Le due grandi condizioni perché sia possibile l’esistenza della scienza sono, innanzitutto, che nell’universo regni l’ordine e non il caos e che le leggi regolatrici di quest’ordine siano intelliggibili da parte dell’intelletto umano. Ma dove e quando nascono queste convinzioni sull’Universo? E perché soltanto nell’Europa cristiana si sviluppò il metodo scientifico?http://www.uccronline.it/2010/11/23/lor ... stianesimoIn questo dossier (continuamente aggiornato) affronteremo le risposte e scopriremo, facendoci guidare da eminenti storici della scienza, che all’origine della scienza moderna c’è la visione cristiana del mondo.
Introduzione
La scienza non nasce nella cultura greca e antica
La scienza non nasce nella cultura islamica
La scienza non nasce in Oriente
La scienza nasce nell’Europa cristiana
Conclusione
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INTRODUZIONE
Il premio Nobel per la chimica, Melvin Calvin, scrisse negli anni ’60: «Nel cercare di discernere le origini della convinzione sull’ordine dell’universo, mi pare di trovarle in un concetto fondamentale scoperto duemila o tremila anni fa, ed enunciato per la prima volta nel mondo occidentale dagli antichi ebrei: ossia che l’universo è governato da un unico Dio e non è il prodotto dei capricci di molti dèi, ciascuno intento a governare il proprio settore in base alle proprie leggi. Questa visione monoteistica sembra essere il fondamento storico della scienza moderna» (M. Calvin, “Chemical Evolution”, Oxford 1969, pag. 258). Tutto infatti nasce con il monoteismo ebraico e con la Bibbia, in essa per la prima volta compare un elogio della scienza quando gli uomini vengono esortati da Dio ad accettare «la mia istruzione e non l’argento, la scienza anziché l’oro fino, perché la scienza vale più delle perle e nessuna cosa preziosa l’eguaglia» (Prv 8, 10-11), e si dice che «suo principio è il desiderio d’istruzione; la cura dell’istruzione è amore» (Sap 6, 17).
Ma la cultura antica non riuscì a sviluppare una vero e proprio metodo scientifico, nelle società era ancora diffuso il concetto politeista e, sopratutto, il metodo aristotelico che -come vedremo dopo- impediva uno studio scientifico della realtà. Il cristianesimo, al contrario delle religioni animiste, pagane e politeiste, introdusse e diffuse un dogma fondamentale: crede in un Dio trascendente, che ha creato il mondo con un atto libero di volontà, che ha creato un mondo materiale, finito nel tempo e nello spazio, e, accanto a esso, una sola creatura spirituale, dotata d’anima, fatta a immagine e somiglianza di Dio: l’uomo. Da questo dogma di fede derivano almeno tra conseguenze molto importanti: 1) il mondo non venne più concepito come nel paganesimo, cioè come dio stesso, come un “grande animale”, una immensa creatura vivente abitata da spiriti della terra, dell’aria, del fuoco e delle acque, da ninfe, gnomi e folletti vari. Esso, al contrario, diventò come una “mundi machina”, secondo l’espressione di un vescovo francescano del XIII secolo, un grande meccanismo materiale costruito, come dice la Bibbia, secondo “numero, peso e misura”, con criteri matematici, da un Dio creatore. Come dicevano i cristiani medioevali, il mondo è la cattedrale edificata da Dio; 2) L’uomo è una creatura unica, libera, non sottoposta al volere degli astri, del Fato, della Necessità (si parla di antropocentrismo biblico). Egli non deve più ricorrere a amuleti, formule e scongiuri per scongiurare le forze spirituali che lo governano, non deve ricorrere a maghi e indovini per rabbonire con sacrifici le forze della natura; 3) La realtà materiale non è una prigione, non è l’origine del male come per Platone, gli gnostici e gli orientali, ma “cosa buona” come si ripete più volte nella Genesi. Questa visione del mondo ha cambiato la storia (da F. Agnoli, “Indagine sul cristianesimo”, Piemme 2010, p. 205,206).
E’ grazie a questa visione di Dio, del cosmo e dell’uomo, che la scienza nasce nell’Europa cristiana grazie ad una visione razionale sulla natura, non più un pericoloso garbuglio di divinità dispotiche ma un insieme di “perfezioni visibili”, come scrive San Paolo, che manifestano la “perfezione visibile” del Logos creatore. Si apre così lo spazio per la legge fisica, per la contemplazione matematica dell’universo, già presente nella Bibbia e intuita da alcuni filosofi greci. Ma è la filosofia cristiana medievale a mettere proprio in luce l’armonia, l’ordine, la proporzione, cioè la razionalità, la logicità, dell’universo creato, che appare per loro scala verso Dio. Abbiamo conferme di ciò anche da incalliti oppositori del cristianesimo, come il chimico dell’Università di Oxford Peter Atkins (1940), che riconosce: «la scienza, il sistema di credenze fondato saldamente su conoscenze riproducibili e pubblicamente condivise, è emersa dalla religione» (P. Atkins, “The limitless power of science”, Oxford University Press 1995, pag. 125). Addirittura nel 1967 il movimento ecologista ricevette un grande impulso da un articolo intitolato “Radici storiche della nostra crisi ecologica”, redatto dallo storico medievalista Lynn White Jr., dove si accusava apertamente il cristianesimo di essersi imposto sul paganesimo, considerato molto più rispettoso della natura (divinizzandola), proprio tramite l’invenzione della scienza e delle tecniche moderne: «nella misura in cui la scienza e la tecnologia -sviluppatesi in una matrice cristiana occidentale- accordarono all’umanità dei poteri che oggi sfuggono dal suo controllo, non si potrebbe non riconoscere l’enorme colpa di una tale cristianità riguardo alla crisi ecologica» (L. White, citato in P.C. Beltrão, “Ecologia umana e valori etico-religiosi”, Pontificia Università Gregoriana 1986, pag. 11).
Qui sotto vedremo più approfonditamente perché il metodo scientifico non riuscì a svilupparsi al di fuori della visione del mondo e della natura appena descritta, introdotta dal cristianesimo.
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LA SCIENZA NON NASCE NELLA CULTURA GRECA E ANTICA
Chi identifica le radici della scienza moderna nell’Antica Grecia, ignora il fatto che per svilupparsi ha dovuto liberarsi dal concetto politeista e dal metodo aristotelico (dal IV secolo a.C.), dalla deduzione -e non dalla verifica- di come dovesse essere l’universo, partendo da principi fissi. Come ha scritto lo storico della scienza Bernard Cohen (1914-2003), infatti, «gli ellenistici erano interessati a spiegare il mondo naturale solo attraverso principi generali astratti» (Cohen, “La rivoluzione nella scienza”, Longanesi 1988). Le prime innovazioni tecniche, avvenute in epoca greco-romana, nel mondo islamico e in Cina, per non parlare di quelle ottenute nelle ere preistoriche, non costituirono una scienza ma possono essere meglio descritte come sapere, saggezza, arti, mestieri, tecniche, tecnologie, ingegneria, apprendimento o semplicemente conoscenza. Anche senza l’utilizzo dei telescopi, gli antichi eccellevano nelle osservazioni astronomiche, ma esse rimasero dei meri fatti fino a quando non furono collegate a teorie verificabili. Le conquiste intellettuali dei greci o dei filosofi orientali, erano frutto di un empirismo a-teorico, e le loro teorizzazioni non erano empiriche. Scrive lo storico della scienza Harold Dorn (1928–2011) dello Stevens Institute of Technology: «Il sapere greco esclusivamente ateorico fu una barriera per l’ascesa della vera scienza: non permise il progresso del mondo greco, di quello romano, nè del mondo islamico, dove si preservarono e studiarono con attenzione gli insegnamenti greci» (H. Dorn, “The Geography of science”, Hopkins University Press 1998).
Ad esempio, Aristotele insegnava che la velocità alla quale un oggetto cade a terra è proporzionale al suo peso e, quindi, che una pietra che pesa il doppio di un’altra cadrà due volte più velocemente (Aristotele, “Il cielo”, Rusconi Libri 1999). Sarebbe bastato recarsi ad una delle vicine scogliere per constatare la falsità della sua proposizione. Mentre Socrate considerava l’empirismo e le osservazioni astronomiche una «perdita di tempo», Platone consigliava ai suoi studenti di «lasciar stare i cieli stellati» (citato in S. Mason, “Storia delle scienze della natura”, Feltrinelli 1971, pag. 104), mentre Democrito suggerì che tutta la materia era composta da atomi. Il suo suggerimento -casualmente corretto- era però una pura speculazione, non basata sull’osservazione e su implicazioni empiriche. Dal punto di vista del metodo scientifico, l’ipotesi di Democrito ha lo stesso valore di quella del suo contemporaneo Empedocle, il quale riteneva la materia fosse composta da fuoco, aria, acqua e terra. Un secolo dopo Aristotele affermò invece che invece doveva essere costituita da caldo, freddo, aridità, umidità e quintessenza.
L’Universo, per i greci, era eterno, increato ma vincolato in infiniti cicli di progresso e decadenza. Un universo increato, anche se molti -come lo stesso Aristotele- presupponevano effettivamente un “dio” di infinita portata a guardia dell’universo, ma costui era percepito come un’essenza, molto simile al Tao, che conferiva un’autorità spirituale ma non certo un creatore. Nemmeno Zeus poteva essere il creatore di un universo razionale: anch’egli era soggetto agli inesorabili meccanismi ciclici naturali di ogni cosa. Aristotele stesso condannò come «impensabile» l’idea «che l’universo iniziò ad esistere da un certo punto nel tempo» (citato in Lindberg, “The beginning of Western Science“, University of Chicago Press 1992, pag. 54). Platone immaginava un “dio” molto inferiore a quello di Aristotele, denominato Demiurgo (anche se molti studiosi dubitano che Platone intendesse il Demiurgo come un vero creatore, si veda ad esempio D. Lindberg, “The beginning of Western Science“, University of Chicago Press 1992). L’idealismo platonico, fondato su ipotesi a priori, credeva in un universo ciclico ed eterno, una sfera simmetrica circondata da corpi celesti con traiettoria di moto perfetto. Insomma, le concezioni greche delle divinità non erano adatte per lo studio dell’universo e tutte le speculazioni dei maggiori filosofi greci, come quelle di Crisippo e Parmenide, furono a lungo di notevole intralcio alla scoperta scientifica.
Un altro motivo che rendeva impossibile la nascita del metodo scientifico nel mondo antico è che i greci insistettero nel tramutare gli oggetti inanimati in esseri viventi, appariva dunque inutile e privo di senso tentare di spiegarne i fenomeni naturali. Così, sempre secondo Aristotele, i corpi celesti si muovevano circolarmente per la loro affezione nei confronti di quell’azione e gli oggetti cadevano a terra «per il loro innato amore verso il centro della terra» (citato in S. Jaki, “Science and Creation”, Scottisch Academic Press 1986, pag. 105). Il sapere greco, insomma, ristagnò nella propria logica interna. A parte alcuni ulteriori sviluppi della geometria (che in realtà manca di sostanza in quanto è in grado di descrivere solo alcuni aspetti della realtà, non di spiegarne qualunque parte), poco accadde dopo Platone ed Aristotele. L’impero romano assorbì anche la cultura greca, che però non fece progredire intellettualmente nessuno in modo significativo (D. Lindberg, “The beginning of Western Science“, University of Chicago Press 1992). Nulla accadde nemmeno in Oriente, a Bisanzio, dove il sapere greco continuò a diffondersi.
Il filosofo francese Philippe Nemo, direttore e docente del Centro di ricerche in Filosofia economica presso la prestigiosa ESCP Europe, ha suggerito che ad impedire la nascita della scienza nel mondo antico, in particolare in quello greco, è stata la mancanza di spirito critico. «Nella stessa Grecia», ha scritto, «se la libertà critica avesse avuto nello humus della civiltà pagana tutti gli elementi capaci di nutrirla, la scienza non vi sarebbe stata soffocata per così dire sul nascere (gli storici della scienza greca hanno sottolineato che i sapienti non furono sostenuti dalla società e che furono presto abbandonati da alcuni dei re di Alessandria e di Pergamo che li avevano “sponsorizzati”, ragione per la quale, dopo così begli inizi, la scienza non si poté sviluppare in Grecia). Se quindi lo spirito scientifico ha prosperato meglio nell’Europa moderna, è in quanto un elemento nuovo si era mescolato alla antica razionalità greca». Questo elemento nuovo altro non è che la «coscienza che hanno avuto i teologi e i filosofi del mondo cristiano dei limiti della ragione. La ragione umana può dimostrare che essa non conosce ogni cosa e, trattandosi di Dio, che essa non conosce nulla (anche se Dio è conosciuto altrimenti). Ora, a differenza dello scetticismo greco, che è puramente negativo, la tradizione della teologia cristiana (apofantica, in particolare) mostra che si può progredire nella conoscenza tramite il fatto stesso che si rinuncia a una certa conoscenza idolatrica, troppo sicura di sé: conoscere Dio significa proprio dimostrare che è inconoscibile. Così, il fatto stesso di prendere coscienza dei propri limiti può aiutare la ragione umana a espandere quegli stessi limiti». Inoltre, ha aggiunto il filosofo francese, «la filosofia antica non concepiva l’idea che si potesse, o addirittura si dovesse, “cambiare il mondo”. Solo quando migliorare il mondo divenne un dovere morale, la pratica della scienza trovò un motivo per svilupparsi su vasta scala: e questa spinta morale fu essenzialmente giudaico-cristiana». Infine, c’è un altro aspetto da considerare: «Se,
dopo Anassimandro, Aristarco di Samo e Archimede, i greci non hanno prodotto, senza soluzione di continuità, Galileo e Newton, è proprio perché è venuta loro a mancare la dimensione morale. Gli antichi vivono nel mondo pagano governato dall’eterno ritorno di cicli e ricicli, in una struttura temporale che rende vano combattere radicalmente il male per far emergere un mondo nuovo: un programma, questo, del tutto inconcepibile per loro. Nel mondo esisterà sempre una mescolanza di bene e di male: negli “anni d’oro” prevarrà il bene e negli «anni di ferro» prevarrà il male, ma ogni momento del ciclo sarà inesorabilmente seguito dal momento opposto, come l’inverno e l’estate si succedono nel ciclo delle stagioni. In queste condizioni, il progetto moderno di sviluppare la scienza per cambiare il mondo non poteva emergere nell’antichità pagana. È l’apporto biblico e cristiano che ha dato all’Europa questa aspirazione verso l’infinito, di cui ha parlato Bergson, e che ha fatto di essa una “società aperta” (P. Nemo, La bella morte dell’ateismo moderno, Rubbettino 2016, pp. 72, 102, 125).
Ovviamente, con questo non si vuole certo minimizzare il grande valore della cultura greca e il suo grande impatto sulla teologia cristiana e sulla vita intellettuale dell’Europa. Non a caso gli scolastici e gli intellettuali cristiani del Medioevo (Sant’Agostino e San Tommaso in primis) si dissero debitori di Aristotele e degli altri filosofi dell’antichità. Ma, usando le parole dello storico e sociologo delle religioni Rodney Stark (1934), della Baylor University: «Lo sviluppo della scienza non risultò come il prolungamento del sapere classico. Fu la naturale conseguenza della dottrina cristiana: la natura esiste perché è stata creata da Dio e per amarLo ed onorarLo, è necessario apprezzare a fondo le meraviglie del suo operato» (R. Stark, “La vittoria della ragione”, Lindau 2008, pag. 46).
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LA SCIENZA NON NASCE NELLA CULTURA ISLAMICA
Lo storico della scienza di Harvard, Sir Alfred North Whitehead (1861-1947), osservava come le immagini di divinità rintracciabili nelle altre religioni, in particolar modo in Asia, erano e sono troppo impersonali o irrazionali per poter incoraggiare la scienza, «mancava quella fiducia che proviene dall’idea della razionalità intellegibile di un essere personale» (A.N. Whitehead, “Science and the Modern World”, Macmillan 1925). Molti studiosi confermano che non sia una casualità il fatto che il metodo scientifico non sia nato nella cultura islamica. Allah non viene presentato come un creatore giusto, ma è concepito come un Dio estremamente attivo che si impone nel mondo come ritiene opportuno, questa concezione ha originato un nucleo teologico islamico che condanna come blasfemia ogni tentativo di formulare leggi naturali, perché esse negano la libertà di azione di Allah.
La cultura greca è rimasta molto viva per molti secoli all’interno del sapere islamico e gli stessi islamici consideravano il sapere greco, in particolare l’opera di Aristotele, come un testo sacro a cui credere, piuttosto che da studiare (C.E. Farah, “Islam: belief and observances”, Barron’s Hauppaguge 1994, pag. 199). Perfino uno dei più illustri filosofi islamici, Averroè divenne, assieme ai suoi seguaci, un aristotelico intransigente e dottrinario, proclamando l’infallibilità delle teorie greche. Addirittura, se un’osservazione fosse risultata incoerente con un delle visioni aristoteliche, allora essa doveva essere sicuramente scorretta o illusoria. A parte scoperte in campi molto specifici, nei quali non occorreva una base teoretica generale (come alcuni aspetti dell’astronomia e della medicina), non vi è da segnalare alcun progresso scientifico degno di nota nel mondo islamico.
Edward Grant, docente di Storia e Filosofia delle Scienze all’Indiana University, la pensa in modo similare e ricorda, come già detto, che nel mondo islamico vi fu comunque un progresso scientifico in alcuni campi: «Dopo tutto la scienza esisteva in molte altre antiche società. Nell’Islam, fino al 1500 circa, la matematica, l’astronomia, l’ottica geometrica e la medicina erano molto più sviluppate che nei paesi occidentali (europei). L’Occidente si impadronì di questi argomenti attraverso le traduzioni in lingua latina di trattati arabi (derivati dagli antichi testi greci)». Tuttavia, aggiunge, «nella società islamica (come prima in quella bizantina) la scienza non era istituzionalizzata; e non lo era neppure nella Cina antica e medioevale, nonostante i significativi progressi che aveva conseguito. Lo stesso discorso vale per le altre civiltà: la scienza c’era ma in nessuna di quelle civiltà era istituzionalizzata e perpetuata nel tempo. La scienza, che oggi conosciamo, si sviluppò soltanto nella civiltà occidentale» (E. Grant, “Le origini medievali della scienza moderna”, Einaudi 2001, pp.5-6).
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LA SCIENZA NON NASCE IN ORIENTE
Il filosofo Bertrand Russel (1872-1970) trovava piuttosto sconcertante la mancanza di scienza in Cina (si veda B. Russel, “The problem of China”, Allen & Unwin 1922, pag. 193), ma per gli intellettuali cinesi l’universo semplicemente è ed è sempre stato, senza alcun motivo di supporre leggi razionali da cercare e da studiare. Di conseguenza, nel corso dei millenni, si è andati in cerca di “illuminazioni”e non di spiegazioni, la saggezza infatti, secondo la cultura orientale, si raggiunge attraverso un percorso di meditazioni e intuizioni mistiche, senza alcuna occasione d’esercitare l’uso della ragione applicata.
Il biochimico e storico della scienza britannico Joseph Needham (1900-1995), autorità preminente nella storia della scienza e tecnologia in Cina dato che dedicò la maggior parte della sua carriera alla storia della tecnologica cinese, riferisce che i cinesi nel XVIII secolo rigettarono l’idea di un universo governato da leggi semplici, indagabili dagli esseri umani (convinzione portata a loro dai missionari gesuiti occidentali), la loro cultura, secondo Needham, semplicemente non era ricettiva verso tali concetti. Concluse che l’ostacolo alla scienza in Cina era causato dalla loro religione non cristiana: «Non si era mai sviluppata la concezione di un legislatore celestiale e divino che impone leggi sulla Natura non umana. Era loro opinione che l’ordine in natura non fosse stabilito da un essere individuale razionale» (J. Needham, “Scienza e civiltà in Cina”, Einaudi 1981, pag. 704). In effetti, nelle religioni che non derivano dall’ebraismo, non si presuppone una creazione dell’universo, nella loro prospettiva esso appare eterno e, per quanto possa seguire dei cicli, ciò avviene senza principio o senza scopo.
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LA SCIENZA NASCE NELL’EUROPA CRISTIANA
Il concetto di libera creazione da parte di Dio portato dalla visione ebraico-cristiana fu fondamentale per lo sviluppo del metodo scientifico: per scoprire come sia in realtà l’universo o come effettivamente funzioni, non vi è alternativa dall’andare a vedere direttamente ciò che Dio aveva in mente. Il cammino dalla creazione (e dalle creature) al Creatore risultò la strada più ovvia per arrivare alla comprensione e alla conoscenza di Dio, e in particolare la venuta di Cristo fu decisiva poiché, come ha affermato il fisico britannico Peter E. Hodgson (1928-2008), dell’University College London, «l’incarnazione di Cristo ha fornito ulteriori convinzioni per la scienza: ha spezzato l’idea che il tempo fosse ciclico, ha nobilitato la materia pensando che fosse adatta a formare il corpo e il sangue di Cristo; ha superato il panteismo, dichiarando che la materia è creata e non generata». Tutte convinzioni «necessarie per lo sviluppo della scienza». Una frase di Albert Einstein (1879-1955) sintetizza perfettamente la nuova mentalità che portò il cristianesimo rispetto al modo di approcciarsi alla realtà e all’universo: «La scienza contrariamente ad un’opinione diffusa, non elimina Dio. La fisica deve addirittura perseguitare finalità teologiche, poichè deve proporsi non solo di sapere com’è la natura, ma anche di sapere perchè la natura è così e non in un’altra maniera, con l’intento di arrivare a capire se Dio avesse davanti a sè altre scelte quando creò il mondo» (citato in Holdon, “The Advancemente of Science and Its Burdens”, Cambridge University Press 1986, pag. 91).
Dopo Cristo, non si potè più dedurre -come pensavano i greci- il funzionamento dell’universo semplicemente ragionando a partire da principi filosofici a priori, per conoscere Dio occorreva studiarne la creazione. La magia e l’astrologia, in quanto fondate sull’animismo e sul politeismo panteista, cominciarono ad essere considerate pure superstizioni irrazionali e deprecabili, solo nell’Europa cristiana l’alchimia si evolvette in chimica e l’astrologia condusse all’astronomia. Nacque la concezione di un universo come “creatura” da studiare ed indagare, non un’insieme di divinità, o un “animale divino”. Il filosofo russo Nikolaj Berdjaev (1874-1948) scrisse giustamente che «il cristianesimo meccanizzò la natura per restituire all’uomo la libertà», cioè per liberarlo dalla sottomissione del volere degli astri, delle divinità irrazionali nascoste in ogni angolo della natura. Dalla visione cristiana vennero creati quindi i presupposti per il pensiero scientifico. Proprio il superamento delle convinzioni del mondo pagano ha permesso la liberazione dei limiti della ragione: la convinzione di Popper per cui «ogni verità scientifica può essere rimessa in causa, mediante fatti, mediante ragionamenti, mediante nuovi paradigmi che, essi stessi, devono poter esser proposti da uomini e istituzioni libere», ha scritto il filosofo francese Philippe Nemo, direttore e docente del Centro di ricerche in Filosofia economica presso l’ESCP Europe, «è nata, crediamo, su un humus cristiano. Essa percorre in effetti i grandi dibattiti europei sulla tolleranza che hanno avuto luogo nel Medio Evo (Abelardo, Nicola Cusano), al tempo dell’umanesimo (Pico della Mirandola, Montaigne, Bodin, ecc.) e nei secoli XVII-XVIII. È in nome dell’inafferrabile verità cristiana che si combattono le posizioni cristiane troppo dogmatiche […]. Solo una civiltà moralmente trasformata dal cristianesimo, cioè animata dall’etica e dalla escatologia bibliche, poteva conferire alla scienza il dinamismo che le è stato proprio nell’Europa dei tempi moderni. Ciò che, a partire dal XVIII secolo, si chiamerà il “progresso”, non è altro che l’idea cristiana laicizzata […]. È proprio l’avviamento etico ed escatologico del tempo della Storia attraverso la Bibbia la fonte più profonda dell’origine della scienza in Occidente, dopo i primi tentativi dei greci» (P. Nemo, La bella morte dell’ateismo moderno, Rubbettino 2016, pp. 73, 102, 125).
Un perfetto esempio di tutto questo è la figura di Giovanni Filopono, cristiano di Alessandria, vissuto nella prima metà del VI secolo, insegnate di filosofia alla scuola di Alessandria. Come ha scritto David C. Lindberg, professore emerito di Storia della Scienza presso l’Università del Wisconsin–Madison, «la tesi di fondo dell’anti-aristotelismo di Filopono era la negazione della dicotomia posta da Aristotele tra regioni terrestri e regioni celesti del mondo», da cui «ne consegue che i cieli non possono essere divini, e ciò metteva Filopono in grado di tirare una netta linea di demarcazione tra il Creatore e il resto della sua creazione (tanto celeste quanto terrestre). Una dottrina aristotelica fondamentale crollava così di fronte alla dottrina cristiana; ma ciò non significa che l’attacco di Filopono fosse privo di sostanza da un punto di vista filosofico. Al contrario, egli procedeva con acutezza argomentativa, in modo alquanto rigoroso e – come gli storici della scienza non hanno mancato di sottolineare – con effetti positivi per l’andamento a venire della cosmologia» (D.C. Lindberg, R.L. Numbers, Dio e natura, La Nuova Italia 1994, p.33). Edward Grant, storico di Scienza Medioevale presso l’Indiana University, ha citato il pensiero del card. Pier Damian (100- 1072): «la fede in Dio favorisce lo studio del mondo esteriore e materiale, con un duplice proposito: predisporre dentro di noi la contemplazione della sua natura invisibile e spirituale, così che ci si disponga ad amare e ad adorare meglio il Signore; e renderei capaci di conseguire un dominio sul mondo siccome sta scritto in Sl 8,6-9» (D.C. Lindberg, R.L. Numbers, Dio e natura, La Nuova Italia 1994, p.42).
Le conquiste straordinarie che si ottennero dal 1500 d.C. in poi, non vennero certo prodotte da un’esplosione di pensiero laico. Come ha notato in proposito il grande storico della scienza A.C. Crombie, primo docente ad insegnare storia della scienza all’Università di Oxford, «il sentimento che avrebbe inspirato gran parte della scienza del tredicesimo secolo era stato in realtà espresso già all’inizio di quel secolo dal fondatore (san Francesco d’Assisi) di un ordine che avrebbe dato tanti grandi innovatori al pensiero scientifico occidentale, particolarmente in Inghilterra. Fu questo, non vi è dubbio, il sentimento che inspirò Grossatesta, Ruggero Bacone e Peckham a Oxford» (A.C. Crombie, “Da Sant’Agostino a Galileo. Storia della scienza dal quinto al diciassettesimo secolo”, Feltrinelli 1970, p. 149,150). Fu effettivamente la forte convinzione teistica a indurre Francesco Bacone (1561-1626), considerato da molti il padre della scienza moderna, a insegnare che Dio ci ha fornito due libri, quello della natura e la Bibbia, e che per essere istruiti in maniera davvero adeguata bisogna applicare l’intelletto allo studio di entrambi. E come lui la pensavano i padri della scienza moderna, come Galilei, Keplero, Copernico, Pascal, Boyle, Newton, Faraday, Babbage, Mendel, Pasteur, Kelvin, Maxwell… tutti teisti, e in gran parte devoti cristiani (qui si possono leggere loro citazioni in merito). La loro fede era spesso la principale ispirazione, ad esempio la forza trainante alla base dell’intelletto indagatore di Galileo (1564-1642), era la sua profonda convinzione che il Creatore «che ci ha dotati di sensi, di discorso e d’intelletto, abbia voluto, posponendo l’uso di questi, darci con altro mezzo le notizie che per quelli possiamo conseguire» (citato in J. Lennox, “Fede e Scienza”, Armenia 2009, pag. 23). Mentre per Giovanni Keplero (1571-1630), «lo scopo principale di ogni indagine sul mondo esterno dovrebbe essere quello di scoprire l’ordine razionale che vi è stato imposto da Dio e che egli ci ha rivelato con il linguaggio della matematica» (citato in M. Kline, “Mathematics: the loss of certainty”, Oxford University Press 1980, pag. 31). Nel XVI secolo, Cartesio (1596-1650) giustificò la sua ricerca delle «leggi» naturali sul fatto che tali leggi dovessero esistere perché Dio era perfetto, e agiva «nel modo più costante e immutabile possibile» – tranne che nelle rare eccezioni dei miracoli (Cartesio, “Oeuvres”, libro 8, cap. 61). Il biochimico e teologo Ernest Lucas, professore onorario di Theology and Religious Studies presso l’University of Bristol, ha infatti giustamente confermato che «gli storici della scienza hanno riconosciuto sempre più spesso questo fatto: la fiducia dei primi scienziati moderni, Keplero, Bacone, Newton, di poter indagare il mondo trovandolo ordinato ed intellegibile scaturiva dalla fede cristiana. In secondo luogo, essi credevano di essere fatti ad immagine di Dio, e che quindi la loro mente sarebbe stata in grado -tanto per citare le famose parole di Keplero- di “pensare i pensieri di Dio dopo di Lui”, e di scoprire quell’ordine» (intervista in R. Stannard, “La scienza e i miracoli”, Tea 2006, pag. 221-222).
Non soltanto i padri della scienza erano guidati dalla fede cristiana, ma poterono confrontarsi grazie alle università, sorte durante il Medioevo. Lo conferma uno dei più importanti storici delle religioni viventi, Rodney Stark (1934), spiegando che le grandi innovazioni scientifiche «furono il culmine di molti secoli di progressi sistematici portati avanti dagli scolastici medievali e sorretti da un’invenzione del XII secolo prettamente cristiana: l’Università. Scienza e religione non erano solo compatibili, ma addirittura inseparabili, e la scienza nacque grazie a studiosi cristiani profondamente religiosi» (R. Stark, “La vittoria della ragione”, Lindau 2008). Le prime Università nacquero in Italia e in Europa, e non nel resto del mondo. E’ in questi luoghi, spesso di origine ecclesiastica e sotto il protettorato pontificio, che studiarono Galilei e gli altri padri della scienza e della medicina moderna, come hanno dimostrato gli studi del dott. José Alberto Palma della New York University e di Giorgio Cosmacini, maggior storico della medicina italiano, docente di Storia della medicina presso l’Università Vita-Salute San Raffaele e presso l’Università degli Studi di Milano. Il filosofo Stefano Zecchi, ordinario di estetica presso l’Università degli Studi di Milano, nel suo saggio “Storia dell’estetica, antologia di testi” (vol. I, Il Mulino 1995, p. 126,159), ha spiegato infatti: «L’origine anche medievale della scienza moderna è ben evidente qualora si studi la nascita dell’anatomia. Essa infatti sorge con le prime dissezioni di cadaveri umani, intorno al 1315 a Bologna. Per lungo tempo Bologna, Padova e Roma saranno le capitali mondiali di questa nuova scienza, abbondantemente favorita, come è chiaro dagli studi più recenti, dalla Chiesa cattolica» (si veda ad esempio M. Grmek – R. Bernabeo, “La macchina del corpo” in “Storia del pensiero medico occidentale”, vol. II, Laterna 1991, p.5; e G. Ferrari, “Il Rinascimento italiano e l’Europa: le scienze”, vol. V, p.341,361). Lo ha confermato anche Edward Grant, docente di Storia e Filosofia delle Scienze all’Indiana University: «Che cosa permise alla scienza di acquistare prestigio e influenza e di diventare nel secolo XVIII, una forza potente nei paesi dell’ Occidente europeo? Le risposte a queste domande vanno ricercate in alcune istituzioni e in alcuni atteggiamenti mentali, che si affermarono nella società occidentale fra il 1175 e il 1500. Erano nuovi in Europa e furono unici al mondo: 1) la traduzione in lingua latina dei testi greco-arabi di scienza e di filosofia naturale; 2) la creazione delle università medievali; 3) l’emergere di filosofi teologico-naturalisti» (E. Grant, “Le origini medievali della scienza moderna”, Einaudi 2001, pp.5-6).
E’ dunque il Medioevo, ancora oggi identificato come “secoli bui”, ad essere stato la culla della scienza. Come hanno scritto due prestigiosi storici della scienza, David C. Lindberg (già presidente della History of Science Society) e Ronald Numbers (University of Wisconsin–Madison), «i vecchi cliché circa la repressone perpetrata dalla teologia verso l’impresa scientifica durante l’età patristica e medievale sono stati ormai confutati in modo deciso» (D.C. Lindberg e R. Numbers, “Dio e natura, La Nuova Italia 1994, p. XXI). L’eminente storico della scienza, sir Alfred North Whitehead (1861-1947), dell’Università di Harvard, si domandò come poteva essere avvenuta una tale esplosione di conoscenze nel circoscritto periodo del 1700, e si rispose così: «La scienza moderna deve provenire dall’insistenza medievale sulla razionalità di Dio […]. La mia spiegazione è che la fede nella possibilità della scienza, generata anteriormente allo sviluppo della moderna teoria scientifica, sia un derivato inconscio della teologia medievale […]. Le ricerche sulla natura non potevano sfociare che nella giustificazione della fede nella razionalità» (A.N. Whitehead, “Science and the Modern World”, Macmillan 1925, pag. 19,31). Lo scrittore C.S. Lewis (1898-1963) sintetizzò così l’opinione di Whitehead: «Gli uomini divennero scientifici perché si aspettavano una legge in natura, e si aspettavano una legge in natura perché credevano in un legislatore». Anche lo storico e filosofo dell’Università di Bruxelles, Lèo Moulin (1906-1996), si è soffermato su questo: «Mi sono chiesto perché l’unica civiltà tecnologica e scientifica sia la nostra. Ho cercato di trovare le ragioni, posso garantire che ci rifletto da parecchio tempo, e l’unica spiegazione che ho trovato è la presenza del terriccio, dell’humus della cristianità. Perché? Perché Dio ha creato un mondo diverso da Lui, non si integra in esso» (L. Moulin, “L’europa dei monasteri e delle cattedrali“, Meeting per l’amicizia fra i popoli, Rimini 27/8/87).
Verso la metà del XVII secolo i cattolici francesi René Descartes, Marin Mersenne e Pierre Gassendi (il secondo dei quali era un monaco Minorita, e l’ultimo un sacerdote), «furono tra gli elaboratori principali della filosofia meccanicistica, che fornì un’alternativa alla filosofia naturale aristotelica e che gettò le basi di gran parte del lavoro scientifico a venire. La filosofia meccanicistica attraversò nuovi sviluppi nell’Inghilterra protestante, ove scienziati del calibro di Robert Boyle e Isaac Newton ne trovarono un sostegno nelle idee riformate sulla sovranità divina e sull’assoluta dipendenza della materia da Dio» (D.C. Lindberg e R. Numbers, “Dio e natura, La Nuova Italia 1994, p. XXVIII).
Nel maggio 2011 sul sito web di Nature, una delle riviste scientifiche più importanti del mondo, è apparsa una recensione al saggio di James Hannam, dottore in Storia e Filosofia della Scienza presso l’Università di Cambridge, intitolato “The Genesis of Science: How the Christian Middle Ages Launched the Scientific Revolution” (“La nascita della scienza: come il cristianesimo medioevale ha lanciato la rivoluzione scientifica”), selezionato per l’assegnazione del Royal Society Science Book Prize. Il ricercatore si è interrogato sul permanere di numerose leggende nere sulla presunta opposizione della Chiesa allo sviluppo scientifico, rispondendo: «la Chiesa non ha mai insegnato che la Terra fosse piatta e, nel Medioevo, nessuno la pensava così, comunque. I Pontefici non hanno cercato di vietare nulla, né hanno scomunicato qualcuno per la cometa di Halley. Nessuno, sono lieto di dirlo, è stato mai bruciato sul rogo per le sue idee scientifiche. Eppure, tutte queste storie sono ancora regolarmente tirate fuori come esempio di intransigenza clericale nei confronti del progresso scientifico». Al contrario, ha proseguito lo storico, fino alla Rivoluzione francese «la Chiesa cattolica è stata lo sponsor principale della ricerca scientifica. La chiesa anche insistito sul fatto che la scienza e la matematica avrebbero dovuto essere obbligatoria nei programmi universitari. Nel XVII secolo, l’ordine dei Gesuiti era diventata la principale organizzazione scientifica in Europa, con la pubblicazione di migliaia di documenti e la diffusione di nuove scoperte in tutto il mondo. Le cattedrali sono state progettate anche come osservatori astronomici per la determinazione sempre più precisa del calendario». Anche Hannam ha quindi sottolineato che tale sostegno alla ricerca scientifica è stato giustificato dal fatto che «i cristiani hanno sempre creduto che Dio ha creato l’universo e ordinato le leggi della natura. Studiare il mondo naturale significava ammirare l’opera di Dio. Questo “dovere religioso” ha ispirato la scienza quando c’erano pochi altri motivi per preoccuparsi di essa. È stata la fede che ha portato Copernico a respingere l’universo tolemaico, a spingere Keplero a scoprire la costituzione del sistema solare, e che convinse Maxwell dell’elettromagnetismo».
Nell’aprile 2012, lo storico Peter Harrison, docente e primo ricercatore presso il Centre of the History of European Discourses dell’University of Queensland, già docente presso l’Università di Edimburgo e Oxford, ha spiegato che «una alleanza tra scienza e ateismo è qualcosa che i fondatori della scienza moderna avrebbero trovato sconcertante. E’ noto da tempo che le figure chiave nella rivoluzione scientifica del XVII secolo hanno accarezzato sincere convinzioni religiose». Per loro, ha continuato, la religione «era parte integrante delle loro indagini scientifiche e ha fornito un fondamento metafisico fondamentale per la scienza moderna. Le vestigia delle convinzioni teologiche di questi pionieri della scienza moderna può ancora essere trovato nel comune presupposto che ci sono leggi di natura che possono essere scoperte dalla scienza».
Occorre infine chiarire che sarebbe falso dire che non ci fu, per tutto questo, alcun antagonismo tra scienza e fede. Ad esempio John H. Brooke (1944), il primo docente di Scienza e Religione ad Oxford, ha spiegato: «Nel passato le credenze religiose servivano da presupposto dell’impresa scientifica fintanto che sottoscrivevano tale uniformità, anche se le particolari concezioni della scienza sostenute dai suoi pionieri erano spesso ispirate da credenze teologiche e metafisiche» (J. Brooke, “Science & religion: some historical perspectives”, Cambridge University Press 1991, pag. 19). Questa lettura è condivisa dagli storici della scienza americani David C. Lindberg (già presidente della History of Science Society) e Ronald Numbers (University of Wisconsin–Madison): «Per quanto i primi Padri della Chiesa non giudicassero l’indagine del mondo materiale un fatto di priorità assoluta, tuttavia neppure reputavano priva di senso tale indagine; a lor occhi, la conoscenza degli enti materiali era valida ai fii dell’esegesi biblica e della difesa della fede, il che, senza dubbio, riduceva la scienza a un ruolo ancillare, ma era ben lungi dal sopprimerla […]. Il cristianesimo prese a prestito le sue categorie fondamentali e gran parte della propria metafisica e cosmologia da Aristotele; in cambio, la scienza ricevette un sostegno istituzionale e adito a nuovi punti di vista che la arricchirono e la riorientarono» (D.C. Lindberg e R. Numbers, “Dio e natura”, La Nuova Italia 1994, p. XXV, XXVI). La scienza nasce “serva” della teologia: cioè per capire l’opera di Dio, occorre fornirne una spiegazione. E’ esattamente così che si percepivano coloro che presero parte alle grandi conquiste del XVI e XVII secolo: come qualcuno che persegue i segreti della creazione (un “libro” che andava letto e compreso). E alcune volte, purtroppo, si è preteso che le scoperte scientifiche dovessero per forza confermare le scoperte teologiche.
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CONCLUSIONE.
Abbiamo dunque contribuito a dimostrare come la concezione cristiana dell’unico Dio Creatore non solo abbia svolto un ruolo essenziale e di fondamentale importanza nella nascita della scienza e nello sviluppo del metodo scientifco, ma sia stata la condizione indispensabile perché questo potesse accadere. Solo nell’occidente cristiano Dio è stato concepito come responsabile dell’esistenza e dell’ordine dell’universo e, grazie alla Sua incarnazione, divenuto incontrabile e conoscibile dall’uomo, anche attraverso i metodi della scienza.