Libertà di pensiero, di critica contro i dogmi e l'idolatria

Libertà di pensiero, di critica contro i dogmi e l'idolatria

Messaggioda Berto » mar gen 05, 2016 9:10 am

Libertà di pensiero e di critica contro i dogmi e l'idolatria
http://www.filarveneto.eu/forum/viewtop ... 201&t=2138

Libertà di pensiero, di critica e di espressione contro i dogmi e l'idolatria.


https://it.wikipedia.org/wiki/Charlie_Hebdo
https://it.wikipedia.org/wiki/Attentato ... rlie_Hebdo
L'attentato alla sede di Charlie Hebdo è stato un attacco terroristico avvenuto il 7 gennaio 2015 contro la sede del giornale satirico Charlie Hebdo, a Parigi. Nell'attentato sono morte dodici persone e undici sono rimaste ferite.
Si è trattato dell'attentato terroristico col maggior numero di vittime in Francia dopo l'attentato multiplo del 13 novembre 2015 al teatro Bataclan, allo Stade de France e a tre ristoranti parigini, in cui hanno trovato la morte 130 persone e quello del 1961 per opera dell'Organisation armée secrète durante la guerra d'Algeria, che causò 28 morti. Dopo il primo attentato, il 9 gennaio un complice degli attentatori si è barricato in uno dei supermercati della catena kosher Hypercacher a Porte de Vincennes, prendendo alcuni ostaggi e uccidendo quattro persone. Durante gli eventi seguenti all'attentato sono morte in totale otto persone: i due responsabili, il complice di Porte de Vincennes, quattro ostaggi di quest'ultimo e una poliziotta, portando così il totale a venti morti.
L'attentato è stato rivendicato da Al-Qāʿida nella Penisola Arabica (o Ansar al-Sharia), branca yemenita dell'organizzazione stessa.



Immagine
https://www.filarveneto.eu/wp-content/u ... harlie.jpg

Charlie Hebdo, «L'assassino è ancora libero»: polemiche per la copertina dell’anniversario della strage
di Ida Artiaco
Lunedì 4 Gennaio 2016,

http://www.ilgazzettino.it/esteri/charl ... 61663.html

Mitraglietta sulle spalle, vestiti pieni di sangue e sguardo spaventato mentre cerca di scappare. È un dio generico, di tutte le religioni, quello che è rappresentato sulla copertina del nuovo numero di Charlie Hebdo, il giornale satirico francese vittima della furia omicida jihadista lo scorso gennaio. Sarà in edicola a partire da domani, esattamente nel giorno dell’anniversario della strage in cui persero la vita dodici persone, tra cui il direttore Charb.

Il titolo dell’ultimo numero è quanto mai provocatorio: “Un anno dopo l’assassino è ancora in libertà”. L’autore del disegno che farà di sicuro discutere è Riss Laurent Sourisseau, attuale numero uno del giornale e tra i feriti dell’attentato. Nell’editoriale di apertura ribadisce la difesa della laicità e attacca ancora una volta “i fanatici abbruttiti dal Corano” e “i bigotti appartenenti ad altre religioni”. Dopo aver ricostruito la scena che si è trovato davanti agli occhi quel 7 gennaio 2015, lo stesso Riss si chiede: “Come continuare a fare il giornale? A darci la forza è stato tutto ciò che avevamo costruito in 23 anni. Non saranno due incappucciati a mandare all’aria il lavoro di tutta la nostra vita. Non saranno loro a far crepare Charlie. È Charlie che li vedrà crepare”.

Il numero avrà una tiratura di un milione di copie, di cui decine di migliaia sono già prenotate all’estero. In particolare, la domanda è risultata altissima in Germania: oltre ai 180mila abbonamenti, il giornale vende già attualmente 100mila copie in edicola, 10mila della quali fuori dalla Francia. All’interno ci saranno una raccolta dei disegni dei vignettisti uccisi dai jihadisti e i contributi di varie personalità del mondo della cultura.


Immagine
https://www.filarveneto.eu/wp-content/u ... harlie.jpg
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Re: Lebertà contro ła prexon dei dogmi e de l'idołatria

Messaggioda Berto » mar gen 05, 2016 9:20 am

El tenpio o ła caxa de ła lebartà e de ła no credensa, de ła raxon e del spirto ogniversal, dedegà a Ipasia, a Bruno Jordan, Jrołamo Savonaroła, Arnaldo da Brèsa, a Oriana Fallaci, a łi apostati e a tuti łi raxianti/ereteghi (tra cu Cristo, no dexmenteghemose ke anca Cristo el jera n'eretego, n'ebreo raxiante):
http://www.filarveneto.eu/forum/viewtop ... =24&t=1383

http://it.wikipedia.org/wiki/Ipazia http://it.wikipedia.org/wiki/Oriana_Fallaci
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Re: Lebertà contro ła prexon dei dogmi e de l'idołatria

Messaggioda Berto » mar gen 05, 2016 9:34 am

Carta ogneversal dei diriti rełijoxi e spirituałi
viewtopic.php?f=24&t=1788
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Re: Lebertà contro ła prexon dei dogmi e de l'idołatria

Messaggioda Berto » mar gen 05, 2016 10:26 am

Quei “coglioni” di Charlie
Il settimanale francese fu abbandonato al terrore islamista ben prima della strage di un anno fa. Un libro racconta la fine della libertà di espressione fra taglialingue e vigliacchi
di Giulio Meotti | 19 Dicembre 2015

http://www.ilfoglio.it/cultura/2015/12/ ... e_c304.htm


L’allora direttore di Charlie Hebdo, Stephane Charbonnier, davanti alla redazione dopo l’attentato del 2011, in una foto opportunamente pixelata. Censurato dai giornali, “Charb” era stato ridotto a nulla
Anticipiamo un estratto del nuovo libro di Giulio Meotti, “Hanno ucciso Charlie Hebdo. Il terrorismo e la resa dell’occidente: la libertà di espressione è finita”, da oggi in libreria (Lindau, 160 pagine, 16 euro). E’ la storia di come l’islamismo sia riuscito a restringere la nostra libertà di dire e pensare.

L’ultima vignetta firmata “Charb” mostrava un talebano con un kalashnikov in spalla che invita a non illudersi troppo per l’assenza di attentati in Francia, perché “c’è tempo fino alla fine di gennaio per fare gli auguri”.

Stéphane Charbonnier, in arte Charb, era un obiettivo terroristico fin dal 2011, quando un incendio aveva distrutto la storica sede di Charlie Hebdo, alla vigilia di un numero dedicato alla vittoria elettorale degli islamisti in Tunisia e con un ritocco alla testata, convertita in “Charia Hebdo” (riferendosi alla sharia, la legge islamica). Nel settembre del 2012 un jihadista era stato arrestato a La Rochelle perché aveva esortato, da un sito internet, a decapitare Charb. Lui aveva risposto così: “Preferisco morire in piedi che vivere in ginocchio”.

Figlio di un tecnico di France Telecom e della segretaria di un ufficiale giudiziario, Charb era arrivato a dirigere Charlie Hebdo a 42 anni. Charbonnier aveva fatto tutto nella periferia di Pontoise: scuola elementare, scuola media, scuola superiore. Fino al cimitero di Pontoise, dove è stato sepolto nel gennaio 2015 con le note dell’Internazionale in sottofondo. Genitori socialisti, Charb eredita la vocazione di sinistra. Charb aveva lavorato per numerosi giornali e collaborava anche con il quotidiano del Partito Comunista L’Humanité e due importanti riviste francesi di fumetti, Fluide Glacial e L’Echo des Savanes. Irriverente e anti-capitalista, come dimostrano le sue vignette più celebri spesso al limite del pornografico, che riguardano il cane Maurice, bisessuale e anarchico, e Patapon, gatto asessuato e fascista.

Tutto cambia nel 2011. Lì, la minaccia diventa tangibile. Una notte, alle 5 del mattino, la polizia convoca Charb per dirgli che qualcuno ha incendiato la sede del settimanale. L’edizione di quei giorni si era concentrata sulla “sharia soft”, “in onore del ruolo dell’islam nelle rivolte arabe”. Per celebrare in maniera appropriata la vittoria degli islamisti di Ennahda in Tunisia, e la promessa del presidente del Consiglio nazionale di transizione che la sharia sarà la principale fonte di legge in Libia, “Charlie Hebdo” aveva invitato Maometto a essere direttore per un giorno, come aveva scherzato la redazione di Charb in una nota. E fece firmare al Profeta un editoriale sul bere halal, secondo i dettami dell’islam, in cui l’alcol è proibito; dedicava una sezione – “Sharia Madame” – a donne e velo islamico, da poco vietato in Francia. Su Internet apparve una fotografia di Charb e la scritta “vivo o morto”, firmato al-Qaida. Il mondo politico francese fece una dichiarazione di condanna, ma aggiunse anche che “Charlie” aveva gettato benzina sul fuoco, che era irresponsabile. Charb si sentì solo per la prima volta. Abbandonato. Charb fu il primo obiettivo durante l’attacco del 7 gennaio. I terroristi, entrati dentro la redazione, gridavano “Charb? Dov’è Charb?”. Dopo averlo guardato dritto negli occhi gli hanno sparato. Poi vengono chiamati, uno alla volta, i membri della redazione e subito dopo fatti secchi. Durante pochi interminabili minuti i terroristi hanno compiuto una mattanza “scientifica”, che prevedeva la richiesta del nome ai giornalisti prima di giustiziarli.

Charb aveva il viso pallido di un bambino triste. Con i suoi occhiali, la sua T-shirt e il maglione, il direttore di Charlie Hebdo sembrava un eterno adolescente. Charb amava soprattutto ridere. “E’ la risata che decide”, ripeteva. Ma il suo sguardo era stato spento già prima ancora che i terroristi facessero irruzione nella sede del giornale.

Dopo la strage, il New York Daily News ha pubblicato una fotografia del 2011 con Charb davanti alle ceneri della redazione, incendiata dai fondamentalisti islamici. Tiene in mano una copia del suo giornale, la sua vita. Ma la copertina non è altro che un grappolo di pixel censurati, un puzzle di inoffensivi brandelli virtuali. Per chi guarda l’immagine, Charb tiene in mano il nulla. E’ ridotto a nulla.

Nel 2007 Charlie Hebdo era stato portato di fronte alla XVII sezione del Tribunale penale di Parigi, processandone il direttore, Philippe Val, costretto a rispondere di “insulti pubblici contro un gruppo di persone a causa della loro religione”. “Ma chi deve definire il concetto di libertà d’espressione e l’ambito entro cui può manifestarsi: i deputati, eletti dal popolo, o i gruppi religiosi?”, chiese Philippe Val in aula, esprimendo il suo profondo dissenso dall’accusa per cui venne portato in tribunale dalla Grande Moschea di Parigi presieduta dal rettore Dalil Boubakeur, l’Unione delle organizzazioni islamiche di Francia e la Lega musulmana mondiale.

A testimoniare per Charlie, si presentarono il saggista musulmano Abdelwahab Meddeb, il direttore di Cahiers de l’Orient Antoine Sfeir, il capo delle pagine culturali del Jyllands-Posten Flemming Rose, la studiosa Élisabeth Badinter e l’ex direttore di L’Express Denis Jeambar. La Lega musulmana mondiale citò come testimone padre Michel Lelong, un prete cattolico: “Trovo deplorevole che un giornale abbia pensato bene di ravvivare questa contesa”, disse il veterano dell’amicizia franco-araba.
Christophe Bigot, avvocato della Moschea di Parigi, aggiunse che “non è in alcun modo un dibattito sulla censura, ma un dibattito sulla responsabilità”. Charlie Hebdo era colpevole ai suoi occhi di “un atto deliberato con la coscienza del male”. Attesissimo l’intervento in aula di Flemming Rose: “Ho ridicolizzato un’ideologia, non gli uomini. Tutti devono accettare il ridicolo, nel rispetto della legge”. Élisabeth Badinter sostenne invece che “se Charlie Hebdo verrà condannato, è il silenzio che si imporrà su tutti noi”.

Quella volta Charlie si salvò, ma il silenzio sarebbe presto calato comunque sulla Francia e l’Europa. Non era la prima volta che si trascinavano scrittori e giornalisti alla sbarra nella Parigi dei Lumi. Il primo processo alla libertà di espressione sull’islam, a Parigi, venne celebrato nel 2002. E’ l’affaire Michel Houellebecq, l’autore del romanzo “Piattaforma”. Nelle stesse ore in cui i giudici assolvevano lo scrittore, all’Eliseo il presidente Jacques Chirac premiava Dalil Boubakeur con l’Ordine nazionale al merito per lo spirito “di dialogo, di tolleranza e di pace”. Boubakeur è il rettore della grande moschea di Parigi, l’uomo che con più convinzione aveva denunciato Houellebecq, con queste parole pronunciate in aula: “L’islam è stato insultato in modo indescrivibile e nella totale ignoranza di ciò che è. La libertà di espressione ha dei limiti. Credo che la mia comunità sia stata umiliata, e offesa la mia religione. Esigo giustizia”. Kamel Kabtane, rettore della Moschea di Lione, che figurava tra i querelanti, disse che le parole di Houellebecq erano sulla linea degli anni 1936-1939. Un protonazista, dunque.

Dalla parte di Houellebecq si fecero avanti alcune mosche bianche, irregolari. Michel Braudeau, caporedattore della Nouvelle revue française, in aula rivendicò “la liberté de l’écrivain, sa fonction critique dans la société”, ribadendo quanto fosse importante per l’homme de lettres che la libertà di espressione non fosse mai messa in discussione. Lo scrittore Dominique Noguez, ateo anch’egli, come Braudeau, difese a sua volta Houellebecq con brani di Clémenceau sulla libertà di pensiero. Noguez non mancava, infine, di manifestare il proprio sbigottimento vedendo che proprio la Lega dei diritti dell’uomo si era costituita parte civile contro Houellebecq, a fianco delle moschee e della Lega islamica mondiale, ritenendo paradossale che un’associazione nata per difendere i diritti dell’uomo si schierasse a fianco di chi puntava a reprimere la libera manifestazione del pensiero.

Come quarto testimone depose Fernando Arrabal, agnostico, già arrestato per blasfemia nel 1967 da un tribunale della Spagna franchista, per espressioni irriverenti nei riguardi della patria e della religione. “Che gioia essere testimone in un processo per reati di opinione”, disse Arrabal in aula a Parigi. “Saragozza, Valladolid, Santander…” il drammaturgo elenca improvvisamente una serie di città spagnole. “Questa è la lista delle carceri in cui sono stato per aver fatto la stessa cosa di Houellebecq. Nel 1967, ho avuto l’onore di essere difeso da Elias Canetti, Octavio Paz e Samuel Beckett”.

La sentenza di assoluzione di Houellebecq venne pronunciata il 22 ottobre 2002 e rappresenta una grande vittoria per la laicità e la libertà di espressione. Houellebecq veniva assolto, ma le porte del tribunale si stavano già aprendo per un’altra scrittrice: Oriana Fallaci. “La donna che diffama l’islam”, aveva scritto il quotidiano della gauche Libération. “La Bin Laden della scrittura”, disse con calma, quasi sommessamente l’avvocato della Federazione internazionale dei diritti umani, Patrick Baudouin.

Quando Oriana Fallaci è morta, nel settembre del 2006, era ancora imputata al tribunale di Bergamo. Era la prima volta che un giudice aveva disposto un processo per vilipendio della religione islamica. Ma non sarebbe stata l’ultima.

Processato e sotto scorta, il direttore di Charlie Hebdo Stéphane Charbonnier venne vilipeso anche da morto. In un commento agghiacciante a poche ore dal massacro dei giornalisti di Charlie Hebdo, Tony Barber, direttore dell’edizione europea del Financial Times, accusò il settimanale satirico di “deridere, stuzzicare e punzecchiare i musulmani da troppo tempo”. “Coglioni” e “masochisti”: così l’eurodeputato Verde ed ex leader del ’68, Daniel Cohn-Bendit, aveva invece definito i responsabili della rivista Charlie Hebdo. “Qualsiasi integralista è un coglione, sia che si tratti di integralismo cristiano, ebraico, laico o mussulmano”. Ma per Cohn-Bendit, quelli di Charlie Hebdo erano anche “masochisti. Si vede che amano farsi del male”. Senza contare la volta in cui alcuni noti rapper francesi, tra cui Akhenaton, Disiz, Kool Shen e Nekfeu, invocarono un “falò contro quei cani di Charlie”: pochissimi solidarizzarono con Charbonnier e colleghi. Anzi, per la maggior parte se l’erano cercata.

Dopo le bombe incendiarie che colpirono Charlie Hebdo nel 2011, Bruce Crumley su Time Magazine attaccò il settimanale anziché i terroristi, parlando di “buffonate islamofobiche inutile e puerili”. Fu il filosofo francese André Glucksmann a dichiarare in merito a Charlie Hebdo contro “gli atei che muoiono di paura, pronti a piegarsi davanti al ricatto”. Furono i più a cedere al ricatto.

I proprietari di France Soir, senza aspettare di ricevere una sola minaccia, licenziarono il direttore del giornale per aver riprodotto le vignette come gesto di solidarietà con i colleghi danesi. Il giornale che aveva pubblicato le vignette satiriche su Maometto poi uscì in prima pagina con il titolo “Voltaire aiutaci!”.

Copie già in stampa, dopo aver licenziato il direttore, Jacques Lefranc, l’editore, l’uomo d’affari francoegiziano Raymond Lakah, ha dichiarato: “L’ho fatto in segno di forte rispetto per la fede e le convinzioni intime di ciascun individuo. Presentiamo le nostre scuse alla comunità mussulmana e a tutte le persone che sono state scioccate da questa pubblicazione”. In un commento intitolato “Risposta ad alcune domande”, France Soir scriveva infine: “Si può immaginare una società dove si sommino i veti di diversi culti? Che cosa resterebbe della libertà di pensare, parlare, persino muoversi? Quelle società le conosciamo bene: oggi l’Iran dei mullah, ieri la Francia dell’Inquisizione”.

Attorno a Charlie Hebdo, destra e sinistra fecero a gara per prendere le distanze. L’allora ministro Rachida Dati disse che Charlie Hebdo aveva cercato “una trovata di marketing” che rischiava di arrecare “danno” ai francesi. Facebook fece sparire subito le caricature di Charlie Hebdo. E altrettanto fece Le Point perfino quando ne pubblicò una per criticarla. Lo stesso ha fatto l’Associated Press, che ha censurato le vignette esposte dalle migliaia di francesi scesi in piazza. Motivo? Erano “deliberatamente provocatorie”. E pazienza se fino a ieri la stessa agenzia non aveva mai ritenuto provocatoria l’immagine del Cristo di piscio di Andres Serrano.

In Italia, la Repubblica ha riempito le pagine di commenti in difesa della libertà, intervistando il vignettista danese che vive sotto scorta, ma sul più letto giornale d’Italia non si è trovata una sola vignetta di Charlie Hebdo sull’islam. C’è quella contro gli inglesi, l’Obelix drogato, quella sulla crisi finanziaria, quella su Ratzinger che amoreggia con una guardia svizzera, ma nemmeno una su Maometto, neppure delle più lievi. Nemmeno il presidente Barack Obama intervenne a difesa della libertà di parola, come invece avrebbe fatto due anni dopo per bacchettare la Sony, che aveva chinato la testa dinanzi alle proteste del dittatore della Corea del Nord e ritirato un film satirico su di lui.

Zuckerberg, Obama e tutti gli altri hanno fatto quello che Stéphane Charbonnier, il direttore di Hebdo ucciso dai terroristi insieme ai suoi redattori, si era rifiutato di fare: arrendersi ai nemici della libertà di parola. Per non parlare dell’ex presidente Jacques Chirac, che già nel 2006 condannò le “provocazioni di Charlie”: “La libertà d’espressione deve esercitarsi in uno spirito di responsabilità”. Ma per chi non lo ricordasse, è lo stesso Chirac che all’epoca del caso Rushdie espresse solidarietà con chi aizzò le masse islamiche (Khomeini d’altronde aveva trovato riparo a Parigi, adulato dagli intellettuali della sinistra francese, compreso il socialista Lionel Jospin), e non con lo sventurato scrittore.

E si prosegue con l’Osservatore Romano, che parlò, sempre a proposito di Charlie Hebdo, di “discutibile iniziativa che minaccia di gettare benzina sul fuoco”, fino all’Onu, che definì i giornalisti di Charlie “stupidi e irresponsabili “, o la Casa Bianca, che per bocca del portavoce di Obama annunciò che per loro le vignette su Maometto “sono offensive per molte persone, e incendiarie”. Le caricature di Charlie Hebdo “susciteranno la repulsione di molti fedeli mussulmani”, disse il cardinale di Parigi André Vingt-Trois, presidente dell’episcopato francese. Intervistato dalla radio Europe 1, il prelato ha anche affermato: “Non voglio vederle. Susciteranno la repulsione di molti credenti mussulmani che si sentiranno feriti nella loro fede e che cercheranno il modo per esprimere il loro malcontento. Non si può dire qualsiasi cosa protetti dalla libertà di espressione”.
In un’intervista pubblicata sul Monde, Jean-François Copé, all’epoca Segretario Generale dell’Ump e deputato del Parlamento francese, difese l’allora primo ministro, Jean-Marc Ayrault, che aveva invocato da parte di Charlie Hebdo un “comportamento responsabile”.

Il giornale cattolico La Croix scrisse che “la responsabilità editoriale richiede una valutazione delle conseguenze di ciò che si pubblica”. Laurent Fabius fece sapere che con la pubblicazione delle vignette di Charlie Hebdo “gettano benzina sul fuoco”. Olivier Besancenot critica il giornale satirico e lo accusa di “imbecillità reazionaria”. E anche Rama Yade, ex Segretario di Stato per gli Affari Esteri e per i diritti umani, attacca Charlie Hebdo, mentre l’ex ministro dell’Interno Brice Hortefeux fa riferimento a “una provocazione inutile”.

Il Quai d’Orsay per bocca del ministro degli Esteri Philippe Douste-Blazy si dimostrò abbastanza arrendevole: “La Francia non rimette certo in questione la libertà di stampa, ma che si eserciti in uno spirito di tolleranza”. E l’ambasciata francese ad Algeri, che si è affidata a un comunicato formale, va persino oltre: “Le caricature ci sembrano choccanti… capiamo la riprovazione e l’incomprensione dei mussulmani”. Il presidente del Partito della Sinistra, Jean-Luc Mélenchon, disse che Charlie Hebdo “offende le credenze di alcuni dei nostri concittadini mussulmani”.

Il più osceno fu Malek Chebel che scrisse: “Charlie Hebdo saprà ancora approfittare di una crisi per ricostruire la propria salute finanziaria”. Come a dire, il settimanale usava la libertà di espressione per drenare soldi. Charlie Hebdo uscì poi con un numero speciale definito “responsabile”, sulla cui prima pagina ci sono solo la testata e un riquadro bianco.

Il giornale rispose così ai numerosi “appelli alla responsabilità” giunti nei giorni scorsi dal governo e da numerosi esponenti del mondo politico. “Al fine di soddisfare Laurent Fabius, Brice Hortefeux e Tariq Ramadan (rispettivamente ministro degli Esteri, ex ministro dell’Interno e intellettuale islamico, ndr), Charlie Hebdo non getterà più ‘benzina sul fuoco’ e non sarà mai più ‘irresponsabile’“, recitava un editoriale dai toni ironici, a pagina tre. Un giornale interamente di riquadri bianchi, firmati dai più noti disegnatori che collaborano con il settimanale, e da colonne bianche sormontate da titoli di articoli. Unica eccezione, la doppia pagina centrale, dedicata al “dibattito della settimana “: “Bisognava mostrare il seno della regina Kate?”. Anche in quella ironia, ci avevano visto giusto.

Charlie Hebdo era rimasta, dunque, l’ultima pubblicazione in Europa a non cedere sulla libertà di espressione. E infatti, anche il Maometto piangente che ammette “Je suis Charlie” non apparve sul New York Times e nemmeno venne trasmesso dall’americana Cnn. Quest’ultima ha spiegato di nutrire “preoccupazioni per la sicurezza dei lavoratori e per la sensibilità del suo pubblico mussulmano”. La Bbc annunciò che avrebbe parlato della copertina senza mostrarla, una scelta condivisa dall’Independent e dal Telegraph. Quest’ultimo ha tagliato in modo da espungere la caricatura del Profeta dell’islam.

Anche il sito della radio pubblica americana, Npr, ha deciso di aggirare il problema, tagliando l’immagine. La stessa scelta è stata fatta da altri quotidiani in Canada e in Australia. Hanno sfidato invece l’opinione pubblica islamica il Wall Street Journal, il Daily Mail, Usa Today e Buzz- Feed. Il quotidiano progressista britannico The Guardian ha pubblicato il Maometto in lacrime con l’avvertenza che la cosa avrebbe potuto “ferire la sensibilità dei lettori”.

I grandi network americani (Cbs, Nbc, Abc) hanno evitato di mostrare le vignette sul Profeta. Facebook ha bloccato il sito francese di Le Point per impedire l’accesso alle strisce satiriche. Sul sito del britannico The Telegraph è apparsa la foto di una ragazza che leggeva una copia della Vita di Maometto coi disegni di Charlie Hebdo, ma la copertina era oscurata. Lo stessa nel materiale fotografico fornito dall’agenzia Associated Press, che ha censurato le vignette esposte dalle migliaia di francesi scesi in piazza. Motivo? Erano “deliberatamente provocatorie”. Fra le tv, il gruppo Nbc ha dato precise direttive a Msnbc e Cnbc: non mostrare titoli o vignette che possono essere “insensibili” od “offensivi”. La tv britannica Sky News ha censurato la vignetta su Maometto che piange.

La vigliaccheria della cultura popolare americana cominciò subito a palesarsi durante la crisi delle vignette danesi nel 2006. I soli quotidiani a ribellarsi all’autocensura, o alla capitolazione per malcelato terrore, furono Weekly Standard, conservatore, e Free Inquiry, ateo, due media con una tiratura complessiva assai limitata. La catena di librerie Borders ha subito fatto sparire Free Inquiry dai suoi scaffali.

Sei mesi dopo la strage, Charlie Hebdo ha annunciato che non avrebbe più pubblicato vignette su Maometto, per bocca del nuovo direttore della rivista Laurent Sourisseau, il quale ha spiegato che le vignette erano un tentativo “di difendere i principi della libertà di espressione e non una critica all’islam. Adesso però lo scopo è stato raggiunto: i giornalisti hanno difeso il loro diritto alla satira”, ha detto Laurent Sourisseau. Ma era il terrore che aveva vinto.

Quando i fratelli Kouachi uscirono per strada, dopo aver abbattuto otto fra giornalisti e vignettisti, esultarono: “Abbiamo vendicato Maometto. Abbiamo ucciso Charlie Hebdo”. Poi, nelle stesse strade di Parigi, qualche ora dopo ci fu la grande marcia di solidarietà, con i capi di Stato e di governo che camminavano in silenzio, a braccetto, dimenticando quello che avevano detto e scritto su Charlie Hebdo. Sapevano che nessuno, dopo quella strage, si sarebbe mai più permesso di criticare l’islam.

C’erano sette vignettisti che avevano reso grande il settimanale Charlie Hebdo. Cinque sono stati uccisi il 7 gennaio 2015: Charb, Cabu, Honoré, Tignous e Wolinski. Gli altri due, Luz e Pelloux, si sono dimessi dopo la strage. Fra omicidi e abbandoni, si è conclusa così la parabola dell’ultimo giornale in Europa a sfidare l’intimidazione violenta e l’autocensura sulla libertà di espressione.

“Siamo stati fatti a pezzi”, ha dichiarato Corinne Rey, la vignettista di Charlie che si firma come “Coco”. Laurent Joffrin, direttore del quotidiano Libération, ha scritto che “ogni islamista al mondo sogna di uccidere uno di quei ragazzi. E così devono vivere nei loro appartamenti con le loro tende chiuse perché hanno paura dei cecchini. Vivono al buio. E questo è probabilmente destinato a durare per il resto della loro vita. Ciò dimostra che chi continua è particolarmente coraggioso”.

Oggi i giornalisti di Charlie Hebdo lavorano in una nuova redazione con vetri antiproiettile, una “panic room” in cui rifugiarsi in caso di attentato e un labirinto di porte blindate. Misure di sicurezza costate un milione e mezzo di euro. Senza considerare la protezione, notte e giorno, della polizia. L’indirizzo, nel XIII Arrondissement, non è di dominio pubblico. E il settimanale investirà un altro mezzo milione di euro all’anno per altre guardie armate. Il 13 novembre, mentre un commando di terroristi era impegnato a uccidere centotrenta francesi, i giornalisti di Charlie venivano invitati dalla polizia a non presentarsi quel giorno nella nuova redazione. “Troppo pericoloso”.

Nel gennaio 2015 la Francia era tutta “Charlie”. Un anno dopo, quasi nessuno si dichiara più tale. Lo ha ben detto la femminista e filosofa Élisabeth Badinter, moglie dell’ex ministro della Giustizia, nel documentario Je suis Charlie: “Se i nostri colleghi nel dibattito pubblico non condividono una parte del rischio, allora i barbari avranno vinto”. Charlie Hebdo oggi è stanco, forse non tornerà più. E chi può dargli torto? Ma gli altri?

Il senso di questa catastrofe sta tutto nella copertina di Charlie Hebdo dopo la strage del 13 novembre, quando hanno perso la vita 130 francesi. Lo sfondo è rosso e un ragazzo balla mentre beve champagne che zampilla dai fori dei proiettili su tutto il corpo. La scritta recita: “Loro hanno le armi. Si fottano, noi abbiamo lo champagne”.
Addio, Charb. Addio, “Charlie”.
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Re: Lebertà contro ła prexon dei dogmi e de l'idołatria

Messaggioda Berto » mar gen 05, 2016 10:26 am

Co ghè stà ła straxe de Charlie Hebdo, anca de i falbi pareoti parasidi e połedeganti veneti łi ghe ga da raxon a i teroristi xlameghi.
"Skersa co i fanti ma no co i santi" łi ga dito, come se Maometo, el terorista sasin xlamego el fuse stà on santo.
Sti veneti rełijoxi łi xe tuti catołego romani, dal bon o par finta e par entarese, e par esar coerenti łi dovarà metar na statuta de Maometo Santo ente tute łe cexe catołeghe del Veneto e del Mondo.


Quinta colonna, condivide ragioni strage Charlie Hebdo: denunciato musulmano a Centocelle
17 novembre 2015
http://www.municipioroma.it/quinta-colo ... centocelle

Nella trasmissione Quinta colonna, in onda ieri sera su Rete4, aveva rilasciato dichiarazioni nelle quali aveva condiviso le ragioni della strage dei giornalisti della testata Charlie Hebdo. L’uomo, un giovane cittadino italiano, è stato rintracciato e arrestato stamattina per droga presso la moschea di Centocelle. Nel corso della trasmissione Quinta colonna, condotta dal giornalista Paolo Del Debbio, l’arrestato aveva anche accusato i francesi e gli americani della strage del 13 novembre scorso a Parigi. Stamattina nel corso di un blitz della Digos della questura di Roma è stata perquisita l’abitazione del musulmano, dove sono stati trovati sostanza stupefacente e alcuni bilancini di precisione. La polizia ha anche sequestrato alcuni documenti in lingua araba che adesso sono al vaglio degli inquirenti. Oltre all’arresto per droga, il musulmano è stato denunciato per propaganda di idee fondate sulla discriminazione e l’odio razziale, etnico e religioso. Nel corso della stessa puntata di Quinta Colonna, una giornalista, Nausica Della Valle, è stata costretta a sospendere il collegamento da Centocelle a causa dell’irruzione di alcuni attivisti dei centri sociali.
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Re: Lebertà contro ła prexon dei dogmi e de l'idołatria

Messaggioda Berto » mar gen 05, 2016 10:57 am

Parigi, vescovi e musulmani francesi contro la nuova copertina di Charlie Hebdo

A un anno dalla strage, il settimanale ricorda il tragico evento con l'immagine di un dio con un Kalashnikov in spalla. La Chiesa: "La Francia non ha bisogno di polemiche". Protesta anche la comunità islamica: "Colpisce tutti i credenti delle diverse religioni"
04 gennaio 2016


http://www.repubblica.it/esteri/2016/01 ... -130618725

PARIGI - A un anno dal sanguinoso attacco alla sua sede parigina, il settimanale Charlie Hebdo torna a far discutere con una copertina che rappresenta un dio con un Kalashnikov sulle spalle e che ha già suscitato la reazione della Chiesa.

La protesta dei vescovi. "La Conferenza episcopale francese non commenta chi cerca solo di provocare. È il genere di polemiche di cui la Francia ha bisogno?", hanno scritto i vescovi francesi in un tweet.

La protesta dei musulmani. Il presidente del Consiglio francese del culto musulmano, Anouar Kbibech, si dice "ferito" dalla copertina del numero speciale di Charlie Hebdo a un anno dall'attacco, che rappresenta Dio con un Kalashnikov in spalla e l'abito insanguinato. "Colpisce tutti i credenti delle diverse religioni", ha detto a Le Parisien. "Abbiamo bisogno di segni di distensione. Chiaramente questa caricatura non aiuta, in un momento in cui abbiamo bisogno di ritrovarci fianco a fianco - spiega -. Bisogna rispettare la libertà di espressione dei giornalisti ma anche quella dei credenti".

"Non mi riconosco in questa immagine di Dio contraria ai valori veicolati dalle religioni monoteiste. Dio è per me simbolo di misericordia", aggiunge, bollando poi il disegno come "mediocre sul piano artistico".

L'immagine che fa discutere. Nella copertina, sotto il titolo 'Un anno dopo - L'assassino ancora in fuga', si vede l'immagine di un Dio barbuto, con un Kalashnikov in spalla e le tracce di sangue sulla tunica. È un modo per prendersi gioco degli attentatori che uccisero dodici persone nella redazione della rivista satirica, i quali hanno ucciso in nome di Dio. "Il nostro giornale è vivo, ma gli assassini sono ancora in libertà", hanno scritto i redattori del giornale ricordando i tragici fatti del 7 gennaio 2015 e sottolineando quanto il pericolo della violenza fondamentalista sia più che mai vivo.

Il numero speciale, la cui copertina è in bianco e nero con la sola eccezione del rosso sangue, avrà una tiratura di un milione di copie.

Intanto fonti dell'Eliseo hanno annunciato che domani il presidente francese François Hollande parteciperà ad una cerimonia per svelare una targa in ricordo delle vittime della strage alla redazione del settimanale satirico.


Sto ki lè el Dio dei teroristi e de łe rełixon idołatre!
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Lebertà contro ła prexon dei dogmi e de l'idołatria

Messaggioda Berto » mar gen 05, 2016 11:04 am

Da Charlie Hebdo al Bataclan: l’anno del terrore. E nell’Europa ferita si risveglia l’autoritarismo

Da Parigi (7 gennaio) a Parigi (13 novembre), passando per l'attacco al Museo del Bardo a Tunisi, la strage di Ankara e l'esplosione dell'aereo russo sul Sinai: queste le tappe del fenomeno "circolare" che ha sconvolto il Vecchio Continente. Vittima la società dei diritti e delle libertà che ha accettato uno Stato sempre più intrusivo e che in molte occasioni non ha saputo ostacolare paura e populismo
di Leonardo Coen | 5 gennaio 2016

http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/01 ... mo/2349367

Un Dio monoteista armato di kalashnikov, la veste candida macchiata di sangue, corre a gambe levate, la mano destra serrata nel pugno, lanciandoci uno sguardo allucinato e gonfio di rabbia. Lo sfondo è nero, come lo è in Star Wars la forza oscura del Male. E’ il terribile e millenaristico disegno di Riss che campeggia sulla copertina del numero speciale di Charlie Hebdo di mercoledì 6 gennaio, affiancato da un titolo che è un grido atroce, urlato a tutti noi perché non dimenticassimo ciò che è stato e che continua ad essere: “L’assassin court toujours”, l’assassino corre sempre. Esce in edicola giusto un anno dopo il massacro del 7 gennaio 2015, quando i fratelli Said e Chérif Kouachi irruppero nella redazione del settimanale satirico e la decimarono: 12 morti, tra i quali il direttore Charb e i disegnatori Wolinski, Cabu, Tignous, Honoré. Fu, quel giorno, l’inizio di un tragico e maledetto 2015, contrassegnato da mattanze, stragi, attentati in un crescendo drammatico e convulso contro l’Occidente infedele e miscredente, debosciato e corrotto: la stagione della paura, l’era della minaccia incombente, il tempo della sicurezza che giustifica ogni emergenza, sino al sacrificio delle nostre libertà, così faticosamente conquistate.


Da Parigi a Parigi, dal mercoledì 7 gennaio al venerdì 13 novembre, così si potrebbe definire questo itinerario circolare del terrorismo islamico che ha sconvolto l’apatia della nostra società, risvegliando i fantasmi assopiti dell’autoritarismo e del “pugno di ferro”. In mezzo, abbiamo gli spari del 14 febbraio contro il disegnatore svedese Lars Vilks, scampato ad un attacco mentre teneva una conferenza a Copenhagen. Colpevole d’aver realizzato una serie di disegni in cui Maometto era rappresentato con le fattezze di un cane, nel 2007. Costretto a vivere in una località segreta. Costretto a trasformare la casa in un rifugio blindato. Costretto a dormire con un’ascia sotto il cuscino. Costretto a convivere con le minacce da troppi anni: “Non ho mai avuto interesse a offendere il Profeta. L’ho fatto per ribadire che l’arte deve essere libera”.

La libertà d’espressione mobilitò due milioni di parigini che scesero in piazza domenica 11 gennaio uniti in nome di “Je suis Charlie”. Nessuno, quella domenica, cercò di strumentalizzare politicamente la “marcia repubblicana” in nome della tolleranza. In nome della democrazia e della libertà. Guai, ci dicemmo allora e continuiamo a ripeterlo oggi, se ci arrendessimo. Se diventassimo ostaggi della reazione. Della demagogia. Se parlare di libertà di parola diventasse troppo pericoloso. Se prevalesse l’autocensura. La paura cioè di dire. Di pensare. Di cambiare la nostra idea di democrazia. Non subiamo il ricatto delle sventagliate di mitra, delle decapitazioni. Stiamo in guardia, comunque. Perché il fanatismo è veleno insidioso. Il linguaggio del fanatismo è anticamera della tirannia. Gli estremismi che cercano di riscrivere la Storia coi dogmi del terrore. Sostenuto con armi moderne.

Poi, mentre in Francia scoppiava il caso di Michel Houellebecq, autore dell’inquietante e – secondo l’autore – profetico romanzo “Sottomissione” in cui immagina il suo Paese in un futuro indeterminato ma non molto lontano (2020?) guidato da un governo islamico, con un nuovo ordine sociale che prevede poligamia e donne che restano a casa ad occuparsi di mariti e figli poiché l’Islam ha prevalso sulla civiltà dell’Illuminismo, ecco che puntuale arrivano eccidi che hanno per bersaglio i simboli della cultura. Come il Museo del Bardo di Tunisi. E’ un altro mercoledì, quello del 18 marzo. Muoiono 24 persone, tra cui 4 italiani. Il presidente tunisino Beji Caid Essbsi annuncia che domenica 29 marzo si svolgerà una “marcia internazionale”. Parola d’ordine: “Le monde est Bardo”. Salvini, in Italia, chiede la sospensione di Schengen. Un marocchino viene arrestato in Italia, su indicazioni della procura di Tunisi. Resterà sette mesi in galera, prima di essere scarcerato a dicembre, dopo che la magistratura italiana ha verificato la sua estraneità. Era stato espulso il 17 febbario, ma dopo l’attentato al Bardo era rientrato illegalmente.

La sua vicenda è sintomatica del clima che giorno dopo giorno si instaura nel Vecchio Continente, flagellato dalla crisi economica, dal default greco, dai flussi migratori in cui si infilano scaltramente i “foreign fighters” del Califfato. Si comincia a demonizzare “il nemico alle nostre porte”. I musulmani “quinta colonna” del terrorismo. La Bosnia, ricettacolo dell’integralismo e del salafismo. I ceceni. Putin scende in campo, affianca Damasco, il Medio Oriente diventa guerra asimmetrica tra Grandi Potenze e Potenze Regionali come la Turchia. L’instabilità mediorientale rafforza le destre xenofobe e alimenta il razzismo. In una carta geopolitica dell’Europa, l’Italia è segnata tra i Paesi più razzisti, forse il più razzista di tutti. Intanto, abbiamo uno sventato attentato su un convoglio del Tgv Thalis da Amsterdam a Parigi. Il terrorista viene neutralizzato dai passeggeri. E’ però la dimostrazione di un nuovo e destabilizzante pericolo: l’esistenza cioè di “lupi solitari” della Jihad che si fanno branco. Come in Belgio. Come a Molenbeek, dove le piste del terrorismo siriano ed iracheno s’incrociano e si dipanano in Francia, in Germania, in Olanda. Lo si è visto subito dopo i massacri di Charlie Hebdo e dell’ipermercato ebraico di Parigi. In Italia, si presume, siano circa un migliaio i jihadisti potenziali, secondo le valutazioni del Viminale. Per rassicurare l’opinione pubblica, si dice che da almeno cinque anni sono controllati e monitorati dall’antiterrorismo e dall’intelligence.

Gli assassini in nome di Allah massacrano intere comunità in Africa, uccidono gli studenti in un’università del Kenya, colpiscono in India, in Indonesia, in Birmania. Vogliono dimostrare il loro potere globale. Il 10 ottobre, poco prima di una grande manifestazione pacifista ad Ankara organizzata dal partito curdo Hdp (entrato in Parlamento per la prima volta a giugno), due kamikaze si fanno esplodere: 97 morti, duecento feriti. E’ la vigilia delle elezioni presidenziali. Attacco terroristico, si premura subito di denunciare il governo. Di certo, l’attentato è frutto dell’aggrovigliata situazione siriana ed irachena. Il Califfato incassa i crediti. Il 31 ottobre un aereo russo zeppo di turisti reduci dalle vacanze nel Mar Rosso, esplode in aria: 224 morti. Putin nega, all’inizio, che si tratti di un attentato. Le prove dicono il contrario. Il presidente russo è costretto ad ammettere che una bomba ha distrutto il velivolo. L’Isis egiziana rivendica. Più tardi, svela pure come ha fatto: celando l’esplosivo dentro una lattina.

Le stragi di Parigi del venerdì 13 novembre sono squassanti, politicamente, socialmente, culturalmente. Si passa dall’essere stati “Je suis Charlie” e si diventa “Je suis Paris”. Undici mesi dopo l’attentato alla libertà d’espressione c’è l’attacco ai luoghi dove la gente ascolta musica rock, dove cena, dove va a vedere una partita di calcio. Si fa strada, nella coscienza collettiva, che ormai si è in guerra. Contro la “barbarie”. Contro l’abiezione di “esseri che sono motivati dall’istinto della morte”. Contro la soldatesca di Daech (al Califfato non piace essere definito così perché nella storia dell’Islam, Daech evoca la sconfitta) e le sue metastasi nel continente africano ed asiatico. La mobilitazione, stavolta, è felpata. Si vieta ogni manifestazione, ma la gente va a rendere omaggio in piazza della Repubblica, ed è uno sfilare costante, ininterrotto, popolare, non populista. Di lì a poco Parigi ospita la grande conferenza sul clima e i suoi cambiamenti, intanto però i primi cambiamenti sono quelli che regolano lo scorrere della quotidianità. Aumentano controlli, sorveglianza del territorio e delle comunicazioni. Con l’alibi dello “stato d’urgenza”, iniziano le prove di uno Stato più intrusivo, dove certi diritti perdono i loro diritti.

Lo Stato di diritto non può essere uno stato di debolezza, opinano i giuristi, cosa valgono libertà, eguaglianza e fratellanza senza sicurezza, si domanda il filosofo Michel Onfray che tanto piace a Marine Le Pen. L’identitarismo islamico diventa terreno di scontri politici: in Francia incombono le elezioni regionali, il Fronte Nazionale è in testa ai sondaggi, terrorismo e migranti sono cavalli di battaglia, per tamponare l’avanzata dell’estrema destra i partiti che le si oppongono adottano quasi gli stessi slogan. Di nuovo, torniamo all’origine. Gli attentati in nome di Allah hanno scatenato una guerra diffusa, a più livelli: non solo militari, non solo polizieschi, ma soprattutto verbali. La parola al tempo della Jihad è letale. La parola è arma potentissima, come dimostrano le farneticanti rivendicazioni in nome di libri sacri che possono essere abilmente manipolati. La parola uccide, i segni lasciano segni. L’offesa delle parole, dal fronte del fanatismo religioso, viene lavato con il sangue dell’altro.

Nel numero speciale di Charlie Hebdo, oltre ai disegni dei vignettisti uccisi, possiamo leggere interventi dello stesso ministro della Cultura, Fleur Pellerin; delle attrici Isabelle Adjani, Juliette Binoche, Charlotte Gainsbourg. Di intellettuali come Elisabeth Badinter, la bangladese Taslima Nasreen, l’americano Russel Banks. Il musicista Ibrahim Maalouf. L’editoriale di Riss, che rimase gravemente ferito il 7 gennaio, è corrosivo nella strenua difesa della laicità. Denuncia i “fanatici abbrutiti dal Corano”, e “i culi-benedetti venuti da altre religioni” che avevano auspicato la morte del giornale che aveva “osato ridere del religioso”. Nel finale, l’invettiva: “E‘ l’eternità che ci è caduta addosso quel mercoledì 7 gennaio. Non sono tuttavia due piccoli coglioni incappucciati che rovineranno il lavoro delle nostre vite. Non solo loro che vedranno crepare Charlie. E‘ Charlie che li vedrà crepare”.
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Re: Lebertà contro ła prexon dei dogmi e de l'idołatria

Messaggioda Berto » mar gen 05, 2016 11:13 am

Anca sti kì, catołeghi de l'Avenir, łi scanvia l'idoło dei i teroristi e de łe edeołoje eidołatre, ke lè coeło raprexentà ente ła vegneta, par Dio el Creador de l'ogniverso.


Charlie Hebdo: choc un anno dopo
Alessandro Zaccuri
4 gennaio 2016

http://www.avvenire.it/Commenti/Pagine/ ... -dopo.aspx

Un assassino in fuga per il mondo: non è Salah Abdeslam, l’ancora imprendibile responsabile degli attentati parigini del 13 novembre scorso, ma Dio in persona, con tanto di barba bianca, fucile in spalla e mani sporche di sangue.

È la copertina del numero speciale che il settimanale francese “Charlie Hebdo” manderà in edicola il 6 gennaio, a un anno dalla strage che costò la vita a dodici persone. Disegnata dal direttore Riss (rimasto a sua volta ferito nell’attacco del 7 gennaio 2015), la vignetta dovrebbe confermare il carattere spregiudicato del giornale, che si fa un vanto di non arretrare davanti a nulla, tanto meno davanti alla blasfemia. Che questa sia la posizione di “Charlie Hebdo” è noto da tempo.

A stupire è semmai la reiterata rozzezza di una semplificazione che non prevede distinzione alcuna tra fede e fondamentalismo, cadendo a sua volta in un’intransigenza di segno opposto. In questione non c’è soltanto la sensibilità dei credenti, ma il rispetto dovuto a tutte le vittime, comprese quelle che vengono sacrificate a motivo della loro religione. E poi – libertà di espressione per libertà di espressione – non è che quel disegno faccia tanto ridere.
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Re: Lebertà contro ła prexon dei dogmi e de l'idołatria

Messaggioda Berto » mar gen 05, 2016 1:32 pm

LIBERA SATIRA IN LIBERO STATO

http://www.torinolaica.it/news-dalla-co ... stato.html

A seguito dei tragici fatti di Parigi relativi alla strage dei giornalisti di Charlie Hebdo e delle altre vittime dei terroristi fondamentalisti islamici, riteniamo utile pubblicare il testo di una relazione tenuta da Tullio Monti nel 2010 sul tema della satira religiosa che ci pare di grande attualità.
Passato il clamore degli eventi e spentesi le luci dei riflettori dei media è questo il nostro contributo alla riflessione su quanto avvenuto ed è questo il nostro modo per dire

???
CONTRO IL TERRORISMO DI OGNI MATRICE POLITICO-RELIGIOSA
CONTRO TUTTI I FONDAMENTALISMI, GLI INTEGRALISMI E I CLERICALISMI RELIGIOSI
CONTRO LO “SCONTRO DI CIVILTA’” E LE GUERRE DI RELIGIONE
CONTRO IL RAZZISMO, LA XENOFOBIA, L’ANTISEMITISMO E L’ISLAMOFOBIA (???)
CONTRO TUTTE LE CENSURE POLITICHE E RELIGIOSE
PER LA PACIFICA CONVIVENZA FRA I POPOLI E FRA GLI INDIVIDUI DELLE PIU' DIVERSE CONCEZIONI DEL MONDO
PER LA LIBERTA’ DI ESPRESSIONE E DI SATIRA
PER L’ABOLIZIONE IN TUTTO IL MONDO DEI REATI DI BLASFEMIA
PER LA LIBERTA’ DI COSCIENZA, DI PENSIERO E DI RELIGIONE
PER LA LAICITA’ DELLE ISTITUZIONI PUBBLICHE, QUALE VALORE UNIVERSALE FONDATO SULLA SEPARAZIONE GIURIDICA FRA STATO E RELIGIONI E SULLA NEUTRALITA' DELLE ISTITUZIONI


LIBERA SATIRA IN LIBERO STATO
Relazione introduttiva di Tullio Monti al convegno del 29 maggio 2010
“Satira, fedi religiose e libertà di espressione nella società contemporanea”
in occasione dell’inaugurazione della Mostra storica
“Asini, muli, corvi e maiali: la satira in Italia tra Stato e religioni dal 1848 ai giorni nostri”
realizzata dalla Consulta Torinese per la Laicità delle Istituzioni
Definizione di satira

“La satira è la forma espressiva con la quale si mettono alla berlina i potenti. Ne enfatizza i difetti con sarcasmo, ironia, trasgressione e paradosso. Esagera i fatti, li racconta con toni surreali e usa metafore dissacranti (…) Paradossale e dissacratorio è il linguaggio. A volte parte da fatti di cronaca e li rende inverosimili o surreali. Fa ridere, ma può essere un pugno allo stomaco. Dal punto di vista del diritto, la satira non è cronaca. E non è quindi strettamente vincolata alla verità. Ma dalla verità deve trarre spunto. È una forma estrema di critica che, non narrando ma esprimendo un giudizio, può avvalersi perfino di un lessico aspro o di un tratto di penna dissacrante senza trascendere in ingiurie gratuite (???). Rispetto alla critica, che è solo un’opinione, la satira ha in più valore artistico. Quell’arte che, fin dai tempi antichi, ha avuto il ruolo di ‘castigare ridendo mores’. E che additando alla pubblica opinione aspetti censurabili di una persona, raggiunge con il frizzo e la riflessione un risultato etico. Tentare di imbrigliarla e di definirne i limiti è come tentare di afferrare il vento con le mani. Per sua natura la satira non dovrebbe avere limiti.” (Luisa Pronzato su “Almanacco Guanda” 2009)

Cosa prevede la legge
“Nel nostro ordinamento, la satira è tutelata dalla Costituzione, con l’art. 21, coma forma espressiva e con gli artt. 9 e 33, per il pregio artistico che la contraddistingue.
La Costituzione, tuttavia, tutela, con l’art. 2, pure i beni che la satira può ledere: l’onore, la reputazione e l’immagine della ‘vittima’. La tutela di questi beni sarà possibile ricorrendo alla querela e al giudizio civile, tutelati da un’altra norma costituzionale, l’art. 24. Per il giudice si tratterà quindi, di bilanciare interessi contrapposti e di medesimo rango (cioè costituzionali). E di stabilire, volta per volta, se la satira ha rispettato i limiti, nel qual caso l’autore non sarà punito; o se li ha superati, nel qual caso l’autore sarà condannato a risarcire i danni causati (…). Entra in campo, in particolare, l’art. 51 del Codice Penale, secondo il quale chi commette reato, esercitando un diritto, non è punibile. E l’art. 21 della Costituzione conferisce a chi fa satira, appunto, il diritto di farlo. A porre limiti alla satira, quale che sia la sua forma espressiva – vignette, opere teatrali, film, monologhi – sono le sentenze che, occupandosi di casi particolari, dettano criteri generali. Così, per esempio, grande rilievo è conferito alla dimensione pubblica del personaggio oggetto della satira (…). La suscettibilità personale non può essere un metro di valutazione della condotta, perché è normale che la ‘vittima’ non gradisca. In particolare, come abbiamo visto, tanto più una persona è nota, tanto più i limiti della satira diventano ampi ed elastici.” (Luisa Pronzato su “Almanacco Guanda” 2009)

Satira e libertà di espressione
La libertà di espressione, di cui la satira costituisce la forma estrema, è il più sicuro termometro per misurare il grado di liberalismo di una società e per giudicare se questa può essere definita una “società aperta”, oppure no.
La storia della censura comincia in età classica e attraversa i secoli, segnando i regimi autoritari, ma anche le democrazie liberali.
Nell’antica democrazia ateniese Aristofane dovette fare i conti con la censura, così come i poeti della Roma antica (Lucilio, Orazio, Giovenale), che con le loro satire attaccavano vizi e costumi della società.
Nel Rinascimento la satira divenne un genere autonomo: in Italia con le “Satire” di Ludovico Ariosto, in Francia con “Gargantua e Pantagruel” di Francois Rabelais, mentre i teatranti della Commedia dell’Arte in tutta Europa consideravano la satira un valore di libertà.
Nella società contemporanea, oltre alla censura, sempre occhiuta, due sono i nemici insidiosi da cui la satira deve guardarsi: l’autocensura e il “politically correct”.
L’autocensura è figlia della “dittatura della paura”, che i poteri forti instaurano anche nelle società liberali; il politicamente corretto, che già impazza in ogni angolo delle nostre esistenze, adesso tenta di irrigimentare anche le nostre fantasie. Viviamo al cospetto di uno Stato, di una Morale, di una Chiesa, di una Pubblica Opinione con il dito perennemente alzato per ricordarci ciò che possiamo o non possiamo dire e fare.
Ma la satira, anche quella religiosa, è per definizione politicamente scorretta. Come ricordava Wodehouse, tutto quel che c’è di divertente nella vita, o è immorale, o è illegale, o fa ingrassare. Se la satira (e più in genere l’arte) è fantasia e sogno, almeno lì lasciateci sognare: libera satira in libero stato!
L’arte deve essere sempre libera, l’artista lo deve sapere, non deve avere vincoli per esprimere quello che sente, deve poter irridere anche il potere e i sentimenti religiosi; ma deve anche sapere che, con altrettanta libertà, chi non condivide la sua opera può criticarlo, anche duramente. A volte, i motivi che spingono l’artista a spingersi al limite della blasfemia, possono anche essere strumentali, quali la voglia di stupire a tutti i costi o il desiderio di facile visibilità; altre volte, per suscitare reazioni critiche che richiamino l’attenzione.
Il conflitto fra due principi egualmente encomiabili (ma spesso antagonisti e difficilmente conciliabili), ossia la libertà di espressione e il rispetto delle convinzioni religiose, è sempre in aguato. Spesso la risoluzione di tale conflitto è legato al buon gusto ed al valore artistico della satira, che tuttavia sono anch’essi concetti del tutto soggettivi e contestabili. Ma se davvero il potere politico o quello religioso dovessero avere la meglio, nell’esercitare le loro indebite pressioni sui media, o peggio ancora, se la stampa o gli artisti si autocensurassero, allora, malauguratamente, si potrebbe dire che avrebbero vinto i fanatici e gli intolleranti. Tuttavia, per fortuna, nel nostro paese, così come in tutto il mondo libero, esiste ancora una grande maggioranza di cittadini che ritiene che valga pur sempre la pena di discutere tutte le questioni sociali, compresa la libertà di stampa e di religione, anche se qualche estremista può prendere di mira, sia con la violenza verbale, che con quella delle armi, la libertà di espressione.
Occorre respingere la richiesta, proveniente da alcune religioni, di godere di uno “statuto” particolare e privilegiato, rispetto alle altre forme di manifestazione del pensiero; le religioni non possono e non devono costituire una “zona franca”, all’interno della quale la libertà di espressione non abbia libero accesso e le libertà civili non siano in vigore.
Voltaire, nel 1763 nel suo “Trattato sulla tolleranza”, consigliava, quale antidoto alle intolleranze, non la passione che acceca, ma l’ironia “che spegne tutti i roghi”.


Opinioni sulla satira
“La libertà di espressione ha fatto la grandezza dell’Europa a partire dal Rinascimento” (Andre Glucksmann)
“La satira ha una componente di moralismo e una componente di canzonatura” (Italo Calvino)
“Satira è un piangere antico”. “Esplosione, rovesciamento, irrisione. Satira è saper correre i cento metri sotto i nove secondi” (Gaio Fratini)
“Questo scatto fulmineo, questa emozione dolorosa e questo potere dissacrante hanno tuttavia un prezzo: la censura, appunto, che della satira certifica il valore al di là di qualunque conseguenza. E quindi al di là di pressioni, divieti, denunce, oscuramenti, addomesticamenti, soppressioni, emarginazioni, condanne, multe, anche galera, a volte. Tanto più è variegata la censura, quanto più ambigua la nozione di satira. E tuttavia è la minacciata punizione che forgia la creazione satirica e ne alza il livello e gli da spessore (…) Le difficoltà frapposte dai censori (…) non solo aguzzano l’ingegno, ma lo purificano anche, rendendo la libertà più sacra della paura.” (Filippo Ceccarelli)
“Rivolgiamo un appello a tutti i giornali italiani perché solidarizzino con quelli danese e francese. Crediamo che questo sia un modo efficace per dimostrare ai seguaci dell’oscurantismo più reazionario che non siamo disposti a cedere le nostre convinzioni democratiche di fronte a nessuna minaccia.” (Appello di Adriano Sofri e di Staino, sulla vicenda delle “vignette sataniche”)
“Sarebbe forse ora che la smettessimo di ingoiare le minacce dei fondamentalisti e che tutti insieme, attraverso i nostri organismi nazionali e internazionali (la Commissione Europea per cominciare) mettessimo in atto una comune strategia di forza tranquilla che proibisce la censura per pavidità. E che facessimo sapere a tutti i paesi musulmani e a tutti gli estremisti religiosi del mondo che mai rinunceremo alla libertà di espressione, alla critica e alla satira, anche delle religioni, e che non accetteremo un ritorno all’inquisizione e alla punizione delle eresie, al medioevo islamico”. (Francesco Merlo)
“Noi disegnatori satirici ci troviamo in prima linea nella guerra contro l’intolleranza, il politicamente corretto e, vedi alla voce Danimarca, contro gli integralismi religiosi. L’attacco contro la satira riguarda tutti. Mettiamocelo bene in testa: è una minaccia contro la libertà di espressione. Fare satira sulla religione è complicato, certo: ma dobbiamo continuare a disturbare potenti e integralisti religiosi. Oggi, forse, serve uno sforzo d’immaginazione maggiore. Sono convinto però che sia ancora possibile”. (Jean Plantureux, alias Plantu, vignettista principe di “Le Monde”)
“Non è un mistero che ci sono alcuni artisti, o presunti tali, che fanno opere blasfeme proprio con lo scopo di essere criticati ed apparire, così, vittime-martiri di chissà quali censure ecclesiali. Col risultato che ottengono più attenzione sui mass media. L’importante è non cadere in questi tranelli. Forse la cosa più giusta è far finta di niente. Non dimentichiamo che un personaggio come D’Annunzio esultò quando seppe che i suoi libri erano stati censurati dalle autorità ecclesiali e messi all’Indice.” (Vittorio Messori)
“La satira è figlia di primo letto della critica.” (Sergio Saviane)
“Processare il diritti di satira è sempre stato il primo passo per abolire di fatto il diritto di critica (…) Se si insinua che il papa possa essere omosessuale, peraltro non (ancora) un reato, allora si finisce sotto processo (…) nel frattempo possiamo contentarci dell’abolizione di fatto del diritto di satira sulla chiesa.” (Curzio Maltese)
“Di questo passo condanniamo anche Dante. Anche il sommo poeta, in fondo, aveva mandato un papa all’inferno, Bonifacio VIII, lo ricordate? Lo aveva messo in un foro in mezzo a un grande fuoco. E che dire di Jacopone, condannato e messo in una galera così tremenda da uscirne a pezzi (…) Di questo passo torniamo alla legge di Federico II di Svevia del 1225 contro i “jugulares obloquentes”, contro i giullari triviali sparlatori, che incitava i cittadini a bastonare i giullari che si permettevano di insultare la autorità costituite, anche procurando loro la morte”. (Dario Fo)

CASI CELEBRI DI ATTACCO ALLA LIBERTA' DI ESPRESSIONE

Cinema
Nel 2004 usciva in Olanda “Submission” (“Sottomissione”), una delle possibili traduzioni del termine arabo “Islam”, cortometraggio della durata di 10 minuti, girato in inglese dal regista olandese Theo Van Gogh (pronipote del celebre pittore fiammingo), su soggetto della scrittrice Ayaan Hirsi Ali. Il film parla delle donne maltrattate, picchiate e violentate in famiglie musulmane; nel film i corpi delle donne vengono usati come una tela su cui riportare versetti del Corano.
Come conseguenza all’uscita del film, venne pronunciata una “fatwa” di morte conto Van Gogh e Hirsi Ali e nel novembre 2004 il regista venne assassinato in pieno centro di Amsterdam da un estremista islamico con doppia cittadinanza marocchina-olandese, vestito in abiti tradizionali arabi, per sottolineare la propria appartenenza culturale e religiosa, che gli sparò otto colpi di pistola e successivamente gli tagliò la gola con un pugnale; nella pancia del regista, dopo l’assassinio, l’omicida piantò due coltelli, uno dei quali infilzava un documento di cinque pagine con minacce ai governi occidentali, agli ebrei e ad Hirsi Ali.
Da allora il film è stato ritirato dalla proiezione dal suo produttore, anch’egli minacciato ripetutamente di morte, ma è comunque reperibile in Internet.
Nel 2008, sempre in Olanda, uscì il cortometraggio di diciassette minuti “Fitna”, girato da Geert Wilders, che cercava di dimostrare il carattere a suo dire fascista dell’Islam e paragonava il Corano al Mein Kampf di Hitler. Il regista è il leader e fondatore del Partito per le Libertà (di destra xenofoba), che alle ultime elezioni politiche in Olanda ha conquistato circa il 20% dei voti. Ovviamente anche Wilders è stato raggiunto da pesanti minacce di morte.

Teatro
Nel 1963 vide la luce “Il vicario”, dramma teatrale dello svizzero Rolf Hochhuth, che accusava Papa Pio XII di “silenzio” sull’Olocausto di sei milioni di ebrei durante la seconda guerra mondiale. L’opera fu rappresentata a lungo in Germania e poi anche a Londra, Parigi, New York; in Italia, pubblicata da Feltrinelli (con la prefazione dello scrittore cattolico Carlo Bo), visse una sola sera, interpretata da Gian Maria Volonté, nella versione di Carlo Cecchi, ma venne immediatamente censurata, con ulteriori minacce di scomunica da parte della gerarchie cattoliche. Infatti, la prima e unica prova generale, in un teatro-cantina a Roma, venne bloccata per “inagibilità del locale” dalla polizia, che assediò per tre giorni gli attori, e poi vietata dal Prefetto, in osservanza al Concordato. “Sono uscito con le ossa rotte da quella vicenda”, disse allora Gian Maria Volonté, che, assieme a Carlo Cecchi, non riprese mai più quel testo.
Ernesto Rossi, che da tempo aveva acquisito i diritti per la rappresentazione in Italia de “Il vicario”, per conto del “Movimento Gaetano Salvemini”, non riuscendo a realizzare la messa in scena del dramma, dovette ripiegare sull’organizzazione di un importante convegno sullo stesso tema, che venne definito dai clericali “un convegno al solito anticlericale e filocomunista” e che incorse anch’esso negli strali della Chiesa cattolica.
“Il vicario” nel 2002 divenne poi un bellissimo film, dal titolo “Amen”, del grande regista Costa Gavras.
A oltre quarant’anni da quel 1965, il dramma teatrale “Il vicario” infine venne riproposto, nel 2007, a Milano dal Teatro Filodrammatici e interpretato dagli attori di Antonio Latella, alla presenza dell’autore, quasi ottantenne, che in quel occasione rivendicò per intero le tesi del suo dramma, anche alla luce del controverso processo di beatificazione di Pio XII, che tante polemiche politiche, religiose e storiografiche sta ancor’oggi creando.
L’attrice Sabina Guzzanti, per le frasi pronunciate dal palco di una manifestazione politica in piazza Navona, a Roma, nel luglio 2008, è stata incriminata per vilipendio nei confronti del papa, con l’accusa di “aver usato parole grevi e volgari”. La Guzzanti aveva detto: “grazie alla legge Moratti fra vent’anni gli insegnanti verranno scelti direttamente dal Vaticano, ma fra vent’anni Ratzinger sarà dove deve stare, cioè all’inferno, tormentato da diavoloni frocioni attivissimi e non passivissimi”. Scherza con i fanti, ma lascia stare i santi!

Scultura
Nell’estate del 2008 esplose il caso della “rana crocifissa”, scultura dell’artista Martin Kippenberger, esposta al Museo di Arte moderna di Bolzano. Papa Benedetto XVI, in vacanza a Bressanone, scrisse personalmente una lettera al Presidente del Consiglio Regionale del Trentino-Alto Adige per invitarlo a porre fine all’esposizione di tale scultura che “ha ferito il sentimento religioso di tante persone che nella croce vedono il simbolo dell’amore di Dio e della nostra salvezza, che merita riconoscimento e devozione religiosa”.
Forte dell’appoggio papale, che venne anche invocato e sollecitato da manifestazioni di piazza degli “schutzen”, il Consiglio della Fondazione Museion, di nomina politica, ha costretto alle dimissioni la direttrice del museo, Corinne Diserens, che si ostinava a difendere la legittimità dell’esposizione dell’opera, che, in tre mesi di mostra, era stata visitata da oltre 26 mila persone. Alla fine, la scultura della rana crocifissa venne rimossa.
Nel novembre 2007, in un giardino pubblico di Vienna, fu collocata una scultura in bronzo, a grandezza naturale, dal titolo “Locum – delizia turca”, raffigurante una donna nuda, con indosso soltanto un foulard “islamico”, realizzata da un famoso artista tedesco, Otto Metzel. Tale scultura rapidamente attirò su di sé gli strali della comunità turca di Vienna, che chiese la rimozione dell’opera, ritenuta offensiva della propria identità religiosa. La statua, qualche mese dopo, fu divelta dal piedistallo e abbandonata a terra da parte di due emigrati turchi.
La nudità della statua non dava adito in alcun modo a seduzione o provocazione sessuale, bensì, messa in contrasto con il copricapo (simbolo della sottomissione e del pudore sessuale femminile), intendeva rappresentare l’isolamento della donna musulmana emigrata, vulnerabile, strappata alle sue radici e collocata in un ambiente estraneo: l’opera rappresenta pertanto la difficoltà della donna emigrata a trovare la propria strada e la propria identità all’interno della società europea ed occidentale.
La statua venne poi rimossa e successivamente acquistata da un giovane miliardario turco, per la sua collezione d’arte privata.

Informazione televisiva
Nel luglio del 2009, il vaticanista del TG3, il giornalista Roberto Balducci, commentando la partenza del papa per le vacanze in Val d’Aosta, disse: “Domani il papa va in vacanza e ci saranno anche 2 gatti…che gli strapperanno un sorriso, almeno quanto i proverbiali 4 gatti, forse un po’ di più, che hanno ancora il coraggio e la pazienza di ascoltare le sue parole.” Apriti cielo!
L’on. Giorgio Merlo (PD), vicepresidente della Commissione di Vigilanza RAI, scrisse: “è singolare e inconsueto che una testata importante come il TG3 scivoli in questa anacronistica e volgare deriva anticlericale”. Il direttore del TG3 (il cosiddetto telegiornale di sinistra) si affrettò ad assicurare che Balducci “non seguirà più il Vaticano”, cosa che poi effettivamente avvenne.
Come commentò su “Riforma”, il settimanale degli evangelici italiani, il giornalista Giorgio Gardiol, “la mordacchia era una maschera di ferro chiudibile a cerniera, adoperata per punire le donne accusate di stregoneria. Fu applicata anche agli eretici, per impedire loro a parlare: Giordano Bruno fu condotto al rogo con la mordacchia. Il vaticanista del TG3 Roberto Balducci ne sta sperimentando una ‘moderna’. Deve tacere.
Di quale eresia è portatore?(…) Non si fanno battute, più o meno spiritose, sul papa. Servilismo di stato: neoguelfo”.


Manifesti e spot pubblicitari sono da sempre sotto accusa: non importa se sono divertenti o irriverenti, oppure se, come spesso accade, anticipano e descrivono la realtà del nostro vivere contemporaneo. Oggi, come ieri, la pubblicità divide, mette in discussione pensieri e morale.
Come ha commentato l’antropologo Marino Niola, “la verità è che la pubblicità è rabdomantica. Capta i segnali di cambiamento e li racconta con le armi dell’ironia e del sorriso. Ed è proprio la mancanza di giudizio morale che allarma i censori”.
Come non ricordare, nel 1971, uno dei primi manifesti-shock della storia della pubblicità italiana, quel “chi mi ama mi segua” che troneggiava sul sensuale fondoschiena di una ragazza strizzata dentro ai suoi hot-pants di jeans marca “Jesus”, oppure, sempre per la stessa casa di abbigliamento torinese, lo slogan “non avrai altro jeans all’infuori di me” che campeggiava sul tronco di un giovane dal sesso indefinito, con la cerniera dei jeans aperta fino al limitar del pube. Fu l’esordio dirompente di Oliviero Toscani ed Emanuele Pirella a concepirla. Lo scandalo fu enorme, così come le richieste di censura.
Così come pure fu Toscani, nel 1986, a lanciare una splendida campagna pubblicitaria per Benetton, denominata “il ciclo della differenza”, fra le cui immagini spiccava quella, per la verità non trasgressiva, ma dolcemente sensuale, del bacio sulle labbra, non proprio castissimo, di un giovane prete ad una altrettanto giovane suora. Anche in quel caso proteste ed alte grida da parte delle gerarchie cattoliche.
Nel 1993 toccò alla marca automobilistica francese Renault: nello spot un distinto signore si sposava quattro volte e sempre con la stessa Renault 19. Allora ad arrabbiarsi fu monsignor Fihey, vescovo di Coutances e d’Avranches in Normandia, che, ironia della sorte, viaggiava proprio sullo stesso modello di Renault 19.
Nel 2007, un sacerdote, don Marco Damanti, denunciò un innocente spot natalizio della birra Red Bull come blasfemo, perché nel raffigurare l’adorazione dei magi nella capanna di Betlemme, disegnava, anziché i “canonici” tre magi recanti in dono oro, incenso e mirra, anche un quarto “mago”, di sesso femminile, recante in dono “birra”. Il solerte e zelante chierico fustigatore doveva possedere una soglia dello scandalo piuttosto bassa.
E nel 2009 grandi polemiche destò lo spot televisivo della Renault “New Scenic” che descriveva le gesta di un giovane e trafelato padre di famiglia che, in una giornata qualunque, faceva da autista e andava a raccogliere i propri figli (in un discreto numero di 4 o 5), chi a scuola, chi in piscina, chi a danza, i quali erano la risultanza di due matrimoni, un divorzio, una convivenza di fatto e qualche altra avventura, non dichiarata ma sussurrata: insomma, una famiglia allargata come oggi ne esistono tante. Infatti lo spot, con leggerezza ironica, terminava con lo slogan “new Renault Scenic, facciamo posto a tutte le famiglie”.
Tuttavia, l’arcivescovo di Bologna, cardinale Carlo Caffarra, evidentemente dotato di minor senso dell’ironia, tuonò delle pagine di “Avvenire”, il quotidiano dei Vescovi italiani: “Mi è capitato di vedere uno spot che per promuovere la capacità di un’auto esalta la poligamia. Un’auto che consente all’uomo di raccogliere tutti i bambini avuti dalle mogli. Cose inammissibili in un Paese che riconosce la monogamia come un valore indiscutibile. Quel filmato deve essere sospeso”. Il fatto che lo spot non accennasse minimamente alla poligamia, bensì al divorzio e alle coppie di fatto, era un dettaglio del tutto trascurabile.
La Renault sottolineò l’assenza di proteste negli altri paesi e per bocca del suo responsabile della comunicazione specificò che “l’arcivescovo non ha forse interpretato lo spirito di uno spot che fotografa la realtà, quella di famiglie allargate e di genitori separati (…) Lo spot è stato oggetto di accurati pre-test di gradimento e non sono mai emersi commenti di tipo etico”. Mai dire mai…

Letteratura
Nel 1988 lo scrittore saggista britannico di origine indiane, Salman Rushdie, scrisse “i versi satanici”, una storia fantastica, ma chiaramente allusiva nei confronti della figura di Maometto, che venne ritenuta blasfema dagli islamici.
La pubblicazione del libro provocò nel febbraio 1989 una “fatwa” (sentenza/maledizione) di Khomeini che decretò la condanna a morte del suo autore, reo di bestemmia. Un privato cittadino offrì una taglia per la morte dello scrittore, tollerata dal regime iraniano. Rushdie riuscì a salvarsi rifugiandosi in Gran Bretagna e vivendo, tutt’ora, sotto protezione.
Il traduttore giapponese del romanzo, Hitoshi Icari, fu però ucciso da emissari del Governo iraniano, mentre il traduttore italiano, Ettore Capriolo, fu ferito, così pure come l’editore norvegese del libro.
Nel 2004 la scrittrice somala musulmana, Ayaan Hirsi Ali, rifugiata politica e poi cittadina e deputata liberale olandese, pubblicò il suo primo libro dal titolo “Non sottomessa. Contro la segregazione nella società islamica”, la più radicale e coraggiosa posizione mai apparsa per la libertà della donna nell’Islam. Il libro, che comprendeva anche la sceneggiatura di “Submission”, il film del regista Theo Van Gogh, si pubblicò contemporaneamente in molti paesi d’Europa e costituì un caso letterario internazionale. Hirsi Ali venne condannata a morte e minacciata dagli integralisti islamici, costretta a vivere sotto scorta e poi a rifugiarsi negli Stati Uniti.
Nelle librerie italiane arriverà soltanto a settembre 2010, con un titolo già pronto per far discutere: “Il buon Gesù e il cattivo Cristo” (Edizioni Ponte alle Grazie) dell’autore britannico Philip Pullman, inserito nel 2008 dal “Times” fra i cinquanta più grandi scrittori inglesi dal secondo dopoguerra. Il libro è finito nel mirino dei cattolici integralisti, che lo hanno definito “blasfemo”, opera di “un uomo malvagio” e meritevole di “tutte le pene dell’inferno”, in quanto “dissacratore della figura di Cristo”. L’opera ha tuttavia ricevuto le lodi di critici autorevoli, come Charlotte Higgins, del “Guardiane” e dell’arcivescovo di Canterbury Rowan Williams, primate anglicano d’Inghilterra.

Vignette satiriche
Nel settembre 2005 la versione online del quotidiano danese Jyllands – Posten pubblicò una serie di 12 caricature di Maometto, che vennero poi definite “vignette sataniche”, una delle quali rappresentava il profeta con una bomba nascosta nel turbante. Dopo 5 mesi (un lasso di tempo lungo e assai sospetto), nel febbraio 2006, si verificarono violentissime proteste di musulmani fondamentalisti, che le giudicarono blasfeme, in molti paesi islamici. Nel mirino dei fanatici, che dal Pakistan, alla Siria e alla Palestina, dall’Iran all’Indonesia, dall’Egitto all’Afghanistan, non vi fu solo la Danimarca (le cui ambasciate vennero prese d’assalto), ma tutta l’Unione Europea e l’insieme dell’Occidente, accusato di essere empio e blasfemo: oltre 150 persone persero la vita nei disordini e l’autore danese delle vignette Kurt Westergaard venne minacciato di morte e deve vivere, da allora, sotto scorta.
In molti, in tutt’Europa, invocarono la libertà di parola e le vignette vennero pubblicate sia in Olanda che in Francia.
Nel gennaio 2010 Kurt Westergaard, un uomo di sinistra di 77 anni, costretto in quattro anni a cambiare ben sei appartamenti per sfuggire alle minacce di morte, all’interno della sua abitazione venne attaccato a colpi di accetta da un estremista islamico somalo, ma riuscì a salvarsi, rifugiandosi in una camera “blindata”. A seguito di questo tentativo di assassinio, non si registrò in nessun paese europeo, alcuna manifestazione pubblica di solidarietà al vignettista danese.
“Non c’è stata nessuna manifestazione. Hanno taciuto tutti. Chisseneimporta della libertà di stampa. Quelli con l’ascia fanno un po’ paura. Westergaard se la vedesse lui, con i suoi appartamenti blindati: se l’è cercata”, così annotava tristemente Pierluigi Battista su “Sette”.


Ci auguriamo che mai più nessuno, fra coloro che praticano quotidianamente la libertà di satira e con ciò stesso garantiscono anche la nostra libertà di espressione, debba essere vittima di fanatici assassini di matrice religiosa o politica, che pretendono di uccidere la libertà di tutti imponendo con la violenza le loro visioni oscurantiste e portatrici di morte. Una risata li seppellirà!

Noi oggi, con questo convegno e con questa mostra storica sulla satira religiosa, vogliamo dare il nostro contributo culturale alla causa della libertà di espressione: una buona causa di libertà e di laicità!

Tullio Monti
Coordinatore della Consulta Torinese per la Laicità delle Istituzioni
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Re: Lebertà contro ła prexon dei dogmi e de l'idołatria

Messaggioda Berto » mer gen 06, 2016 4:03 pm

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“Ridete del dio di Charlie Hebdo. Non è il vero Dio”

http://blog.ilgiornale.it/cesare/2016/0 ... l-vero-dio

CHARLIE UN ANNO DOPO, DIO CON UN KALASHNIKOV IN COPERTINATutti contro Charlie Hebdo. Esce oggi, 6 gennaio, a un anno dalla strage jihadista che ha dimezzato la redazione parigina del settimanale satirico, il numero speciale stampato per l’occasione in un milione di copie. Alle critiche degli imam e dei vescovi francesi si è aggiunto ora pure l’Osservatore romano, che definisce “penosa” la copertina (nella foto) dell’ultimo Charlie Hebdo e parla di “fede manipolata”: “Usare Dio per giustificare l’odio è un’autentica bestemmia”.

Al centro della nuova polemica c’è la vignetta di prima pagina, un dio con il kalashnikov in spalla e la tunica insanguinata. A cui si aggiunge l’editoriale del direttore Riss, inequivocabile nel finale: “Laici e atei possono spostare più montagne dei credenti”.

Ma chi è il Dio disegnato da Riss e perché offende tanto fedeli e rappresentanti di ogni religione? Lo abbiamo chiesto a Soufiane Zitouni, che ha collaborato al numero speciale di Charlie Hebdo con un intervento dal titolo: “L’islam è una religione di pace?”. Zitouni è un filosofo, origini algerine, ex professore di liceo, condannato nella Francia della laicità e della libertà di espressione per aver denunciato l’estremismo religioso nelle scuole islamiche francesi. Dovrà ora affrontare un nuovo processo per “diffamazione pubblica”, un reato ancora più grave della “diffamazione privata” per la quale è già stato punito da un tribunale francese.

Zitouni, chi è il dio disegnato da Riss su Charlie Hebdo?
“Ovviamente è un Dio immaginario, più che capace di uccidere degli innocenti. Un disegno geniale”.

Non è un vero dio, dunque. Per questo è sporco di sangue.
“Sì, perché è il dio in nome del quale i terroristi uccidono civili e innocenti per strada. La Bibbia e il Corano lo chiamerebbero “un idolo”, nel senso proprio in cui viene inteso nei due libri sacri, cioè quello di un dio immaginario”.

Molti fedeli e rappresentanti religiosi si sentono offesi dalla copertina di Charlie. Hanno l’impressione che quel dio sbeffeggi proprio la loro fede.
“È perché non hanno capito quella vignetta. Sono un credente anch’io e ovviamente non mi sento affatto offeso. Quello non è il mio Dio”.

Imam e vescovi francesi sostengono che non fosse necessario sollevare un nuovo polverone in questo momento di forte tensione…
“La verità è che non è mai il momento buono per ridere della religione. E ci sarà sempre una buona ragione per dire che non è il momento giusto. Ma Charlie Hebdo ha un ruolo fondamentale anche per questo , è lì per alimentare un dibattito nella società”.

Provocare per discutere e ragionare?
“Sì certo. Per discutere per esempio del diritto alla blasfemia. I caricaturisti hanno diritto di prendersi gioco della religione? È un delitto o un diritto?”.

Un diritto, in democrazia. Ma c’è anche il diritto di criticare chi critica o chi deride.
“Attenzione, però. In molte democrazie, come negli Stati Uniti, l’immagine di Maometto che diceva “Tutto è perdonato” dopo la strage, il 15 gennaio, non è stata mostrata in nessuna televisione”.

Che coa vuol dire? Stiamo perdendo la libertà di criticare? La provocazione ci fa paura?
“Stiamo perdendo il senso dell’ironia. Socrate diceva che l’ironia è parte della filosofia. Lo humour è importante. Spesso le persone troppo dogmatiche sono anche paranoiche, vedono nemici dappertutto. E poi c’è la paura, sì. Molti francesi oggi hanno paura”.

La Francia sembra aver reagito con fermezza e orgoglio dopo gli attentati.
“Molti francesi oggi hanno paura e la paura non è favorevole alla libertà di espressione. Un editore ha rifiutato di pubblicare il mio prossimo libro nel timore di una fatwa” (il libro è Confessions d’un fils de Marianne et de Mahomet, edizioni Les Échappés, la casa editrice di Charlie Hebdo, in uscita ad aprile).

Lei oggi pubblica un intervento su Charlie Hebdo chiedendosi se l’islam sia o no una religione di pace. Qual è la risposta?
“Io sono un filosofo e cerco di ragionare sulle cose. Dal 1979, dalla rivoluzione iraniana, l’islam è diventato sempre più sinonimo di integralismo religioso, di islamismo, di islam politico, sinonimo di barbarie, dall’Afghanistan dei talebani ai Fratelli musulmani fino a Daesh (l’Isis, ndr). Bisogna domandarsi se non ci sia un germe che provoca questa violenza”.

Vuol dire che il problema è l’islam?
“Vuol dire che l’islam ha un enorme problema. Prima di tutto di interpretazione dei testi. E poi l’islam di oggi manca di critica, di autocritica, di riflessione, di scienze umane, di cultura, di filosofia”.

Come si affronta questo “enorme problema?”
“Ci vogliono intellettuali coraggiosi, musulmani coraggiosi che dicano basta. Che dicano anche che questa nozione di jihad armata non ha più senso”.

Ce la faranno?
“L’Europa ha progredito perché ci sono stati pensatori come Erasmo, Rousseau, Montesquieu. E pensatori come Voltaire, molto critici con la religione”.

Anche il suo è un elogio alla laicità e all’ateismo?
“Io non sono Riss, sono un credente, e non avrei scritto quel che ha scritto Riss. Ma non dimentichiamo che Laurent Sourisseau è un uomo ferito, profondamente ferito. L’ho incontrato non molto tempo fa, ha vissuto una grande tragedia. Ed è molto rattristato dal fatto che ancora, dopo gli attentati, si continui ad accusare Charlie Hebdo di razzismo e di islamofobia. Il suo, come quello che provocano le vignette di Charlie, è quasi sempre un sorriso amaro”.
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