Ła łengoa de Dio e de łi idołi

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Messaggioda Berto » gio gen 07, 2016 8:55 pm

???

Nel Corano si nasconde anche il Vangelo
LORENZO FAZZINI
7 gennaio 2016


http://www.avvenire.it/Cultura/Pagine/CORANO-.aspx

Il Corano è stato dettato da Allah, è increato e sceso direttamente dal Cielo. Questa è la vulgata classica che comunemente si conosce del libro sacro del miliardo e più di fedeli islamici. La critica letteraria e testuale del Corano, così come vige nella cultura occidentale in ambito biblico, è considerata pressoché preclusa in ambito islamico, appunto perché il Corano è “disceso” già composto dal cielo. Ma davvero non c’è discussione su questo, neppure in casa islamica? Non sembra proprio se si prende e si consulta quello che alcuni osservatori del mercato editoriale, alla scorsa Buchmesse di Francoforte, hanno definito “il libro religioso dell’anno”.

Raccoglie undici saggi di altrettanti studiosi, tra i più specializzati in questioni islamiche, provenienti da prestigiose università di ogni dove ( Tel Aviv, Atene, Gerusalemme, Parigi, Bruxelles, Londra). Tema, Controverses sur les écritures canoniques de l’islam (“Controversie sulle scritture canoniche dell’islam”, Editions du Cerf, pagine 448, euro 35), testo poderoso curato da Daniel De Smet, direttore di ricerca al Cnrs, e Mohammad Ali Amir-Moezzi, titolare della cattedra di teologia e esegesi coranica classica all’Ecole Pratique des Hautes Etudes di Parigi, studioso sciita apprezzato a livello mondiale.

A pubblicare il tomo – con autori di diverse estrazioni culturali, anche ebraiche – è la cattolicissima casa editrice dei domenicani transalpini, guidata da qualche tempo da un valente studioso ortodosso, Jean-François Colosimo. Molteplici gli spunti, anche curiosi, da questo volume, certamente dedicato agli specialisti, ma di cui un’edizione italiana sarebbe auspicabile.
Primo dato: il Corano è un testo letterario come altri, in cui poter rintracciare influenze letterarie, tradizioni culturali diverse, debiti testuali, e altro. Esempi? A bizzeffe. Joan Van Reeth mette a confronto i versetti evangelici in cui Gesù si auto-presenta come inviato del Padre e l’auto-presentazione di Issa (il nome arabo di Gesù) nella sura coranica 3.

Le somiglianze portano Van Reeth a chiosare: «Questo dettaglio prova in maniera incontestabile che il Corano è un’opera scritturistica e che il redattore del Corano aveva il testo evangelico davanti a sé, o almeno lo aveva presente in testa, dal momento che il Profeta cita le affermazioni di Gesù con le loro caratteristiche formali proprie». Ancora. I residui biblici, sia apocrifi che canonici (tra cui i Salmi), così come di testi cristiani più recenti, sono numerosi nel Corano: il Vangelo dello pseudo Matteo, frammenti delle profezie di Montano e delle sue profetesse, gli scritti siriaci di San Efrem segnalano le contaminazioni che l’islam ha ricevuto dal primo cristianesimo.
E che fanno dire a Van Reeth, citando lo studioso Claude Gillot: «Maometto e la sua comunità conoscevano dell’ebraismo, del cristianesimo, del manicheismo e dello gnosticismo molto più di quello che spesso erano disponibili a riconoscerlo».

Già il biblista tedesco Joachim Gnilka aveva indagato, anni fa, come da titolo di un suo libro, su quali fossero i «cristiani del Corano», ovvero a quali comunità appartenessero i cristiani citati nel libro sacro islamico. Van Reeth suggerisce che l’influenza delle comunità siriache manichee – presenti nell’Arabia del tempo – sulla composizione di Maometto: «I generi letterari esegetici e parenetici presenti nel Corano lo sono anche nell’opera di Mani, visto che quest’ultimo ha scritto lettere, omelie e salmi». Tra le controversie che il titolo dell’opera edita da Cerf va annoverata vi è appunto l’origine unicamente divina, senza intermediazioni umani, del Corano.

Questa visione, segnala Daniel De Smet, viene contestata all’interno della stessa umma se è vero che la tradizione ismaelita considera tutto ciò alla stregua di un “simbolo”: «Ai loro occhi solo gli esoterici prendono, per ignoranza, alla lettera un tale racconto ». Anche per i musulmani ismaeliti considerare l’idea che Dio “parla” è una «forma di antropomorfismo», da rigettare in toto. Altra questione-calda è quella della traduzione del sacro testo: se il Corano è parola di Dio, ed è arrivata in una lingua precisa, l’arabo, esso può venir tradotto in altri idiomi? L’andaluso Ibn Hazm (morto nel 1064) era categorico, riferisce Meir Michael Bar-Asher: «Colui che legge il Corano in un altra lingua che Dio non ha inviato tramite l’intermediazione del suo profeta, non legge il Corano».

Ma come si concilia questa con «l’ammissione universale, attestata in numerosi versetti coranici, che il messaggio di Maometto è rivolto a tutta l’umanità e non solo agli arabi?». Lo stesso autore (docente di studi islamici all’Università ebraica di Gerusalemme) segnala che «la traduzione del Corano della setta degli Ahmadi, per esempio, è stata messa all’indice dall’università di Al-Azhar». Lo stesso è capitato per la versione turca: «Aver pubblicato nel 1932 una traduzione turca senza l’originale arabo fu un fatto senza precedenti e ha suscitato critiche molto severe da parte delle autorità religiose islamiche».

È poi da notare, come fa Amir-Moezzi, che le discussioni intramusulmane non si limitano alla redazione del Corano, ma investono anche la comprensione degli Hadith, i detti di Maometto trasmessi dalla tradizione. Tali detti hanno una duplice matrice, da un lato «elementi che potremmo qualificare mistici, iniziatici e, si potrebbe dire, magici, largamente tributari dei movimenti gnostici e manichei, così come delle correnti del pensiero neoplatinico della tarda antichità». Dall’altra parte, gli stessi detti maomettani presentano una «tradizione teologico-giuridico razionalista». Una compresenza che fa dunque propendere per un’origine letteraria composita e non uniforme di tali detti. Si accennava ai debiti cristiani dell’islam, in particolare di Maometto.

È curioso venir a sapere che esistono ipotesi di studio secondo le quali la Mecca non era un santuario pagano, poi islamizzato da Maometto, come spesso riferito dalla tradizione islamica più ortodossa, bensì fosse in precedenza una chiesa cristiana, costruita dalla tribù dei Gurhum installatasi alla Mecca. A tal proposito, Van Reeth fa notare che quando Maometto entra nella Kaaba, vi trova degli affreschi che rappresentano Abramo, Gesù, Maria e degli angeli. Fatto impossibile in un tempio pagano. E inoltre, da un punto di vista architettonico, vi si rintraccia una forma absidale rivolta a est. Lo studioso fa notare un altro dettaglio pro-cristianesimo: il nonno di Maometto, ’Abd al-Muttalib, avrebbe esercitato un ruolo cultuale importante in questo tempio cristiano.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Messaggioda Berto » gio gen 07, 2016 8:59 pm

Łi fanateghi exaltadori del latin e de l'arabo
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Messaggioda Berto » gio apr 21, 2016 7:59 pm

La lingua parlata da Gesù
http://www.donatocalabrese.it/jesus/lingua.htm

... Una prima risposta la possiamo trovare nei quattro Vangeli canonici, che sono stati scritti in un tipo di greco chiamato Koiné, anche se vi si trovano notevoli tracce di influsso semitico. Ma la cosa che sorprende ed incuriosisce un lettore attento dei vangeli, è che nei quattro testi canonici che noi conosciamo, sono riportate parole ed espressioni in aramaico. Una lingua semitica, molto simile all’ebraico ed al fenicio, che il popolo di Israele aveva appreso nel periodo doloroso della cattività Babilonese e che era diventata, così, la lingua parlata in Palestina. Quindi l’aramaico era la lingua parlata da Gesù, dai suoi primi discepoli e dal popolo ebreo. ...
... Sono parole che conservano tuttora il loro fascino originario, come Talità kum, che significa: "Fanciulla, io ti dico, alzati!", la parola autorevole, con il quale Gesù fa risorgere, in nome proprio, la giovane figlia di Giairo. Oppure, Effatà!, che vuol dire "Apriti", l’espressione con la quale egli guarisce un sordomuto, in forza di una Potenza che esce da lui. O anche Abbà, l'invocazione con la quale Gesù si rivolge al Padre rivelando, in maniera unica ed irripetibile, la sua intimità con il Padre Celeste. A questo termine, che è il più rilevante tra tutta la fraseologia aramaica presente nei vangeli, dedicheremo, poi, lo spazio che merita.
Infine, possiamo aggiungere: "Elì, Elì, lemà Sabactani", che significa: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato" . ...
... E’ bene specificare, però, che l’idioma abitualmente parlato da Gesù era un dialetto galileo-aramaico, come si evince nel dialogo tra Pietro ed alcuni presenti nel cortile del sommo sacerdote, durante l’interrogatorio di Gesù. ...
... I vangeli riferiscono che lui insegna frequentemente nelle sinagoghe e gli stessi scribi e dottori della Legge lo chiamano col titolo di "Rabbi", che significa “Maestro”. Un appellativo che gli viene attribuito anche dai suoi stessi discepoli e che può essere spiegato solo con una salda conoscenza della lingua sacra, l'ebraico classico, la lingua dei padri e delle Sacre Scritture. ...
Come detto in precedenza, c’è anche il greco nel linguaggio parlato da Gesù. E’ il greco biblico, la Koiné , la lingua più comune appresa dagli ebrei e dai popoli vicini dopo le conquiste di Alessandro il Macedone. ...
... Insomma abbiamo solide prove che Gesù abbia una conoscenza della lingua greca, anche se "la lingua che ha strutturato la sua vita, il suo pensiero e il suo cuore, è stata la lingua materna, l'aramaico, assieme, però, a quella dei padri, cioè all'ebraico, come si era condensato nel testo sacro, del quale Gesù dice di essere il compimento" ...




La lenga ebraega vecia e moerna
http://www.mauriziopistone.it/testi/dis ... raico.html

L'ebraico, la lingua delle sacre scritture, era morta da secoli come lingua parlata (già ai tempi di Gesù, ad esempio, la lingua parlata comunemente era l'aramaico - lingua comunque correlata all'ebraico -, un dialetto del quale tuttora sopravvive in alcuni villaggi del nord della Siria). Per tutti i secoli della diaspora, l'ebraico classico rimase come lingua sacra, sia nella sua variante antico-testamentaria che nella variante più tarda, usata prevalentemente a fini esegetici, detta mishnaica. Quest'ultima variante accettava in sé un discreto numero di aramaismi ed ebbe la sua codificazione definitiva con la fase del cosiddetto « illuminismo ebraico ». Essa fu così adottata dalla letteratura talmudica, midrashica e genericamente « liturgica » al posto del più poetico, ma lessicalmente più limitato ebraico biblico. Si può quindi parlare, per questa fase, di « ebraico pre-moderno », ma ancora non si trattava di una lingua parlata, seppure fosse pienamente ed estesamente usata a fini scritti. ... ... La rinascita della lingua ebraica vera e propria come lingua parlata ha, si può dire, un nome ed un cognome: quello del lituano Eliezer Ben Yehuda (la cui lingua materna era ovviamente lo yiddish orientale). Costui, al trasferirsi in Palestina circa nel 1880, all'epoca dei primi insediamenti ebraici nella Terra Promessa a seguito del movimento Sionista, impose a se stesso ed alla sua famiglia l'uso attivo dell'ebraico pre-moderno (ovvero della variante mishnaico-talmudica), con uno zelo che, se da molti fu ritenuto eccessivo, d'altro canto riuscì veramente nell'intento quando il suo esempio fu cominciato a seguire da altre famiglie e, via via, da un numero crescente di persone. Beh Yehuda si trovò davanti un compito quasi improbo: quello di adattare una lingua sì usata, ma solo per certi fini, alla vita moderna. Sulla base delle radici già esistenti (l'ebraico, essendo una lingua semitica, è strutturalmente basato su radici trilittere [di tre consonanti] o, più raramente, quadrilittere, le cui funzioni variano a seconda dell'elemento vocalico tra di esse inserito - e perlopiù non notato dalla grafia!) Ben Yehuda si mise all'opera per comporre il suo Thesaurus della lingua ebraica moderna, creando di sana pianta tutta la terminologia moderna in uso a quell'epoca. Tuttora il Thesaurus di Ben Yehuda rappresenta la « base » della lingua ebraica, anche se, ovviamente, è stato ampliato con tutta una serie di termini rispondenti al progresso tecnologico, scientifico ecc. Così, ad esempio, il computer sul quale tutti noi scriviamo è in ebraico Makhshev, dalla radice k-sh-v (« contare ») che si ritrova nel verbo khashav (« egli ha contato »; presente khoshev « egli conta »), e così via. L'ebraico moderno accoglie comunque tutta una grossa serie di prestiti internazionali (telefon, muzika, katalog; però i verbi che ne derivano vengono trattati come verbi ebraici quadrilitteri originali: « telefonare » è letalpen [infinito], « catalogare » è lekatleg [infinito] ecc.), yiddish (come il suffisso agentivo -nik, in ultima analisi di origine slava, che si ritrova ad esempio in kibbutznik « membro di un kibbutz »), inglesi, francesi, arabi ecc.
L'ebraico moderno è adesso, e dal 1948, la lingua ufficiale dello Stato di Israele e rappresenta uno dei fattori decisivi per la coesione di uno stato formato da cittadini provenienti da oltre 20 paesi diversi. Si tratta, credo, dell'unico caso esistente di una lingua non più parlata tornata alla vita attiva dopo qualcosa come 20 secoli. ...



Na conçesion de la sagraletà de na lenga ke par mi no la ga gente de veramente sagro ma sol ke na parvensa/aparensa inpirà su da l’edeoloja ... na falba sagraletà edolatra

http://sacrissolemniis.blogspot.com/201 ... sacra.html

... La lingua sacra, essendo il mezzo di espressione non solo degli individui, ma di una comunità che segue le sue tradizioni, è conservatrice: mantiene le forme linguistiche arcaiche con tenacia. Inoltre, vengono introdotti in essa elementi esterni, in quanto associazioni ad un’antica tradizione religiosa. Un caso paradigmatico è il vocabolario biblico ebraico nel latino usato dai cristiani (amen, alleluia, osanna ecc.), come ha osservato già sant’Agostino (cf. De doctrina christiana II, 34-35 [11,16]).
Lungo la storia, si è adoperata un’ampia varietà di lingue nel culto cristiano: il greco nella tradizione bizantina; le diverse lingue delle tradizioni orientali, come il siriaco, l’armeno, il georgiano, il copto e l’etiopico; il paleoslavo; il latino del rito romano e degli altri riti occidentali. In tutte queste lingue si trovano forme di stile che le separano dalla lingua “ordinaria” ovvero popolare. Spesso questo distacco è conseguenza degli sviluppi linguistici nel linguaggio comune, che poi non sono stati adottati nella lingua liturgica a causa del suo carattere sacro. Tuttavia, nel caso del latino come lingua della liturgia romana, un certo distacco è esistito sin dall’inizio: i romani non parlavano nello stile del Canone o delle orazioni della Messa. Appena il greco è stato sostituito dal latino nella liturgia romana, è stato creato come mezzo di culto un linguaggio fortemente stilizzato, che un cristiano medio della Roma della tarda antichità avrebbe capito non senza difficoltà. Inoltre, lo sviluppo della latinitas cristiana può avere reso la liturgia più accessibile alla gente di Roma o Milano, ma non necessariamente a coloro la cui lingua madre era il gotico, il celtico, l’iberico o il punico. Comunque, grazie al prestigio della Chiesa di Roma e la forza unificatrice del papato, il latino divenne l’unica lingua liturgica e così uno dei fondamenti della cultura in Occidente (??? sti ponti ghe li gò mesi mi). ...



Mystère, compréhension et participation
relazione di don Pietro Cantoni al CIEL di Parigi (21 nov 2003)

http://www.opusmariae.it/mystere.htm

... Il Cristianesimo non dispone propriamente di una lingua sacra. In questo si differenzia dal Giudaismo, dall'Islam e dall'Induismo. Le parole di Gesù sono tradotte in greco nel testo canonico del Nuovo Testamento e anche l'Antico Testamento è citato nella traduzione dei LXX, il cui valore e il cui significato per il Cristianesimo è da tutti conosciuto. ...
... Se non conosce una lingua sacra, per il suo carattere strutturalmente universale, come religione del Lógos che illumina ogni uomo veniente in questo mondo e che supera quindi escatologicamente lo stadio "etnico" del popolo della promessa, ciò non toglie che anche il Cristianesimo conosca più lingue sacre, cioè delle "antiche lingue": le lingue liturgiche. Le grandi tradizioni apostoliche dell'antichità cristiana si cristallizzano attorno a delle lingue liturgiche e alla lingua in cui è tradotta la Bibbia. Abbiamo la tradizione Antiochena con il siriaco (un dialetto dell'aramaico orientale), la lingua della traduzione detta Peshitta. A questa tradizione appartengono le liturgie siro-occidentale e siro-orientale (detta anche "assira" o "caldea"), che – in India – è divenuta la liturgia siro-malabarese. La Tradizione Bizantina con il greco, la lingua della traduzione dei LXX. A questa tradizione appartengono le liturgie di S. Basilio e S. Giovanni Crisostomo. La Tradizione Alessandrina che si esprime in copto. Il copto deriva dall'antica lingua degli egiziani e in questa lingua è celebrata la liturgia di S. Marco. Da questa liturgia – con influssi antiocheni – deriva la liturgia etiopica, celebrata nell'etiopico antico, il ghe’ez. In ghe’ez abbiamo anche una traduzione della Bibbia, nel cui canone sono inclusi diversi libri apocrifi che ci sono giunti solo attraverso questa traduzione. ...
... C'è quindi la Tradizione Romana, a cui corrisponde ovviamente il latino con la traduzione Vetus Latina e la più nota Vulgata. In questa lingua sono (o furono) celebrate venerabili liturgie: romana, ambrosiana, celtica, gallicana, visigotico-mozarabica. ...
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Messaggioda Berto » gio apr 21, 2016 7:59 pm

La lingua che parliamo influenza la personalità e modella il cervello
La nostra visione del mondo è profondamente condizionata, fra l’altro, dal linguaggio che usiamo per esprimerci. L’idioma madre viene oggi correlato anche ad atteggiamenti che ne sembrerebbero lontani, come la propensione al risparmio o il senso di colpa
di Elena Meli
29 febbraio 2016

http://www.corriere.it/salute/neuroscie ... 9c6b.shtml

La capacità di comunicare attraverso un linguaggio parlato e scritto, strutturato e complesso, è la caratteristica che più ci distingue dagli altri animali. Non solo: il linguaggio è in grado di “modellare” il nostro cervello, le convinzioni e gli atteggiamenti cambiando il modo di pensare e agire. Essere madrelingua inglese, cinese, o russo ha effetti diversi sull’architettura del pensiero, stando a un numero sempre più nutrito di studi. Succede perché ogni lingua pone l’accento su elementi diversi dell’esperienza, forgiando così un modo specifico di vedere il mondo.


Le parole e il substrato culturale

In parte dipende dalle influenze culturali, come spiega Jubin Abutalebi, neurologo cognitivista e docente di neuropsicologia dell’Università San Raffaele di Milano: «La parola che indica uno stesso oggetto in lingue diverse può acquistare sfumature differenti, che dipendono dal substrato culturale specifico». In cinese “drago” rimanda non solo a un animale fantastico e pauroso ma soprattutto a un simbolo di fortuna, forza, saggezza: inevitabilmente un cinese “vedrà” in modo diverso da un occidentale perfino un essere del tutto irreale. Accadrà lo stesso a un bilingue: per un anglo-cinese il drago sarà meno spaventoso che per un inglese. «La visione culturale sottesa alle parole di lingue differenti può influenzare chi conosce più di un idioma — sottolinea Abutalebi —. Il cervello, dovendo processare lingue con una semantica varia, associa ai singoli concetti elementi tratti dai linguaggi che conosce. In genere poi chi padroneggia più lingue è più curioso nei confronti delle culture legate agli idiomi conosciuti e questo facilita una maggior apertura e una visione diversa delle cose. Il modo di pensare e relazionarsi col mondo rimane immutato solo se una lingua viene imposta, perché in questo caso si mette in atto una resistenza a qualsiasi “commistione” culturale».
La madrelingua resta il vettore della morale e dell’etica

L’influenza del linguaggio sul nostro Io è tuttavia ancora più profonda, con effetti sorprendenti perfino sulle decisioni coscienti: uno studio su PLOS One ha dimostrato che quando ci esprimiamo in una seconda lingua tendiamo ad avere meno remore morali. I partecipanti all’esperimento pubblicato su PLOS One infatti accettavano di sacrificare una persona per salvarne cinque - facendo una scelta “utilitaristica”- più spesso se veniva loro chiesto nella seconda lingua rispetto a quando dovevano esprimere il loro parere in madrelingua: in questo secondo caso prevaleva infatti il divieto morale a uccidere. «Un idioma che non sia appreso dalla nascita è meno influenzato dalle emozioni perché mentre lo si parla si deve esercitare un controllo cognitivo maggiore per “spegnere” la madrelingua, che resta il vettore della morale, dell’etica, dei sentimenti», commenta Abutalebi. Il linguaggio appreso in culla è anche quello che più modula la nostra struttura mentale.
Chi parla una lingua senza numeri non sa far di conto

E la lingua può perfino modulare l’attitudine al risparmio come ha scoperto l’economista Keith Chen dell’Università di Los Angeles: i cinesi, che non hanno un tempo verbale preciso per indicare il futuro, hanno una propensione a mettere da parte i soldi del 30% maggiore rispetto a chi parla lingue più “definite” forse perché «identificare linguisticamente il futuro in modo distinto dal presente lo rende più lontano, motivando meno a risparmiare», ha spiegato Chen. Si è scoperto che pure indicare il genere delle parole incide sulla visione del mondo: uno studio su bambini ebrei e finlandesi ha rivelato che i primi si accorgono in media un anno prima di essere maschi o femmine anche perché la loro lingua assegna quasi sempre il genere alle parole, mentre in finlandese non accade. In alcuni casi gli effetti di un idioma sono ancora più curiosi: Lera Boroditsky, dell’Università di Stanford, ha verificato che nella lingua della tribù Piraha, in Amazzonia, non esistono lemmi per indicare i numeri ma solo i termini “pochi” o “tanti”. Risultato, i Piraha non sanno tenere conto di quantità esatte.
Forse Shakespeare aveva torto: ciò che chiamiamo rosa non profumerebbe così tanto, se la chiamassimo con un altro nome.
Con i numeri serve un maggiore «sforzo cognitivo»

Riguardo alla matematica: i numeri si “pensano” nella lingua che sentiamo come primigenia perché, come spiega il neuropsicologo Jubin Abutalebi, «la matematica attiva circuiti cerebrali diversi da quelli del linguaggio e chiama in causa un maggior “controllo”. Da un certo punto di vista è simile alla grammatica, la parte del linguaggio più influenzata dal periodo di apprendimento dell’idioma: nei bilingui tardivi ad alta padronanza, quelli cioè non distinguibili dai madrelingua anche se hanno appreso la seconda lingua non in contemporanea alla prima, una mappatura cerebrale rivela una maggiore attivazione delle aree di controllo esecutivo durante compiti di grammatica, mentre in caso di compiti lessicali o semantici l’attivazione è identica a quella di un bilingue precoce. Per padroneggiare la grammatica delle lingue apprese dopo l’infanzia serve perciò uno sforzo cognitivo maggiore».
Da Carlo Magno a Noam Chomsky

Si dice che Carlo Magno abbia detto: «Conoscere una seconda lingua significa possedere una seconda anima». Ne era convinto anche il linguista americano Benjamin Lee Whorf che, nel 1940, postulò la teoria secondo cui il linguaggio plasma il cervello al punto che due persone con lingue differenti saranno sempre cognitivamente diverse. Tale tesi passò di moda con gli studi di Noam Chomsky, che negli anni ‘60 e ‘70 propose la teoria di una “grammatica universale”, ovvero basi generali comuni per tutti i tipi di linguaggio. A partire dagli anni ‘80, però, alcuni studiosi hanno iniziato a rivalutare Whorf, depurando la sua teoria dagli eccessi: così oggi sappiamo che, al di là di fondamenta concettuali simili, ogni linguaggio sottende una sua “visione del mondo” e la infonde, almeno in parte, in chi lo parla. Un esempio è il senso di colpa e di giustizia: in inglese se un vaso si rompe si sottende sempre la presenza (e quindi la responsabilità) di qualcuno, in spagnolo si tende a dire che il vaso si è rotto. Secondo alcuni proprio da questo dipende la tendenza anglosassone a punire chi trasgredisce le regole, più ancora che risarcire le vittime.
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Re: Ła łengoa de Dio e de łi idołi

Messaggioda Berto » dom dic 30, 2018 8:01 pm

Preghiere e orasion ente ƚa ƚengoa veneta
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Preghiere de l'omo e comande divine
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I X comandamenti o le Tavole della Legge di Mosè
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