califfo Omar, che era succeduto ad Abu Bakr, al campo di Jabyah, dove incontrò Abu Ubaydah e furono fissati i principi amministrativi dei nuovi territori conquistati. Il territorio fu diviso in quattro jund (plurale ajnad, governatorati militari) che territorialmente sì estendevano dal deserto orientale al mare: Dimashq, Homs, Al-Urdunn e Filastin nel sud.

Il patriarca Sofronio nell'omelia della festa dell'Epifania aveva commentato: «Da dove viene che le incursioni dei barbari si moltiplicano e che le falangi saracene si sono levate contro di noi? Perché le chiese distrutte e la croce oltraggiata? [...]. Abominazione della desolazione a noi predetta dal profeta, i saraceni percorrono le contrade che sono loro interdette, saccheggiano le città, devastano i campi, danno alle fiamme i villaggi, mettono a soqquadro i santi monasteri, tengono testa alle armate romane, riportano dei trofei in guerra, aggiungono vittoria a vittoria, si uniscono in massa contro di noi [...] e si vantano di conquistare il mondo intero». E in una lettera al patriarca Sergio di Costantinopoli aveva scritto preoccupato: «Che Dio calmato dalle vostre preghiere, accordi a Eraclio e a suo figlio lunghi giorni, ch’egli li circondi di una corona di discendenti e li munisca della pace divina. Possa egli far cadere nelle loro mani gli scettri potenti di tutti i barbari e soprattutto quelli dei Saraceni dalla fronte audace che si sono ora sollevati all'improvviso contro di noi a causa dei nostri peccati, e che tutto devastano, seguendo un progetto crudele e feroce con una audacia empia e atea. Così noi supplichiamo più insistentemente la Sua Beatitudine di offrire al Cristo preghiere molto assidue perché accettandole con la benevolenza da parte vostra, egli reprima al più presto il loro orgoglio insensato e che essi facciano di questi vili nemici, come per il passato, lo sgabello dei vostri sovrani inviati da Dio».

L'esercito musulmano salì a Gerusalemme prendendo posizione intorno alle mura. Il patriarca Sofronio decise la resa della città: «Poi (dopo la divisione amministrativa del Yaum al-Jabyah) partirono tutti alla volta di Gerusalemme e la cinsero di assedio - scrive Eutichio. Sofronio patriarca di Gerusalemme si recò allora da Umar ibn al-Khattab. Umar ibn al-Khattab gli accordo la sua protezione e scrisse loro una lettera che così recitava: "Nel nome di Dio clemente e misericordioso. Da Umar ibn al-Khattab agli abitanti della città di Aelia. È concessa loro sicurtà sulle loro persone sui loro figli sui loro beni e sulle loro chiese perché queste ultime non vengano distrutte né siano ridotte a luoghi di abitazione" e lo giurò nel nome di Allah.

Poi Umar gli disse: "Mi sei debitore per la vita e per i beni che ti ho accordato. Orsù, dammi un luogo dove possa edificare una moschea". Il patriarca disse: "Do al principe dei credenti un luogo in cui egli possa innalzare un tempio che i re dei Rum non sono stati capaci di costruire. Questo luogo è la Roccia, sulla quale Dio parlò a Giacobbe e che Giacobbe chiamò ‘porta del cielo’; i figli di Israele la chiamarono Sancta Sanctorum ed è al centro della terra. Essa fu già tempio per i figli di Israele, i quali l’han sempre magnificata ed ogni volta che pregavano rivolgevano verso di essa i loro volti ovunque si trovassero. Questo luogo io ti darò, a condizione che tu mi scriva un sigillo con cui disponga che non sia costruita a Gerusalemme nessun’altra moschea all’infuori di questa" [...]. Il patriarca Sofronio prese per la mano Umar ibn al-Khattab e lo portò su quel luogo [...]. In seguito Umar si recò in visita a Betlemme».

Finiva un'era e ne iniziava un'altra. Il patriarca Eutichio, con questo racconto un po' fantastico per ribadire i diritti dei cristiani contro i soprusi commessi al suo tempo (IX-X secolo) dalla comunità musulmana nel Santo Sepolcro e nella basilica di Betlemme poste sotto protezione del califfo, sottolinea la nuova realtà nata dalla resa del 638. Gerusalemme restava cristiana, ma diventava uno dei centri dell'islam, presto identificata con il santuario più lontano (al-Aqsa) dove era giunto il profeta nel suo viaggio notturno (mi'raj), perciò luogo di pellegrinaggio dopo la Qa'aba della Mecca e la città di Medina, dove il profeta era sepolto. Il califfo Abd al-Malik, con la costruzione monumentale della Qubbat al-Sakhrah (Cupola della Roccia) e della moschea al-Aqsa, rendeva il Haram al-Sharif di al-Quds (il Recinto Nobile della Santa Città) il degno antagonista della basilica del Santo Sepolcro restaurata dall'igumeno Modesto dopo l'incendio del 614.

I MARTIRI DI GAZA.

In questo quadro quasi idillico di passaggio tra il periodo bizantino-cristiano e quello arabo islamico si inserisce il racconto della passione dei 60 soldati arabi cristiani di Gaza conservatoci in una cattiva traduzione latina da un originale in greco.

La città di Gaza al confine con l'Egitto fu assediata dall'esercito musulmano il ventisettesimo anno di Eraclio e costretta alla resa (637). Dalle condizioni di resa vennero esclusi i soldati della guarnigione bizantina che furono fatti prigionieri. Invitati a farsi musulmani per avere salva la vita, rifiutarono l'offerta di Ambrus/Amr, comandante dei vincitori, e vennero rinchiusi in prigione.

Dopo trenta giorni, incatenati, furono condotti alla città di Eleutheropolis/Bet Gibrin dove restarono due mesi e dove fecero ritorno dopo un altro viaggio in una località sconosciuta al seguito dell'esercito musulmano.

Dopo tre mesi vennero condotti a Gerusalemme dove il patriarca Sofronio fece loro visita incoraggiandoli a resistere imitando la fede dei quaranta martiri cappadoci. Dopo dieci mesi vennero invitati di nuovo ad abbracciare l'islam dal capo musulmano della città, Ammiras/Amir, su ordine di Ambrus. Al loro rifiuto ci fu una prima esecuzione: l'ufficiale Callinico con nove soldati vennero decapitati l'11 novembre alla presenza degli altri. I martiri furono sepolti con onore dal patriarca Sofronio «in un solo luogo dove fece costruire un oratorio dedicato a santo Stefano Protomartire».

I sopravvissuti, un mese dopo, vennero riportati a Eleutheropoli davanti ad Ambrus/Amr che ordinò di portare in tribunale le loro mogli e i loro figli, quando fece un nuovo tentativo di farli apostatare. Al loro rifiuto ordinò di eseguire la sentenza di morte affidandola ai musulmani presenti. I martiri furono decapitati il 17 dicembre, di giovedì, all'ora sesta, l'anno ventottesimo di Eraclio (638 d.C.).

«I corpi furono riscattati con tremila solidi (d'oro) dai cristiani del luogo che con grande onore seppellirono i martiri di Cristo in un sol luogo in Eleutheropoli. Sul luogo poi costruirono una chiesa nella quale si adora la santa vivificante e consustanziale Trinità».

Al racconto delle due esecuzioni fa seguito la lista dei nomi dei martiri di Cristo uccisi «imperante Eraclio anno vicesimo octavo, regnante Domino nostro Jesu Christo, qui cum Patre et Spiritu Sancto vivit et regnat in saecula saeculorum. Amen».
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Re: Israele non ha rubato e occupato alcuna terra altrui

Messaggioda Berto » dom ott 17, 2021 10:49 pm

Dossier Rai2: La pace sospesa
Commento di Deborah Fait

http://www.tg2.rai.it/dl/tg2/rubriche/P ... 618d8.html
A cura di Giovan Battista Brunori Caporedattore del TG2.
In onda il 10/10 alle ore 13.00
Durata 1 ora


https://www.informazionecorretta.com/ma ... 0&id=83259

Ecco il commento di Informazione Corretta:

Ottimo documentario del TG2 sulla situazione degli ultimi mesi e quella attuale in Israele. È la prima volta che si parla degli arabi israeliani e degli ebrei israeliani in modo equilibrato, ascoltando le voci di entrambi i gruppi. Di solito siamo abituati a vedere orrendi servizi sui "poveri palestinesi" sotto le bombe di Israele senza mai dire che le bombe cadono dopo che sono già caduti i razzi sulle nostre teste, oppure dobbiamo sentire geremiadi che parlano di apartheid perché Israele cerca di difendersi dal terrorismo. È stato fatto quindi un bel passo avanti rispetto al passato con i miei complimenti alla redazione del TG2 e speriamo continui così nel futuro. Le opinioni espresse sia dagli arabi che dagli ebrei intervistati dimostrano che non c'è odio tra i due gruppi ma le violenze accadute dopo l'annuncio degli sfratti di Sheik Jarra, https://www.informazionecorretta.com/ma ... 0&id=81663 dimostrano che nelle città miste, cioè dove la popolazione araba è intorno al 20, 30%, non tutto è rose e fiori e al primo problema politico serio alcuni gruppi di arabi israeliani non si fanno remora dall'attaccare i loro vicini ebrei.
In maggio, dopo la crisi di Sheik Jarra e i 4000 missili che da Gaza sono stati sparati su Israele è scoppiata la rivolta araba nelle maggiori città miste, gli ebrei non si sono fatti sopraffare, si sono difesi attaccando a loro volta. Se non lo avessero fatto era già pronto un altro pogrom come quelli che avevano distrutto le comunità ebraiche di molte città (Hebron, Yavne, Safed) nei tristemente famosi pogrom del 1929. Anche all'epoca ebrei e arabi erano amici, convivevano, condividevano, erano vicini di casa ma questo non ha impedito agli arabi di sgozzare quanti più ebrei incontravano, fino all'esilio forzato dei sopravvissuti da quelle città dove vivevano da centinaia d'anni. La convivenza, la comprensione, la collaborazione tra cittadini di uno stesso paese sono importanti e necessarie per l'evoluzione del paese stesso e per il bene di tutti. Ma è mia opinione che le minoranze, con tutti i diritti che devono assolutamente avere, come in effetti è in Israele, devono rimanere tali. La Legge dello Stato che definisce Israele "stato ebraico" è la nostra difesa, stato ebraico significa che l'anima di Israele è ebraica e tale deve restare anche per difendere la democrazia del paese. Se gli arabi israeliani diventassero la maggioranza della popolazione allora Israele non potrebbe più esistere. Basta guardare quanti ebrei vivono nei paesi arabi per darsi una risposta. Finirebbe la democrazia, finirebbero i diritti e Israele diventerebbe un altro Libano. E gli ebrei? Su Marte, forse.
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Re: Israele non ha rubato e occupato alcuna terra altrui

Messaggioda Berto » gio dic 30, 2021 10:39 pm

Fabbricare la menzogna
David Elber
29 Dicembre 2021

http://www.linformale.eu/fabbricare-la-menzogna/

Dopo che il governo di Israele ha annunciato, qualche giorno fa, il desiderio di incrementare la popolazione residente sulle alture del Golan con una grande piano di sviluppo economico, si sono scatenate le immancabili reazioni mediatiche. Riportiamo, come esempio, una autentica perla apparsa sulla pagina Facebook di Limes sotto forma di breve: “Israele costruirà due nuovi insediamenti nel Golan, con l’obiettivo di raddoppiare la popolazione di coloni ebrei residenti nel territorio siriano occupato nel 1967 e annesso di fatto nel 1981“.

In poche righe – senza dire nulla di palesemente falso – questa pubblicazione ha la capacità intenzionale di deformare la realtà dei fatti per dare al lettore l’impressione che Israele stia compiendo qualcosa di illegale. Focalizziamoci sull’utilizzo di alcuni termini: “nuovi insediamenti”, “raddoppiare la popolazione di coloni ebrei”, “territorio siriano occupato nel 1967”. Sono tutte associazioni di parole che prese singolarmente non hanno nulla di sbagliato in sé ma come sono state contestualizzate e “montate” nella frase assumono una connotazione volutamente negativa e accusatoria. Mostreremo con un esempio analogo come si può riconfigurare la fattualità in modo programmaticamente artificioso.

Immaginate di trovare scritto su l’Informale una breve che descriva un piano governativo di sviluppo del Tentino Alto Adige formulato in questi termini: “l’Italia costruirà due nuovi insediamenti in Tirolo con l’obiettivo di raddoppiare la popolazione di coloni italiani residenti nel territorio austro-ungarico occupato nel 1918 e annesso di fatto nel 1920”. Nulla di quanto scritto è in sè palesemente falso ma si è non di meno alterato la realtà dei fatti per dare allo scenario una connotazione di illegalità.

Faremo invece qui chiarezza sulla piena legalità della sovranità israeliana sulle alture del Golan. Se ci limitiamo alla loro storia degli ultimi 100 anni, possiamo vedere che queste alture strategiche (sia dal punto di vista militare che idrico) furono molto contese durante la formulazione dei Mandati di Palestina e Siria. Inizialmente fecero parte del Mandato per la Palestina (1920-1923) dal quale è nato lo Stato di Israele. In seguito, dopo grandi pressioni diplomatiche francesi, con l’accordo angolo francese del 7 marzo 1923 questo plateau fu annesso al Mandato per la Siria. Quando la Siria divenne pienamente indipendente nel 1943, le alture ne erano parte integrante del territorio. Ne consegue che, per la norma dell’ uti possidetis iuris, questo territorio era sotto piena sovranità siriana.

Nel 1948 con la nascita dello Stato di Israele, le alture del Golan furono utilizzate dalla Siria per invadere il nascente Stato ebraico. La guerra fu un palese atto di aggressione e di conseguenza un atto illegale per il diritto internazionale in aperta violazione dell’Art. 2 dello Statuto dell’ONU. I siriani furono sconfitti ma non vollero firmare un trattato di pace ma solo un accordo per il cessate il fuoco.

Nel 1967 il Golan fu nuovamente utilizzato dai siriani per aggredire militarmente Israele. Ancora una volta fu un atto illegale di aggressione. Questa volta, però, la vittoria di Israele fu più netta e permise allo Stato ebraico di conquistare le Alture. Già poche settimane dopo la vittoria nella guerra dei Sei giorni (e sotto grandissime pressioni internazionali), Israele si mostrò disposto a ritirarsi dal territorio occupato in cambio di un trattato di pace. La risposta della Siria, come di tutti gli altri Stati arabi, arrivò dopo la Conferenza di Khartoum del settembre 1967: “no alla pace con Israele”, “no al riconoscimento di Israele” e “no a negoziazioni con Israele”. Questa posizione della Siria non cambiò neanche successivamente all’entrata in vigore della Risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza nel novembre dello stesso anno, con la quale si poneva fine alle ostilità della guerra dei Sei giorni.

Il dibattito all’ONU e il testo della Risoluzione 242 mostrarono inequivocabilmente come Israele fosse l’aggredito e non l’aggressore. Una nuova aggressione illegale siriana avvenne nell’ottobre del 1973 e anche questa volta l’esercito siriano fu sconfitto. Un nuovo accordo per il cessate il fuoco fu raggiunto nel 1974 ma la Siria ha continuato a rifiutarsi di intavolare delle trattative di pace rimanendo allineata ai tre no di Khartoum nonostante la Risoluzione 338 del C.d.S ribadisse quanto espressamente sancito con la Risoluzione 242. Così, il governo israeliano, vista l’impossibilità di trattare con quello siriano e trascorsi numerosi anni dall’occupazione del Golan, nel 1981 decise di estendere la propria sovranità sulle alture.

Appare evidente da quanto esposto che l’occupazione del Golan da parte di Israele è perfettamente legale per il diritto internazionale sia per i ripetuti atti di aggressione armata da parte della Siria, sia per il suo rifiuto nei confronti di ogni soluzione concordata tra le parti fin dal settembre 1967.

A distanza di oltre 50 anni dalla guerra dei Sei giorni, rimane solo da stabilire se l’annessione israeliana del 1981 è compatibile con i principi del diritto internazionale. Questo punto è molto controverso e non trova unanimità di pareri tra i giuristi, anzi la maggior parte di essi è dell’opinione che questo atto sia illegale. Ma su cosa si basa questa opinione? Su nessuna legge internazionale formalizzata ma semplicemente su un principio generale e astratto che dichiara “l’inammissibilità di acquisizione territoriale tramite la guerra”. Questo principio è espresso anche nella Risoluzione 242. La domanda da porsi è, questo principio generale, in caso di guerra difensiva, quando lo si è applicato in un qualsiasi conflitto avvenuto nel mondo? La risposta è, mai una sola volta.

In pratica non esiste nessun caso al mondo di uno Stato che sia stato aggredito da un altro Stato e a cui sia stato imposto di ritirarsi sui confini precedenti al conflitto. Questo principio lo si vuol applicare unicamente nei confronti di Israele. Altri “esperti” sostengono una “variante” del principio in questione. La tesi è la seguente: è vero che in passato ci sono stata molte guerre e chi ha vinto ha acquisito dei territori degli Stati sconfitti ma in questi casi l’annessione è stata sancita tramite trattati di pace vincolanti, quindi legittimati dal diritto internazionale, nel caso di Israele non esiste nessun trattato di pace concordato tra le parti. Anche questa tesi però è assai debole e varrebbe solo per Israele. È debole perché non tiene conto del fatto che è la Siria lo Stato – ripetutamente – aggressore ed è anche lo Stato che si rifiuta categoricamente di intavolare trattative di pace da oltre 50 anni. Quindi è la Siria lo Stato doppiamente colpevole di questo stato di cose. Inoltre, la comunità internazionale non ha fatto nulla in suo potere (Art. 51 dello Statuto ONU) per dirimere la questione. Accusare Israele di “occupazione” a distanza di oltre 50 anni dalla guerra è del tutto pretestuoso e ingannevole e non ha basi legali ma solo ragioni politiche.

Secondo il diritto internazionale il principio di occupazione, come disciplinato con la Convenzione dell’Aia del 1907, è applicabile a situazioni “temporanee” nel tempo anche se non è specificato un arco temporale definito. Perciò invocare il principio di “occupazione” a distanza di oltre 50 anni dagli avvenimenti e soprattutto dopo che l’aggressore (la Siria) si rifiuta di trattare la pace è del tutto pretestuoso nonchè implausibile.

Esistono casi nel mondo simili a questo che possono essere considerati come prova di una pratica generale accettata come diritto? Cioè come diritto internazionale consuetudinario. Si, ed è il caso delle isole Curili annesse dall’Unione Sovietica nel 1945. L’annessione di questo arcipelago appartenuto al Giappone non è mai stata ratificata con un trattato di pace tra i due paesi. Però nessuno al mondo ha mai messo in discussione la validità dell’annessione sovietica benché la Russia “occupi” da 76 anni le isole, così come mai nessuno si riferisce a quella parte di territorio russo come “territorio giapponese occupato”.

È prassi di giornali, opinionisti o sedicenti esperti dipingere le cose non per come sono effettivamente ma unicamente in base a una agenda ideologica il cui scopo è quello di alterare i fatti, di deformare la realtà. L’importante è che Israele appaia il reo.
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Re: Israele non ha rubato e occupato alcuna terra altrui

Messaggioda Berto » dom gen 09, 2022 2:17 am

Il legame storico del popolo ebraico con Israele
David Elber
il 8 Gennaio 2022

http://www.linformale.eu/il-legame-stor ... n-israele/

Il concetto sotteso dall’espressione “storico legame” presente nel Mandato per la Palestina del 1922 è ancora oggi completamente sottostimato (se non del tutto sconosciuto) nella sua importanza, non solo dal grande pubblico, ma anche da parte di opinionisti ed “esperti” che vogliono parlare di Israele e della sua storia. Questo vale anche per molti studiosi delle varie comunità ebraiche.

È ancora radicata la credenza che Israele sia nato per una “decisione” dell’ONU, e precisamente in virtù della Risoluzione 181 dell’Assemblea Generale del 1947, la quale, in realtà proponeva semplicemente la spartizione di un territorio che era già stato assegnato dal diritto internazionale al popolo ebraico tramite il Mandato per la Palestina. Questa proposta, è bene ribadirlo, fu rifiutata solo dalla parte araba della popolazione e di conseguenza rimase lettera morta.

Appare del tutto evidente che opinionisti ed esperti (ma anche studiosi) che conferiscono alla Risoluzione 181 il potere di “aver fatto nascere” Israele non abbiano mai letto né la Risoluzione in oggetto né tanto meno il testo del Mandato per la Palestina.

Sulla nascita di Israele e della Giordania come Stati nazionali successori del Mandato per la Palestina, L’Informale se ne è occupato in numerosi articoli, qui si possono citare ad esempio (http://www.linformale.eu/la-terra-di-is ... nazionale/ ) e (http://www.linformale.eu/cosi-nacque-la-transgiordania/ ).

Quale è il fondamento su cui poggia il Mandato per la Palestina, e di conseguenza lo Stato di Israele che ne è il diretto successore nella parte ad occidente del Giordano?

Sulla storica connessione tra il popolo ebraico e la Palestina (da sempre chiamata da esso “terra di Israele”). Di fatto, questa connessione storica rappresenta l’architrave su cui poggia tutta intera la struttura del Mandato, in quanto il diritto internazionale riconosce in modo esclusivo il legame storico del popolo ebraico con la Palestina e ravvisa in esso i motivi per ricostituire la sua patria nazionale proprio in quel paese e non altrove. Il preambolo del Mandato è inequivocabile:

Whereas recognition has thereby been given to the historical connection of the Jewish people with Palestine and to the grounds for reconstituting their national home in that country (Considerando che è stato così riconosciuto il legame storico del popolo ebraico con la Palestina e i motivi per ricostituire il suo domicilio nazionale in questo paese);

Sul concetto di storica connessione si possono fare moltissime considerazioni, qui di seguito ne formuleremo alcune essenziali per fare comprendere come lo Stato di Israele poggi le sue basi storico-giuridiche su questo legame e non su Risoluzioni che di legale non hanno assolutamente nulla.

La prima considerazione che si può fare è in merito alla scelta che il legislatore ha fatto optando per l’espressione storica connessione e non storico diritto. Quest’ultima espressione è molto più vincolante per il diritto internazionale ma poteva altresì essere interpretata in modo che i diritti della popolazione non ebraica già residente in Palestina potesse essere relegata in secondo piano; cosa che non avvenne durante gli anni del Mandato, nel pieno rispetto della relativa disposizione presente nel preambolo che recita:

being clearly understood that nothing should be done which might prejudice the civil and religious rights of existing non Jewish communities in Palestine (essendo chiaramente inteso che nulla deve essere fatto che possa pregiudicare i diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche esistenti in Palestina).

La stessa cosa si può affermare a proposito dello Stato di Israele che ha, fin dalla sua nascita, assicurato il rispetto di tutti i diritti civili, politici e religiosi alle comunità non ebraiche. La disposizione presente nella dichiarazione di indipendenza del 14 maggio 1948 (che ha volare di legge in quanto non esiste una Costituzione), recita:

WE APPEAL — in the very midst of the onslaught launched against us now for months — to the Arab inhabitants of the State of Israel to preserve peace and participate in the upbuilding of the State on the basis of full and equal citizenship and due representation in all its provisional and permanent institutions (CHIEDIAMO - nel bel mezzo dell'assalto lanciato contro di noi ormai da mesi - agli abitanti arabi dello Stato d'Israele di preservare la pace e di partecipare alla costruzione dello Stato sulla base di una cittadinanza piena e uguale e di una rappresentanza adeguata in tutte le sue istituzioni provvisorie e permanenti).

Va anche sottolineato che questo avvenne nonostante la guerra civile scatenata dalla locale popolazione araba contro quella ebraica e l’invasione di cinque eserciti arabi lanciata contro il nascente Stato ebraico.

In merito al concetto del legame con la terra di Israele e non con altri paesi, è necessario mettere in evidenza come durante i millenni della diaspora la cultura e le tradizioni ebraiche non abbiano mai dimenticato l’anelito verso il paese dell’origine nè rinunciato al sogno di ricostituire un giorno una patria ebraica nella terra degli avi. Nessun altro luogo poteva sostituire quella terra perché l’ebraismo trae origine nel legame con Eretz Israel e non altrove. Questo principio fu ribadito dal movimento politico sionista di Theodor Herzl quando gli fu offerto dal governo inglese la possibilità di costituire uno Stato nazionale prima in Uganda (in realtà si trattava di un’area dell’odierno Kenya) e successivamente nel Sinai.

In tale ottica va visto anche il tentativo sovietico di creare una “patria per i lavoratori ebrei”, in una regione remota della Siberia, per volere di Stalin. Questo progetto fu istituzionalizzato con la creazione della “Provincia autonoma degli ebrei” (in russo Evrejskaja avtonomnaja oblast). Questa provincia autonoma esiste tutt’oggi ma è praticamente priva di ebrei – oggi vi risiedono poco più di 2.000 ebrei su 200.000 abitanti complessivi – in quanto non esiste nessun loro legame con quella terra. Tutti questi progetti “alternativi” furono rigettati in quanto non avevano nulla a che fare con il popolo ebraico e la sua cultura fondante.

È importante rimarcare che la devozione verso la terra di Israele non ha mai implicato – e non implica tutt’oggi – la volontà di conquistare altri territori o assoggettare altri popoli come sostiene la propaganda anti-israeliana. Non vi è nessun disegno colonialista o imperialista nel risiedere e nell’amministrare un territorio che era stato assegnato al popolo ebraico già nel 1922 e che il popolo ebraico era disposto a spartire nel 1947 pur di evitare la guerra e potere accogliere centinaia di migliaia di profughi dai campi di sterminio detenuti in campi di prigionia principalmente inglesi.

Stabilita in modo inequivocabile la connessione tra la terra di Israele e il popolo ebraico, ne derivano due importanti principi che si trovano formalizzati negli Articoli 6 e 7 del Mandato: lo “stretto insediamento” sulla terra assegnata e il diritto alla cittadinanza palestinese per tutti gli ebrei che vivevano al di fuori del Mandato e che desideravano risiedervi. Si riportano qui i due articoli del Mandato:

ARTICLE 6. The Administration of Palestine, while ensuring that the rights and position of other sections of the population are not prejudiced, shall facilitate Jewish immigration under suitable conditions and shall encourage, in cooperation with the Jewish agency referred to in Article 4, close settlement by Jews on the land, including State lands and waste lands not required for public purposes.

ARTICLE 7. The Administration of Palestine shall be responsible for enacting a nationality law. There shall be included in this law provisions framed so as to facilitate the acquisition of Palestinian citizenship by Jews who take up their permanent residence in Palestine (ARTICOLO 7. L'amministrazione della Palestina è incaricata di emanare una legge sulla cittadinanza. Saranno incluse in questa legge disposizioni formulate in modo da facilitare l'acquisizione della cittadinanza palestinese da parte degli ebrei che prendono la loro residenza permanente in Palestina).

Queste disposizioni mandatarie sono riservate esclusivamente al popolo ebraico proprio in ragione della sua storica connessione con la terra di Israele da una lato e dall’altro sul fatto che venne riconosciuto che gran parte del popolo ebraico (inteso come nazionalità) risiedeva al di fuori del proprio territorio.

Da tutte queste disposizioni mandatarie discendono e acquisiscono piena legalità le leggi fondamentali dello Stato di Israele come la legge sulla terra del 1950; la legge su Gerusalemme capitale del 1980 e la legge sullo Stato nazionale del popolo ebraico del 2018. Altre importanti leggi, che discendono dalle disposizioni mandatarie, sono la legge del ritorno del 1950, la legge sulla protezione dei Luoghi Santi del 1967 e la legge sulla cittadinanza del 2003.

Nessuna di queste leggi discrimina la popolazione non ebraica – proprio come le disposizioni mandatarie prima di esse – sono pienamente rispettose del diritto internazionale stabilito con il Mandato per la Palestina.

In conclusione la nascita dello Stato di Israele va visto nell’ottica alla cui base si colloca come suo fondamento la storica connessione tra il popolo ebraico e la terra di Israele. Allo stesso modo va intesa la Risoluzione 181 per quel che era: semplicemente una proposta di spartizione della terra già assegnata dal diritto internazionale agli ebrei, di cui furono disposti a rinunciare a una porzione pur di trovare un accordo e permettere il rimpatrio dei profughi dai campi. Accordo che non ebbe luogo per indisponibilità araba. La medesima indisponibilità a trovare una intesa che perdura dal 1937 ad oggi.
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