Liban

Re: Liban

Messaggioda Berto » dom nov 05, 2017 10:52 pm

Chi è Aoun, cristiano maronita alleato Hezbollah
31 ottobre 2016, 15:48
di Lorenzo Forlani

https://www.agi.it/estero/libano_chi_ao ... 2016-10-31

Beirut - Dopo quattro turni di votazione in Parlamento, il Libano ha finalmente un presidente della Repubblica. È l'ottantunenne Michel Aoun, fondatore del principale partito cristiano maronita del Paese, il Free Patriotic Movement. "Giuro su Dio onnipotente di sostenere la Costituzione e garantire la stabilità del Libano", ha detto Aoun in Parlamento, dopo essere stato dichiarato presidente. "Dobbiamo vivere lo spirito della Costituzione che garantisca una parità reale (tra le confessioni, ndr), e adottare al più presto una legge elettorale che garantisca l'unità nazionale, la sicurezza e la stabilità, oltre ad attuare il decentramento amministrativo", ha continuato il generale, che ha fatto poi dei riferimenti alla "protezione del Paese dal nemico israeliano", al "diritto al ritorno" dei profughi palestinesi e alla situazione di quelli siriani.

LA CARRIERA MILITARE
Michel Aoun nasce in una famiglia cristiano maronita nell'area di Haret Hreik, una zona mista e popolata sopratutto da cristiani e musulmani sciiti, nel sud di Beirut, non lontano dal Palazzo presidenziale di Baabda che lo ha accolto oggi come nuovo Capo di Stato. Dopo essersi diplomato in Francia, nel 1955 entra nell'Accademia militare e tre anni dopo, nel 1958, ottiene il grado di ufficiale d'artiglieria nell'Esercito Nazionale, iniziando la sua carriera militare. Poco dopo sposa Nadia al Chami, dalla quale ha tre figlie: Mireille, Claudine e Chantal. Nel 1982, a conflitto civile libanese iniziato, Michel Aoun diviene generale di brigata dell'ottavo battaglione meccanizzato di fanteria, composto sopratutto da cristiani ma non solo: nel settembre 1983, dopo il ritiro delle truppe israeliane dal distretto di Chouf, che fungevano in un certo senso da "cuscinetto" tra il suo battaglione e le milizie druse, sciite pro-siriane e palestinesi, Aoun con i suoi uomini conduce una sanguinosa battaglia nel villaggio di Souq el Gharb, che verrà distrutto nei combattimenti. Con il controverso sostegno delle Forze Navali statunitensi, il battaglione di Aoun alla fine riesce a prendere il controllo dell'area.

DALLA PRESIDENZA AD INTERIM ALL'ESILIO IN FRANCIA
Nel 1984, con l'appoggio di buona parte della comunità musulmana, Michel Aoun diventa Capo di Stato maggiore della Difesa. Nel settembre del 1988 il presidente uscente Amin Gemayel, dopo aver dismesso il governo di Selim al Hoss, gli affida la presidenza del Libano ad interim, affiancandogli un "comitato" di sei ufficiali - tre cristiani e tre musulmani - osteggiata sopratutto dalla Siria. Sostenuto da Saddam Hussein con aiuti militari, Aoun combatte contro le truppe siriane e anche contro fazioni cristiano maronite, come le milizie delle Forze libanesi (oggi partito guidato da Samir Geagea), che inizialmente lo sostenevano. L'ingresso a Beirut della Forza araba di dissuasione guidata dalla Siria (e supportata dagli Stati Uniti in cambio del sostegno siriano contro Saddam), contestuale all'invasione del Kuwait di Saddam Hussein che aveva portato all'isolamento internazionale di quest'ultimo, porta il 13 ottobre 1989 all'assedio siriano del palazzo presidenziale di Baabda (area abbandonata durante i combattimenti da circa il 90% della popolazione), spingendo Aoun a rifugiarsi prima all'ambasciata francese e poi ad andare in esilio in Francia. Tutto ciò dopo aver contestato gli accordi di Taif sul riassetto del Libano, preparati nel corso dei due anni precedenti da Rafiq Hariri, futuro primo ministro assassinato nel 2005. In Francia Michel Aoun fonda il Free Patriotic Movement nel 2005, anno in cui torna in Libano e contesta la "Rivoluzione dei Cedri", nata dopo l'assassinio del primo ministro Rafiq Hariri (di cui principale sospettato è il regime siriano). Appoggia i partiti sciiti di Amal e Hezbollah, contro la maggioranza parlamentare anti siriana (al cui interno ci sono anche il movimento Futuro del figlio di Rafiq Hariri, Saad, il Partito socialista progressista del druso Walid Jumblatt e le Forze libanesi) che sostiene l'esecutivo guidato da Fouad Siniora. Alle elezioni parlamentari di maggio 2005 il partito di Aoun ottiene un gran numero di voti, facendolo eleggere in Parlamento e dando vita al piu' ampio blocco cristiano nell'Assemblea.

IL SODALIZIO CON HEZBOLLAH
Nel 2006 sancisce ufficialmente il sodalizio con Hezbollah, incontrando il segretario del Partito di Dio, Hassan Nasrallah, all'interno della Chiesa di Mar Mikhail, nell'area di Chiyah: un luogo che simboleggia la coesistenza cristiano-musulmana, situata all'interno di una microarea a maggioranza musulmana e risparmiata dai bombardamenti durante la guerra civile. Aoun e Nasrallah firmano così un memorandum of understanding, in cui viene discusso anche il disarmo delle milizie di Hezbollah a certe condizioni (non rispettate in seguito, come il ritorno dei prigionieri libanesi da Israele o la cessazione della percezione della minaccia posta dallo stesso stato israeliano) e una strategia difensiva contro la minaccia israeliana. Nel MoU viene discussa anche la necessità di avere relazioni diplomatiche con la Siria. Dopo l'incontro, Aoun e il suo partito, l'Fpm, entrano ufficialmente nella coalizione pro-siriana 8 marzo, con Hezbollah, Amal e altre formazioni minori. Nel 2008 - anno dell'elezione dell'ultimo presidente della Repubblica, Michel Sleiman, prima dell'odierna elezione di Aoun - l'Fpm entra per la prima volta nel governo, ottenendo tre ministeri. Ministeri confermati anche nel 2009, quando il governo viene affidato a Saad Hariri: tuttavia, a gennaio 2011 Aoun provoca le dimissioni dello stesso Hariri, ritirando i suoi tre rappresentanti degli stessi ministeri. Il governo viene quindi affidato a Najib Mikati, e la coalizione guidata dal Fpm ottiene ben dieci ministeri (alcuni anche ad Hezbollah). Il resto è storia recente: nel 2016 Michel Aoun - chiamato "il generale", che deve la sua popolarità tra la popolazione sopratutto per il suo ruolo di Capo delle Forze armate durante gli ultimi anni della guerra civile - si candida alla presidenza del Paese. Il suo principale avversario e' Suleiman Franjieh, leader del movimento Marada (anch'esso all'interno della coalizione 8 marzo), la cui candidatura era stata promossa a partire dal 2015 da Saad Hariri. Nel corso di quest'anno Aoun, in sordina - e mentre il suo partito assieme a Hezbollah boicottava le varie sessioni parlamentari (facendo mancare il quorum) non avendo alcun certezza che il generale potesse essere eletto -, ha ottenuto via via l'appoggio dei principali leader politici cristiani (avendo giaà quello di Hezbollah, ma non quello di Amal), il piu' sorprendente dei quali e' stato quello di Samir Geagea. L'endorsement decisivo e' pero' arrivato lo scorso 21 ottobre dal rivale Saad Hariri (il cui partito 'Futuro' ha il maggior numero di seggi in parlamento), dopo alcuni incontri privati con lo stesso Aoun, e in cambio della "promessa" di appoggiare il figlio di Rafiq Hariri alla carica di futuro primo ministro. Dopo l'endorsement di Hariri - a cui e' seguito anche quello del leader druso del Partito socialista progressista Walid Jumblatt - l'elezione di Aoun e' apparsa a tutti scontata. Oggi la conferma: con 83 voti ottenuti dopo quattro travagliati turni di votazione, il generale Michel Aoun e' il tredicesimo presidente del Libano. (AGI)



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Re: Liban

Messaggioda Berto » dom dic 10, 2017 9:25 pm

“Davide, discolpati!” di Rosellina Balbi: un articolo che a suo modo ha fatto storia
Emanuel Baroz 1 gennaio 2013

http://www.focusonisrael.org/2013/01/01 ... repubblica

Nell’ottica di proseguire l’opera di riproposizione di ciò che accadeva negli anni ’70 e ’80 in Italia, oggi postiamo quest’articolo del 6 Luglio 1982 (quindi dopo la manifestazione sindacale durante la quale venne gettata una bara davanti alla Sinagoga e prima del terribile attentato che colpì gli ebrei i taliani il 9 Ottobre 1982) che a suo modo fece la storia, sia perchè pubblicato su Repubblica (che già allora era nota per il suo pregiudizio antisraeliano), sia per il nome dell’autrice del testo. Resta incredibile notare come le accuse mosse contro lo Stato di Israele siano sempre le stesse da decenni, e continuino ad essere assurde. Ringraziamo infine alcuni amici che ci hanno aiutato nella ricerca e poi nella analisi del testo. Buona lettura.

Perché la condanna della politica di Begin si trasforma in una demonizzazione dello Stato d’Israele che finisce per coinvolgere tutti gli ebrei

Davide, discolpati!

di Rosellina Balbi

PROVATE ad immaginare per un momento che, nel settembre del 1939, scendessero in piazza a Berlino centomila persone per manifestare contro l’invasione della Polonia. E che un generale, già capo di Stato maggiore della Wehrmacht, protestasse pubblicamente per lo stravolgimento fatto da Hitler del ruolo dell’esercito, destinato, a giudizio del generale, esclusivamente alla difesa del suolo tedesco. E che un gruppo di soldati inviasse una lettera aperta ai giornali (e questi la stampassero), in cui le decisioni del governo venivano aspramente criticate. E che un movimento denominato «Pace, adesso» lanciasse lo slogan «Mai più una guerra come questa», riuscendo a mobilitare migliaia e migliaia di giovani.

E che un’altra organizzazione proclamasse di voler portare «aiuto umanitario» agli innocenti abitanti di Varsavia intrappolati dalla guerra. Confessiamolo: neppure la più sbrigliata inventiva da romanziere fantapolitico riuscirebbe a rendere credibile un simile «scenario». E tuttavia, in un paese che oggi molti definiscono «nazista», e al quale si attribuisce da tante parti la volontà di perpetrare un genocidio, in questo paese sono avvenute e stanno avvenendo cose come quelle che ho raccontate prima (traggo le informazioni dalla stampa francese, non certo sospetta di tenerezza verso la politica israeliana).

Pregiudizio sfavorevole
Basta sostituire ai polacchi i libanesi e i palestinesi, alla Wehrmacht le truppe di Israele, Tel Aviv a Berlino, Beirut a Varsavia e Begin – nientemeno – a Hitler. Per quale motivo, dunque, sono state riesumate (sia pure sull’onda dell’emozione di fronte a tanta tragedia) le vecchie parole legate all’orrore di quaranta anni fa? Perché la stella di Davide è stata presentata come una nuova croce uncinata? Perché, come ha scritto Alain Finkielkraut su Le Matin, nei confronti di Israele c’è come una «indignazione selettiva»? A leggere i giornali. osserva lo stesso Finkielkraut, si direbbe che «soltanto Israele versi il sangue nel Medio Oriente, che la guerra Irak-Iran sia stato un conflitto tutto da ridere, che fino alle ultime settimane il Libano fosse una Terra Promessa»; laddove in quel disgraziatissimo paese la guerra civile «ha fatto almeno cinque volte più vittime dell’invasione israeliana».

Naturalmente non è questione di contabilità (altrimenti si porrebbero ricordare, come ha fatto sull’Observer Connor Cruise O’ Brien, i ventimila morti provocati dall’assalto sferrato alla città siriana di Hama da parte delle truppe governative, nell’intento di sbarazzarsi dei ribelli armati mescolati alla popolazione civile). È invece questione di parole: che in questo caso sono più che pietre. «La funzione di uno scrittore è quella di chiamare “gatto” un gatto. Se le parole sono malate, spetta a noi guarirle». Lo ha detto Sartre (e lo ha ricordato Finkielkraut). Ora, mai come in questi giorni abbiamo ascoltato un cosi gran numero di parole «malate».

Nel Libano sono morte molte migliaia di persone innocenti – oltre ai combattenti palestinesi. È giusto provare per tutto ciò pietà, orrore, sdegno. Ma questo non autorizza, mi pare, l’uso del termine «genocidio». Finkielkraut osserva che «se Israele avesse perseguito il genocidio, non avrebbe invitato gli abitanti a lasciare le città libanesi, prima di effettuarne il bombardamento» (avvertimento che durante la seconda guerra mondiale non venne mai dato: non dai nazisti nel caso di Coventry, e neppure dagli alleati nei casi di Dresda, di Hiroshima e Nagasaki). lo vorrei sottolineare un’altra cosa: che sarebbe stato lecito paragonare Beirut, per l’appunto, a Dresda, ma non ad Auschwitz: che era, e resta, un’altra cosa.

Credo che il nocciolo della questione sia stato messo a nudo da Rossana Rossanda in un articolo apparso qualche giorno fa sul Manifesto: la pretesa, da parte dell’opinione pubblica europea, che Israele, e soltanto Israele, sia uno Stato «giusto». Se non si comporta come tale, ecco l’indignazione (selettiva). Non è una pretesa nuova: ricordo che anni fa se ne fece portavoce sulla Stampa Natalia Ginzburg, lamentando che gli israeliani, nel prendere le armi, avessero abbandonato la nobile tradizione ebraica della non-violenza. Ma è una pretesa insensata (lo ha osservato anche Rossanda). Stati «giusti» non esistono, e ancor meno Stati «innocenti». E cosi torniamo al punto di prima: perché solo Israele non viene giudicato con i criteri che si usano applicare agli altri Stati? Perché questo pregiudizio viscerale?

Si condanna la politica di Begin. D’accordo. La si giudica negativamente sul piano morale (un «delitto») e negativamente sul piano politico (un «errore»). D’accordo. Ma, per pronunciare questa condanna, bisognerebbe avere le carte in regola. Bisognerebbe ricordare «tutti» gli elementi del quadro, non solo quelli sfavorevoli a Israele. Bisognerebbe far presente, ad esempio, che la sovranità del Libano era da tempo una finzione; che nessun trattato di pace aveva messo fine alle ostilità tra arabi e israeliani; che da anni sulla terra d’Israele piovevano missili provenienti dal Libano; che in quel paese i palestinesi s’erano strettamente mescolati alla popolazione civile; che i palestinesi, ancora, hanno sempre rifiutato il diritto all’esistenza di Israele; che è stato questo rifiuto a impedire ai progressisti israeliani di far crescere il consenso popolare intorno a un progetto di trattativa politica: come diavolo si può negoziare quando l’interlocutore non esiste? E non è forse per questa «impasse» che Begin, e le forze che egli rappresenta, hanno finito per andare al potere?

Quando si è ricordato tutto questo – «solo» quando si è ricordato tutto questo – si ha il diritto, diciamo pure il dovere, di condannare Israele. Ma il pregiudizio sfavorevole è tale, che si sono addirittura passate sotto silenzio certe informazioni e si sono evitate certe analisi. Perché nessun giornale, o quasi, ha dato notizia del ritrovamento in Libano dei campi di addestramento per i terroristi europei? Forse perché ne avrebbe sofferto la divisione manichea tra «buoni» e «cattivi»? E perché si è taciuto del linciaggio, da parte palestinese, di piloti israeliani (le orrende immagini sono apparse nel Tg2)? E perché non si è messo più vigorosamente l’accento sulle responsabilità dei paesi arabi i quali – dopo aver invitato, nel 1948, gli abitanti arabi della Palestina a lasciare le proprie case – si sono poi rifiutati di assorbirli, li hanno rinchiusi nei campi sul confine israeliano e li hanno incitati alla guerra? e tanto poco li amano, che oggi non hanno mosso un dito per aiutarli, e magari sono lieti che Israele tolga le castagne dal fuoco per loro? Perché di tutto questo si tace? Scriveva nel 1976 lo scrittore svizzero Friedrich Durrenmatt che lo Stato di Israele ha questo di peculiare: che «di fatto esiste, ma non sembra necessario a molti, anzi disturba sempre più, si vorrebbe che non esistesse; anche coloro che ne affermano l’esistenza sarebbero felici che non esistesse».

l buoni e i cattivi
Nell’articolo che ho citato più sopra, Rossana Rossanda si chiede per quale motivo, di fronte all’invasione israeliana del Libano, gli ebrei della Diaspora si sentano cosi terribilmente lacerati e coinvolti: “Io non mi sento che moderatamente responsabile di quello che fa Spadolini; e scrivere che l’Italia, oggi come oggi, un paese immondamente corrotto, non mi crea problema alcuno ( … ) perché dunque gli ebrei della Diaspora sentono una tragedia morale per quel che accade in Israele?»

Temo che la risposta sia, tutto sommato, semplice. Perché hanno paura. Perché, a «coinvolgerli», sono gli altri. Perché ogni deplorazione, ogni condanna della politica israeliana ha puntualmente provocato, in Europa, sussulti di antisemitismo. È accaduto in questi giorni in Inghilterra. È accaduto in Francia. È accaduto anche in Italia, dove – lo ha denunciato il rabbino Toaff – durante la recente manifestazione romana per lo sciopero generale «i dimostranti, sfilando o fermandosi davanti alla sinagoga, hanno gridato slogan diretti non solo verso il governo e lo Stato d’Israele, ma contro tutti gli ebrei in generale», portando addirittura una bara «proprio sotto alle due lapidi murate sulla facciata del tempio a ricordo degli ebrei trucidati alle Fosse Ardeatine ed a quelli caduti nella Resistenza».

Ed è grave che Luciano Lama, rispondendo a Toaff, dopo avere riaffermato che il movimento sindacale è nemico del fascismo e dell’antisemitismo, e dopo avere deplorato questi episodi, ha aggiunto essere comprensibile come, di fronte a ciò che accade nel Libano, «si sviluppi in vasti strati di cittadini e di lavoratori un sentimento di condanna politica e morale della linea brutale e aggressiva seguita dal governo Begin».

Guarire le parole
E questo, secondo Lama, dovrebbe giustificare gli insulti e le minacce al tempio ebraico? A quante chiese si sarebbe allora dovuto portar offesa nel corso della Storia, ogni qual volta il governo di uno Stato «Cristiano» assumeva iniziative deplorevoli? Perché confondere una religione con uno Stato? Lama non se ne è certo reso conto, ma queste sue parole sono pericolose. Sono, come avrebbe detto Sartre, «malate».

Ecco perché, amica Rossanda, gli ebrei della Diaspora si sentono coinvolti Sul tuo stesso giornale non è forse apparso un articolo in titolato «ll Dio violento di Israele»?

Il Dio degli ebrei, dunque; il Dio di tutti loro, fuori e dentro lo Stato. Mi sbaglierò, ma dietro la «dichiarazione» contro Begin pubblicata su Repubblica, e firmata quasi esclusivamente da ebrei, c’è anche il timore, conscio o inconscio, di venire accomunati nella condanna della politica di Israele; e dunque il bisogno dì dissociarsene, di far sapere che non tutti gli ebrei sono «cattivi».

Ha scritto ancora Durrenmatt: «In qualsiasi nome Israele venga condannato – in nome degli arabi, del blocco neutrale, dei progressisti, in nome della donna, dell’Unesco, forse presto anche in nome dell’Onu o addirittura anche in nome della libertà e della giustizia – sono tutti nomi di cui si è fatto un cattivo uso, scarabocchiati da giudici disonesti su documenti falsificati». Scritti, per l’appunto, con parole «malate».

Perché non provare a «guarirle», queste parole? Ci si è provato l’altro giorno il vecchio Mendès France con il suo appello, in cui si auspica che venga finalmente intavolato un negoziato tra Israele e i palestinesi. Un appello che il consigliere politico di Arafat, lssam Sartoui, ha definito «pieno di saggezza». E, come è noto, lo stesso Arafat – sia pure in modo meno esplicito – sembra averne dato un giudizio analogo. Se le cose procederanno in questa direzione, qualche novità, psicologica e politica, potrà profilarsi anche all’interno di Israele.

Ecco: quello di Mendès è un tentativo di «guarire» le parole. E «guarire» le parole è un modo serio per cercar di «guarire» le cose. Di guarire questa ferita profonda, dalla quale è già sgorgato tanto sangue. Di far sì, soprattutto, che questo sangue non sia sgorgato inutilmente.

(Fonte: La Repubblica, 6 Luglio 1982)

Nell’immagine in alto: l’articolo originale pubblicato sul quotidiano “La Repubblica”, il 6 Luglio 1982
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Re: Liban

Messaggioda Berto » mar gen 23, 2018 10:14 pm

Non più dhimmi - Il trauma dei cristiani in Medio Oriente
23/01/2018

http://www.linformale.eu/non-piu-dhimmi ... niel-pipes


Questo articolo è la trascrizione aggiornata di una conferenza tenuta da Daniel Pipes il 7 marzo 2012 al Christian Solidarity International, un organismo internazionale con sede a Zurigo, in Svizzera, ed è contenuto nel volume The Future of Religious Minorities in the Middle East, a cura di John Eibner. Lanham, Md.: Rowman & Littlefield, 2018, pp. 13-20.

Nel mondo musulmano sunnita, si è sviluppata una nuova corrente di pensiero: la pulizia etnica. Non è un genocidio, ma riguarda l’espulsione delle popolazioni non sunnite. La sua diffusione implica che le minoranze non sunnite avranno un triste futuro nei paesi a maggioranza musulmana; e alcune potrebbero anche non avere un futuro.

Traccerò le origini della pulizia etnica in Medio Oriente, ne rileverò l’impatto soprattutto sui cristiani e analizzerò le possibili reazioni a questo.

Per cominciare, esaminiamo la posizione dei non musulmani nei paesi a maggioranza musulmana prima del 1800.

I musulmani dividevano i non musulmani in due categorie: i monoteisti riconosciuti dall’Islam come seguaci di una fede valida (per lo più ebrei e cristiani) e i politeisti (soprattutto gli induisti), privi di tale riconoscimento. La prima categoria, l’argomento di cui ci stiamo occupando, è nota come Genti del Libro (Ahl al-Kitab).

I musulmani erano relativamente tolleranti nei confronti delle Genti del Libro – ma solo se esse accettavano di diventare dhimmi (persone protette) riconoscendo il dominio dei musulmani e la superiorità dell’Islam: in altre parole, se accettavano di essere inferiori. I dhimmi dovevano pagare tasse speciali (la jizya), non potevano servire nell’esercito o nella polizia, o più in generale non potevano esercitare alcuna autorità sui musulmani. Le leggi suntuarie abbondavano; un cristiano o un ebreo doveva camminare a piedi o andare in groppa a un mulo, ma non a cavallo e per strada doveva cedere il passo ai musulmani. (Ovviamente, la pratica effettiva differiva da un paese all’altro o da un’epoca all’altra.)

Lo status accordato alle minoranze religiose rese i paesi governati dai musulmani molto diversi dal Cristianesimo premoderno. I cristiani che vivevano sotto il dominio islamico godevano di condizioni di vita migliori rispetto a quelle di cui godevano i musulmani sotto il dominio cristiano. Intorno al 1200, si preferiva essere un cristiano nella Spagna islamica anziché un musulmano nella Spagna cristiana. E così anche per gli ebrei: Mark R. Cohen osserva che “sotto l’Islam, soprattutto durante i secoli formativi e classici (fino al XIII secolo), gli ebrei subirono molte meno persecuzioni rispetto agli ebrei vissuti nel mondo cristiano”.

Ma non dobbiamo idealizzare la condizione di dhimmitudine. Sì, è vero, offriva un certo livello di tolleranza, convivenza e deferenza – ma queste si basavano sul presupposto della superiorità musulmana e dell’inferiorità non musulmana. I musulmani potevano anche abusare a piacimento di questa condizione. Nessun cittadino moderno accetterebbe gli inconvenienti di vivere come dhimmi.

Di fatto, la condizione di dhimmitudine fu abolita nei tempi moderni, vale a dire dopo il 1800, quando le potenze europee (quella inglese, francese, olandese, spagnola, italiana, russa e altre) sconvolsero quasi tutto il mondo islamico. Perfino quei pochi paesi – Yemen, Arabia, Turchia, Iran – che sfuggirono al diretto controllo europeo sentirono il predominio dell’Europa.

Gli imperialisti cristiani ribaltarono la dhimmitudine, favorendo i cristiani e gli ebrei, i quali mostrarono una maggiore disponibilità ad accettare i nuovi governanti, ad imparare le loro lingue e competenze, a lavorare per loro e a fungere da intermediari per la popolazione a maggioranza musulmana. Ovviamente, le popolazioni a maggioranza musulmana mal sopportavano questo elevato status di cristiani ed ebrei.

Quando il dominio europeo raggiunse la sua inevitabile fine, i musulmani, una volta tornati al potere, ricollocarono le minoranze al loro posto, e cosa peggiore, non ripristinarono la dhimmitudine, che era stata eliminata. Insicuri di se stessi, i nuovi governanti in genere guardavano cupamente le Genti del Libro, arrabbiati con loro per aver servito gli imperialisti e sospettosi dei loro legami permanenti con l’Europa (e nel caso degli ebrei, i legami con Israele).

Si potrebbe dire che lo status di cittadini di seconda classe dei dhimmi sia ora diventata una condizione di cittadini di terza o quarta classe. Con il crollo dell’Impero ottomano ci furono più persecuzioni di cristiani ed ebrei di quanti ce ne fossero mai state prima, a cominciare dal genocidio del popolo armeno in Turchia nel primo decennio del XX secolo fino ad arrivare ai recenti traumi subiti dai cristiani in Iraq e in Siria.

Prima di continuare con l’esperienza cristiana, soffermiamoci brevemente su quella ebraica. Le antiche comunità ebraiche scomparvero a seguito della fine dello status di dhimmitudine e la creazione dello Stato di Israele nel 1948. Gli ebrei se ne andarono o furono cacciati soprattutto nei venti anni successivi alla Seconda guerra mondiale. La piccola ma vivace comunità ebraica dell’Algeria offre forse l’esempio più lampante dei cambiamenti post-imperiali. Gli ebrei residenti in quel paese erano talmente legati al governo francese che l’intera comunità ebraica lasciò l’Algeria nel luglio 1962 insieme ai governanti francesi. [i] Nel 1945, la popolazione ebraica dei paesi a maggioranza musulmana contava circa un milione di persone; oggi, si aggira tra i 30-40 mila e quasi tutte vivono in Iran, Turchia e in Marocco. In pochissimi risiedono altrove: forse in Egitto ci sono60 ebrei, 9 in Iraq e ancora meno in Afghanistan. Queste sparute comunità di persone anziane non esisteranno più nel giro di pochi anni.

C’è un modo dire che recita: “Prima il popolo del Sabato poi il popolo della Domenica”. E adesso è il turno dei cristiani. I cristiani ora reiterano l’esodo ebraico. Dal 1500 al 1900, i cristiani costituivano un consistente 15 per cento della popolazione mediorientale, secondo David B. Barrette Todd M. Johnson. Nel 1910, questa percentuale era scesa al 13,6 per cento, secondo Todd M. Johnson e Gina A. Zurlo; e nel 2010, i cristiani si erano ridotti a un misero 4,2 per cento, ossia meno di un terzo rispetto a un secolo prima. Ovviamente, la tendenza al ribasso continua rapidamente.

Come afferma il giornalista Lee Smith: “Essere cristiani in Medio Oriente non è mai stato facile, ma l’ondata di tumulti che ha investito la regione in quest’ultimo anno ha reso quasi insopportabile la situazione per la minoranza cristiana della regione”.[ii] Gli esempi sono allarmanti e per molti versi senza precedenti nella lunga storia delle relazioni fra cristiani e musulmani. Eccone alcuni (a tale riguardo, ringrazio Raymond Ibrahim):

In Nigeria, il gruppo islamista BokoHaram uccise nel 2010 almeno 510 persone, soprattutto cristiane, incendiando o distruggendo più di 350 chiese in dieci stati nel nord del paese.
In Uganda, la vigilia di Natale del 2011, i musulmani gettarono dell’acido in faccia a un pastore di una chiesa provocandogli gravi ustioni.
In Iran, le forze di sicurezza hanno fatto irruzione in una chiesa dove si stava celebrando il Natale e tuti i presenti, compresi i bambini della scuola domenicale, sono stati arrestati e interrogati.
In Tajikistan, un giovane vestito da Nonno Gelo (ossia Babbo Natale) è stato accoltellato a morte mentre visitava i parenti e portava doni.
In Malesia, i parroci e i dirigenti delle chiese hanno dovuto ottenere il permesso per cantare le carole natalizie, fornendo le loro identità e i numeri delle loro carte d’identità alle stazioni di polizia.
In Indonesia, “vandali” hanno decapitato la statua della Vergine Maria.

Il messaggio è chiaro: “Cristiani, non siete i benvenuti. Andatevene”.

I cristiani hanno risposto rapidamente lasciando il Medio Oriente, al punto che la fede sta morendo nel suo luogo di nascita. In Turchia, la popolazione cristiana contava 2 milioni di fedeli nel 1920, ma ora ne conta qualche migliaio. In Iraq, il Christian Solidarity International ha scoperto nel 2007 che circa la metà del milione di cristiani che vivevano lì, nel 2003 era fuggita dal paese.Forte il grido dell’Iraqi Christian Relief Council: “Siamo in via di estinzione”.[iii] In Siria, all’inizio del secolo scorso, i cristiani rappresentavano circa un terzo della popolazione, oggi sono meno del 10 per cento. In Libano, la percentuale è passata dal 55 per cento di 70 anni fa a meno del 30 per cento di oggi. I copti se ne stanno andando come mai era successo prima nella loro lunga storia.

In Terra Santa, i cristiani costituivano il 10 per cento della popolazione nel periodo ottomano; quella cifra si attesta oggi intorno al 2 per cento. Betlemme e Nazareth, le più identificabili di tutte le città cristiane, per quasi due millenni sono state a maggioranza cristiana, ma ora non più: sono città a maggioranza musulmana. A Gerusalemme, nel 1922, i cristiani erano più numerosi dei musulmani; oggi, i cristiani della città sono solo il 2 per cento della popolazione. Nonostante questa emigrazione, Khaled Abu Toameh, un giornalista palestinese musulmano, osserva che “Israele rimane l’unico posto in Medio Oriente dove i cristiani arabi si sentono protetti e al sicuro”.[iv]

Il Wall Street Journal riporta che oggi “sono più numerosi i cristiani arabi che vivono al di fuori del Medio Oriente di quelli rimasti nella regione. Circa venti milioni vivono all’estero, contro i 15 milioni di cristiani arabi che rimangono nel Medio Oriente, secondo un rapporto dell’anno scorso di un trio di charities cristiane e dell’Università di East London”. Citando Samuel Tadros dello Hudson Institute, il quotidiano rileva che il numero delle chiese copte negli Stati Uniti è aumentato passando da due nel 1971 a 252 nel 2017.

I cristiani d’Oriente stanno affrontando questa crisi in vari modi. Ne esaminerò tre.

I cattolici melchiti (che vivono principalmente in Libano e in Siria) hanno cercato di evitare problemi dicendo ai musulmani esattamente ciò che vogliono sentirsi dire. Il patriarca Grégoire III Laham di Antiochia, disse in modo memorabile nel 2005:

Noi siamo la Chiesa dell’Islam. (…) L’Islam è il nostro ambiente, il contesto in cui viviamo e con cui siamo storicamente solidali. (…) Capiamo l’Islam dall’interno. Quando sento un versetto del Corano, per me non si tratta di una cosa estranea. È una espressione della civiltà cui appartengo.[v]

Grégoire III accusava l’Occidente dell’islamismo: “Il fondamentalismo è una malattia che si scatena e prende piede davanti al vuoto della modernità occidentale”.[vi] Allo stesso modo, il patriarca di Antiochia nel 2010 accusò Israele degli attacchi jihadisti ai cristiani d’Oriente: La violenza non ha niente a che fare con l’Islam. (…) Ma in realtà è un complotto ordito dal sionismo e da alcuni cristiani con orientamenti sionisti e mira a minare l’Islam e a darne una cattiva immagine. (…) È anche un complotto contro gli arabi (…) per negare loro i diritti e soprattutto quelli dei palestinesi.[vii]

E nel 2011 Grégoire III ha aggiunto che il conflitto arabo-israeliano è “l’unico” motivo dell’emigrazione dei cristiani orientali dal Medio Oriente e questo sta causando la loro “estinzione demografica”.[viii]

L’approccio del patriarca di Antiochia equivale a dire: musulmani, per favore, non fateci del male; diremo tutto ciò che volete. Non abbiamo una nostra identità. Siamo, di fatto, una specie di musulmani. È una supplica dhimmi per l’era post-dhimmi.

I maroniti storicamente hanno offerto l’esempio più eclatante di contrapposizione a questa autodenigrazione. Per ragioni teologiche (la Chiesa cattolica) e geografiche (le montagne), essi rappresentavano la comunità cristiana più assertiva e libera del Medio Oriente. Armati e autonomi, mantennero a distanza i signori islamici.

Nel 1926, indussero una potenza imperiale, la Francia, a creare uno Stato – il Libano – per loro. Ma i maroniti erano avidi: anziché accettare un “Piccolo Libano” dove loro e altri cristiani avrebbero costituito l’80 per cento della popolazione, chiesero e ottennero un “Grande Libano” dove costituirono meno del 40 percento della popolazione totale. Cinquant’anni dopo, nel 1976, i maroniti pagarono il prezzo di questa pretesa quando i musulmani scatenarono una guerra civile che durò quindici anni e distrusse il potere maronita.

I maroniti reagirono accusandosi a vicenda. Se alcune fazioni continuarono ad essere ribelli, la fazione più importante divenne simile ai melchiti. Nel 1991, l’ex generale Michel Aoun affrontò i siriani; oggi, adula Hezbollah e serve il jihad. Come rilevato da Lee Smith:

I maroniti si erano sempre distinti per essere una delle più ostinatamente indipendenti sette religiose della regione. Ma la paura, il risentimento e il calcolo politico a breve termine oggi li hanno spinti a cercare protezione e patrocinio da parte degli elementi più pericolosi e retrogradi del Medio Oriente: la Siria, l’Iran e Hezbollah.[ix]

In breve, i maroniti sono passati dall’essere dei cristiani liberi a dhimmi parziali.


Dalla conquista islamica, circa quattordici anni fa, i copti egiziani hanno intrapreso un cammino quasi opposto a quello maronita. La loro geografia (piatta), la loro storia (un forte governo centrale) e la loro società (frapposta tra i musulmani) erano sfavorevoli al potere indipendente, costringendo i copti a chinare il capo. Accettando pienamente la condizione di dhimmitudine, i copti sopravvissero e riuscirono a resistere all’islamizzazione meglio di quanto fecero molti altri cristiani d’Oriente, come attestano i loro numeri relativamente elevati.

L’epoca coloniale offrì loro un ruolo più importante, che assunsero prontamente, come simboleggiato dal nonno dell’ex segretario generale delle Nazioni Unite BoutrosBoutros-Ghali, che fu primo ministro dell’Egitto dal 1908 al 1910. Questa parentesi di potere terminò con la partenza degli inglesi negli anni Cinquanta.

A partire dal 1980, ebbero luogo due sviluppi paralleli. Da un lato, gli islamisti presero sistematicamente di mira i copti, praticando varie forme di coercizione e violenza contro di loro, spalleggiati dal governo egiziano, che in genere attribuisce al fatto di mantenere ottime relazioni con gli islamisti maggiore priorità rispetto al fatto di proteggere la sua minoranza cristiana. I cristiani divennero una specie di calcio politico; ad esempio, Hosni Mubarak fece il doppio gioco, fingendo di essere il protettore dei copti, mentre era tutt’altro.

In compenso, i copti, dopo secoli di semisilenzio, trovarono la loro voce collettiva. Si organizzarono per difendersi, per parlare apertamente del loro dramma e guidare le proteste quando un presidente egiziano si recò in visita a Washington. Nonostante una lunga tradizione di quiescenza, i copti stavano diventando i nuovi maroniti.

Nonostante questi disparati metodi – super-dhimmi, dhimmi e assertivo – il futuro del Cristianesimo in Medio Oriente sembra cupo. La posizione ammessa del dhimmi ha lasciato il posto a un fugace miglioramento seguito da una mentalità di pulizia etnica.

Si sente molto parlare dell’odio e della paura dell’Islam, ora chiamati “islamofobia”. Ma secondo Ayaan Hirsi Ali, ex musulmana ed ex parlamentare olandese, il vero problema è qualcosa di completamente diverso: la cristofobia.

Una valutazione imparziale degli eventi e delle tendenze recenti porta alla conclusione che l’entità e la gravità dell’islamofobia impallidiscono rispetto alla sanguinosa cristofobia che attualmente è in corso nei paesi a maggioranza musulmana da un capo all’altro del globo. Il complotto del silenzio che circonda questa violenta espressione di intolleranza religiosa deve cessare. È in gioco nientemeno che il destino del Cristianesimo, e in definitiva di tutte le minoranze religiose [tra i musulmani].[x]

Insieme, la pulizia etnica degli ebrei e quella dei cristiani segnano la fine di un’era. L’affascinante molteplicità di aspetti della vita mediorientale viene ridimensionata alla piatta monotonia di un’unica religione e di una manciata di minoranze assediate. L’intera regione, non solo le minoranze, è impoverita da questa tendenza.

Cosa possono fare gli occidentali – e in particolare Christian Solidarity International – per risolvere questo problema?

Esistono soltanto due opzioni: proteggere i non musulmani – cristiani ed altri – in modo che continuino a vivere nei paesi a maggioranza musulmana oppure aiutarli ad andarsene, rinunciando alle loro storiche patrie.

La prima opzione è ovviamente preferibile perché i cristiani hanno un diritto inalienabile a restare nei loro paesi. Ma in che modo gli occidentali li aiutano a raggiungere questo obiettivo? Ciò richiede sia atti di volontà da parte loro sia una propensione da parte dei musulmani al cambiamento. Ma nessuna delle due ipotesi sembra minimamente una prospettiva realistica. Soprattutto quando sono in gioco i diritti umani degli altri, i governi democratici da soli non possono prendere delle decisioni: hanno bisogno del sostegno popolare. Al momento, gli occidentali sembrano riluttanti a prendere i provvedimenti necessari – come la pressione economica e militare – per garantire la sopravvivenza in loco del Cristianesimo mediorientale.

Il che rende l’alternativa meno allettante: aiutare i cristiani ad andarsene e accoglierli. L’emigrazione è un’esperienza intrinsecamente dolorosa e le democrazie avranno difficoltà a formulare politiche che diano priorità ai fedeli di certe religioni. Indipendentemente da questi e altri aspetti negativi, la migrazione è un’opzione reale e su cui agire quotidianamente.

E così, i cristiani d’Oriente,tragicamente, stanno scomparendo sotto i nostri occhi dalle loro antiche terre natali.

Traduzione in italiano di Angelita La Spada

Qui l’articolo originale in lingua inglese

Opere citate

Ali, AyaanHirsi. “The Global War on Christians in the Muslim World”. Newsweek. February 6, 2012.

Berger, Judson. “Mob Attacks on Iraqi Christian Businesses Raise Security Concerns”. Fox News. December 9, 2011.

Lloyd C. Briggs and NorinaLamiGuède, No More For Ever: A Saharan Jewish Town, (Cambridge, Mass: Papers of the Peabody Museum of Archaeology and Ethnology, 1964).

Cohen, Mark. Under Crescent and Cross – The Jews of the Middle Ages (Princeton: Princeton University Press, 1994).

Fowler, Jack. “Melkite Patriarch Absolves Islam, Blames ‘Zionist Conspiracy’”. National Review. December 13, 2010.

The Free Library. “Catholic patriarch warns Christians face ‘extinction’”. The Free Library. No date.

Toameh, Khaled Abu. “Arab Spring Sending Shudders Through Christians in the Middle East”. GatestoneInstitute. December 20, 2011.

Valente, Gianni. “Noi siamo la Chiesa dell’islam. Intervista con il patriarca di AntiochiaGrégoire III Laham”. Sinodo dei Vescovi n. 10 (2005).

[i] Lloyd C. Briggs and NorinaLamiGuède, No More For Ever: A Saharan Jewish Town, (Cambridge, Mass: Papers of the Peabody Museum of Archaeology and Ethnology, 1964).

[ii] Lee Smith, “Agents of Influence,” Tablet, January 4, 2012 (consultato il 17 febbraio 2017).

[iii]Citato in precedenza da Judson Berger, “Mob Attacks on Iraqi Christian Businesses Raise Security Concerns,” Fox News, December 9, 2011 (consultato il 17 febbraio 2017).

[iv]Cfr.Khaled Abu Toameh, “Arab Spring Sending Shudders Through Christians in the Middle East,” Gatestone Institute, December 20, 2011 (consultato il 17 febbraio 2017).

[v]Citato in precedenza da Gianni Valente, “Noi siamo la Chiesa dell’Islam”. Intervista con il patriarca di Antiochia Grégoire III Laham, Sinodo dei Vescovi no. 10 (2005) (consultato il 17 febbraio 2017).

[vi]Ibid.

[vii] Citato in precedenza da Jack Fowler, “Melkite Patriarch Absolves Islam, Blames ‘Zionist Conspiracy,'” National Review, December 13, 2010 (consultato il 17 febbraio 2017).

[viii]Citato in precedenza daThe Free Library, “Catholic patriarch warns Christians face ‘extinction,'” The Free Library, n.d. (consultato il 17 febbraio 2017).

[ix] Lee Smith, “Agents of Influence,” Tablet, January 4, 2012 (consultato il 17 febbraio 2017).

[x] AyaanHirsi Ali, “The Global War on Christians in the Muslim World,” Newsweek, February 6, 2012, (consultato il 17 febbraio 2017).

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Re: Liban

Messaggioda Berto » gio lug 25, 2019 6:33 am

La "morte lenta" dei palestinesi in Libano
Khaled Abu Toameh
24 luglio 2019

https://it.gatestoneinstitute.org/14593 ... esi-libano

In qualche modo, i provvedimenti discriminatori e razzisti adottati dal Libano nei confronti dei palestinesi non sembrano disturbare i gruppi pro-palestinesi in tutto il mondo. Questi gruppi fingono regolarmente di non vedere le sofferenze dei palestinesi che vivono nei paesi arabi. Piuttosto, focalizzano la loro attenzione su Israele, osservandolo e criticandolo per abusi immaginari contro i palestinesi.

Più di centomila palestinesi cisgiordani sono autorizzati a lavorare in Israele, secondo fonti palestinesi e israeliane. Inoltre, le fonti riferiscono che migliaia di palestinesi entrano ogni giorno in Israele senza permessi.

Il 15 luglio, il numero dei lavoratori palestinesi che sono entrati in Israele, secondo il ministero della Difesa israeliano, ammontava a più di 80 mila.

La scorsa settimana, nell'ambito dei tentativi di raggiungere un accordo di tregua tra Israele e Hamas, secondo quanto riportato, Israele avrebbe deciso di incrementare il numero dei commercianti e degli imprenditori palestinesi della Striscia di Gaza autorizzati a entrare in Israele, portandolo da 3.500 a 5.000.

I media riferiscono che l'ultimo gesto israeliano è stato il risultato di tentativi compiuti dall'Egitto e dalle Nazioni Unite di impedire un confronto militare a tutto campo tra Israele e Hamas.

Mentre Israele aumenta costantemente il numero dei permessi di lavoro per i palestinesi della Cisgiordania e della Striscia di Gaza, il Libano, al contrario, ha avviato un giro di vite senza precedenti sui lavoratori stranieri irregolari, compresi i palestinesi, innescando così un'ondata di proteste tra i palestinesi residenti lì.

Le autorità libanesi affermano che la repressione nei confronti dei lavoratori stranieri illegali è rivolta principalmente contro i siriani fuggiti in Libano dopo l'inizio della guerra civile in Siria, nel 2011. Nell'ambito di questa campagna contro i lavoratori irregolari, molte imprese sono state chiuse e molti lavoratori palestinesi e siriani sono stati licenziati.

Il ministro libanese del Lavoro Kamil Abu Sulieman ha smentito le accuse secondo cui la campagna sarebbe stata organizzata come una "cospirazione" contro i 450 mila palestinesi presenti nel suo paese. "Il piano per contrastare il lavoro nero è stato realizzato diversi mesi fa e non riguarda i palestinesi", ha dichiarato Abu Sulieman. "In Libano, esiste una legge sul lavoro, e noi dobbiamo decidere di applicarla. Abbiamo dato un preavviso di sei mesi a tutti i lavoratori e alle imprese irregolari per chiedere i permessi necessari".

Il ministro libanese ha ammesso, tuttavia, che a seguito della campagna contro i lavoratori illegali, alcune attività palestinesi sono state chiuse.

I palestinesi hanno respinto le affermazioni del ministro. Hanno invece avviato una serie di proteste in diverse parti del Libano contro il giro di vite nei confronti dei lavoratori stranieri irregolari. I manifestanti hanno bruciato pneumatici all'ingresso di un certo numero di campi profughi, e alcuni funzionari e fazioni palestinesi, stigmatizzando la campagna, hanno chiesto alle autorità libanesi di sospendere le misure prese contro gli imprenditori e i lavoratori palestinesi.

"I provvedimenti libanesi danneggiano i palestinesi", ha dichiarato Ali Faisal, membro del Fronte democratico per la liberazione della Palestina (FDLP). Faisal ha esortato le autorità libanesi a revocare le loro misure contro i palestinesi e ha rilevato che il contributo palestinese alla crescita economica è stimato all'11 per cento. Il funzionario del FDLP ha altresì osservato che, "con vari pretesti", ai palestinesi che vivono in Libano è stato legalmente precluso di svolgere diverse professioni.

La legge libanese limita le capacità dei palestinesi di svolgere diverse professioni, tra cui quelle di medico, avvocato e ingegnere, e impedisce loro di ricevere prestazioni sociali. Nel 2001, il parlamento libanese ha approvato inoltre una legge che vieta ai palestinesi di acquisire giuridicamente proprietà immobiliari.

Secondo quanto riportato nei media arabi, le proteste palestinesi potrebbero segnare l'inizio di una "Intifada" [sollevazione] palestinese contro il Libano. I media affermano che ad ogni modo i palestinesi hanno difficoltà a ottenere permessi di lavoro dalle autorità libanesi.

"Il tasso di disoccupazione tra i palestinesi in Libano è molto alto", ha detto l'imprenditore palestinese Ziad Aref. "Abbiamo il diritto di adoperarci per risolvere questo problema. La nuova campagna delle autorità libanesi lascerà senza lavoro migliaia di palestinesi e aggraverà la crisi finanziaria".

Secondo Aref, il tasso di disoccupazione tra i palestinesi in Libano è stimato al 56 per cento. Aref ha inoltre ammonito i leader palestinesi per non essersi occupati delle difficoltà dei lavoratori e degli imprenditori palestinesi presenti in Libano.

I leader palestinesi in Cisgiordania, nella Striscia di Gaza e in Libano dicono di essere quotidianamente in contatto con le autorità palestinesi, nel tentativo di porre fine alla repressione perpetrata contro i lavoratori palestinesi.

Azzam al-Ahmed, un alto funzionario dell'OLP che è responsabile del "portfolio palestinese" in Libano, ha espresso profonda preoccupazione per la campagna libanese contro i lavoratori stranieri irregolari. Ha asserito di aver contattato diversi funzionari libanesi per ammonirli di non ledere alcun palestinese.

Hamas, da parte sua, ha accusato le autorità libanesi di esercitare una politica di "morte lenta" contro i palestinesi in Libano. Hamas ha detto in una dichiarazione che la campagna libanese contro i lavoratori e le imprese irregolari sembra far parte di una "cospirazione per liquidare i diritti dei profughi palestinesi. Non accetteremo alcuna minaccia alla vita e al futuro dei profughi palestinesi in Libano e contrasteremo la politica della morte lenta".

Le misure prese dalle autorità nei confronti dei palestinesi evidenziano ancora una volta le discriminazioni subite dai palestinesi in questo paese arabo. "I palestinesi in Libano", secondo un report del 2017 dell'Associated Press, "sono vittime di discriminazioni in quasi ogni ambito della vita quotidiana. (...) Molti vivono in insediamenti riconosciuti ufficialmente come campi profughi, ma meglio descritti come veri e propri ghetti circondati da posti di blocco e, in alcuni casi, cinti da muri e da filo spinato".

"La discriminazione e l'emarginazione subita [dai palestinesi] sono aggravate dalle restrizioni cui devono far fronte nel mercato del lavoro e che contribuiscono a creare livelli elevati di disoccupazione, bassi salari e pessime condizioni di lavoro", secondo un rapporto delle Nazioni Unite. "Fino al 2005, ai palestinesi erano state precluse più di 70 professioni – e ancora oggi ne sono loro vietate una ventina. La povertà risultante è esacerbata dalle restrizioni imposte al loro accesso all'istruzione pubblica e ai servizi sociali".

Eppure, in qualche modo, i provvedimenti discriminatori e razzisti adottati dal Libano nei confronti dei palestinesi non sembrano disturbare i gruppi pro-palestinesi in tutto il mondo. Questi gruppi fingono regolarmente di non vedere le sofferenze dei palestinesi che vivono nei paesi arabi. Piuttosto, focalizzano la loro attenzione su Israele, osservandolo e criticandolo per abusi immaginari contro i palestinesi.

È ora che i gruppi pro-palestinesi presenti nei campus universitari di Stati Uniti, Canada, Gran Bretagna e Australia organizzino una "settimana dell'apartheid araba" anziché accusare Israele di "discriminare" i palestinesi. È anche tempo che i media internazionali prendano atto che le misure antipalestinesi sono state adottate dal Libano in un momento in cui Israele incrementa il numero dei palestinesi autorizzati a entrare in Israele per lavoro.

Chi risponderà alle seguenti domande: Perché le Nazioni Unite e altre istituzioni internazionali restano in silenzio quando i palestinesi vengono cacciati dal lavoro in un paese arabo, mentre più di centomila palestinesi entrano quotidianamente in Israele per lavoro? Assisteremo a una riunione di emergenza della Lega Araba o del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per denunciare l'apartheid libanese e il razzismo? Oppure sono troppo impegnati a redigere risoluzioni di condanna nei confronti di Israele, che ha aperto le sue porte ai lavoratori palestinesi?

Khaled Abu Toameh è un pluripremiato giornalista che vive a Gerusalemme. È Shillman Journalism Fellow al Gatestone Institute.






Alberto Pento
L'autore di questo articolo sbaglia a dire che il Libano è un paese arabo.
E i provvedimenti prresi dai libanesi contro i palestinesi profughi e invasori sono solo legittima difesa di un paese prevalentemente cristiano contro de profughi-invasori maomettani senza rispetto che attentano all'integrità politica del Libano e alla sicurezza dei cristiani e che più volte nel passato hanno creato grossi problemi al Libano come gli hanno creati all'Egitto e alla Gordania (vedasi Settembre Nero https://it.wikipedia.org/wiki/Settembre ... nizzazione) ).

Libano e l'invasione nazi-maomettana
http://www.filarveneto.eu/forum/viewtop ... 188&t=2769
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Re: Liban

Messaggioda Berto » dom nov 03, 2019 9:28 pm

Le rivolte in Libano e in Iraq mettono paura all’Iran che reagisce duramente
3 novembre 2019

https://www.rightsreporter.org/le-rivol ... 9895GCPYuA

In Libano il governo è caduto, in Iraq è sull’orlo di cedere. E l’Iran, che non vuole perdere due punti base del suo domino, comincia a reagire sparando sui dimostranti iracheni

Le rivolte in Libano e in Iraq, sebbene distanti, hanno un comun denominatore non da poco: l’Iran e i suoi proxy che dominano la politica dei due stati arabi.

A Beirut il governo è caduto ma i manifestanti non si sono fermati, nemmeno dopo le promesse di riforme fatte dal Presidente Michel Aoun.

Il problema non sono solo le riforme, il problema si chiama Hezbollah che non solo rischia di trascinare il Libano in una rovinosa guerra con Israele, ma che con il suo intervento in Siria ha creato una situazione economica al limite del collasso per tutto il Paese.

In Siria Hezbollah è intervenuto senza nessun consenso da parte del governo libanese, ha agito per quello che è: una forza completamente autonoma, uno Stato nello Stato.

In Iraq il Governo è al limite del collasso. Le proteste sono generalizzate e sono gli stessi sciiti a chiedere che le milizie armate legate a Teheran se ne vadano. Anzi, le proteste più accese si sono avute proprio nel sud sciita.

Almeno all’inizio le reazioni dei proxy iraniani sono state diverse. In Libano prima il capo di Hezbollah, Hassan Nasrallah, è sembrato rimanere calmo. Poi, una volta capito che il vero bersaglio era il suo gruppo terrorista, ha prima accusato Israele di fomentare le rivolte, poi ha ordinato un blitz violento contro i manifestanti che, tra le altre cose, ha provocato le dimissioni del Premier Saad al-Hariri.

In Iraq le cose sono andate molto peggio. Le milizie sciite legate a Teheran non sono andate per il sottile, hanno usato i cecchini che hanno sparato direttamente sulla folla provocando almeno 250 vittime. Ma non hanno fermato le proteste che, anzi, proprio nel sud sciita proseguono senza sosta.

Addirittura Teheran, con una mossa senza precedenti e con la scusa di proteggere i pellegrini sciiti, ha inviato in Iraq centinaia di truppe e polizia antisommossa (i Basij) ufficiali.

Di fatto l’esercito iraniano è presente in Iraq in aggiunta alle milizie sciite e alla già presente Forza Quds delle Guardie della Rivoluzione Islamica. Una invasione silenziosa ma violenta.


Perché le rivolte in Libano e in Iraq rischiano di rovinare i piani iraniani?

Per molto tempo Libano e Iraq hanno avuto governi settari, divisi secondo rigide regole che tengono in considerazione le varie etnie. Su questo aveva puntato Teheran per avere il controllo del Libano attraverso Hezbollah e quello dell’Iraq attraverso i vari proxi legati all’Iran.

Ora questo schema è saltato. Le proteste sono tutto fuorché di tipo settario. Sono trasversali e chiedono proprio la fine del settarismo e la dipendenza dall’Iran.

I popoli libanese e iracheno sono stanchi di guerre e di vivere in povertà proprio per questo. Sono stanchi della diffusa corruzione che arricchisce pochi e lascia il resto nella miseria. Sono stanchi di pagare il prezzo che comporta la dipendenza da Teheran.


Come reagisce l’Iran?

In Libano l’Iran ha demandato il tutto ai fedeli Hezbollah che però poco possono fare politicamente in quanto pur avendo la maggioranza in Parlamento non possono formare un governo senza fare alleanze. Ma hanno un vero e proprio esercito, ben più forte e armato di quello ufficiale che per altro si è visto tagliare gli aiuti americani. Il timore è che possano prendere il potere con la forza spinti proprio dall’Iran che non può e non vuole perdere il punto di pressione più forte che ha nei confronti di Israele.

Differente la situazione in Iraq. Secondo fonti di intelligence Qassem Soleimani, il capo della Forza Quds, la settimana scorsa è volato a Baghdad per un incontro segreto con i vertici sciiti del Governo iracheno garantendo che l’Iran avrebbe sostenuto anche militarmente il Governo in carica.

Questa promessa ha permesso al premier Adil Abdul-Mahdi di mantenere il potere, consegnando però di fatto il Paese all’Iran e alle sue forze militari e para-militari.

Per il piano iraniano l’Iraq è fondamentale almeno quanto lo è il Libano. È il quarto fronte contro Israele che Teheran non può permettersi il lusso di perdere.


Cosa non torna in tutto questo?

La cosa che non torna in tutto questo è che sia il Libano che l’Iraq dovrebbero essere teoricamente sotto l’ombrello americano. Fino a pochi giorni fa erano gli USA ad armare e finanziare gli eserciti dei due Paesi. In Iraq ancora gli USA hanno una discreta presenza militare. Come ha fatto l’Iran ha “impossessarsi” senza colpo ferire di due protettorati americani?

Specialmente per quanto riguarda l’Iraq (il Libano è in mano all’Iran ormai da molto tempo) qualche risposta ce la dovrebbe dare il presidente Trump. Che intenzioni ha? Intende lasciare che l’esercito iraniano si stabilisca anche in Iraq dopo averlo fatto in Siria? Non sarebbe una mossa intelligente.



L'Ue metta al bando Hezbollah. L'appello transatlantico
Gabriele Carrer
17/07/2020

https://formiche.net/2020/07/lue-bandisca-hezbollah/

A otto anni dall'attentato antisemita in Bulgaria, 236 parlamentari Usa, europei e israeliani chiedono all'Ue di non distinguere più tra ramo politico e ala militare di Hezbollah (classificazione che il gruppo stesso respinge) e di bandire l'intera organizzazione

Duecentotrentasei deputati di entrambe le sponde dell’Atlantico hanno firmato una “dichiarazione transatlantica” pubblicata dal sito dell’Ajc Transatlantic Institute, cioè l’ufficio europeo dell’American Jewish Committee, per chiedere “all’Unione europea di designare Hezbollah come organizzazione terroristica nella sua interezza”.

L’ATTENTATO DEL 2012

Il 19 luglio di otto anni fa, l’attentato suicida in Bulgaria contro un autobus per stava portando turisti giunti da Israele dall’aeroporto ai loro hotel. Persero la vita sei persone: l’autista bulgaro e cinque cittadini israeliani, tra cui una donna incinta. Quell’attacco terroristico fu opera di Hezbollah, l’organizzazione libanese finanziata dall’Iran. A seguito di quell’episodio, come ricorda la dichiarazione pubblicata oggi, “l’Unione europea ha vietato unicamente la cosiddetta ala militare di Hezbollah, interrompendo le relazioni con il gruppo terroristico solo attraverso il meccanismo delle sanzioni”. “Sollecitiamo pertanto l’Ue a porre fine a questa falsa distinzione tra braccio ‘militare’ e ‘politico’ — una distinzione che Hezbollah stesso respinge — e quindi chiediamo di mettere al bando l’intera organizzazione”, si legge nell’appello.

I FIRMATARI

I firmatari sono europarlamentari, deputati degli Stati Uniti, dei Paesi dell’Unione europea e di Israele. Figurano: i senatori statunitensi Ted Cruz e Marco Rubio, l’ex ministro israeliano Yair Lapid e il presidente della commissione Affari esteri del Parlamento europeo David McAllister. Ecco gli italiani: i senatori di Forza Italia Massimo Berutti, Andrea Causin, Massimo Ferro, Lucio Malan, Giuseppe Moles, Adriano Paroli, Maria Rizzotti; i deputati di Forza Italia Giorgio Mulé, Andrea Orsini, Urania Papatheu e Maria Tripodi; gli eurodeputati Carlo Calenda e Pina Picierno (S&D), Salvatore De Meo, Fulvio Martusciello e l’ex presidente del Parlamento europeo Antonio Tajani (Ppe).

LE ATTIVITÀ DI HEZBOLLAH

“Hezbollah, l’alleato più micidiale del regime iraniano, gestisce una rete terroristica globale che minaccia non solo i Paesi della sua stessa area geografia, ma anche le democrazia occidentali”, si legge ancora nel documento in cui si evidenziano le attività del gruppo al fianco del “regime assassino” di Bashar Al Assad in Siria, oltre all’addestramento e al rifornimento di armi alle milizie sciite in Yemen e Iraq. E ancora: “Utilizza la propria popolazione civile come scudi umani per nascondere circa 150.000 missili puntati contro civili israeliani”. E proprio lo Stato ebraico è al centro delle celebrazioni annuali del Quds Day di Hezbollah, ricorda la dichiarazione, durante le quali “le richieste di annientamento” di Israele “fanno eco ai capitoli più oscuri della storia europea”.

GLI ESEMPI DA SEGUIRE

“Come mostrano gli esempi degli Stati Uniti, dei Paesi Bassi, del Canada, del Regno Unito, del Consiglio di cooperazione del Golfo della Lega araba, mettere al bando Hezbollah non preclude il continuo impegno politico con Beirut”, scrivono i parlamentari, convinti che la proscrizione non destabilizzare il Paese bensì sia l’unica possibilità per la sua reale stabilità economica e politica. “L’Unione europea, che rappresenta la democrazie, i diritti umani e l’ordine internazionale basato sul rispetto dello stato di diritto, dovrebbe esercitare la propria autorità per mettere in guardia da Hezbollah. La nostra sicurezza collettiva e l’integrità dei nostri valori democratici sono in gioco: è questo il momento di agire”, concludono i deputati.


PARLAMENTO EUROPEO VOTA CONTRO HEZBOLLAH "DESTABILIZZA IL LIBANO PERCHE' LEGATA A IRAN"
17 settembre 2021

https://www.facebook.com/permalink.php? ... 8174765883

Con 575 voti a favore, 71 contrari e 39 astenuti, il Parlamento europeo ha adottato venerdì 17 Settembre 2021 una risoluzione che addita Hezbollah, l’organizzazione terroristica sponsorizzata dall’Iran, come una delle cause di destabilizzazione e corruzione in Libano.
Il paragrafo “S” della lunga risoluzione sottolinea che Hezbollah, qualificato come organizzazione terroristica da diversi stati membri dell’Unione Europea, mantiene il controllo di ministeri chiave anche nel nuovo governo libanese, e che destabilizza le istituzioni del paese con la sua “fedeltà ideologica” all’Iran.
La risoluzione accusa anche Hezbollah per la repressione del movimento popolare libanese del 2019 e per la crisi politica ed economica, esortando le potenze esterne a non ingerirsi negli affari interni del paese e nella sua sovranità.
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Re: Liban

Messaggioda Berto » lun set 27, 2021 6:12 am

Fallimento per il Libano, l'annuncio del ministro Hassan Diab: "Sospendiamo il pagamento dei debiti per i cittadini"
07 marzo 2020

https://www.liberoquotidiano.it/news/es ... o.facebook

Il Libano è tecnicamente fallito. L'annuncio è arrivato dal primo ministro del Libano Hassan Diab, che ha annunciato in tv che il Paese sospenderà il pagamento di 1,2 miliardi di dollari di debito, segnando il primo default nella storia del Paese. "Il Libano sta sospendendo il rimborso del debito del 9 marzo per poter soddisfare le esigenze dei suoi cittadini - ha annunciato -. Questa decisione non è stata facile. È l’unica soluzione per proteggere l’interesse pubblico, parallelamente al lancio di un piano di riforme globale. La nostra decisione deriva dal nostro attaccamento all’interesse dei libanesi". Il mancato rimborso delle obbligazioni significa che il Libano è inadempiente e non sarà in grado di ripagare ai creditori tutto o parte del proprio debito nei termini fissati al momento delle sottoscrizione.




Il Libano sprofonda nella crisi

Lorenzo Cremonesi
07 luglio 2021
Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 07/07/2021, a pag.17, con il titolo "Il Libano in coda per sopravvivere", il commento di Lorenzo Cremonesi.

https://www.informazionecorretta.com/ma ... 0&id=82260

La crisi è talmente catastrofica che gli esperti della Banca Mondiale non esitano a definirla «tra le tre più gravi sul nostro Pianeta dalla metà dell'Ottocento». Lo testimoniano le code di intere giornate ai distributori, i tagli continui alla rete elettrica nazionale, la mancanza di beni essenziali come le medicine, i supermercati chiusi, il crollo dei salari, il quasi azzeramento del valore della moneta nazionale e le banche serrate. Immaginate cosa significhi per un'intera popolazione scoprire che i risparmi sono congelati, non solo non c'è accesso al credito, ma soprattutto si deve vivere alla giornata, occorre arrangiarsi tra mercato nero, corruzione imperante e assenza di aiuti. Parliamo del Libano.
Poco meno di un anno fa i suoi circa 6 milioni di abitanti (inclusi oltre un milione di profughi siriani arrivati dal 2011) credevano genuinamente di avere toccato il fondo. La terribile esplosione del 4 agosto che aveva devastato il cuore di Beirut (almeno 200 morti, circa 6.000 feriti e danni per miliardi di euro) era stata letta allo stesso tempo come l'ennesima prova dell'inefficienza cronica di una classe politica e amministrativa corrotta sino al midollo, ma anche quale occasione di riforme e riscatto nazionale. Le circa 2.750 tonnellate di nitrato d'ammonio giacevano da oltre 7 anni in un hangar semi-abbandonato nella zona commerciale del porto.
Emerse presto che non c'era traccia di attentato, seppure diversi politici e commentatori avessero puntato il dito contro «nemici esterni» e non meglio chiariti «complotti» locali funzionali alla loro causa. Si era piuttosto trattato di un incidente. Avevano provocato la deflagrazione un banalissimo cortocircuito, unito al calore dell'estate e al particolare assurdo per cui accanto al nitrato estremamente esplosivo erano accatastate scatole di fuochi d'artificio. Ma la cosa era in realtà ancora più grave. Sbatteva in faccia a tutti ciò che ogni libanese ben conosce nell'intimo: la Stato è fallito, i partiti tradizionali a parole si fanno la guerra, ma nei fatti cooperano sottobanco per restare a spartirsi la gestione del Paese. II riscatto sperato nel 2020 non è mai avvenuto: al contrario, oggi prevale la stagnazione. L'Orient le Jour, il quotidiano in lingua francese vicino alla componente antisiriana della comunità cristiana locale, sottolinea che la mancanza di carburante è alimentata dai contrabbandieri collusi con partiti e le forze di si carezza che ne permettono la vendita illegale al regime di Bashar Assad. II motivo è presto detto: in Libano il carburante è fortemente sussidiato dalle casse pubbliche, venderlo invece in Siria a prezzi molto più alti garantisce enormi incassi in nero, che vengono poi spartiti tra le autorità coinvolte. A complicare la crisi sta anche il fatto che il collasso dell'economia siriana ha praticamente azzerato gli scambi commerciali col Libano, una volta valevano miliardi. Non è strano .che ieri Hassan Diab, il premier dimissionano da circa io mesi ma costretto a dirigere il governo di transizione, abbia lanciato una drammatica richiesta di aiuto alla comunità internazionale paventando «l'imminenza di una grave e violenta esplosione sociale». In pochi mesi il prodotto interno lordo si è ridotto del 40 per cento. Due anni fa il dollaro valeva meno di 1.000 lire libanesi, oggi più di 18.000 al mercato nero (il cambio ufficiale, che nessuno usa, è fermo a 1.500). Per far fronte alle difficoltà la popolazione si adatta: niente ascensori, in famiglia si fanno i turni per stare in fila ai distributori, comunque si va a piedi, cresce ii mercato dei pannelli solari. Soprattutto, chi può emigra e ciò impoverisce privando il Paese dei professionisti migliori. Tra i più colpiti, le vittime del Covid che non trovano cure.
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Re: Liban

Messaggioda Berto » lun set 27, 2021 6:13 am

Libano, il dolore dei cristiani: "Scompariremo, ci portano via le case"
Lorenzo Vita - Sab, 15/08/2020

https://www.ilgiornale.it/news/mondo/gr ... 1597479682

L'esplosione che ha devastato Beirut ha ferito la comunità cristiana. Il Vescovo Mrad dei siri cattolici lancia l'allarme

Beirut dopo l'esplosione piange ancora i suoi morti e conta i danni.

Innumerevoli vista la portata di una deflagrazione che ha devastato non solo il porto, ma anche tutti i quartieri colpiti dall'onda d'urto. Uno scenario di guerra che ha squarciato la capitale libanese ma anche la realtà di un Paese che è da sempre un delicatissimo mosaico di confessioni religiose, ideologie e sensibilità, e che adesso si confronta con i suoi problemi più profondi: il primo dei quali è come sopravvivere. Perché quel Libano che fino a pochi decenni fa era considerato un gioiello del Medio Oriente, oggi rischia di rimanere definitivamente sepolto sotto le macerie di Beirut.

In questo ecosistema delicato e prezioso incastonato tra Oriente e Mediterraneo, i cristiani soffrono una condizione particolare. L'integrazione è stata da sempre uno dei punti di forza del Libano, ma i cristiani di tutte le confessioni sanno anche cosa significa sopravvivere, specialmente se circondati da popolazioni di confessioni diverse. E oggi, dopo il disastro, la parole d'ordine è proprio "sopravvivere", provando anche a rinascere. Una realtà che conosce bene il vescovo Matthias Charles Mrad, Vicario Patriarcale dell’Eparchia di Beirut dei siri cattolici, che alla testimonianza di fede unisce anche un forte spirito di lotta per un Libano che finalmente sia in grado di risollevarsi.

Eminenza, qual è attualmente la situazione in Libano dopo l'esplosione?
La situazione del Libano adesso sembra tranquilla. Sicuramente più tranquille delle ore e dei giorni immediatamente successivi all'esplosione, ma quello che sta vivendo il Paese è drammatico. La crisi economica e politica è terribile e sul Libano si è concentrata una miscela esplosiva: prima le proteste, poi il coronavirus, ora Beirut devastata. Una crisi che sta colpendo il Libano al suo interno, il suo popolo, che va ricostruito prima ancora delle macerie. Lo Stato è ormai fallito, la politica è assente, e la popolazione è sola e dilaniata: la ricostruzione va iniziata proprio dagli uomini.

Come è stata colpita la comunità cristiana da questa esplosione?
I cristiani di Beirut sono tra i più danneggiati da ciò che è successo al porto. Tutte le zone limitrofe erano abitata dai cristiani ed erano i quartieri con una più alta presenza di cittadini di religione cristiana. Ora le chiese sono distrutte, le case in molti casi sono state spazzate via dall'onda d'urto. Un danno enorme cui si aggiunge un effetto molto pericoloso: i musulmani più abbienti comprano le case distrutte perché sono gli unici che hanno ancora soldi per ricostruirle. E chi ha perso tutto è costretti a vendere le proprie case e ad andarsene. Col tempo quei quartieri rischiano di non avere più cristiani. E per questo la Chiesa sta chiedendo allo Stato di intervenire per evitare questo processo che può provocare una diaspora: i cristiani stanno scomparendo.

Oggi i cristiani in Libano che ruolo possono avere?
Possono avere un ruolo importantissimo. I cristiani vogliono vivere, come vuole vivere il popolo libanese. Le scuole e gli ospedali cristiani sono fondamentali per la società libanese e sono utilizzati dai cittadini di qualunque religione. Ma oggi i giovani che vogliono un Libano migliore, tra cui tantissimi cristiani, pensano che sia meglio andarsene. I giovani che emigrano sono tantissimi e i partiti cristiani ormai non rappresentano più i sentimenti di questa fascia di popolazione. Sono partiti legati ad altri Stati, molto spesso in affari con Paesi in guerra tra loro. E portano questa guerra anche in seno alla loro comunità.

In questo senso, la comunità internazionale può essere importante...
Certamente, ma dipende dai singoli Paesi. Ormai la popolazione è talmente stanca che si affida all'esterno: Arabia Saudita, Iran, ma anche Paesi europei. Quando Emmanuel Macron è arrivato a Beirut dopo l'incidente al porto, la gente chiedeva ai francesi di tornare in Libano e riprendersi il Paese per farlo rinascere. Questo per far capire come ormai le persone si sentano completamente prive di una speranza dall'interno del Libano.

Se questo è il quadro, come può rinascere il Libano?
Sicuramente serve tempo e molta pazienza. Il declino del Libano e la sua distruzione dall'interno sono iniziati molto tempo fa e non basterà certo un'elezione o un breve periodo per cambiare le cose. Ci vorranno anni, come del resto anni sono serviti a minare il Paese. Purtroppo la classe politica ha fallito, non ha a cuore il futuro del Libano e le proteste in un anno non hanno cambiato nulla. Serve ma tempo, ripeto, ma bisogna partire dall'uomo: è da lì che inizia la ricostruzione.



Il Primo Ministro Netanyahu si rivolge all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite
A Beirut è stato scoperto un altro enorme deposito di esplosivo appartenente all’organizzazioni terroristica di Hezbollah. *Centinaia di migliaia di cittadini libanesi sono in immediato pericolo di morte.* L’Europa deve capire che non c’è differenza tra il braccio militare e il braccio politico di Hezbollah e deve dichiarare l’intera organizzazione un’organizzazione terroristica.
Ambasciatore Dror Eydar

https://www.facebook.com/AmbasciatoreIs ... 031084497/

A Beirut è stato scoperto un altro enorme deposito di esplosivo appartenente all’organizzazioni terroristica di Hezbollah. *Centinaia di migliaia di cittadini libanesi sono in immediato pericolo di morte.* L’Europa deve capire che non c’è differenza tra il braccio militare e il braccio politico di Hezbollah e deve dichiarare l’intera organizzazione un’organizzazione terroristica.

1
Il Libano è una tragedia e un paradigma per il Medio Oriente. L’unico paese del Medio Oriente dove i cristiani avrebbero dovuto essere la maggioranza. Ora è sotto il controllo sciita dell’organizzazione terroristica di Hezbollah gestita dall’Iran. Per la prima volta in circa 1.400 anni, si è creata in Medio Oriente una continuità territoriale sciita, dall’Iran, attraverso l’Iraq e la Siria, al Libano, e da lì al Mediterraneo. L’Iran è coinvolto anche in Yemen e Gaza. L’Iran ha un chiaro interesse a minare la stabilità in Medio Oriente, e i paesi arabi moderati osservano e comprendono bene il problema.
2
Come a Gaza, dove l’organizzazione terroristica di Hamas usa i civili come scudi umani e gli ospedali come rifugio per il suo quartier generale di terroristi, perché sa che l’esercito israeliano non vuole colpire persone innocenti, così anche Hezbollah usa scudi umani, ma molto più grandi. Gran parte della popolazione della capitale libanese è in immediato pericolo di morte, non perché un altro paese la stia minacciando; niente affatto! Israele è interessato alla pace con il popolo libanese. La causa immediata del pericolo che incombe sulla vita dei residenti di Beirut sono gli enormi depositi di armi ed esplosivi che Hezbollah detiene nel cuore delle zone più popolate della città. Uno di questi è esploso di recente e ha causato la morte di centinaia di persone, ferendone migliaia e lasciandone circa 250.000 senza tetto.
3
Ieri, nel suo discorso all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, il Primo Ministro israeliano Binyamin Netanyahu ha rivelato un altro deposito di esplosivi e armi, situato nel quartiere densamente popolato di Janāḥ, a ridosso di alcuni ... impianti del gas! Centinaia di migliaia di persone sono in immediato pericolo di distruzione e di morte. I cittadini del Libano sono tenuti in ostaggio dall’Iran, attraverso le sue metastasi di terrorismo: Hezbollah.
4
Il mondo intero deve destarsi e chiedere lo smantellamento immediato di questi depositi di esplosivi. L’Europa deve capire che non c’è differenza tra braccio militare e braccio politico di Hezbollah: sono tutti terroristi che mettono in pericolo l’incolumità dei loro concittadini e la pace della regione. È necessaria una legislazione correttiva che dichiari organizzazione terroristica l’intero Hezbollah, assieme alle sue numerose ramificazioni e metastasi. Nel frattempo, si deve smantellare il deposito di esplosivi e salvare la vita di centinaia di migliaia di residenti usati come scudi umani in una guerra non loro.
Ambasciatore Dror Eydar


Libano e l'invasione nazi-maomettana
viewtopic.php?f=188&t=2769
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Re: Liban

Messaggioda Berto » lun set 27, 2021 6:14 am

In Libano in gioco anche la credibilità dell'Ue
Autore Mauro Indelicato
26 settembre 2021

https://it.insideover.com/politica/in-l ... ll-ue.html

Dopo uno stallo politico durato più di un anno, usuale per la verità per il Paese dei cedri, il Libano dallo scorso 10 settembre ha un nuovo governo. Una squadra di “tecnici” ufficialmente, in realtà tutti i nuovi ministri hanno una chiara connotazione politica e comunitaria. L’esecutivo rispecchia infatti la consuetudine degli ultimi anni in cui la suddivisione delle poltrone deve tener conto, oltre che delle differenze ideologiche, anche del livello di rappresentatività di ciascuna delle principali tre comunità: quella musulmana sunnita, quella musulmana sciita e quella cristiana maronita. Il premier, come previsto dai criteri di suddivisione del potere, è sunnita. Si tratta di Najib Mikati, magnate dell’edilizia e delle telecomunicazioni, nonché uomo più ricco del Libano giunto alla sua terza esperienza da primo ministro. Non proprio un volto nuovo, come invece da mesi era richiesto dalla società civile. Per il Paese adesso inizia una delle prove più difficili, quella di ritrovare una certa stabilità economica. Ma il nuovo governo libanese è anche una prova per l’Ue: il principale input per la formazione dell’esecutivo è arrivato infatti da Bruxelles.


Il nuovo governo

A Beirut sono frequenti i blackout energetici. Spesso, anche in pieno giorno, nella capitale manca l’elettricità. Di rifornimenti da un anno a questa parte ne arrivano molto pochi. A pesare in tal senso è l’impraticabilità del porto saltato in aria con l’esplosione del 4 agosto 2020. Una deflagrazione che ha fatto collassare anche il precedente governo di Hassan Diab, nato sulla spinta delle proteste popolari innescatesi sul finire del 2019, quando già i primi segni di crollo dell’economia iniziavano ad essere ben evidenti. Da allora il Libano ha arrancato. La politica non è riuscita a trovare subito un accordo per un nuovo esecutivo, la situazione economica si è letteralmente arenata facendo mancare alla popolazione anche i beni di prima necessità. Nessuno in questo anno ha potuto assumersi i poteri e gli oneri per attuare quelle decisioni vitali quanto meno a ridare una linea politica ben definita a Beirut.

In estate la svolta. Si è individuato in Najib Mikati l’uomo a cui affidare il governo. Dopo settimane intense di trattative, tutti i vari partiti hanno trovato una prima quadra. L’idea originaria era quella di un esecutivo tecnico, ma per la settaria politica libanese l’applicazione di un simile principio ha assunto l’aspetto di una mera utopia. La scelta è caduta per una via di mezzo. Il governo ha un aspetto sì tecnico, ma con persone legate alle varie fazioni politiche e comunitarie. I ministri sono 24, di cui 12 cristiani e 12 musulmani. Ogni formazione politica ha indicato il proprio “tecnico” rappresentante. Hezbollah, il movimento filo-sciita sostenuto dall’Iran, ha in quota due ministri. Il dicastero al momento più importante, quello dell’economia, è andato al funzionario della Banca Centrale Youssef Khalil. Sarà lui a dover mettere mano alle disastrate casse del Paese, dove scarseggiano anche le riserve. Il Libano ha bisogno di un’immediata iniezione di liquidità per sopravvivere. Per questo il primo passo dovrebbe essere quello di ottenere un prestito dal Fondo Monetario Internazionale, a condizione però che Mikati si impegni a effettuare profonde riforme strutturali. Beirut è con l’acqua alla gola e i margini di manovra sembrano inesorabilmente stretti. Forse è la prova più importante per il Libano da quando nel 1989 è terminata la guerra civile. C’è da chiedersi se un governo nato con le stesse dinamiche dei precedenti e con la prospettiva di rimanere in carica pochi mesi (Mikati ha assicurato nuove elezioni nella prossima primavera) avrà la forza per ridare fiato alla stremata popolazione libanese.

Una prova per l’Unione europea

A pressare per la formazione di un nuovo esecutivo è stata in primo luogo l’Europa. In particolar modo, come hanno sottolineato fonti diplomatiche alla Reuters, il principale input per l’insediamento del governo è arrivato da Parigi. La Francia ha tutto l’interesse a non veder definitivamente fallire il Libano. Il Paese è un partner commerciale importante, una pedina fondamentale per lo scacchiere transalpino in medio oriente. Un discorso che può essere esteso anche all’Italia, al momento però rimasta ad osservare l’evolversi degli eventi. Emmanuel Macron vuole giocarsi in Libano le sue ultime carte in politica estera. Uscito malconcio dal Sahel, dove l’Eliseo si appresta a chiudere la missione Barkhane in Mali, reduce dall’umiliazione dell’affaire sui sottomarini australiani, il presidente francese vuole dimostrare di avere ancora una forte presa nei Paesi del medio oriente tradizionalmente vicini a Parigi. Nell’avventura politica libanese, Macron ha di fatto coinvolto l’intera Ue. Non è un caso che uno dei primi commenti alla notizia della nascita del nuovo governo è arrivato dall’Alto Rappresentante della politica estera comunitaria, Joseph Borrell. Quest’ultimo ha lanciato una dichiarazione che sa già di ultimatum: o le riforme oppure niente sostegno a Mikati.

L’Unione europea considera il Libano un proprio affare, in cui agire in modo autonomo dagli Stati Uniti. Washington dal canto suo ha lasciato (per il momento) campo libero. Ma per Bruxelles le insidie in tal senso non mancano. Se il nuovo esecutivo riceverà dall’Europa soltanto aut aut, Mikati potrebbe guardare verso i Paesi del Golfo. Le petromonarchie, nonostante la presenza di Hezbollah, guarderebbero già con interesse a possibili affari a Beirut. La partita per il futuro del Libano è appena iniziata.
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