Gheto

Re: Gheto -capìo

Messaggioda Sixara » dom mar 20, 2016 7:35 pm

... ove solevasi accumulare le macerie delle fornaci :idea:
Ghèto capìo? I ghe butava le macerie - i scarti - de la laora'zion de i metali...

però i le ciama macerie e nol xe sto cuà el termine justo pa dire de scarti de l fèro. E sa fùse ke ghe jera - oltre a le fonderie - anca de le fornàxe pa fare le pière? Tute te kel posto là ke l è ixolà da el resto, ke cusì co ciapava fògo no ghe jera pericolo pa le altre caxe ke le jera de legno. Tuto Rivoalto el jera de legno a l scumì'zio, pò i ga scumi'zià far su on poke de pière da Altìn, Malamòko e tornovia... pò i ga scumi'zià farsele dentro n Vene'zia co l caranto, l arjla de la laguna ke miga i podea senpre ndare te la padoàna o altre parti de la teraferma. E anca le fornaxe pal vero, prima de portar tuto a Muràn ghe sarà stà, mi credo.
Pò mi penso anca naltra roba : el jèto nol xe solo cueo de l fèro, ma anca cueo ca lìga asième tute kele pierete, tute kele fregolete de materiali de sàso ca fa sù el terrazzo, kela pavimenta'zion tipica de i pala'zi vene'ziani, ke no te pòi farghe i solari pexi e fìsi ca sprofonda tuto, e 'lora el terrazzo el va bèn ke l è lizièro e elastico.
Macerie o ruinàsi de le pière scartà da le fornàxe ( ma anca rote a posta) pa farghe el g(h)èto pal terrazzo vene'zian.
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Re: Gheto

Messaggioda Berto » mer mar 23, 2016 10:43 pm

Cfr. co łe fornaxe del vero a Muran
https://it.wikipedia.org/wiki/Vetro_di_Murano


Fondaria de łe canpane
https://it.wikipedia.org/wiki/Pontifici ... _Marinelli


Canon
https://it.wikipedia.org/wiki/Cannone
http://stec-173132.blogspot.it/2011/05/ ... nnone.html

http://www.studiarapido.it/uno-dei-primi-cannoni
La polvere da sparo era stata scoperta nel X secolo dai cinesi che la usavano per confezionare i fuochi d’artificio. Quando gli europei ne vennero in possesso attraverso gli arabi pensarono subito di impiegarla come arma da guerra e verso la fine del Trecento inventarono il cannone, realizzato paradossalmente dai fabbricanti di campane, simboli di pace.

1 - La lavorazione del metallo nelle città

http://www.hls-dhs-dss.ch/textes/i/I13980.php?topdf=1
Nelle città medievali l'artigianato del metallo rivestì sin dall'inizio un ruolo di rilievo. Come nelle signorie fondiarie, anche nelle città la variegata produzione dei fabbri fu determinata da necessità legate ai traffici (ferratura, costruzione di carri, Costruzione navale), all'artigianato (arnesi), all'economia forestale, agricola e domestica (attrezzi, utensili, oggetti d'uso). Al pari di altre botteghe, le officine erano situate in determinate strade ("strada del ferro", "dei fabbri"), in particolare lungo le vie di transito, sovente in posizione periferica a causa dei rischi di incendio e delle emissioni. Nelle città sorte attorno alle economie curtensi, i fabbri facevano parte degli officia, ass. di artigiani imposte dal signore della città (per esempio dal vescovo a Basilea), prima di organizzarsi, nel XIII-XV sec., in Corporazioni.
Il progressivo sviluppo delle città in centri di produzione e di mercato densamente popolati favorì la specializzazione dell'artigianato del metallo. I fabbri privi di una formazione specifica non erano in grado di soddisfare la domanda di manufatti adeguati a nuovi bisogni e mode. A partire dal XIII sec. la categoria generica dell'artigianato del metallo si suddivise così in una serie di mestieri nuovi - in particolare nell'ambito della produzione di armi e nel campo delle Arti decorative - che si avvalsero di metalli più pregiati e di nuove tecniche, oltre che di un'attrezzatura più complessa e di mezzi meccanici.
Tra i primi artigiani specializzati vi furono orefici e argentieri, dotati di una particolare abilità nella realizzazione di gioielli e arredi sacri, attivi soprattutto presso corti vescovili bassomedievali come quelle di Basilea e Losanna. Con la trasformazione dell'artigianato bellico si fecero strada nuovi maestri artigiani dediti alla fabbricazione di armi: il fabbricante e il rifinitore di lame, il fabbricante di alabarde, quello di corazze e di armature; nel XIV-XV sec. il fabbricante di armi da fuoco e il fonditore di cannoni; nel XVI sec. il fabbricante di spade con lame sottili e affilate. Fra gli artigiani, il magnano aveva un ruolo di spicco: specializzato nella fabbricazione di serrature e raffinati oggetti in ferro battuto, forgiava utensili domestici, ma anche manufatti artistici dotati talora di una meccanica assai complessa. Con il perfezionamento dei manufatti nacquero i fibbiai e a partire dal XIV sec. i fabbricanti di binde, quelli di orologi da torre e più tardi quelli specializzati nella fabbricazione di orologi da camera e da tasca (Orologeria). I fonditori di stagno e di latta realizzavano, oltre agli arredi sacri, vasellame di prima qualità; i ramai, gli stagnai e i calderai fabbricavano suppellettili domestiche per dimore cittadine e di campagna; gli agorai utensili per l'economia domestica e curtense; i fabbricanti di falcetti, di falci e di roncole arnesi per l'economia forestale e agricola. I fabbricanti di attrezzi, compassi e trapani, i tagliatori di lime, i chiodai e i trafilatori forgiavano strumenti e prodotti semilavorati per l'artigianato.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Gheto

Messaggioda Berto » mer mar 23, 2016 10:48 pm

L'Arsenale di Venezia e i cantieri navali della marina
Il Contributo italiano alla storia del Pensiero - Tecnica (2013)

di Pasquale Ventrice


http://www.treccani.it/enciclopedia/l-a ... Tecnica%29


L’Arsenale di Venezia e i cantieri navali della marina

Il luogo dell’«immenso lavoro»

Si è giustamente asserito che l’Arsenale di Venezia sia stato il luogo «dell’immenso lavoro» non solo nel periodo repubblicano caratterizzato dalla produzione manifatturiera, ma anche nel corso dell’Ottocento dopo la caduta della Repubblica, l’occupazione francese e austriaca, e soprattutto nel periodo postunitario quando si pensò di riconvertire la grande struttura in un insediamento di tipo industriale.

Con il riferimento all’immenso lavoro si è voluto sottolineare non solo la concentrazione di manodopera che, nell’antico Arsenale, anche rispetto agli odierni standard, sia pure limitatamente ad alcuni periodi e a fasi alterne, si deve senz’altro ritenere considerevole, ma anche la complessa articolazione della filiera manifatturiera, delle tecniche, delle arti insediate riconducibili alla costruzione navale e alla produzione bellica necessaria per esercitare e mantenere una prolungata egemonia sul mare.

Questa caratteristica è espressa da Gian Maria Maffioletti (1740-1803) – fondatore e direttore della Scuola di architettura navale, con Simone Stratico (1733- 1824), un unicum nell’intera Europa dei secoli 18° e 19° (Ventrice 2002) –, il quale, nel suo Nello aprirsi degli studi fisico-matematici relativi alla navale architettura nell’Arsenale di Venezia […] (1777), scrive che l’Arsenale è «un popoloso recinto di tutte quelle arti e di tutti que’ studi che costituiscono l’essenziale della marina […] molte sono queste arti ne’ vari lor rami, ma presi nella lor sorgente, l’architettura delle navi». Tali arti erano: «La costruzione delle àncore, la formazione delle gòmene con altri cordami, le guarniture» ossia «le arti le più principali che cospirano a stabilire una marina perfetta […] buon corpo di nave e ben lavorato, àncore bene costrutte, buoni cavi, albori e vele ben disposte».

Nonostante il lungo periodo di declino della grande potenza marittima e la sua definitiva fusione nello Stato unitario, l’Arsenale di Venezia costituisce l’esempio unico di un cantiere navale e di una fabbrica d’armi che ha mantenuto sempre la stessa natura e la stessa funzione avute nel periodo repubblicano fino all’occupazione napoleonica e nel corso della successiva dominazione austriaca, giungendo all’Unità d’Italia con una struttura predisposta ad accogliere o quantomeno a sopportare un riuso industriale.

Per salvaguardare la sua funzione originaria di cantiere della costruzione navale, di fabbrica di armi e di attrezzature navali si dovette operare una temeraria riconversione volta, tuttavia, non a distruggere radicalmente la struttura e l’antico assetto, né a cancellare completamente le tracce storiche dell’antico apparato produttivo, quanto a rendere tale luogo idoneo a ospitare nuove attività sollecitate dalle moderne necessità belliche, caratterizzate dalle più aggiornate tecnologie metallurgico-meccaniche. In sintesi, ciò significava riuscire a riprogettare una conversione o un passaggio dalla costruzione navale in legno a quella in ferro mantenendo, con gli opportuni adeguamenti, la fabbricazione di un nuovo tipo di armi.

Nell’accingerci a tracciare un breve profilo storico della vita produttiva di un grande complesso destinato, nel suo insieme, alla produzione navale e bellica, è indubbia la difficoltà di connettere e di sviluppare in una trattazione organica tecniche varie benché concentrate in una struttura funzionalmente finalizzata alla costruzione di due prodotti sinergici. A superare questa difficoltà non aiuta affatto il quadro di una storiografia che a tutt’oggi, in Italia, continua a essere disattenta, se non sorda, nei confronti della cultura e della storia della tecnologia relegata a un ruolo subalterno.

Settori quali la metallurgia, l’artiglieria e l’evoluzione delle bocche da fuoco, nonostante il solido legame che li collega alla scienza e alla tecnica (in particolare, alla balistica), alla chimica, alla meccanica e alle macchine, furono coltivati da alcuni appassionati cultori spesso isolati da un contesto storiografico più ampio.

L’Arsenale di Venezia, ma anche gli altri complessi manifatturieri o industriali destinati alla produzione degli armamenti di terra e di mare e di una certa tipologia navale, attivi nel periodo che va dal 15° al 20° sec., hanno mantenuto un carattere prevalentemente pubblico, vincolato e sottoposto all’autorità politica; inoltre, nel passato, l’Arsenale era gestito direttamente da un organo istituzionale denominato Reggimento dell’Arsenale.

...

La ‘fabbrica’ dei cannoni tra scienza e tecnologia

La fusione dei cannoni, nei secoli 16°-17°, rappresenta la sfera più alta delle tecniche metallurgiche dopo la comparsa della nova scientia che altro non era che la balistica (N. Tartaglia, Nova scientia, 1537).

Tale scienza fu impostata da Niccolò Tartaglia (1499-1557) sulla base di quella che, in quel lasso di tempo, era denominata in latino Scientia de ponderibus o De ratione ponderis la cui radice archimedea si contaminava con la tradizione medievale di Giordano Nemorario che enunciava il principio secondo cui tanto più vicino al fulcro si colloca un peso, tanto minore è il movimento verticale che ne risulta e viceversa.

Il nucleo essenziale del libello venne da Tartaglia ripreso e ampliato nei Quesiti, et inventioni diverse (1546) e sviluppato dal punto di vista idrostatico nei Ragionamenti sopra la travagliata invenzione (1551).

Tartaglia, nato a Brescia, fu prima maestro d’abaco a Verona; trasferitosi successivamente a Venezia, nel 1536 divenne pubblico lettore di matematica, subentrando a Giovanni Battista Memo. Tartaglia effettuò una svolta definitiva sia nell’ambito dell’algebra sia in quello della meccanica. Infatti, nella Nova scientia egli riprese lo studio di Archimede, autore verso il quale si cominciava a ridestare un interesse scientifico sempre più vivo.

Al grande siracusano, il matematico bresciano dedicò tre pubblicazioni di cui l’ultima sopra citata è postuma; in esse porta a compimento, in completa autonomia, una svolta fortemente innovativa poiché per la prima volta, e in modo singolare, la matematica viene impiegata, in coerenza con la tradizione tipica delle scuole d’abaco, per spiegare fenomeni naturali e per risolvere casi concreti.

Nell’Epistola d’esordio della Nova scientia indirizzata a Francesco Maria della Rovere, duca di Urbino, capitano generale della Serenissima Repubblica, Tartaglia propone la soluzione del problema balistico della massima gittata del proiettile risolvendola in funzione dell’inclinazione della bocca da fuoco e della traiettoria del proiettile.

A questo problema, che lui dice essergli stato posto da un peritissimo bombardiero, suo amico, Tartaglia risponde con argomentazioni geometriche e naturali, vale a dire con una dimostrazione geometrica e insieme naturale (fisica) del problema del moto a partire dal principio «esser impossibile mouersi un corpo graue di moto naturale & uiolente insieme misto» che era un chiaro riferimento al problema statico legato alla gravitas visto alla luce del metodo archimedeo.

Tartaglia propone il problema della massima gittata del proiettile suggerendo che per ottenerla «bisognaua che la bocca dil pezo stesse elleuata talmente che guardasse rettamente a .45. gradi sopra a l’orizonte, & che per far tal cosa ispedientemente bisogna hauere una squara de alcun metallo ouer legno sodo che habbia interchiuso un quadrante con lo suo perpendicolo […]» (Nova scientia, cit., c. 6r). La conseguenza è che «una balla tirata uerso li detti .45. gradi sopra a l’orizonte va circa a quatro uolte tanto per linea retta di quello che va essendo tirata per il pian del orizonte che da bombardieri chiamato (come ho detto) tirar de ponto in bianco» (c. 6r).

Da tale ragionamento egli desume che il proiettile, lanciato con la bocca inclinata a 45°, descrive una linea curva che assicura una gittata maggiore rispetto a quella del tiro rettilineo parallelo all’orizzonte detto di punto in bianco dai ‘bombardieri’. Tartaglia, partendo dal concetto della gravitas secondum situm, trae una nuova dottrina dal vecchio argomento, indicando il modo pratico di ricavare la giusta inclinazione attraverso l’archipendolo.

All’obiezione di Francesco Maria della Rovere che gli contesta che «colui che fa un giudizio di una cosa, della quale non abbia visto un effetto, over isperientia, la maggior parte delle volte s’inganna», Niccolò risponde: «egli è ben vero che il senso isteriore ne dice la verità nelle cose particolare, ma non nelle universale, perché le cose universale sono sottoposte solamente al intelletto, e non al senso» (c. 6r).

In forza di ciò Tartaglia può, non senza civetteria, affermare che la sua conclusione è giusta senza bisogno dell’esperienza né diretta né indiretta, infatti egli è sicuro di manifestarla «benché in tal arte io non hauesse pratica alcuna (per che in uero Eccellente Duca) giamai discargheti artegliaria, archibuso, bombarda, ne schioppo)» (c. 6r) aggiungendo

desideroso di seruir l’amico, gli promisi di darli in breue rissoluta risposta. Et di poi che hebbi ben masticata & ruminata tal materia, gli conclusi, & dimostrai con ragioni naturale, & geometrice, qualmente bisognaua che la bocca dil pezo stesse elleuata talmente che guardasse rettamente a .45. gradi sopra a l’orizonte, & che per far tal cosa ispedientemente bisogna hauere una squara de alcun metallo ouer legno sodo che habbia interchiuso un quadrante con lo suo perpendicolo […] (c. 6r).

L’«intelletto» (lo strumento matematico) e non la sola «isperientia» ci porta al cuore della lezione galileiana secondo cui il senso ci può ingannare; pertanto, la lettura del gran libro della natura scritto in caratteri matematici deve essere interpretata con questo linguaggio, lo stesso posto a fondamento della Nova scientia di Tartaglia: quella del bombardiere.

Nell’opera, Tartaglia fa intervenire alcuni protagonisti della cultura del suo tempo molto noti, citati con altri sconosciuti, ma nell’uno e nell’altro caso prevalgono uomini d’arme o che avevano a che fare con le armi; tra questi Francesco Maria della Rovere, Giulio Savorgnan, Alberghetto degli Alberghetti, Giovanni Antonio Rusconi, suo stesso allievo, Diego Hurtado de Mendoza, l’ambasciatore di Spagna assai interessato alla meccanica; a tali interlocutori si uniscono: un «Capo», ma anche semplici bombardieri, e qualche ignoto «schioppettaro».

A fronte degli studi empirici di Leon Battista Alberti (1404-1472), Roberto Valturio (1405-1475), Francesco di Giorgio di Martino, meglio noto come Francesco di Giorgio (1439-1501), Leonardo da Vinci (1452-1519), Tartaglia cerca invece la soluzione dei problemi balistici con il rigore del matematico; egli deduce geometricamente la traiettoria ‘curva’ e non ancora parabolica dei proiettili introdotta da Ostilio Ricci (1540-1603) e perfezionata da Galileo Galilei (1564-1642), calcolando la gittata massima dall’inclinazione ottimale della bocca indicata in 45°.

L’inventore e costruttore di armi stabiliva un contatto sinergico con l’ars diabolica di chi componeva le polveri (la pirotecnia). Infatti, per completare le ricerche sulla balistica avviate da Tartaglia ancor prima del 1537, intervenne l’opera data alle stampe di lì a poco da Vannoccio Biringucci (o Biringuccio; De la pirotechnia libri 10 […], 1540) cui seguì il trattato di Giorgio Agricola (De re metallica libri II, 1556). Il contributo della metallurgia e delle tecniche di fusione si deve considerare fondamentale per il perfezionamento della tecnologia delle armi da fuoco.

Riteniamo che la principale novità prodottasi nel quadro tecnico scientifico, più che la svolta meccanica e il conseguente affermarsi del macchinismo (cfr. Marchis 1994), fu l’evoluzione del quadro chimico e metallurgico che diede uno straordinario impulso alla scienza, alla tecnologia e all’industria bellica.

Le tecniche metallurgiche e il miglioramento delle polveri avevano il medesimo scopo: creare un clima tecnologico nel cui ambito si rendeva possibile la realizzazione di un cannone in un’unica fusione ottenendo un pezzo robusto e di calibro più rispondente a quello dei proiettili impiegati. Non solo, ma in tal modo s’abbassava l’indice di dispersione di gas (in termini tecnici il «vento»), e allo stesso tempo si aumentava la potenza e la precisione del tiro.

L’evoluzione delle bocche è confermata dai numerosi scritti sull’artiglieria che costituirono un’imponente letteratura tecnica tra manuali e trattati diffusi dall’editoria veneziana, sicuramente da considerare la più considerevole e importante del mondo di allora.

Per limitarci solo ad alcuni autori di trattati e manuali, artiglieri e uomini d’arme, ma al contempo tecnici, facciamo menzione di Girolamo Maggi d’Anghiari, Giulio Savorgnan, Girolamo Cataneo, Alessandro Chincherni, Giovanni Battista Colombina, Eugenio Gentili, Pietro Sardi, infine e, da ultimo, il fonditore e artigliere Sigismondo Alberghetti.

Giulio Savorgnan (1510-1595), patrizio veneziano, di famiglia nobile originaria del Friuli, fu un generale legato a Venezia oltre a essere autore di scritti sulle fortificazioni in terraferma e in Levante, ma anche su problemi di balistica; nel secondo libro dei suoi Quesiti (Venezia, Biblioteca civica del Museo Correr, ms. Cicogna, cod. 3277) pone il problema dell’effetto del peso delle palle al momento della gittata e documenta le prove fatte «a marina [al Lido di Venezia?] con un falconetto da 3 forzato per esperimentar la polvere raffinata et ordinata dall’Ill.mo Sig. Giulio Savorgnan» (Quesiti, cit., p. 17).

Rilevante, anche, l’importanza di Francesco Maria della Rovere, duca di Urbino (1490-1538), sia come uomo d’arme sia come autore di scritti sulla guerra e sui sistemi di fortificazione di cui fanno fede i Discorsi militari editi a Ferrara nel 1583. Nel fondo manoscritto della Biblioteca nazionale Marciana si conservano molte sue scritture tra cui un «Inventario di tutte le munizioni che al presente si trovano nella fortezza e città di Corfù» (Venezia, Biblioteca nazionale Marciana, cod. it. VII.890 = (8843), ff. 153-56).

Nell’ultimo scorcio del 14° sec. e in quello successivo notevole è il peso del ducato di Ferrara e degli Estensi nel campo della metallurgia e dell’artiglieria, come ben sottolinea una pubblicazione di Francesco Locatelli (1985), evidenziando il ruolo che ebbe dal punto di vista militare e della tecnologia bellica fino a diventare un vero e proprio polo innovativo e all’avanguardia.

Egli ascrive a Ferrara il merito di aver favorito l’affermarsi di una grande famiglia di fonditori e artiglieri come gli Alberghetti che, trasferitisi a Venezia, esercitarono per quasi due secoli la loro arte al servizio della Repubblica (cfr. A. Angelucci, Documenti inediti per la storia delle armi da fuoco italiane, 1868).

Il capostipite ‘Albergeto’ nativo di Massa Fiscaglia, inizialmente fonditore di campane in Ferrara prima di passare alle dipendenze di Ercole I d’Este, fu uno dei primi a contribuire a fare della città, nel corso di tutto il 16° sec., uno dei più importanti centri di produzione metallurgica e di pezzi d’artiglieria. Marco Morin (2008), in particolare, fa luce su alcuni aspetti dell’attività di Hieronimo Alberghetti, figlio di Sigismondo, sulla base di una dettagliata disamina di documenti d’archivio che riportano alcuni particolari relativi alle sue vicende personali e familiari.


In particolare, i tre fratelli Alberghetti, cioè Hieronimo, Emilio e Julio, rivolsero una supplica a «Sua serenità il Doge», nella quale gli chiedevano di rinnovare la «provision di 200 ducati con le case già in precedenza concesse ai loro antecessori» e donare al terzo fratello oltre alla casa anche la bottega che era stata del padre.

In un decreto del 1563 si fa accenno a Hercole Alberghetti e a Cristoforo Rossi che con un loro «fante» esercitano l’attività fusoria in un locale contiguo al «Magazen delli remi», con grave pericolo per l’incolumità di quell’edificio in caso di scoppio o d’incendio; pertanto si chiede che vengano loro assegnate due case vicine all’Arsenale già abitate dagli ormai deceduti «Marian Bonfadin fondittor delle ballotte et Isepo Donado scrivan»; queste case di solito erano date a personale dell’Arsenale come abitazioni; in tal modo gli spazi occupati in precedenza da Hercole e Cristoforo potevano essere recuperati e annessi «al Magazen delli remi» (A.S.V., Patroni e Provveditori all’Arsenal, b. 11 c. 17r).

Oltre agli Alberghetti, è necessario menzionare la famiglia di Conti, ma siamo oggi ancora ben lontani dall’avere un quadro completo ed esaustivo delle famiglie di tecnici dediti all’attività fusoria e alla fabbricazione delle polveri nell’Arsenale e a Venezia, nonostante la dovizia di documenti d’archivio che ne comprovano l’articolata attività.

La storia della tecnologia nella sua declinazione di storia interna delle tecniche e delle attività fusorie è molto importante nello studio degli Arsenali di terra e di mare sia per quanto riguarda le armi sia per ciò che concerne la produzione metallica.

Nella storia delle attività fusorie si deve includere quella delle tecniche e delle modalità dei processi di colata, della tipologia e dell’uso degli stampi; per quanto riguarda la storia della tipologia e morfologia delle armi da fuoco è importante stabilire la classificazione in base al calibro, al munizionamento, al sistema di caricamento (avancarica-retrocarica) e di funzionamento, alla forma della traiettoria, al trasporto e all’impiego.

Altro elemento importante è il riferimento a un quadro metodologico entro cui far rientrare l’indagine scientifico-tecnologica (chimico-fisica) fatta eseguire su campioni onde apprezzarne le caratteristiche meccaniche, tecniche, di resistenza e così via. Ovviamente tali indagini, poggiando su campioni limitati, rimangono puramente indiziarie, ma possono rivelarsi estremamente interessanti.

...

Il Giardino di ferro

La varietà delle bocche da fuoco era assai vasta ancor prima che si adottasse il sistema della standardizzazione e dell’intercambiabilità delle parti, concetti introdotti molto più tardi da uno dei maggiori esperti di tecnologie militari del 18° sec., l’ingegnere militare francese Jean-Baptiste Vaquette de Gribeauval (1715-1789). Lo sforzo di semplificare e ridurre sia la tipologia delle armi da fuoco sia i calibri è uno dei suoi meriti maggiori che, fra l’altro, ebbe anche un grande successo.

La pionieristica opera innovativa di Gribeauval si allargò anche alle bocche da fuoco di cui migliorò le canne perfezionandone sia la balistica esterna sia quella interna con effetti sulla velocità e sulla traiettoria del proiettile; migliorò le canne anche introducendo la tecnica della costruzione dei cannoni mediante alesaggio: il foro prodotto nella fusione perfezionava ulteriormente la corrispondenza tra le pareti della canna e la palla, regolandone il calibro con le ovvie conseguenze sulle munizioni e le cariche, permettendo un nuovo, decisivo, alleggerimento dell’arma; infine, rese più funzionali gli affusti e tutto ciò che poteva migliorare lo spostamento e la funzionalità di tiro dei pezzi. Le sue innovazioni avviarono la riforma e il rinnovamento dell’artiglieria, peraltro contrastati per le solite gelosie.

L’ostacolo, tuttavia, fu superato sul campo quando si videro, nella battaglia di Valmy (1792), i micidiali effetti dei suoi cannoni fusi in bronzo di 4, 8 e 12 libbre che avevano una gittata con palle piene di circa 800 libbre e di 600 m con carica a mitraglia. Nella stessa battaglia giocarono probabilmente un ruolo anche le granate lanciate da obici da 220 libbre che potevano sparare fino a due colpi al minuto ed essere letali fino a 2000 m di distanza.

Gribeauval descrisse le sue innovazioni nell’opera Tables des constructions des principaux attirails de l’artillerie, pubblicata nel 1776, i cui risultati si intrecciarono con quelli presentati da Gaspard Monge nella Géométrie descriptive, nella quale aveva elaborato il suo metodo prima del 1769, data in cui finalmente gli ufficiali della scuola militare di Mézières furono costretti ad ammetterne la superiorità. L’opera, coperta da segreto militare, fu pubblicata solo nel 1799, ma ancora prima Monge aveva pubblicato la Description de l’art de fabriquer les canons; questo lavoro fu stampato nel 1792, stesso anno dello scritto di John Francis Edward Acton, Regolamento per la fondizione [fusione], e le dimensione de’ pezzi di artiglieria, comandante della flotta navale del Granducato di Toscana e segretario di Stato del Regno di Napoli.

Sulla base di un accurato e originale lavoro di Francesco Caputo (2007), è possibile documentare sia un incontro tra Monge e Acton a Napoli sia una notizia che ci riporta all’Arsenale di Venezia e allo stato dell’artiglieria veneziana coeva. Nel 1775 Acton aveva preso parte, quale comandante di una fregata, alla spedizione congiunta spagnola e toscana allestita contro Algeri da Carlo III re di Spagna, distinguendosi per capacità e coraggio. L’episodio ci consente di fare riferimento all’impresa veneziana di un decennio successivo, culminata nel 1785 con il bombardamento di Sfax in Tunisia a opera di Angelo Emo. Questo successo, verificatosi in seguito alla profonda riforma dell’artiglieria operata da Gribeauval e da Monge, conferma come l’artiglieria veneziana si sforzasse di stare al passo, uniformando il proprio arsenale bellico agli standard svedesi e inglesi, mediante l’impiego del ferro al posto del bronzo, pur mantenendo alla propria artiglieria lo stesso calibro.

Anche la Repubblica risentiva dello ‘spirar’ dei venti nuovi e nel 1757, circa otto anni dopo l’autoesclusione di Venezia dalla pace di Acquisgrana, avvertì la necessità di ridare vita al primo nucleo del Reggimento veneto all’artiglieria affidato al brigadiere Tartagna, già in forza al governo austriaco e, successivamente, al brigadiere Saint-March e al generale James Patisson di origine inglese.

Benché il reclutamento delle truppe repubblicane, dette Schiavoni (la fanteria istriano-dalmata), fosse fatto nei territori oltremarini, è significativo che dopo il 1716, in seguito all’accettazione dell’incarico di generale capo da parte del sassone Johann Mathias der Schoulemburg, s’introdusse la consuetudine di affidare tale carica anche a stranieri: tra questi, vi furono l’olandese Greem e il tedesco Witzbourg. Negli anni successivi, con l’assottigliarsi del bilancio dello Stato per il settore militare, la tendenza si andò consolidando, interrompendosi solo quando fu nominato Savio alla scrittura Francesco Vendramin.

Tra i compiti del Savio alla scrittura c’era non solo la riorganizzazione delle forze armate, ma anche il controllo e l’esazione del contributo imposto all’industria metallurgica bresciana e bergamasca e a quelle estrattiva dell’alto Cadore.

Gli affari militari a Venezia, anche in quest’ultimo scorcio del 18° sec., dipendevano ancora da un Collegio, una sorta di Consiglio dei ministri della Repubblica. Di questo Collegio facevano parte il Savio di Terraferma alla scrittura e il Savio di Terraferma alle ordinanze.

Il Savio alla scrittura, tradizionalmente preposto oltre che alle milizie stanziali anche alle fortificazioni, alle artiglierie, alle scuole militari, in sostanza equivaleva al ministro della Guerra della Serenissima ed era affiancato da un generale in capo che aveva funzioni tecniche (era un militare di professione), mentre il Savio alle ordinanze badava alle Cernide (milizie di Terraferma della Serenissima) ed era una sorta di ministro alla Difesa del territorio.

In questo contesto, il 1° settembre 1759 fu istituito il Collegio militare di Verona con decreto del Senato che prescriveva un piano di studi da compiersi in sei anni. In esso era previsto l’insegnamento delle matematiche pure e miste o applicate «quali sono adatte al matematico e al fisico, abbracciando perciò la meccanica, la balistica, l’idrostatica, l’idraulica, l’ottica, la perspettiva, l’astronomia, l’architettura civile e militare, la nautica e la geografia» (Piano generale degli studi da farsi in un sessennio nel pubblico collegio militare di Verona, 1763).

Il Collegio militare fu affidato alla direzione di Antonio Maria Lorgna (1735-1796), matematico e ingegnere distintosi anche nel campo degli studi idraulici e come promotore e patrocinatore dell’associazione nota come Accademia dei XL che annoverava, tra i fondatori, i maggiori scienziati italiani dell’epoca tra cui Alessandro Volta, Lazzaro Spallanzani, Giuseppe Luigi Lagrange, Ruggero Giuseppe Boscovich.

Il Piano generale del Collegio è un significativo segnale della connessione tra scienza e tecnologia che in Francia, prima e dopo l’impero napoleonico, caratterizzò la svolta illuministica; inoltre, è un segnale eloquente di come, tra Settecento e Ottocento, l’evoluzione della tecnologia, anche quella militare, fosse in stretta correlazione con lo sviluppo della fisica e della matematica.

Il Collegio militare anticipò la creazione di un’analoga scuola per ufficiali di marina istituita nell’Arsenale di Venezia, il cui iter formativo, formulato nel 1777 dall’abate Maffioletti, ripropone lo stesso metodo e l’analogo contenuto per i quadri tecnici della Marina.

In questa seconda metà del 18° sec., poco prima della caduta, sembra riprendere vita l’antico orgoglio della gloriosa Repubblica; protagonista fu il grande ammiraglio Angelo Emo (1731-1792) sotto il dogado di Paolo Renier, che consegnò alla storia l’ultimo grande sussulto d’orgoglio repubblicano.

Emo riuscì ad armare l’ultima vera flotta veneziana formata da cinque vascelli di linea e cinque fregate e soprattutto da alcuni zatteroni assemblabili, vere e proprie batterie galleggianti che lui stesso aveva progettato, su ciascuna delle quali aveva fatto installare due cannoni, un obice e un mortaio da 200 libbre che, nelle battaglie vittoriose di Sfax, Tunisi e Biserta, fecero la differenza, così come era accaduto nel glorioso episodio di Lepanto con le galeazze armate.

Le stesse zattere, vere e proprie batterie blindate, vennero denominate obisiere e bombardiere o cannoniere a seconda dei pezzi che erano sistemati a bordo. In questa occasione furono gli zatteroni e i cannoni ad avere la meglio sulle galere, le imbarcazioni leggere e di scarso pescaggio dei pirati barbareschi.

A quei tempi, in Arsenale, nel reparto fonderie e metallurgia sopravviveva ancora la benemerita dinastia degli Alberghetti, cui si unì l’azione efficace del Savio alla scrittura Vendramin e dello stesso Emo tutti tesi a restituire alla Casa dell’Arsenale una certa efficienza e la volontà di mettersi al passo con i tempi facendo propria la nuova tecnologia delle armi.

Vendramin, al corrente delle innovazioni introdotte da Gribeauval e della riforma che ne era seguita, avrebbe voluto adottarla almeno nelle sue parti più vitali ispirandosi ai criteri che il generale francese aveva raccomandato, ma mancò sia l’energia sia la volontà politica dello Stato.

In questo epilogo merita anche una particolare menzione l’opera L’artiglieria veneta antica e moderna raccolta dal soprintendente all’Artiglieria (2 voll., 1779), scritta da Domenico Gasperoni (Venezia, Biblioteca Querini Stampalia, B.co st. b. 45). Nella dedicatoria manoscritta anteposta all’esemplare della Biblioteca Querini Stampalia di Venezia (dell’opera esiste un’altra trascrizione nella Biblioteca del Museo storico della Marina di Venezia, ms. G/29), l’anonimo prefatore, probabilmente lo stesso Gasperoni, perora e sollecita l’interessamento del principe Polo (Paolo) Renier, «Uomo Celebre e autorevole», a favorire la pubblicazione a stampa dell’opera in questione divenendone il «Gran Mecenate».

L’opera non ha avuto lo stesso successo toccato alle Mappe dell’Arsenale di Maffioletti, benché l’Artiglieria sia stata concepita con lo stesso intento celebrativo, come dimostrano anche le preziose incisioni in rame di Giuliano Zuliani realizzate per conto di Gasperoni; infatti, è una rara ed esaustiva epitome a futura memoria delle antiche bocche da fuoco in bronzo, di cui si era stato dotato, nel corso di alcuni secoli, l’Arsenale veneziano.

Il Sopraintendente alle artiglierie della Repubblica, sottoposto al Magistrato all’artiglieria a sua volta subordinato al Reggimento all’Arsenal, controllava i ruoli dei fonditori, dei carreri, dei fabbri, dei tornitori e di altre arti e al contempo aveva in consegna il deposito dei cannoni in bronzo e in ferro, delle munizioni, delle bombe, delle polveri e dei servizi a questi sussidiari.

A tale carica burocratico-amministrativa era affidato un notevole numero di bocche da fuoco che comprendevano 24 diversi modelli di cannoni tra bronzo e ferro; 5 modelli di falconetti, 6 di colubrine, 4 di petrieri, 13 di mortai, 3 di obusieri, 3 di obici (obizzi) senza contare il minor calibro e le speciali come gli aspidi, i passa volanti, i saltamartini, i trabucchi, le spingarde, gli organetti e i mortaretti per la prova delle polveri (A.S.V., Delib. Senato Militar, filza 103).

I pezzi esistenti nel periodo considerato, dalla metà fino agli anni Ottanta del 18° sec., erano in Arsenale sulle postazioni e sulle navi, complessivamente, circa 5338 di cui 3713 in bronzo e 1625 in ferro, numero di bocche che, tuttavia, la Serenissima non riusciva ad attivare perché ormai il numero del personale addetto era alquanto ridotto.

In questo periodo il cosiddetto Deposito intangibile collocato dentro l’Arsenale ed esposto nelle Sale d’armi fu ampliato e riordinato nella parte moderna dal soprintendente Patisson e nella parte antica da Gasperoni ancora maggiore d’artiglieria.

Gasperoni fu al servizio del Magistrato alle artiglierie per «46 anni continui» durante i quali ricoprì anche «alcune delle ordinarie ed estraordinarie incombenze da esso lui sostenute senza il menomo Pubblico aggravio, oltre quello della natural paga» (A.S.V., Delib. Senato Militar, filza 103, c. n.n.).

L’armamento ammassato in Arsenale, nei nuovi locali restaurati dal proto Filippo Rossi, in molti casi obsoleto, era del tutto inutile non reggendo il confronto con la maggiore efficacia della più recente artiglieria. Per tale ragione le «Deliberazioni Sovrane» ne decidevano la «rifondita [la rifusione] e vendita delle inutili artiglierie per ridurle in altre di moderno utile uso» (A.S.V., Delib. Senato Militar, filza 103, c. n.n.).

L’opera di Gasperoni, quindi, è strettamente connessa al restauro del deposito d’armi e all’adattamento delle sale d’arme impiegate solitamente a uso espositivo nelle manifestazioni ufficiali allorquando i principi esteri si trovavano a Venezia in visita; nella parte manoscritta del volume si dichiara che Gasperoni

dispose tutti gli altri infiniti e vari generi di ogni qualità, sorte e figura nei rispettivi loro depositi, nei modi più vantaggiosi alla loro preservazione e che presentavano all’ochio dei forastieri più illustri e illuminati il Dipartimento Artigliere come il Giardino dell’Arsenale (A.S.V., Delib. Senato Militar, filza 103, c. n.n.).

Il suo scopo era quello di registrare, a futura memoria, lo stato dell’imponente arsenale bellico che la Repubblica poteva ancora esibire a scopo deterrente e dimostrativo, a testimonianza di una potenza più esibita che reale. Della sua attività si conservano nell’Archivio di Stato di Venezia numerosissime scritture sui più svariati problemi d’artiglieria e l’uso delle polveri esplosive e soprattutto sul problema della nitrificazione di cui descrisse i modi di stratificazione, di depurazione, di cotta, di raffinazione. Inoltre, egli si sofferma sulla nuova organizzazione del corpo, sul funzionamento, sulla disciplina, sul metodo e sull’istruzione del corpo degli artiglieri. Con lo stesso spirito si dedicò alla traduzione di testi specialistici sull’argomento.

Nel campo della balistica, per incarico di Emo, formulò alcune regole per ottenere una maggiore precisione di tiro dei cannoni installati sulle navi anche quando le cariche si fossero dimostrate deboli o difettose; inoltre si adoperò alla diffusione, tra i capitani delle bombarde, del trattato di balistica Le bombardier françois (1731) di Bernard Forest de Bélidor (1698-1761).

Gasperoni, inoltre, approfondì con argomentazioni scritte e disegni l’uso di pesanti pietriere da 500, rispetto alle comuni batterie da 30 e 40, utilizzate da Emo nella guerra di Tunisi; questa fu l’ultima occasione per la ripresa dell’attività fusoria da tempo sospesa, realizzando cannoni sia in bronzo sia in ferro con una produzione allineata a quella del resto d’Europa.



Le tecnologie nell’Arsenale e nei cantieri navali della marina

I decenni che vanno in particolare dall’Unità d’Italia fino alla Prima guerra mondiale sono quelli che presentano maggiore interesse dal punto di vista del patrimonio storico della tecnica e dell’industria. L’Arsenale veneziano postunitario è visto ancora come una struttura architettonica e ciò non sempre fa intravedere l’articolazione della produzione tecnica introdotta a partire degli anni Ottanta del 19° secolo.

Pur sotto il comune denominatore del legno e della sua particolare tecnologia di lavorazione, la nuova tipologia navale in ferro imponeva delle differenziazioni nel campo delle soluzioni innovative, tecniche, dell’organizzazione del lavoro e via dicendo.

L’Arsenale postunitario operativo fino al secondo dopoguerra si differenzia per la sua attività specifica di stabilimento industriale, provvisto di macchine e cuore di un sistema produttivo la cui durata è stata più effimera di quella degli edifici contenitori.

La stessa costruzione navale in ferro è il risultato complesso di molte tecniche, ma anche il frutto di saperi e conoscenze tecnico-scientifiche, che vanno dalle competenze metallurgico-meccaniche a quelle artigiane per la creazione dei prodotti di completamento e perfino d’arredo: dalle ancore, alle vele, al cordame, alle dotazioni di bordo e così via.

Anche l’Arsenale di questo periodo conserva, come l’antico, il carattere di «popoloso recinto di tutte quelle arti e di tutti que’ studi che costituiscono l’essenziale della marina» per riprendere la già citata definizione di Maffioletti. Ciò vuol dire che esso continuò a mantenere, fino ai tempi più recenti, il suo carattere di sede di un certo numero di arti e di tecniche che confluirono a formare una sorta di Enciclopedia delle tecniche.

Le finalità dei complessi arsenalizi moderni creati ex novo o riconvertiti, come nel caso di quello veneziano, alla moderna produzione navale in ferro costituiscono anche un indizio assai significativo di come l’inizio della moderna industrializzazione fosse un effetto della razionalizzazione delle varie tecniche di una specifica filiera produttiva. Ferma restando la finalità univoca degli arsenali militari della marina tra le due guerre mondiali del secolo scorso, il nuovo Arsenale veneziano, nelle dichiarate intenzioni del principale ispiratore e programmatore (la marina militare) avrebbe dovuto svolgere un compito importante e innovativo nel campo della costruzione e dell’armamento navale per conferire all’intera industria un notevole impulso.

Nel considerare l’industria navale come elemento trainante dell’industria moderna, è necessario rilevare che l’introduzione e l’uso innovativo delle strutture metalliche avvennero in Inghilterra già dalla fine degli anni Trenta dell’Ottocento quando la costruzione navale e quella delle grandi strutture metalliche a uso civile contrassero debiti e crediti reciproci: la costruzione di grandi navi metalliche non sarebbe stata possibile senza la sperimentazione di strutture metalliche di grande luce. Vi fu uno scambio tra i due settori favorito dal rapido evolversi delle macchine propulsive e dallo sviluppo dei motori a vapore, il cui aumento di potenza apparve subito legato alla necessità di ridurre volume e ingombro. La riduzione dimensionale delle macchine in rapporto all’aumento di potenza e prestazione è uno degli elementi cardine dell’innovazione e della specializzazione: si pensi alla sostituzione di motori a vapore di prima e seconda generazione con macchine più potenti, più compatte e di dimensioni più contenute rispetto alle precedenti.

Nonostante lo sforzo di adeguare la produzione dell’Arsenale agli standard europei, il processo di crescita fu lento sia per ragioni di carattere economico sia per i limiti intrinseci.

Le tipologie di macchine introdotte nell’allestimento delle officine (torni, universali o meno, trapani, fresatrici, scanalatrici stoccatrici) non furono di ultima generazione; valga l’esempio del maglio installato in Arsenale per fucinare riadattato con una piattaforma d’ancoraggio per aumentarne il tonnellaggio.

Lamiere e lamieroni e le diverse parti destinate alla costruzione della nave, prodotte e realizzate nei nuovi altiforni ubicati presso le Galeazze e Nappe, dovevano compiere diversi passaggi prima di essere messe in opera; il materiale grezzo e semilavorato proveniva anche dall’esterno: per es., le corazze montate a Venezia provenivano dalle acciaierie di Terni, punto di riferimento per tutti gli Arsenali del Regno.

Occorre però sottolineare l’autonomia della stessa marina che sperimentava le corazze con prove in proprio e stabiliva i parametri da rispettare nella fornitura di prodotti di acciaio fuso. Per la nave Ferruccio, apprendiamo che una fonderia milanese fornitrice dell’acciaio doveva consegnare il materiale semilavorato attenendosi però alle caratteristiche meccaniche imposte i cui valori, per la carica di rottura e per l’allungamento, dovevano essere compresi entro i parametri stabiliti dalle istruzioni tecniche della marina (i limiti dovevano essere contenuti entro gli indici prescritti che erano: R=40, A=15%; ed R=80).

Generalmente, la Direzione dell’arsenale committente forniva alle fonderie esterne, munite di macchine più aggiornate e personale specializzato, i modelli e gli stampi per la fusione di prodotti e componenti della nave; questi sono ancora reperibili nell’Arsenale veneziano, ma in numero maggiore e meglio conservati si trovano a Taranto.

I prodotti di acciaio fuso, greggi, ma perfettamente sbavati, da fondere negli stampi forniti dagli arsenali erano: piastroni per sottobasi di cannoni, cubie ordinarie per ancore complete di brida interna ed esterna, bittoncini e guardatonneggi semplici e doppi, ma anche parti accessorie destinate all’arredamento, eliche e altre componenti meccaniche.

In questa fase altre componenti furono invece poste in fusione all’interno dello stesso Arsenale veneziano; tra queste troviamo: manicotti semplici per passaggio delle catene delle ancore (in un solo pezzo e in due pezzi), queste ultime da riunirsi con chiavarde; diversi sostegni a mensola; manicotti accessori per ombrinali; forchette per alberi da carico; tubi a gomito per ombrinali e scarico latrine; tubi con innesto per una tubatura laterale; tubi a gomito per ombrinali con innesto di due tubature laterali.

Per quanto riguarda la formatura e il tipo di fusione impiegato nella modellazione di singoli pezzi meccanici ridotti alla forma e alle dimensioni occorrenti, occorreva valutare attentamente in tale procedimento gli effetti del coefficiente di contrazione dei vari tipi di metallo, tenendo presente che, nella solidificazione, si verifica un aumento di volume di cui il modellista deve tener conto.

Il materiale impiegato per gli stampi era il legno (tiglio, iermolo con nervature di legno forte) verniciato in vari colori per renderne liscia la superficie e indeformabile al contatto con il calore o l’umidità; vari colori poi erano impiegati in funzione dei metalli utilizzati nella fusione.

Lo stampo conferiva ai metalli impiegati nella colata la ‘forma’ voluta che, una volta ottenuta, si doveva sottoporre alla completa essiccatura in apposite stufe per evitare le soffiature, in modo da essere pronto, a raffreddamento avvenuto, per la scassettatura o distaffaggio che era la fase in cui il getto veniva tolto dalla sua armatura o staffa e sottoposto alla sterratura, mediante sabbiatrici, per eliminare l’eventuale terra ancora aderente. Da ultimo, veniva effettuata la sbavatura per l’asportazione del metallo infiltratosi nelle sconnessure durante la colata. Bisognava ottemperare a questi importanti requisiti con molta perizia, se si voleva ottenere un buon prodotto.

Tuttavia, l’impiego dei modelli o stampi era un sistema molto costoso che gli impianti metallurgici installati all’interno dell’Arsenale avevano avuto tutto l’interesse a eliminare, soprattutto nella fusione di ‘grossi pezzi’, per i quali fu introdotto un nuovo sistema cosiddetto a bandiera o a chablon (braccio girevole).

Altre operazioni erano svolte all’interno dell’Arsenale di cui però non rimane traccia; sappiamo con quali metodi fosse eseguita la fucinatura, ossia il procedimento mediante il quale il metallo trattato subisce una contrazione dell’1-2%. Essa può essere effettuata in vari modi:

a) mediante martello, detto maglio, a movimento circolare alternato; nell’Arsenale veneziano, oltre a quello più pesante montato nell’edificio detto appunto del ‘maglio’, ubicato nel piazzale dei bacini di carenaggio, in prossimità dei primi due bacini, ve ne erano altri di mole assai minore impiegati anche nelle operazioni svolte manualmente. Il maglio era costituito da una trave di un certo spessore vincolata a un perno che fungeva da fulcro della leva la cui estremità era dotata di massa battente che si muoveva generalmente in verticale per lavorare i pezzi ancora incandescenti.

b) mediante vere e proprie macchine dette anche queste magli, recanti una propria ‘mazza’ azionata però in linea retta dall’alto verso il basso con un movimento rettilineo alternato. Questo tipo di maglio ha varie denominazioni a seconda della modalità con cui è posto in azione: a vapore, a leva, a frizione e così via.

Gli strumenti di fucinazione furono via via aggiornati con fucinatrici di nuova generazione che erano vere e proprie macchine per forgiare (a stampo, limitato al ricalco ecc.) più che per fucinare, o macchine usate per flangiare. A queste si vennero ad aggiungere le presse che funzionavano appunto a pressione. Un solo colpo di pressa equivaleva a numerosi colpi di maglio. Le presse si adoperavano per la fucinatura di grossi pezzi come gli alberi di eliche, lamiere per gli scafi e così via. Facevano parte di questa tipologia di macchine le chiodatrici impiegate nella ribattitura dei chiodi nelle lamiere. Presse e chiodatrici funzionavano con il ricorso a varie forme di energia.

Nei documenti da noi consultati e nel testo di Felice Martini (1877-1898), si fa cenno a un laminatoio presente nell’edifico della Galeazza dell’Arsenale di Venezia. I laminatoi sono apparecchi complessi e, in assenza di una precisa descrizione del modello in uso a Venezia, possiamo ipotizzare che fosse del tipo a cilindri (2+2) disposti paralleli e provvisti ai due lati estremi di meccanismi, i quali davano luogo a un movimento che si sviluppava in direzione opposta.

I cilindri erano probabilmente sostenuti da un telaio mediante il quale costituivano la ‘gabbia’; l’insieme di due o più gabbie formava il ‘treno di laminazione’ e l’unione di due o più treni, il laminatoio vero e proprio. Non siamo in grado di dire quanti treni fossero operanti né stabilire la loro tipologia e cioè se fossero treni per lingotti di puddellatura, per ferri sagomati o per lamiere; tuttavia, la varietà delle esigenze da soddisfare nella costruzione degli scafi richiedeva tutte queste funzioni. Qualunque fosse il tipo dei treni, siamo certi che erano alimentati dalla forza del vapore e la prova di ciò è costituita dall’impianto di caldaie a vapore.

Masselli e lingotti per essere laminati venivano portati al color rosso arancio e al bianco saldante per poter procedere allo schiacciamento e all’eliminazione delle scorie: questa operazione si svolgeva nel vicino altoforno; il forno doveva essere o a riverbero o del tipo Martin-Siemens, di più largo impiego perché con questo modello si riuscivano a fondere i molti rottami presenti in Arsenale. Con il laminatoio era possibile conferire al ferro le forme più diverse o almeno realizzare quelle di più largo uso ai fini della costruzione navale.

Non sappiamo con certezza se avvenisse anche l’operazione di trafilatura e se si producesse il filo laminato, mentre vi era un’apposita officina per la fabbricazione di tubi. Anzi, era questa una lavorazione che in Arsenale aveva luogo in un’officina che metteva insieme una doppia specialità: quella dei ramieri oltre che dei tubisti.

I tubi prodotti in Arsenale erano ottenuti per laminazione, vale a dire per strisce di lamiera aventi lunghezza pari a quella del tubo in modo da corrispondere allo sviluppo periferico di esso; tuttavia, oltre che con questo sistema i tubi potevano essere prodotti anche con altri procedimenti. Il tipo di saldatura era quella autogena ossidrica oppure ossiacetilenica (a cannelli mediante l’acetilene) molto usata per il ferro, la ghisa e per il taglio dei metalli.

Oggi, a parte il vuoto desolante di questi locali alcuni dei quali consolidati e con il tetto, altri invece pericolanti e quasi del tutto scoperchiati, è possibile vedere solo le forge a cappello di doge dove avveniva la fucinatura manuale. In definitiva, ci sembra di dover costatare che nell’Arsenale di Venezia l’aggiornamento tecnologico nel campo della metallurgia e della meccanica segua l’indirizzo adottato negli arsenali degli altri due dipartimenti, senza avere però la complessa articolazione riscontrabile soprattutto a La Spezia. Sull’innovazione tecnologica apportata dalla costruzione navale italiana, specie per quanto riguarda gli scafi e la struttura della nave, sono noti i geniali contributi di Benedetto Brin (1833-1898), per merito del quale l’Italia, nel periodo postunitario, si pose all’avanguardia in Europa.
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Re: Gheto

Messaggioda Berto » gio apr 14, 2016 9:06 pm

Venezia: il sito del Museo ebraico attaccato da hacker di matrice islamica
15/03/2016

http://www.mosaico-cem.it/articoli/prim ... e-islamica

Il ghetto di Venezia

Il sito della biblioteca ebraica di Venezia è stato oggetto di un attacco hacker di matrice islamica. Per più di due ore il sito del ‘Centro Culturale Renato Maestro’ è stato oscurato ieri da ‘Tunisian Fallaga Team‘ già noto agli investigatori dopo che nel 2015 in Francia vennero arrestati sei appartenenti per alcuni attacchi di pirateria informatica. L’attacco al sito della biblioteca ebraica, come riportano i quotidiani locali, è giunto a pochi giorni dalle presentazione delle iniziative legate ai 500 anni della nascita del ghetto ebraico a Venezia.

La homepage è stata così oscurata dal ‘Tunisian cyber resistence’ con un messaggio in lingua inglese che prende di mira alcuni stati come la Russia, Francia, Israele e India accusati di violenze contro gli islamici.

Le reazioni
«Nel leggere la notizia dell’attacco informatico alla Biblioteca ebraica di Venezia tornano alla mente le parole di Marguerite Yourcenar: ‘Fondare biblioteche e’ un po’ come costruire ancora granai pubblici: ammassare riserve contro l’inverno dello spirito che da molti indizi, mio malgrado, vedo venire. E purtroppo gli indizi si vanno accumulando». Così, Roberto Ciambetti, presidente del Consiglio regionale del Veneto esprime «tutta la mia preoccupazione per queste provocazioni che non vanno assolutamente sottovalutate – ha detto Ciambetti -. Nel mentre esprimo la solidarietà alla Comunità ebraica di Venezia e al direttore professor Gadi Luzzato Voghera, non posso non sottolineare come la biblioteca sia un simbolo non casuale e di straordinaria importanza anche nella cultura islamica sin dai tempi del Bayt al-Hikma di Baghdad, la prima biblioteca pubblica fondata durante il regno del califfo Harun al-Rashid. Da una parte la sapienza, la ricerca della verità, lo studio, il sapere, dall’altro quell’inverno dello spirito di cui parlava Marguerite Yourcenar, fatto di violenza, di terrore, di soprusi. Che questa violenza colpisca a pochi giorni delle celebrazioni per il Cinquecentesimo anniversario del Ghetto di Venezia un altro segnale inquietante, che ci ricorda come per lo jihadismo e il fondamentalismo islamico noi tutti, il nostro stile di vita, la nostra cultura, siamo l’obiettivo di una guerra asimmetrica, in cui l’ignoranza gioca un ruolo fondamentale».

Sdegno è stato espresso anche dal presidente della Regione Veneto Luca Zaia per l’attacco hacker. Il governatore, manifestando la sua solidarietà, ha sottolineato l’intensa collaborazione che c’è sempre stata con la comunità ebraica e che ora si rinnova per le celebrazioni per i 500 anni del Ghetto. «Un appuntamento importante che pone la comunità al centro dell’attenzione internazionale – conclude Zaia – ma che probabilmente per questo è nel mirino di questi inneggiatori di un terrorismo che utilizza anche i moderni strumenti tecnologici, a partire dal web, per lanciare i suoi deliranti messaggi».
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Re: Gheto

Messaggioda Berto » sab apr 16, 2016 7:43 pm

Venezia dichiarata dal Comune una sola casa, così gli ebrei potranno uscire il sabato - Cronaca - La Nuova di Venezia
di Margherita Musumeci
2016/04/11

http://nuovavenezia.gelocal.it/venezia/ ... 1.13279090

VENEZIA. La città di Venezia, con i suoi campi, i suoi canali, la sua piazza è ufficialmente, per il Comune di Venezia un'unica "casa": la decisione può suonare singolare, ma è stata presa dal sindaco di Venezia Luigi Brugnaro per andare incontro a una precisa richiesta della comunità ebraica, per permettere anche agli ebrei più credenti di uscire dalla loro "casa" il sabato, giorno di riposo assoluto, portando con sé i loro oggetti personali, ma persino i bambini in passeggino

In base alla legge mosaica infatti – ha spiegato il rabbino Bahbout, nell'incontro di lunedì con il sindaco – di sabato gli ebrei non possono spostare oggetti di nessun tipo da un luogo pubblico a uno privato e viceversa.
Venezia casa degli ebrei e il sabato diventa "libero" VENEZIA. Venezia è la prima città d'Italia a diventare "Eruv", ovvero "casa" per gli ebrei: che significa? Ve lo spieghiamo in questo breve video.
A Venezia però – caso unico in tutta Italia – grazie alla decisione del sindaco di attestare che l'intera città si può considerare come un'unica grande “casa”, la prescrizione può essere osservata consentendo nello stesso tempo agli ebrei osservanti di spostarsi liberamente nell'area interessata dall'autorizzazione (in ebraico 'eruv'). Un atto importante dunque, soprattutto per una città come Venezia che ogni anno è frequentata da milioni di turisti, molti dei quali di religione ebraica, ancora più numerosi quest'anno in occasione delle manifestazioni per i 500 anni del Ghetto.

Per essere valida, l'autorizzazione, che durerà 5 anni a partire dal 22 aprile, vigilia della Pasqua ebraica, deve essere a pagamento, motivo per il quale il rabbino Bahbout ha già versato 10 euro “simbolici” nelle casse del Comune.

Il sindaco di Venezia, Luigi Brugnaro, ha ricevuto lunedì mattina il rabbino capo della Comunità ebraica di Venezia, Scialom Bahbout, accompagnato dal vice rabbino, Rav. Avraham Dayan, dal cerimoniere del tempio spagnolo, Bruno Foà, e dal consigliere della Comunità, Paolo Navarro Dina.

Il sindaco Brugnaro si è soffermato sul valore che l'osservanza della tradizione e il rispetto delle regole riveste, così come per la comunità ebraica, anche per Venezia stessa, da sempre esempio positivo di accoglienza e valorizzazione delle diverse culture che hanno contribuito a renderla grande.

L'incontro si è poi concluso con la consegna al sindaco, da parte del rabbino, di alcuni doni della tradizione ebraica: pane azzimo, vino di Gerusalemme, pani del sabato e dolci di Pesach, prodotti nel forno della Comunità veneziana.

Una decisione che avrà anche una ricaduta "turistica", permettendo così anche agli ebrei più rispettosi delle norme di venire a Venezia e girare liberamente per la città, anche il sabato.
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Re: Gheto

Messaggioda Berto » dom feb 28, 2021 12:59 pm

Il ghetto veneziano non implicava maltrattamenti e più in generale rientrava nei limiti che il mondo cristiano riservava agli ebrei.
Alla fin fine era un quartiere dedicato come l'Isola degli Armeni, i quartieri dei todeschi, dei greci e dei turchi.


https://www.chiamamicitta.it/26-febbrai ... la-chiesa/



Le città portuali e l’insediamento degli stranieri

L’insediamento dei mercanti stranieri nelle città: una tematica di storiografia urbana

http://www.federica.unina.it/architettu ... stranieri/


La tematica del processo di installazione degli stranieri nei grandi centri urbani e del riconoscimento degli spazi fisici progettati e costruiti dalle “nationi” di stranieri. Sulla base di una rilevante quantità e diversità di basi documentali sono stai messi a punto notevoli contributi scientifici e una pluralità di modelli di appropriazione dello spazio urbano nelle città europee tra la fine del Medioevo e l’Età moderna. Da parte nostra in questa Lezione si focalizzerà il tema su: “Le colonie di mercanti stranieri nelle città portuali ed in particolare si esemplificherà il caso della città portuale di Napoli tra Medioevo ed Età moderna”. Le comunità straniere si insediano nello spazio urbano della città dall’Alto Medioevo e per tutto il Quattrocento organizzando quartieri e aree riservate. All’interno delle città storiche si hanno anche trasferimenti di alcune comunità. La stabile presenza di colonie commerciali negli spazi delle città portuali lungo le coste della penisola è una realtà ben nota agli storici e più recentemente si è rivelata una tematica di rilievo per la storia urbana. È da individuare in effetti il ruolo svolto nello sviluppo urbano nelle città ove è riconosciibile l’insediamento “straniero” in età medioevale e moderna e. l’esistenza o meno di una specifica strategia d’impianto urbano.

Il tema delle colonie/nationi, dei quartieri, degli spazi, dei luoghi mercantili stranieri nelle città portuali, è poi di particolare interesse ad una investigazione più puntuale per le strette relazioni che si instaurano tra la loro localizzazione e gli spazi mercantili e di scambio. Sulla base di una rilevante quantità e diversità di basi documentali sono stati messi a punto notevoli contributi scientifici e una pluralità di modelli di approssimazione dello spazio urbano nelle città europee tra la fine del Medioevo e l’Età moderna.




???


“C’era più solidarietà nel Medioevo”

Adriano Prosperi intervistato da Elisabetta Ambrosi
24 settembre 2008

https://www.resetdoc.org/it/story/cera- ... -medioevo/

Un rapporto che appare, se guardato attraverso la complessa lente della storia, molto diverso rispetto all’accoglienza cristiana verso poveri e diseredati; e più vicino invece al moltiplicarsi, in età moderna, «di processi di esclusione ed eliminazione di ciò che appariva inassimilabile: il ribelle politico, l’eretico pertinace, il musulmano, l’indio cannibale e immorale».

Immigrati, esuli, vagabondi e accattoni: le figure ai margini della società hanno sempre attirato l’attenzione di chi governa. Quali sono state in passato le principali figure “disturbanti”, e che tipo di minaccia rappresentavano? Chi erano, insomma, gli “immigrati”, i “clandestini” della modernità e quale il giudizio sociale verso di essi?

L’elenco non può che essere superficiale. Bisognerebbe seguire il filo delle parole: i greci si distinguevano dai barbari, i romani graduavano la distinzione tra cittadini e non, nel Medioevo si distingueva tra cristiani e infedeli, con la scoperta dell’America apparvero i pagani e i selvaggi. Le migrazioni erano stagionali – transumanze di greggi, discese dalle montagne d’inverno per lavorare qua e là e poi tornare a casa. Divennero definitive in momenti di grandi sconvolgimenti, come le invasioni barbariche e l’applicazione della regola del “cuius regio eius religio”. Le invasioni barbariche fecero saltare il modello di integrazione dell’impero romano che era stato straordinariamente efficace. Ne fondarono altri, a seconda dei rapporti di forza e di cultura con le precedenti popolazioni e con i poteri civili e religiosi esistenti: fusione o netta divisione e imposizione di nuovi poteri e nuove norme.

Nel quadro dell’Europa cristiana medievale i fenomeni di movimenti di individui e di gruppi sono numerosi: ricordiamo le immigrazioni medievali dalle campagne feudali nelle città, incoraggiate da una normativa che liberava dalla servitù (“l’aria della città rende liberi”). E ricordiamo d’altra parte le espulsioni dei nemici politici sconfitti come strumento della lotta delle “parti” di guelfi e ghibellini. Allora il pericolo veniva da dentro: da fuori veniva il commercio e la ricchezza nelle città medievali e per questo la città conosce in origine una struttura divisa per luoghi d’origine: c’è il fondaco dei tedeschi a Venezia, c’è il quartiere dei Lombardi a Bruges e a Parigi, ci sono i luoghi di devozione distinti per origini, come le confraternite dei vari gruppi di diversa provenienza (San Giovanni dei Fiorentini a Roma). I sistemi di accoglienza dei viandanti, dei pellegrini e in generale degli itineranti per affari e per devozione portarono all’erezione di ospedali lungo le vie di maggior comunicazione e stimolarono la nascita di ordini religiosi e confraternite specializzate nell’ospitare e curare. Il bacio di San Francesco al lebbroso è il segno della fraternità cristiana verso la figura estrema del male come pericolo e come maledizione.

Quando la città diviene invece simbolo di protezione, contro un esterno minaccioso?

Le carestie e le grandi epidemie del ‘300 segnano una svolta. Da fuori viene la morte. Perciò la città si organizza in funzione del controllo dei forestieri: quarantene nei porti, regolamenti di sanità, ispezioni delle merci danno vita ad un diverso rapporto con chi viene da fuori. Si ha la trasformazione del povero da figura di Cristo a minaccia per l’ordine e per le proprietà dei cittadini: le folle di mendicanti che lasciano le campagne dove si muore di fame per la carestia o per le guerre e cercano rifugio in città dove il sistema annonario garantisce la sopravvivenza. Queste folle fanno paura e nei loro confronti nasce il progetto di creare istituzioni dove rinchiuderli. Lo stesso progetto di chiusura investe la presenza degli ebrei, coi quali sono interdetti rigorosamente gli scambi matrimoniali e i rapporti di convivialità. Anche gli ebrei portano con sé l’attività finanziaria di cui si alimenta l’economia delle città. Ma i privilegi che sono loro concessi da principi e sovrani scatenano la propaganda dei predicatori francescani che fanno ricadere sulla loro presenza la colpa delle epidemie. Così si arriva alle espulsioni generalizzate dagli stati cristiani o, in alternativa, ai provvedimenti di isolamento della loro presenza nei ghetti, a partire da quello veneziano del 1425. L’arrivo degli zingari nelle città italiane data da questo periodo e comincia allora la lunga storia dei loro rapporti con le leggi e la mentalità degli abitanti stanziali. La soglia della differenza religiosa resta a lungo quella fondamentale: opera nei confronti di mussulmani, ebrei, eretici, produce la nascita della caccia alle streghe e agli eretici, porta dopo la Riforma protestante alla tendenziale chiusura delle frontiere verso i paesi di altra religione. I mercanti e i viaggiatori che tornavano da paesi non cattolici negli stati italiani dovevano passare attraverso un esame dell’Inquisizione.

Quando si passa dal criterio religioso a quello basato sull’appartenenza nazionale?

Possiamo fissare nella nuova realtà dello Stato territoriale moderno con il suo corpo di amministratori e di soldati la trasformazione dei confini naturali o culturali in frontiere statali. Da questo momento immigrazione ed emigrazione sono governate da leggi, l’emigrante e l’immigrato sono figure sociali individuate e controllate, così come si ispezionano le loro merci e si tende a fissare la popolazione nei luoghi dove abita e a incrementarne il numero come potenziale forza bellica, a ispezionarne e studiarne forme di esistenza con visite periodiche di commissari civili e/o religiosi. La raccolta delle tasse e il controllo della fedeltà religiosa e politica si esercitano su di un territorio ben definito. Lo Stato ha un solo re una sola legge una sola fede: chi non l’accetta deve andarsene.
Anche per questo rinchiudersi degli orizzonti, il ‘600 è il secolo dominato dalla diffusione di paure nei confronti di presenze straniere: ladri e mendicanti, finti poveri, organizzati in bande con un sistema di comunicazione basato sul gergo (la “lingua zerga” studiata da Piero Camporesi).

L’ospedale si trasforma in istituzione di contenimento carcerario e di allontanamento dalla vista, di rieducazione e di lavoro forzato. I malati mentali sono una figura estrema dell’esclusione. La produzione di istituti di separazione e di controllo conosce una stagione intensa. La città vede una separazione di quartieri: a carattere religioso in Olanda e in Germania, a carattere socio-politico nei paesi dominati da una sola ortodossia. Al posto del pluralismo etnico e della divisione per mestieri si sostituisce una geografia della differenza, coi quartieri alti e i ghetti. La preoccupazione per la sicurezza porta alla nascita della polizia come istituzione di controllo dei marginali (celebre quella creata in Francia sotto Luigi XIV). In Inghilterra coll’affluire nelle nuove città industriali delle masse dei diseredati dalle campagne si accentua il timore sociale per il pericolo delle nuove classi di proletari come classi pericolose.

Quali sono state le politiche sociali verso queste persone in epoca medioevale e moderna e in che modo esse riflettevano l’ideologia e il modo di fare politica di chi deteneva il potere? Perché il pendolo si è spostato ora sul tentativo di integrarli, ora su quello di emarginarli ancora di più, rendendoli inoffensivi e soprattutto invisibili?

Con grande approssimazione si può dire che nel Medioevo ha dominato il principio dell’aiuto misericordioso verso poveri e diseredati considerati come una presenza ineliminabile e voluta da Dio. Nell’età moderna i conflitti tra gli stati e tra le chiese hanno avuto un riflesso nel moltiplicarsi dei processi di esclusione ed eliminazione di ciò che appariva inassimilabile (il ribelle politico, l’eretico pertinace, il mussulmano, l’indio cannibale e immorale) e più ancora nella costruzione di grandi realtà di omologazione del diverso: ospizi, istituti per minori e per convertiti, missioni. Fondamentale fra tutte la scuola che, con l’aiuto dell’alfabetizzazione e con l’insegnamento delle regole sociali, raggiunge anche illetterati , gente del popolo, indios americani.

Come si forma secondo lei la fenomenologia del capro espiatorio e quali sono state nella storia moderna e contemporanea, le paure che hanno generato la caccia al diverso? Sono state soprattutto di ordine economico-sociale (es: scarsità di risorse) o piuttosto psicologico-identitario?

Credo che bisognerebbe sciogliere il disegno generico della paura del diverso come reazione istintiva in un’analisi di momenti specifici. Scopriremmo così che molto spesso quelle paure sono state instillate e diffuse ad arte: nel ‘300 fu il re di Francia Filippo il Bello ad architettare accuse mostruose contro chi ostacolava le sue ambizioni (papa Bonifacio VIII, per esempio) o poteva essere depredato (i Templari, gli ebrei). Nel secolo successivo, i predicatori francescani che scatenarono pogrom antiebraici lo fecero per impiantare i Monti di pietà e fare concorrenza alla finanza dei banchi ebraici. E la capacità dei predicatori di suscitare movimenti violenti fu all’origine del terribile massacro degli ebrei di Lisbona, che costrinse perfino il re ad abbandonare la città divenuta incontrollabile.

La costruzione del “capro espiatorio” è qualcosa che è in agguato dentro di noi, ma richiede un investimento speciale da parte di poteri e forze organizzate per avere successo. Una condizione essenziale del successo è una compattezza statale e istituzionale molto alta: il nazionalismo francese e quello tedesco riuscirono a utilizzare il capro espiatorio ebraico già predisposto dalla storia precedente e a farlo diventare l’antisemitismo popolare di cui abbiamo visto i terribili frutti grazie all’esistenza di una forte identità nazionale, alla frustrazione della guerra perduta, alla paura dell’inflazione, alla minaccia del comunismo. L’esperimento non riuscì in Italia, o almeno non completamente perchè qui individualismo, localismo, cosmopolitismo tradizionali e le reti di solidarietà di una società contadina non fecero attecchire l’infezione.

L’Italia è, infatti, un paese che ha, in qualche modo, una tradizione di tolleranza. Come mai allora la solidarietà verso chi arriva o è diverso oggi è sempre meno un valore condiviso? Sia nella società, come nella politica?

L’insicurezza economica nata dal passaggio da una fase industriale a una fase post-industriale, la fragilità delle istituzioni fondamentali come l’altra faccia di un “miracolo” frutto di un selvaggio individualismo non assistito da un adeguato innalzamento del livello culturale e della coscienza civile, sono le pre-condizioni su cui si è innestata da un lato la manifesta inesistenza di un adeguato progetto politico dietro le vacue esortazioni alla solidarietà che sono venute da sinistra e dall’altro la campagna terroristica delle destre. E tuttavia è presto per ritenere saldato il modello del regime reazionario di massa di tipo fascista. Vedremo quanto gli apprendisti stregoni della destra saranno capaci di sfruttare questo argomento propagandistico in un paese che ha bisogno di lavoro sottocosto per reggere concorrenze agguerrite in tempi di calo dei consumi.

Le recenti disposizioni adottate dal governo contro l’immigrazione caratterizzano la clandestinità, condizione di tragica necessità, come una vera e propria una colpa. Guardando questo neo-moralismo con sguardo storico, secondo lei è possibile scorgere un ritorno di vecchie ideologie del passato, in cui povertà e nomadismo erano considerate peccati dell’individuo o castighi divini?

L’ostilità verso i nomadi è antica e radicata: di nuovo c’è che la crescita dei livelli di consumo e di ricchezza e il dileguarsi delle memorie degli emigranti nostrani hanno aumentato la distanza nei confronti degli zingari e cancellato tolleranza e solidarietà per i più poveri. Chi attenta alla sicurezza della proprietà suscita reazioni violentissime. L’episodio di Cerreto Guidi mostra che si arriva a gettare bombe molotov coperti dall’omertà generalizzata in un paese dove finora non erano mai venute meno forme di solidarietà sociale e di coscienza politica di sinistra. Gli zingari che si aggiravano per le campagne un tempo trovavano porte aperte e niente da rubare, oggi trovano case dove basta un pensionato per garantire la presenza di danaro. Ma devono anche fare i conti col volto feroce dell’odio per i ladri.

Quanto all’ideologia religiosa della povertà come castigo divino, questa in un paese cattolico non ha radici. Semmai può venire dal mondo cattolico una risposta alla ferocia di un governo dei ricchi e degli sbirri: e l’episodio di qualche tempo fa relativo al settimanale Famiglia cristiana conferma quello che già con alcuni episodi e con qualche personaggio della Chiesa (penso per esempio al cardinale di Milano Tettamanzi) si era già visto: una reazione di quel tanto di religioso che abita nel fondo dell’Italia cattolica e che ben capisce quanto di violentemente anticristiano ci sia nei provvedimenti governativi. Volontariato sociale, parrocchie, associazionismo sono alcune delle riserve di energia che hanno permesso un approccio ai problemi dell’immigrazione e della devianza di tipo non esclusivamente poliziesco e carcerario. Il decreto sulla sicurezza, poi, è talmente assurdo e contraddittorio che ben presto qualcuno proverà a dirlo, nonostante l’assordante silenzio della cosiddetta opposizione che non ha in generale niente da dire su questi temi (per non dire che molti uomini del centro-sinistra e molte amministrazioni locali sono scesi in gara con la destra mostrandosi scioccamente ancora più chiusi e duri dei loro apparenti avversari).

Un tema di grande importanza simbolica è stata, ad esempio, la battaglia contro i rom. Come lei ha scritto, la diversità – e non solo quella rom – non è percepita come un valore, al contrario. Guardando anche al passato, è possibile dire che le civiltà che hanno avuto maggiore vitalità sono quelle che hanno integrato la diversità? Oppure uno sfilacciamento identitario mina in qualche modo la civiltà stesse? Quale l’equilibrio “immunitario” tra apertura e chiusura alla diversità?

Le nostre società europee appaiono bloccate rigidamente nei loro assetti sociali dove una minoranza di ricchissimi e una classe media impoverita si allontanano vertiginosamente tra di loro e condividono la stessa mancanza di solidarietà nei confronti dei meno fortunati. Sono società culturalmente poco creative, ripetitive, capaci solo di sfruttare il patrimonio delle creazioni storiche e artistiche del passato come un investimento azionario: non parliamo dell’Italia dove si dilapida il paesaggio e le risorse naturali e si manda a fondo la grande risorsa costituita dalla ricerca e dall’università. In generale spira in Europa un vento di conservazione e di paura. Il fenomeno dell’odio verso i rom è la punta estrema di questo sentimento di paura che è un iceberg nascosto e pericoloso. Esiste un’altra via nei confronti delle folle che cercano di entrare nel recinto europeo che non sia quella dello sfruttamento cieco mascherato da difesa dell’ “identità”? Vedremo se ci sarà una risposta e quale sarà. Una cosa è chiara: per affrontare questo problema sarebbe necessaria una crescita delle istituzioni sociali e delle garanzie individuali tale da elevare il nostro attuale standard: basti pensare alle scuole, alla sanità, alla tutela del territorio. Abbiamo bisogno come il pane di una politica che guardi al futuro, che investa nella ricerca, che aggredisca le corporazioni e dia solidità e speranza alle generazioni giovani invece di costringerle a emigrare o a sperimentare un lavoro liquido, sfuggente, isolante e non solidale.

Al di là dello sfruttamento politico delle paure derivate da massiccia immigrazione e globalizzazione senza regole, non si può negare che entrambi questi fenomeni pongono drammatici problemi di ordine economico e culturale. Non crede che una posizione di totale chiusura alla globalizzazione (e alla diversità a tutti i costi) sia speculare ad una apertura incondizionata?

È ovvio che non esiste nemmeno sul piano teorico la possibilità dell’apertura incondizionata. Esiste la realtà di un paese senza istituzioni capaci di un controllo legale dei flussi di popolazione e quella di un’economia che ha bisogno come il pane di forza lavoro senza diritti. Il nostro paese ama la trasgressione e la furbizia, premia chi dichiara il falso e chi riesce a farla in barba alla legge, esalta il successo raggiunto con qualsiasi mezzo, concepisce la libertà solo come libertà dalla legge non nel rispetto della legge. L’Italia non ha maturato nella sua breve storia un vero rispetto per i diritti individuali: ideologie apparentemente conflittuali (cattolicesimo e comunismo) hanno consolidato questi atteggiamenti diffusi. E questo spiega forse perchè oggi un’opposizione introvabile evita di contrastare decisamente le misure liberticide e dimostra la sua esistenza solo pigolando la sua disponibilità a “dialogare” col governo. Intanto le corporazioni forti del paese – magistratura, polizie – danno chiari segni di aver capito chi ha vinto e in quale direzione stiamo andando.
La battaglia contro gli immigrati viene condotta nel nome del “valori cristiani” ed “europei”. Da storico, secondo lei c’è stata, e quando, un periodo in cui il profilo della “civiltà” europea era chiaramente distinguibile? E comunque: esiste, secondo lei, un patrimonio culturale e morale specificamente europeo da preservare?

La storia dell’idea di Europa mostra che essa coincide a lungo con quella di cristianità. I suoi confini sono segnati nel Medioevo dall’avanzata araba in Africa e in Spagna, dal tentativo di riconquistare al cristianesimo i “luoghi santi” in Palestina e dalla lotta armata della “reconquista” nella penisola iberica. La caduta di Costantinopoli e l’avanzata dei Turchi che dominano le coste del Mediterraneo, conquistano l’Ungheria e i Balcani e minacciano Vienna sono le cause che stimolano alleanze e accordi tra stati europei e alimentano l’idea di una comune appartenenza europea e cristiana, fatta di regole politiche e di cultura. L’espansione nel mondo extraeuropeo con la nascita dei grandi imperi coloniali esalta l’idea di una superiorità e di una universalità dei valori europei di cultura e di civiltà. L’Illuminismo, la Rivoluzione americana e la Rivoluzione francese portano alle idee di tolleranza e di libertà sancite coi codici napoleonici. Ma le divisioni interne restano fortissime: sono di tipo religioso, culturale, civile. E il progetto di impero europeo di Napoleone naufraga nel trionfo del nazionalismo aggressivo dell’800 che porterà al disastro delle guerre mondiali e alla fine del dominio europeo sul mondo.

Il patrimonio che l’Europa ha creato esiste: è raccolto nelle dichiarazioni settecentesche dei diritti dell’individuo e del cittadino e nelle lotte per estendere quei diritti alle classi popolari e ai popoli delle colonie. Cosmopolitismo e rispetto delle differenze sono i frutti della sua storia, che ha raccolto e trasmesso il patrimonio culturale del mondo antico integrandolo con le culture germaniche e slave e con l’insegnamento morale del cristianesimo come religione della fraternità fra uomini tutti uguali perchè figli dello stesso Dio. Ma anche in quest’ultimo caso la presunta unità della civiltà europea figlia del cristianesimo si scioglie subito nelle diverse interpretazioni del cristianesimo che hanno portato alla difficile affermazione della libertà religiosa attraverso l’esperienza di terribili guerre di religione e spaventose costruzioni giuridiche e civili dell’intolleranza.

In conclusione: la politica usa con facilità stereotipi e cliché, cavalcandoli per i propri fini. Ma esiste un modo per comunicare con chiarezza la complessità che il tema della diversità culturale, e con esso quello dell’immigrazione, porta con sé? Oppure siamo condannati alla semplificazione?

In realtà la politica sta complicando il problema con effetti tragicomici: colpisce gli immigrati ma anche chi affitta a immigrati, colpisce il mendicante seduto sul marciapiede e il bambino rom ma anche i quartieri che confinano con gli orrendi campi per zingari o con le baracche sotto i ponti. È una politica improvvisata e di breve respiro. L’unica forza che per ora sembra possibile opporle è il “quarto potere”, l’informazione. Inseguire le false notizie, decifrare i messaggi pubblicitari, denunciare chi profitta e si arricchisce nell’illegalità, smascherare i finti successi del governo e le ipocrisie della cosiddetta opposizione. Questa è, insomma, l’occasione perchè cresca in Italia l’informazione come esercizio di diritti democratici.
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Re: Gheto

Messaggioda Berto » mer nov 03, 2021 8:58 pm

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