Antisemitismo, antisionismo, antisraelismo negli USA

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Messaggioda Berto » dom mar 05, 2023 8:52 am

Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Antisemitismo, antisionismo, antisraelismo negli USA

Messaggioda Berto » dom mar 05, 2023 8:54 am

Indice:

1)
Storia dell'antisemitismo negli Stati Uniti d'America

2)
Quando gli USA democratici rifiutarono i rifugiati ebrei della nave tedesca MS St. Louis

3)
Tra i peggiori antisemiti e anti israeliani USA vi è il democratico Barack Obama

4)
Il discorso di Barack Obama ai mussulmani al Cairo; poi ripreso da Bergoglio con la santificazione dell'Islam e l'enciclica sociale "Fratelli tutti":
a) discorso di Obama
b) santificazione dell'Islam di Bergoglio
c) Fratelli tutti di Bergoglio


5)
Gli USA pro ebrei e pro Israele di Trump

6)
Gli USA antisemiti dei democratici e di Biden

7)
Gli USA repubblicani cacciano la liberals nera e nazi maomettana Ilhan Omar per indegnità antisemite

8 )
Antisemitismo di certi demenziali cristiani battisti USA che continuano calunniosamente ad accusare gli ebrei di deicidio

9)
L'antisemitismo degli ebrei USA sinistrati e politicamente corretti, antisionisti e antinazionalismo israeliano e filo nazi maomettani palestinesi

10)
Le 10 tesi contro l’antisemitismo

11)
Varie sull'antisemitismo negli USA
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Antisemitismo, antisionismo, antisraelismo negli USA

Messaggioda Berto » dom mar 05, 2023 8:54 am

1)
Storia dell'antisemitismo negli Stati Uniti d'America


https://it.wikipedia.org/wiki/Storia_de ... %27America
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Antisemitismo, antisionismo, antisraelismo negli USA

Messaggioda Berto » dom mar 05, 2023 8:55 am

2)
Quando gli USA democratici rifiutarono i rifugiati ebrei della nave tedesca MS St. Louis



Il caso della nave con i rifugiati ebrei MS St. Louis
https://it.wikipedia.org/wiki/Storia_de ... %27America
L'MS St. Louis uscì dal porto di Amburgo verso l'oceano Atlantico nel maggio del 1939 portando con sé 936 rifugiati ebrei (in gran parte tedeschi) e un non ebreo i quali ricercavano asilo politico dalla persecuzione nazista alla vigilia oramai imminente della guerra.
Il 4 giugno, non avendo ottenuto il permesso di sbarcare i passeggeri a Cuba, era stato opposto il rifiuto di scaricarli su ordine diretto di Roosevelt, la nave si mise in attesa nel Mar dei Caraibi al largo della Florida. Inizialmente il presidente dimostrò la disponibilità limitata di accoglierne alcuni nonostante l'"Immigration Act of 1924", ma un'opposizione violenta provenne dal Segretario di Stato degli Stati Uniti d'America Cordell Hull e dagli esponenti del partito Democratico degli Stati Uniti meridionali, alcuni dei quali giunsero fino a minacciare di ritirare il proprio sostegno a Roosevelt nelle oramai prossime elezioni presidenziali se egli avesse accettato i profughi.



Il "viaggio dei dannati"
https://it.wikipedia.org/wiki/St._Louis_(transatlantico)
La St. Louis navigò da Amburgo a Cuba il 13 maggio 1939, trasportando sette non ebrei e 930 rifugiati ebrei (principalmente tedeschi) in fuga dalle persecuzioni naziste. All'arrivo della nave a Cuba, il governo cubano, con l'allora capo del governo Federico Laredo Brú, rifiutò ai passeggeri il permesso di sbarco sia come turisti (le leggi relative ai visti turistici erano cambiate di recente) sia come rifugiati politici. Durante le negoziazioni, il governo chiese ulteriori $500 di tassa per il visto per ogni passeggero, soldi che molti dei rifugiati non avevano. Comunque, 29 dei rifugiati riuscirono a sbarcare a L'Avana.

Imbarco nel porto di Amburgo

Nel 1939 Cuba promulgò il decreto legge numero 55, che stabiliva due differenti categorie di persone quali possibili richiedenti del visto: turista e rifugiato. Ad un rifugiato veniva richiesto, per ottenere il visto, un ulteriore pagamento di $500, mentre un turista non doveva adempiere a queste richieste aggiuntive rispetto alle normali tasse di ingresso. Durante l'applicazione del decreto legge numero 55, venne evidenziata una svista presente nella legge: pur istituendo le due diverse categorie di visto, la legge non definiva infatti l'esatta differenza tra turisti e rifugiati.
Rifugiati ebrei a bordo della MS St. Louis mentre la nave è ormeggiata nel porto dell'Avana.

Manuel Benitez, direttore dell'immigrazione, sfruttò questa lacuna e definì i rifugiati a bordo della nave St. Louis come turisti. Questa distinzione permise a Benitez di vendere i permessi di sbarco (qualcosa che solo una persona con lo status di turista poteva facilmente ottenere) ai rifugiati sulla St. Louis per $150 cadauno. Benitez beneficiò della vendita dei permessi di sbarco sino a che l'allora presidente cubano Federico Laredo Brú fece approvare il decreto 937, che rimediava alla svista del decreto 55.

Alcune testimonianze raccontano che il 4 giugno 1939 il capitano Schröder credeva che gli sarebbe stato proibito lo sbarco nella punta della Florida. Legalmente infatti i rifugiati non potevano entrare con il visto turistico negli USA, perché non disponevano di un indirizzo a cui fare ritorno, e inoltre gli Stati Uniti avevano promulgato delle quote di immigrazione nel 1924. Alcune registrazioni telefoniche descrivono la discussione al riguardo avvenuta tra il Segretario di Stato Cordell Hull ed il Segretario del Tesoro Henry Morgenthau, entrambi membri del gabinetto del Presidente Franklin Delano Roosevelt, che cercò di persuadere Cuba ad accettare i rifugiati.

Alla Guardia Costiera non fu ordinato di respingere i rifugiati, ma gli Stati Uniti non fecero nulla per agevolare il loro arrivo.[6] Infine, la St. Louis venne respinta dagli Stati Uniti, mentre un gruppo di accademici e religiosi canadesi cercò di persuadere il Primo Ministro Canadese William Lyon Mackenzie King ad offrire rifugio alla nave, che si trovava a soli due giorni di navigazione da Halifax.[7] Comunque ufficiali dell'immigrazione canadese e ministri di gabinetto ostili all'immigrazione ebrea persuasero il Primo Ministro a non intervenire il 9 giugno.[8]

Il capitano Schröder negozia il permesso di sbarco per i passeggeri con ufficiali Belgi nel porto di Anversa.

Il capitano Gustav Schröder, comandante della nave, era un tedesco non ebreo e anti nazista che fece di tutto per assicurare un trattamento dignitoso per i suoi passeggeri. Provvedette per dei servizi religiosi ebraici e ordinò al suo equipaggio di trattare i rifugiati come qualsiasi altro normale passeggero in crociera. Quando la situazione si deteriorò, egli negoziò personalmente per cercare di portare i rifugiati in un posto sicuro, valutando persino di incagliare la nave sulla costa britannica in modo da forzare la Gran Bretagna ad accogliere i passeggeri come naufraghi. Rifiutò inoltre di restituire la nave alla Germania sino a che i passeggeri non fossero entrati in qualche altro paese.

Ufficiali americani lavorarono con le nazioni europee e la Gran Bretagna per trovare un rifugio sicuro per i viaggiatori in Europa. La nave ritornò in Europa ed attraccò ad Anversa, in Belgio. Il Regno Unito acconsenti ad accogliere 288 passeggeri, che furono sbarcati e raggiunsero il Regno Unito tramite altri piroscafi. Dopo molte negoziazioni del comandante Schröder, i rimanenti 619 passeggeri furono sbarcati ad Anversa; di questi, 224 furono accettati dalla Francia, 214 dal Belgio, e 181 dai Paesi Bassi. A quel tempo sembrò quindi che essi fossero stati posti in salvo dalle persecuzioni di Hitler. Negli anni a venire, dopo l'invasione tedesca del Belgio e della Francia del 10 maggio 1940, gli ebrei furono infatti esposti nuovamente ai rischi delle persecuzioni naziste, e alcuni di loro non sopravvissero alla guerra.[10][11] Sbarcati tutti i suoi passeggeri, la St. Louis tornò ad Amburgo e sopravvisse alla guerra.
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Re: Antisemitismo, antisionismo, antisraelismo negli USA

Messaggioda Berto » dom mar 05, 2023 8:56 am

3)
Tra i peggiori antisemiti e anti israeliani USA vi è il democratico Barack Obama


Tra i peggiori antisemiti e anti israeliani USA vi è da annoverare il presidente democratico mulatto Barack Obama cresciuto con la famiglia cristiana della madre ma di orientamento liberals, perché il padre mussulmano se ne era andato.
Uno dei peggiori presidenti degli USA che ha incentivato la diffusione della criminale e razzista Teoria Critica della Razza contro i bianchi e il suprematismo nero e quello nazimaomettano dei Fratelli Mussulmani. Dopo questa orrida esperienza gli USA si guarderanno bene dall'avere un'altro presidente nero o mulatto.
Sulla scia di questo primo presidente mulatto razzista, antibianco, antisemita e filo nazimaomettano vi è il suo ex vice il demenziale democratico Biden sia pure un pò titubante e con qualche ripensamento.
Obama è stato un irresponsabile e malvagio filo nazimaomettano, stava con i fratelli Mussulmani promuovendoli ovunque, stava con i terroristi nazimaomettani palestinesi contro Israele e i suoi ebrei, ha promosso la criminale politica dell'Iran e la sua nuclearizzazione militare contro Israele e i suoi ebrei, ha promosso una ONU antisraeliana, veramente un uomo scriteriato e malvagio, antisemita e antibianco, il peggio degli USA.


Obama nemico di Israele
Giuseppe Giannotti - Esperto di Medio Oriente
1 Aprile 2016

https://www.progettodreyfus.com/obama-n ... i-israele/

Obama nemico di Israele. Ormai è un fatto accertato. Il presidente degli Stati Uniti, il peggiore di sempre dal punto di vista israeliano, ormai non tenta neppure più di nascondere la sua aperta ostilità verso lo Stato ebraico. E se i primi messaggi di chiusura erano in qualche modo ovattati, ora , senza più alcuna forma di prudenza, Barack Hussein Obama (questo il suo nome completo), padre musulmano, ha messo Israele decisamente nel mirino. L’ultima accusa, come ho già avuto modo di riferire, è paradossale. Sulla questione israelo-palestinese il presidente americano, nell’annunciare che sotto la sua amministrazione non si arriverà alla soluzione di due Stati, ha dato la colpa a Israele, a causa del suo benessere. “La società israeliana – ha detto – ha un così alto successo economico che, partendo da una posizione di forza, è meno disposta a fare concessioni ai palestinesi. E dall’altra parte i palestinesi a causa della loro debolezza, non hanno coesione politica e organizzazione per entrare in un negoziato che li porti ad avere quello di cui hanno bisogno. Così entrambe le parti restano in angoli separati”. “Quello che non è avvenuto in sessant’anni – ha concluso Obama – non potrà accadere nei prossimi nove mesi”.
Analisi curiosa che non tiene conto, ad esempio, della lotta interna tra Hamas e Autorità Nazionale palestinese, o dell’incitamento al terrorismo da parte della stessa Anp, che non solo non ha mai condannato gli attacchi con i coltelli portati dalla sua gente negli ultimi mesi, ma ha espresso solidarietà per gli attentatori uccisi, definiti, come consuetudine, dei martiri.

Ma questa è solo l’ultima uscita di un presidente che, avviandosi mestamente a concludere il suo secondo mandato, si rende conto di aver fallito totalmente la sua politica internazionale. Obama è stato ridicolizzato da Putin nella lotta all’Isis: in poche settimane gli aerei russi hanno fatto quello che gli Stati Uniti non sono riusciti o non hanno voluto fare in due anni. E la recente riconquista di Palmira da parte delle forze di Assad, sostenute dall’aviazione russa, e salutata con soddisfazione in tutto il mondo, con funzionari dell’Unesco che pensano già a come restaurare il sito archeologico, ha trovato invece il mutismo del britannico Cameron e la reazione stizzita degli Stati Uniti. “Non intendiamo dare il benvenuto ad attacchi dell’esercito siriano per riconquistare Palmira – ha dichiarato il portavoce del Dipartimento di Stato americano, Mark Toner – Sostituire la barbarie dell’Isis con la tirannia del regime di Assad non è una buona soluzione”. Ma Obama si è dimostrato incerto e balbettante non solo sulla posizione da tenere nei confronti della crisi siriana, ma anche sull’Egitto, sull’Iraq e sulla Libia, mettendo tutte le sue energie contro Israele.

Islamic Society of North AmericaDel resto, che Obama non avrebbe seguito le orme dei sui predecessori nei forti legami con Israele, lo si doveva capire da subito. Nel gennaio 2009 Obama scelse Ingrid Mattson, presidente dell’Islamic Society of North America, gruppo affiliato ai Fratelli Musulmani, per recitare una preghiera alla cerimonia del suo insediamento alla Casa Bianca. Due giorni dopo, Obama la sua prima telefonata a un leader straniero la riservò al presidente dell’Anp, Abu Mazen. E rilasciò la prima intervista televisiva da presidente degli Stati Uniti all’emittente Al Arabiya. Prima uscita all’estero in un Paese arabo, al Cairo, per indirizzare il suo messaggio al mondo musulmano. In quell’occasione disse dei palestinesi: “Sopportano l’umiliazione giornaliera che deriva dall’occupazione. Una situazione intollerabile. L’America non volterà le spalle alle legittime aspirazioni dei palestinesi di avere un loro proprio Stato”. E naturalmente condannò fermamente la politica israeliana degli insediamenti in Cisgiordania.
Emblematica, nel 2010 la differenza tra i messaggi inviati agli ebrei per la festa di Rosh haShanà (il Capodanno ebraico) e ai musulmani per il Ramadan. Nel messaggio per il Ramadan, molto caloroso, il presidente citò ripetutamente i musulmani e l’Islam, sottolineando ”lo straordinario contributo dato dai musulmani americani al Paese”, ed elogiando “il ruolo dell’Islam nell’avanzamento della giustizia, nel progresso nella tolleranza e nella dignità di tutti gli esseri umani”. Nel messaggio per Rosh haShanà, Obama rilasciò una breve e generica nota, auspicando la creazione di uno Stato palestinese, senza menzionare mai quanto hanno dato gli ebrei per lo sviluppo degli Stati Uniti. Superfluo ogni commento.

Altri segnali dell’ostilità di Obama verso Israele: nel settembre 2011, in un discorso di commemorazione dieci anni dopo gli attacchi terroristici dell’11 settembre, citò le vittime del terrorismo che siano “a New York o Nairobi, Bali o Belfast, Mumbai o Manila, o Lahore o Londra” senza fare alcuna menzione a Tel Aviv, Gerusalemme o Sderot, colpite a ripetizione dagli attacchi terroristici dei palestinesi.
Nel 2014, secondo voci mai smentite, il presidente Obama minacciò l’abbattimento di caccia israeliani se avessero tentato di bombardare infrastrutture nucleari iraniane. E in contrapposizione agli Stati Uniti, secondo un’autorevole fonte europea, l’Arabia Saudita si sarebbe detta disposta a concedere il suo spazio aereo agli aerei israeliani in caso di attacco all’Iran.

obama-iran-L’accordo sul nucleare raggiunto nel luglio scorso tra Teheran e i 5+1, ovvero i membri del Consiglio di Sicurezza dell’Onu con potere di veto (Regno Unito, Francia, Stati Uniti, Russia e Cina, più la Germania) ha ulteriormente peggiorato i rapporti Usa-Israele. A gennaio sono state revocate le sanzioni contro l’Iran tra le proteste, inascoltate, di Israele, che chiedeva di includere nell’accordo l’obbligo all’Iran di riconoscere lo Stato ebraico. “L’accordo con l’Iran – precisò Obama in persona – non includerà questa richiesta”.
A gennaio 2015, nel commentare gli attacchi terroristici di Parigi, al supermercato kosher, lo stesso giorno dell’attacco a Charlie Hebdo, Obama ha negato che fosse terrorismo islamico o che fosse un atto antisemita, parlando di un attentatore che “ha sparato a caso su un gruppo di persone in un negozio”. Frase che ha indignatole comunità ebraiche e creato imbarazzo anche alla Casa Bianca e che ha costretto il suo portavoce a spiegare che “il presidente voleva dire che in quel negozio c’erano anche altre persone non della comunità ebraica”. Spiegazione, naturalmente, assolutamente non convincente.

A peggiorare la situazione tra Stati Uniti e Israele anche i difficili rapporti tra Obama e Netanyahu. La Casa Bianca, ad esempio, non ha fatto le congratulazioni a Netanyahu per la sua rielezione, nel marzo 2015, indirizzando un messaggio generico, quanto ridicolo, agli israeliani: “Ci vogliamo congratulare con il popolo israeliano per il processo democratico per l’elezione nella quale sono stati impegnati tutti i partiti che vi hanno preso parte”. In Israele, se lui non lo sa, si vota democraticamente dal 1948, anno di fondazione dello Stato ebraico. Ben diverso, invece, l’anno prima, il comportamento in occasione della rielezione di Erdogan in Turchia, con una calorosa telefonata di congratulazioni di Obama al leader turco durata 45 minuti.
Infine, a febbraio di quest’anno, sull’esempio di quanto fatto dall’Unione europea, Obama ha emesso una direttiva che impone l’etichettatura dei prodotti provenienti da aziende israeliane presenti in Cisgiordania. Su questo tema c’era già un’ordinanza del 1995, ma che di fatto negli Stati Uniti non era mai stata applicata. E c’è da chiedersi ora che altro possa fare Obama contro Israele di qui a novembre, fine del suo mandato.


I tre errori principali di Obama (soprattutto in Medioriente)
AGI - Agenzia Giornalistica Italia
di di Giuseppe Santulli
19 gennaio 2017

https://www.agi.it/estero/i_tre_errori_ ... 017-01-19/

Il 9 ottobre 2009, a meno di 9 mesi dal suo insediamento alla Casa Bianca (20 gennaio) il democratico Barack Obama, succeduto al repubblicano George W. Bush, colui che aveva aperto il vaso di pandora del terrorismo internazionale dando il via sulla base di bugie (le fantomatiche armi di distruzione di massa mai trovate) all'invasione dell'Iraq, ricevette quasi per reazione il premio Nobel per la Pace. Riconoscimento che molti analisti battezzarono alle "buone intenzioni" perché non aveva matrialmente avuto il tempo di fare nulla se non prendere le distanze da Bush e ricorrere alla sua magistrale ed ineguagliabile abilità di retore per 'sedurrè il mondo e convincerlo che con lui le cose sarebbero cambiate. Sarebbe stato l'inizo di alcune grandi soddisfazioni e cocenti delusioni.

Vediamo i dossier più sconttanti che lascia in eredità al suo successore l'uomo che al suo esordio venne definito "amato da tutti, temuto da nessuno".

1. Scarsi risultati nel risolvere la situazione in Palestina


Per far capire che a differenza del suo predecessore l'amministrazione Obama non intendeva "esportare la democrazia" con la forza in Medio Oriente, il presidente con un gesto di grande forza ed intensità si recò il 4 giungo 2009 all'università cairota di al Azhar, la massima autorità dell'Islam sunnita, dove parlò con il cuore in mano e spiegando la sua propensione "ad una riduzione dell'impegno americano a livelloglobale".

Parole econmiabili di buona volontà ma interpretate dai nemici degli Usa - non la maggioranza silenziosa ma a minoranza che parla con il crepitare dei kalasnhikov - come l'annuncio di un disimpegno dell'America dalla rdgione del grande Medio Oriente.

L'impegno a riavviare i negoziati con Israele

Obama poi a diffrenza di Bush iniziòa criticare Israele per la Guerra - l'ennesima - del 2008 contro Hamas a Gaza facendo capire che l'era dell'assegno in bianco Usa allo 'Stato ebraicò era finita.

Riconobbe che se Israele ha il diritto di difendersi espresSe il suo dolore per la perdita di civili, quasi tutti, palestinesi. Iniziò a mediare ma dopo l'arrivo nel 2009 dell'attuale premir Benjamin Netanyahu i rapporti tra i due si deteriorono fino a rotture alternate a tentativi di ripresa.

A novembre 2009 Obama ottiene il congelamento di dieci mesidegli insediamenti ma il 10 marzo2010 il vicepresidente Joe Biden viene accolto in Israele con l'annuncio di nuove costruzioni a Gersualemme Est. Il 23 settembre Obama annuncia uno Stato palestinese entro la dfine del 2011. Netanyahu risponde 3 gionri dopo riprendendo la colonizzazione della Cisgiordania.

La sfiducia nell'idea "Due popoli due stati"

Rieletto nel 2012 Obama iniziò a disimpegnarsi e, malgrado le dichiarazioni di facciata, ad essere meno fiducioso nella una soluzione bastata sul principio di Oslo del 1993 "due popoli, due stati", respinto di fatto da Netanyahu. Premier che con uno sgarbo senza precedenti sostenne apertamente il rivale Gop di Obama, Mitt Romney.

Il presidente iniziò sempre più da gennaio 2013 a delegare le trattative al generoso ed infatiabile segretario di Stato John Kerry che iniziò a rilanciare il processodipace il19luglio 2013 salvo arrendrsi il 23 aprile 2014. Il 3 marzo 2015 senza consultare la Casa Bianca Netanyahu è invitato a parlare al Congresso dove critica duramente la politica di Obama sul programma nucleare iraniano (coronato da successo per Obama il 14 luglio 2015).

La 'via crucis' negoziale israelo/palestinese si arena definitivamente e quella pace che Obma sperava di riuscire a raggiungere, dove altri avevano fallito, è rimasta un sogno vago. Da ultimola cesura completa tra Usa e Israele quando il 23 dicembre 2016 per la prima volta dal 1980 Washington si astenne irritualmente al Consiglio di Sicurezza Onu, senza ricorrere al suo diritto di veto, facendo così approvare una risolzuione che condannava gli insediamenti israeliani in Cisgiordania.

2. L'incapacità di stabilizzare e pacificare l'Iraq

Dopo che tra il 2007 ed il 2009 la politica del "Surge" (l'invio di 30.000 soldati extra) nella provincia sunnita di Anbar, la più pericolosa del general David Petraesu si era rivelata efficacia, Obama iniziò a dimostrare insofferenza per i troppi soldati Usa nel Paese ed inizio a programmare il ritiro. Ritiro che troppo precipitosamente si concluse nel 2011 che lasciò un Iraq fragile e senza strutture statuali solide ed innescòil caos. Contemporaneamente arrivo al potere il premier sciita Nouri al Maliki che alimentò le tensioni interconfessionali tra la maggioranza sciita, vittima sotto Saddam Hussein, e la minoranza sunnita, al potere durante gli anni del raiss. Questo diede il via a regolamenti di conti sanguinari, aumentò paradossalmente - una sconfitta per gli Usa che negli anni '80 sostennero Saddam, contro gli Ayahatollah - l'influenza dell'Iran, culla dello sciismo a Baghdad. Unica area parzialemte tranquillla la regione autonoma del Kurdistan iracheno.

La comparsa dell'ISIS, in Iraq

Ma a inizo del 2014 fece la sua comparsa la formazione terroristica che il mondo ha imparato a conoscere e temere: Isis (il cosidetto 'Stato Islamico dell'Iraq e del Levante, la Siria, ndr) guidata dal sedicente califfo Abu Bakr al Baghdadi a gennaio conquista Falluja e Ramadi. All'epoca in un'intervista che Obama rimpiangera fino alla fine dei suoi giorni definì Isis rispetto ad al Qaeda come "la riserva di una squadra giovanile di basket". Si dovette ricredere il 29 giugno del 2014 quando Isis o Daesh (nel suo acronimo arabo) conquistò Mosul, la seconda città irachena, e proclamò la nascita del Califfato. Da allora Isis avanzò verso Baghdad - con le truppe dell'esercito regolare che si sciolsero come neve al sole abbandonando a Isis carri armati M1-Abraham modernissimi americani - e arrivò fino a 80 km dalla capitale.

A quel punto l'8 agosto del 2014 gli Usa formano una coalizione di forze aeree che iniziano bombardare Isis e inizia ad inviare "consiglieri militari", una dizione che ricorda tristemente il Vietnam, ed ora ha centinaia di uomini delle forze speciali (i"boots oh the ground" che ha sempre vissuto come un incubo) che combattono a Mosul per riconquistarla insieme alle forze irachene ed i peshemerga curdi. Ma l'Iraq non èancora pacificato e stabile. Altra eredità negativa.

2. Gli errori (gravi) in Siria

A metà marzo del 2011 a Daraa nel sud del Paese inizia la guerra ivile con una semplice manifestazione di protesta.Quell'elemento innesca una guerra civile per procura - in cui combattonoper interposta persona con finanziamenti Paesi come Arabia Saudita, Turchia, Qatar, Iran e da ultimo Russia - che dopo quasi sei anni ha causato oltre 310.000 morti.

Obama inizia ad attaccare Bashar Assad ripetendo come un mantra che si trova "dalla parte svbagliata della storia" e che "la sua caduta è questione di tempo". L'allora segretario di Stato Hillary Clinton il 16 luglio 2011 autorizza l'ambasciatore Usa a Damasco Robert Ford ad andare ad Hama teatro di scontri per manifestare con la sua presenza il sostegno degli Usa ai ribelli anti-Assad. Issieme a lui c'è l'ambasciatore francese Eric Chevalier. Così facendo Washington autorizza anche l'allora premier turco Recep Tayyip Erdogan ad aprire la cosidetta "austtostrada della jihad" per far affluire in Siria migliaia di combattenti stranieri (foreign fighters) perchè la priorità era far cadere Assad ad ogni costo anche affidandosi a tagliagole, come si vedrà dopo con la decapitazione degli ostaggi occidentali ad opera di personaggi come 'Jihadi Jones'.

La pericolosa indecisione di Obama

L'irrisolutezza e la pericolosoa indecisione di Obama emerge quando inizia il 20 agosto 2012 ad intimare ad Assad di non osare di superare la cosidetta "red line" rappresentata dall'uso di gas contro la sua popolazione, pena un'immediata rappresaglia Usa.

Il 21 agosto 2013, però, Assad usa i gas sui civili nel quartiere orientale di Damasco uccidendo 1.429 persone. A quel punto Assad ha sfidato apertamente Obama ignorando la linea che non avrebbe dovuto oltrepassare. Siamo a fine agosto, Obama chiede al Congresso di poter bombardare Assad (la settimana prima l'alleato britannico era stato bloccato da un voto contrario dei Comuni). Con lui è solo il francese Francois Hollande che aveva già ordinato ai caccia-bombardieri di preprarsi a colpire la Siria quando il 31 agosto a sorpresa, Obama, dopo una passeggiata con il capo di gabinetto Dennis McDonough nel giardino della Casa Bianca, rientra e da il controdine annullando i raid e avvertendo in extremis Hollande.

Fu il presidente russo Vladimir Putin a togliere le castagne dal fuoco ad Obama convincendo Assad a consegnare tutte le sue armi chimiche all'Organizzazione per la Proidizione delle Armi Chimiche (Opac) per distruggerle. Opac che vinse anche lei il Nobel perla pace.

A quel punto Assad era andato a vedere il bluff di Obma e imparò a temerlo di meno. L'amministrazione Obama inizia intanto a cercare di
individure dei riblli moderati da finanziare, dopo che erano emersi come gruppi piu' forti i qaedisti del fronte Jubath al Nusra e poi lo stesso Isis. L'operazione si rivela un totale fallimento.

500 milioni per addestrare 70 soldati
Infatti il Pentagono spende ben 500 milioni di dollari - dopo 4 anni di 'verificà dei ribelli meritevoli di fiudicia e non estremisti addestrati in Turchia - ma riesce ad addestrarne solo 70 invece dei 5.400 previsti. Sessanta combattenti foraggiati dagli Usa che consegnano il grosso delle armi al secondo scontro a settembre dopo che circa 56 vennero massacrati ad agosto per un attacco dei qaedisti di al Nusra.

Dopo aver iniziato a bombardare l'8 agosto 2014 Isis in Iraq, convintosi a quel punto che non erano "la riserva di una squadra giovanile di basket" maunnemico terribile Obama ordina raid dal 23 settembre in Siria dove il Califfato ha conquistato sempre piu' terreno con la roccaforte a Raqqa. Coalizione che procede nei raid, inizia a schierare truppe speciali, ma dove la situazione non cambia fino a quando il detestato da Obama - i rapporto tra i due sono stati in 8 anni inesistenti se non gelidi - Vladimir Putin il 30 settembre 2015 ordina ai suoi aerei da guerra e alle sue truppe di schierarsi al fianco delle truppe di Assad, sostenute dagli iraniani (uniti dalla comune fede sciita per Teheran, Alauita per il presidente siriano).

Intervento russo che ribalta la situazione sul campo e che ha visto la riconquista - a caro prezzo - di Aleppo e ora l'avvio di negoziati di pace ad Astana il 23 gennaio cui gli Usa (si vedrà dopo il20 se cambierà qualcosa con Trump) e l'Onu non sono stati invitati.


3. Il proliferare delle armi negli Usa
Gli Stati Uniti, nazione nata dalla rivolta contro la Gran Bretagna e con ilmito della 'frontierà e del west, ha tra i suoi fondamenti l'anacronistico II emendamento della Costituzione (venne approvato nel 1791 ma è tuttora perfettamente in vigore) che consente a tutti gli amricani di girare armati, tanto che ngli Usa ci sono 357 milioni di armi su 310 milioni di americani.

Non inizia ma si acuisce proprio negli anni di Obama la piaga delle sparatorie che seminano morte negli Usa: il giorno in cui in America qualcosa si rompe è il 14 dicembre 2012 (c'erano stati altri massacri, il piu' celebre il 20 aprile 1999 alla Columbine High School du Denver in Colorado incui 2 studenti massacraono 12 studenti per poi suicidarsi) quando un ragazzo di 20anni con problemi mentali, Adam Lamza, con un fucile d'assalto AR-15 Bushmaster (versione 'civilè dell'M-16 della Guerra del Vietnam) massacraò 20 bambini della scuola elementare Sandy Hook di Newton in Connecticut e sei adulti, tra cui lamadre che insegnava nell'istituto. L'episodio commosse il mondo e gli Usa spingendo Obama a compiere il tentativo piu' concreto di effettuare un giro di vite sull'acquisto di armi.

Affidò al presidente Joe Biden a gennaio del 2013 l'incarico di formare una commissione di studio che definì nuove regole a partire da controlli piu' severi prima di comprare una pistola. A causa della potenete lobby bipartisan delle armi, la National Riffle Association (Nra) tutto si impantanòal Congresso e soprattutto nelle assemblee dei singoli Stati essendo la materia competenza locale. Dopola strage di Sandy Hook ed i 20 bimbi massacrati a compi di mitra le sparatorie si susseguirono con decine di morte ma Obama da allora si limitò a tenere decine di toccanti e commossi discorsi colmi di dolori ma non tentò piu' di cambiare le cose, temnendo il peso sotto elezioni della lobby delle armi.

Da ultimo si è visto il 6 gennaio scorso dove un folle Esteban Santiago massacro 5 persone all'aroporto di Fort Lauderdale con un arma che deteneva legalmente, che aveva imbarcato regolarmente nel bagaglio da stiva nell'aereo che aveva preso in Alaska, che aveva ritiato all'arrivo per andare in bagno, caricare l'arma, tornare nell'area recupero bagagli e sparare ad alzo zero contro chiunque gli si pararasse accanto. Santiago si scoprì che a novembre era stato
all'Fbi di Anchorage in Alaska denunciando disentire delle voci che gli dicevano di agire per conto di Isis. Portato in un'ospedale psicahitrico non venne trattenuto e la pistola, quella con cui ammazzo 5 persone e ne ferì sei, gli fu riconsegnata.



L’ultimo boomerang dell’amministrazione Obama
La risoluzione del Consiglio di Sicurezza rafforza i nemici di Israele, del negoziato e del compromesso per la pace
Editoriale del Jerusalem Post e altri
27 Dicembre 2016

https://www.israele.net/lultimo-boomera ... ione-obama

La rappresentante Usa al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, Samantha Power, si astiene alla votazione di venerdì scorso sulla risoluzione 2334, permettendone l’approvazione

Nel difendere la decisione degli Stati Uniti di astenersi sul voto del Consiglio di Sicurezza che condanna Israele per gli insediamenti, l’ambasciatrice americana all’Onu Samantha Power ha detto che il voto è in linea con la tradizionale posizione politica degli Usa. Tecnicamente, è vero. Ma perché ora? E perché al Consiglio di Sicurezza? Dopo aver sperimentato per otto anni l’intransigenza palestinese (che ha sistematicamente rifiutato ogni realistica soluzione di compromesso e si rifiuta di sedere al tavolo dei negoziati), il presidente americano uscente e i suoi consiglieri dovrebbero essere ben consapevoli che la risoluzione 2334 di venerdì scorso non farà che rafforzare il rifiuto dei palestinesi a negoziare. È esattamente lo stesso errore che fece Barack Obama all’inizio della sua carriera presidenziale, quando chiese a Israele di attuare il blocco totale di tutte le attività edilizie al di là della ex-linea armistiziale del ’49-’67, comprese Gerusalemme e alture del Golan. Una richiesta che servì solo a indurire la posizione palestinese: la dirigenza palestinese, infatti, come poteva pretendere qualcosa di meno del blocco totale delle attività edilizie israeliane negli insediamenti come precondizione per negoziare, dopo che lo aveva chiesto lo stesso Obama?

Anche la risoluzione di venerdì scorso, lungi dall’incoraggiare i palestinesi a negoziare con Israele, non farà che rafforzare in loro la convinzione che i colloqui diretti con Israele sono inutili e che la cosa migliore da fare, dal loro punto di vista, è internazionalizzare il conflitto portando il mondo a fare pressione su Israele. (Come ha scritto Fred Guttman su Times of Israel, la risoluzione premia i capi palestinesi per non essersi impegnati in negoziati diretti.)

Obama ha deciso di prendere questa posizione proprio alle Nazioni Unite, un ente noto per la sua ossessiva fissazione contro Israele (recentemente ammessa dallo stesso Segretario Generale). Il presidente degli Stati Uniti avrebbe potuto fare un importante discorso politico su Israele dal prato della Casa Bianca, oppure davanti al Congresso. Invece ha scelto l’Onu. Nel solo 2016 l’Assemblea Generale dell’Onu ha adottato 18 risoluzioni contro Israele, e il Consiglio di Sicurezza ha adottato 12 delibere specificamente dedicate a Israele: “più di quelle centrate su Siria, Corea del Nord, Iran e Sud Sudan messe insieme”, come ha osservato la stessa Power nel discorso in cui tentava di spiegare l’inspiegabile l’astensione degli Stati Uniti.

Non basta. La risoluzione 2334 è ancora più assurda in quanto non fa alcuna distinzione tra luoghi di Gerusalemme come la Città Vecchia, il Kotel (Muro del pianto), i quartieri ebraici della città come Ramat Eshkol (ovviamente destinati a restare israeliani in qualunque accordo futuro), e gli insediamenti isolati con poche decine di residenti creati nel cuore di Giudea e Samaria (Cisgiordania). Una distinzione indispensabile per qualunque concreto negoziato, che anche per questo risulterà danneggiato dalla risoluzione.

Messaggio ricevuto. Fatah, il movimento che fa capo ad Abu Mazen, ha postato su Facebook l’immagine di un coltello con la forma e i colori della “Palestina” che pugnala gli “insediamenti”. Il testo ringrazia i paesi che hanno votato a favore della risoluzione del Consiglio di Sicurezza (Russia, Angola, Ucraina, Giappone, Spagna, Egitto, Malaysia, Venezuela, Nuova Zelanda, Senegal, Uruguay, Francia, Cina e Gran Bretagna). Naturalmente la mappa della “Palestina” comprende tutto Israele, considerato dai palestinesi un unico insediamento da cancellare dalla carta geografica

Ancora più deleterie, per il negoziato, saranno le conseguenze della risoluzione 2334. Essa infatti darà nuova linfa al movimento BDS (boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro Israele): in particolare, la clausola 5 della risoluzione che invita le nazioni del mondo “a distinguere tra i territori dello stato di Israele e i territori occupati nel 1967”. Solo un passo separa la delegittimazione di quartieri, città e istituzioni ebraiche al di là della ex-linea armistiziale del ’67, dalla delegittimazione di tutto Israele in quanto tale.

Persino gli attentati terroristici contro ebrei residenti dei “territori” potranno in qualche modo appellarsi ai principi giuridici e morali espressi in questa risoluzione delle Nazioni Unite, dal momento che ogni ebreo – anche un bambino – che vive in quelle aree potrà essere descritto, stando al Consiglio di Sicurezza, come un fuorilegge e un “ostacolo alla pace”.

Non si può che deplorare questa decisione presa da Obama al crepuscolo del suo mandato: essa danneggia gravemente le possibilità di riavviare negoziati diretti fra le parti, rafforza le campagne BDS che sono contro il negoziato e la pace, e insolentisce Israele (altra mossa non esattamente favorevole al dialogo e al compromesso). Nonostante tutto l’aiuto che la sua amministrazione ha garantito al rafforzamento della difesa israeliana, questo è il lascito con cui Obama verrà ricordato in Israele.

(Da: Jerusalem Post, 26.12.16)

Gil Hoffman

Scrive Gil Hoffman, sul Jerusalem Post: «Forse non essendo stato informato che l’opinione pubblica moderata israeliana sostiene i blocchi di insediamenti a ridosso della ex linea armistiziale, e che persino gran parte della sinistra israeliana appoggia le costruzioni nei quartieri ebraici di Gerusalemme, Barack Obama si è scagliato indistintamente contro tutte le attività edilizie israeliane al di là della “linea verde” dall’inizio della sua presidenza fino alla fine, culminando con la risoluzione di venerdì scorso al Consiglio di Sicurezza. Durante questi otto anni ci sono stati in tutto solo nove mesi di negoziati diretti tra Israele e palestinesi, e non è un caso se quei negoziati si sono tenuti proprio nei nove mesi in cui l’amministrazione Obama ha evitato di pronunciarsi contro le costruzioni israeliane nei blocchi di insediamenti e nei quartieri ebraici di Gerusalemme. E non è un caso se quei colloqui non sono andati al di là di nove mesi, perché Obama interferì nel processo diplomatico riportando tutta l’attenzione sugli insediamenti. Il giorno seguente, il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) convocò una conferenza stampa a Ramallah in cui dichiarò che la condizione per andare avanti con i negoziati era il congelamento totale degli insediamenti. Dopo otto anni di presidenza Obama, il campo dei favorevoli al negoziato e alla pace è a pezzi. Grazie alle sue politiche e dichiarazioni ad effetto boomerang, l’amministrazione Obama ha ottenuto il risultato esattamente opposto a quello dichiarato di perseguire una pace negoziata da israeliani e palestinesi.» (Da: Jerusalem Post, 25.12.16)

Dennis Ross

«Se c’è una parte della risoluzione che può essere potenzialmente molto problematica per il futuro – ha spiegato l’ex diplomatico Usa Dennis Ross (citato da Times of Israel) – è il suo riferimento agli insediamenti come “illegali”. Questo può creare grossi problemi alla possibile formula per risolvere prima o poi la questione dei confini. Come è noto, infatti, un modo per assorbire un numero significativo di coloni israeliani sarebbe quello di permettere a Israele di trattenere i blocchi di insediamenti che sorgono su una piccola parte della Cisgiordania; in cambio gli israeliani cederebbero territorio ai palestinesi a titolo di risarcimento. Ma questo non sarà reso molto più difficile dal momento che tutti gli insediamenti vengono dichiarati “illegali”? Rendere il concetto di scambi territoriali molto più difficile da attuare (e dunque rendere molto più difficile una soluzione di pace negoziata) non è probabilmente l’eredità che il presidente Obama desiderava lasciare, e tuttavia potrebbe essere proprio quella che ha appena reso più probabile.»

Boaz Bismuth

Scrive Boaz Bismuth, su Israel HaYom: «Il mondo è a posto, ora può festeggiare il Natale e il Capodanno con la coscienza pulita. Perché, mentre il vecchio ordine mondiale crolla – Aleppo è solo il sintomo dell’epoca in cui Barack Obama ha preso il Nobel per la pace – gli “anziani” del villaggio globale hanno deciso che la colpa del conflitto israelo-palestinese è degli ebrei che vivono al di là della ex linea armistiziale ’49-’67. Come avevamo fatto a non capirlo? Per la verità, il conflitto israelo-palestinese esisteva già decenni prima che nascesse il primo insediamento, ma da quando contano i fatti? Tanto il mondo sa come trarre vantaggio dall’amicizia con Israele, quando gli occorre, in una serie di campi: dalla tecnologia, all’high-tech, alla medicina, all’agricoltura, alla guerra al terrorismo. Ma quando si tratta dei forum internazionali, c’è l’intoppo di quella grande macchina, ipocrita e corrotta, nota come Onu, che adotta risoluzioni che non fanno che rafforzare il pregiudizio antiebraico nel mondo e favorire il movimento per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni contro Israele. Improvvisamente paesi come il Senegal, la Malesia, la Nuova Zelanda e – udite – il Venezuela sanno meglio dell’Egitto cosa è più opportuno e urgente in questo momento per il turbolento Medio Oriente, e sono pronti a proporre una risoluzione contro Israele. Perché deludere i palestinesi? Perché deludere il mondo? Perché deludere Obama? Quest’ultimo decennio non ha forse dimostrato che il conflitto israelo-palestinese è la fonte di tutti i problemi del mondo? Qualcuno ricorda che solo pochi mesi fa l’Unesco, l’agenzia “culturale” dell’Onu, ha deciso con un voto che gli ebrei non hanno alcun legame con Gerusalemme? Come meravigliarsi, dunque, se suo fratello maggiore, il Consiglio di Sicurezza, ha votato venerdì scorso che il quartiere ebraico della Città Vecchia di Gerusalemme non è Israele? Certo, Washington e Parigi ci diranno che hanno chiesto che la versione finale della risoluzione includesse una condanna degli atti violenti contro i civili. Ma è solo fuffa. Quello che spicca è l’accusa, e l’accusa indica le costruzioni negli insediamenti come il motivo per cui il conflitto continua. Il rifiuto dei palestinesi di riconoscere lo stato ebraico, il terrorismo, l’istigazione all’odio contro Israele nelle moschee, nelle scuole e dappertutto, l’incapacità dei palestinesi di governare il loro territorio, il violento conflitto tra i palestinesi di Fatah in Cisgiordania e quelli di Hamas nella striscia di Gaza, le alleanze di Hamas con i più violenti estremisti del Medio Oriente: tutto questo non è altro che un dettaglio secondario. Hamas? Terrorismo? Il rifiuto di riconoscere persino il centro di Tel Aviv come legittimo territorio israeliano? Nulla di tutto questo è un ostacolo alla pace. Lo sono gli ebrei che vivono a Gerusalemme nei quartieri di Gilo, Itamar, Neveh Yaakov, Pisgat Zeev e French Hill. Ecco di chi è la colpa. Ora il mondo può dormire sonni tranquilli. Gli suggeriamo solo di tenere d’occhio i camion sospetti che corrono nel mezzo delle sue città: un voto come quello di venerdì, statene certi, non riporterà affatto la calma e la sicurezza. Al contrario, darà un forte incentivo a tutti coloro che esercitano il terrorismo come fonte di potere e di ricatto.» (Da: Israel HaYom, 25.12.16)
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Re: Antisemitismo, antisionismo, antisraelismo negli USA

Messaggioda Berto » dom mar 05, 2023 8:57 am

4)
Il discorso di Barack Obama ai mussulmani al Cairo; poi ripreso da Bergoglio con la santificazione dell'Islam e l'enciclica sociale "Fratelli tutti"


Quante cose false ha detto Obama nel suo discorso al Cairo.


Discorso integrale di Obama al Cairo
Ecco la traduzione integrale del discorso del presidente americano Barack Obama all'Università del Cairo. 6 giugno 2009
Barack Obama (Presidente degli Stati Uniti d'America)
Fonte: www.repubblica.it
(Traduzione di Anna Bissanti)
(4 giugno 2009)

https://www.peacelink.it/gdp/a/29630.html

SONO onorato di trovarmi qui al Cairo, in questa città eterna, e di essere ospite di due importantissime istituzioni. Da oltre mille anni Al-Azhar rappresenta il faro della cultura islamica e da oltre un secolo l'Università del Cairo è la culla del progresso dell'Egitto. Insieme, queste due istituzioni rappresentano il connubio di tradizione e progresso. Sono grato di questa ospitalità e dell'accoglienza che il popolo egiziano mi ha riservato. Sono altresì orgoglioso di portare con me in questo viaggio le buone intenzioni del popolo americano, e di portarvi il saluto di pace delle comunità musulmane del mio Paese: assalaamu alaykum.

Ci incontriamo qui in un periodo di forte tensione tra gli Stati Uniti e i musulmani in tutto il mondo, tensione che ha le sue radici nelle forze storiche che prescindono da qualsiasi attuale dibattito politico. Il rapporto tra Islam e Occidente ha alle spalle secoli di coesistenza e cooperazione, ma anche di conflitto e di guerre di religione. In tempi più recenti, questa tensione è stata alimentata dal colonialismo, che ha negato diritti e opportunità a molti musulmani, e da una Guerra Fredda nella quale i Paesi a maggioranza musulmana troppo spesso sono stati trattati come Paesi che agivano per procura, senza tener conto delle loro legittime aspirazioni. Oltretutto, i cambiamenti radicali prodotti dal processo di modernizzazione e dalla globalizzazione hanno indotto molti musulmani a considerare l'Occidente ostile nei confronti delle tradizioni dell'Islam.

Violenti estremisti hanno saputo sfruttare queste tensioni in una minoranza, esigua ma forte, di musulmani. Gli attentati dell'11 settembre 2001 e gli sforzi continui di questi estremisti volti a perpetrare atti di violenza contro civili inermi ha di conseguenza indotto alcune persone nel mio Paese a considerare l'Islam come inevitabilmente ostile non soltanto nei confronti dell'America e dei Paesi occidentali in genere, ma anche dei diritti umani. Tutto ciò ha comportato maggiori paure, maggiori diffidenze. Fino a quando i nostri rapporti saranno definiti dalle nostre differenze, daremo maggior potere a coloro che perseguono l'odio invece della pace, coloro che si adoperano per lo scontro invece che per la collaborazione che potrebbe aiutare tutti i nostri popoli a ottenere giustizia e a raggiungere il benessere. Adesso occorre porre fine a questo circolo vizioso di sospetti e discordia.

Io sono qui oggi per cercare di dare il via a un nuovo inizio tra gli Stati Uniti e i musulmani di tutto il mondo; l'inizio di un rapporto che si basi sull'interesse reciproco e sul mutuo rispetto; un rapporto che si basi su una verità precisa, ovvero che America e Islam non si escludono a vicenda, non devono necessariamente essere in competizione tra loro. Al contrario, America e Islam si sovrappongono, condividono medesimi principi e ideali, il senso di giustizia e di progresso, la tolleranza e la dignità dell'uomo.

Sono qui consapevole che questo cambiamento non potrà avvenire nell'arco di una sola notte. Nessun discorso o proclama potrà mai sradicare completamente una diffidenza pluriennale. Né io sarò in grado, nel tempo che ho a disposizione, di porre rimedio e dare soluzione a tutte le complesse questioni che ci hanno condotti a questo punto. Sono però convinto che per poter andare avanti dobbiamo dire apertamente ciò che abbiamo nel cuore, e che troppo spesso viene detto soltanto a porte chiuse. Dobbiamo promuovere uno sforzo sostenuto nel tempo per ascoltarci, per imparare l'uno dall'altro, per rispettarci, per cercare un terreno comune di intesa. Il Sacro Corano dice: "Siate consapevoli di Dio e dite sempre la verità". Questo è quanto cercherò di fare: dire la verità nel miglior modo possibile, con un atteggiamento umile per l'importante compito che devo affrontare, fermamente convinto che gli interessi che condividiamo in quanto appartenenti a un unico genere umano siano molto più potenti ed efficaci delle forze che ci allontanano in direzioni opposte.

In parte le mie convinzioni si basano sulla mia stessa esperienza: sono cristiano, ma mio padre era originario di una famiglia del Kenya della quale hanno fatto parte generazioni intere di musulmani. Da bambino ho trascorso svariati anni in Indonesia, e ascoltavo al sorgere del Sole e al calare delle tenebre la chiamata dell'azaan. Quando ero ragazzo, ho prestato servizio nelle comunità di Chicago presso le quali molti trovavano dignità e pace nella loro fede musulmana.

Ho studiato Storia e ho imparato quanto la civiltà sia debitrice nei confronti dell'Islam. Fu l'Islam infatti - in istituzioni come l'Università Al-Azhar - a tenere alta la fiaccola del sapere per molti secoli, preparando la strada al Rinascimento europeo e all'Illuminismo. Fu l'innovazione presso le comunità musulmane a sviluppare scienze come l'algebra, a inventare la bussola magnetica, vari strumenti per la navigazione; a far progredire la maestria nello scrivere e nella stampa; la nostra comprensione di come si diffondono le malattie e come è possibile curarle. La cultura islamica ci ha regalato maestosi archi e cuspidi elevate; poesia immortale e musica eccelsa; calligrafia elegante e luoghi di meditazione pacifica. Per tutto il corso della sua Storia, l'Islam ha dimostrato con le parole e le azioni la possibilità di praticare la tolleranza religiosa e l'eguaglianza tra le razze.

So anche che l'Islam ha avuto una parte importante nella Storia americana. La prima nazione a riconoscere il mio Paese è stato il Marocco. Firmando il Trattato di Tripoli nel 1796, il nostro secondo presidente, John Adams, scrisse: "Gli Stati Uniti non hanno a priori alcun motivo di inimicizia nei confronti delle leggi, della religione o dell'ordine dei musulmani". Sin dalla fondazione degli Stati Uniti, i musulmani americani hanno arricchito il mio Paese: hanno combattuto nelle nostre guerre, hanno prestato servizio al governo, si sono battuti per i diritti civili, hanno avviato aziende e attività, hanno insegnato nelle nostre università, hanno eccelso in molteplici sport, hanno vinto premi Nobel, hanno costruito i nostri edifici più alti e acceso la Torcia Olimpica. E quando di recente il primo musulmano americano è stato eletto come rappresentante al Congresso degli Stati Uniti, egli ha giurato di difendere la nostra Costituzione utilizzando lo stesso Sacro Corano che uno dei nostri Padri Fondatori - Thomas Jefferson - custodiva nella sua biblioteca personale.

Ho pertanto conosciuto l'Islam in tre continenti, prima di venire in questa regione nella quale esso fu rivelato agli uomini per la prima volta. Questa esperienza illumina e guida la mia convinzione che una partnership tra America e Islam debba basarsi su ciò che l'Islam è, non su ciò che non è. Ritengo che rientri negli obblighi e nelle mie responsabilità di presidente degli Stati Uniti lottare contro qualsiasi stereotipo negativo dell'Islam, ovunque esso possa affiorare.

Ma questo medesimo principio deve applicarsi alla percezione dell'America da parte dei musulmani. Proprio come i musulmani non ricadono in un approssimativo e grossolano stereotipo, così l'America non corrisponde a quell'approssimativo e grossolano stereotipo di un impero interessato al suo solo tornaconto. Gli Stati Uniti sono stati una delle più importanti culle del progresso che il mondo abbia mai conosciuto. Sono nati dalla rivoluzione contro un impero. Sono stati fondati sull'ideale che tutti gli esseri umani nascono uguali e per dare significato a queste parole essi hanno versato sangue e lottato per secoli, fuori dai loro confini, in ogni parte del mondo. Sono stati plasmati da ogni cultura, proveniente da ogni remoto angolo della Terra, e si ispirano a un unico ideale: E pluribus unum. "Da molti, uno solo". Si sono dette molte cose e si è speculato alquanto sul fatto che un afro-americano di nome Barack Hussein Obama potesse essere eletto presidente, ma la mia storia personale non è così unica come sembra. Il sogno della realizzazione personale non si è concretizzato per tutti in America, ma quel sogno, quella promessa, è tuttora valido per chiunque approdi alle nostre sponde, e ciò vale anche per quasi sette milioni di musulmani americani che oggi nel nostro Paese godono di istruzione e stipendi più alti della media.

E ancora: la libertà in America è tutt'uno con la libertà di professare la propria religione. Ecco perché in ogni Stato americano c'è almeno una moschea, e complessivamente se ne contano oltre 1.200 all'interno dei nostri confini. Ecco perché il governo degli Stati Uniti si è rivolto ai tribunali per tutelare il diritto delle donne e delle giovani ragazze a indossare l'hijab e a punire coloro che vorrebbero impedirglielo. Non c'è dubbio alcuno, pertanto: l'Islam è parte integrante dell'America. E io credo che l'America custodisca al proprio interno la verità che, indipendentemente da razza, religione, posizione sociale nella propria vita, tutti noi condividiamo aspirazioni comuni, come quella di vivere in pace e sicurezza, quella di volerci istruire e avere un lavoro dignitoso, quella di amare le nostre famiglie, le nostre comunità e il nostro Dio. Queste sono le cose che abbiamo in comune. Queste sono le speranze e le ambizioni di tutto il genere umano.

Naturalmente, riconoscere la nostra comune appartenenza a un unico genere umano è soltanto l'inizio del nostro compito: le parole da sole non possono dare risposte concrete ai bisogni dei nostri popoli. Questi bisogni potranno essere soddisfatti soltanto se negli anni a venire sapremo agire con audacia, se capiremo che le sfide che dovremo affrontare sono le medesime e che se falliremo e non riusciremo ad avere la meglio su di esse ne subiremo tutti le conseguenze.

Abbiamo infatti appreso di recente che quando un sistema finanziario si indebolisce in un Paese, è la prosperità di tutti a patirne. Quando una nuova malattia infetta un essere umano, tutti sono a rischio. Quando una nazione vuole dotarsi di un'arma nucleare, il rischio di attacchi nucleari aumenta per tutte le nazioni. Quando violenti estremisti operano in una remota zona di montagna, i popoli sono a rischio anche al di là degli oceani. E quando innocenti inermi sono massacrati in Bosnia e in Darfur, è la coscienza di tutti a uscirne macchiata e infangata. Ecco che cosa significa nel XXI secolo abitare uno stesso pianeta: questa è la responsabilità che ciascuno di noi ha in quanto essere umano. Si tratta sicuramente di una responsabilità ardua di cui farsi carico. La Storia umana è spesso stata un susseguirsi di nazioni e di tribù che si assoggettavano l'una all'altra per servire i loro interessi. Nondimeno, in questa nuova epoca, un simile atteggiamento sarebbe autodistruttivo. Considerato quanto siamo interdipendenti gli uni dagli altri, qualsiasi ordine mondiale che dovesse elevare una nazione o un gruppo di individui al di sopra degli altri sarebbe inevitabilmente destinato all'insuccesso.

Indipendentemente da tutto ciò che pensiamo del passato, non dobbiamo esserne prigionieri. I nostri problemi devono essere affrontati collaborando, diventando partner, condividendo tutti insieme il progresso. Ciò non significa che dovremmo ignorare i motivi di tensione. Significa anzi esattamente il contrario: dobbiamo far fronte a queste tensioni senza indugio e con determinazione. Ed è quindi con questo spirito che vi chiedo di potervi parlare quanto più chiaramente e semplicemente mi sarà possibile di alcune questioni particolari che credo fermamente che dovremo in definitiva affrontare insieme. 

Il primo problema che dobbiamo affrontare insieme è la violenza estremista in tutte le sue forme. Ad Ankara ho detto chiaramente che l'America non è - e non sarà mai - in guerra con l'Islam. In ogni caso, però, noi non daremo mai tregua agli estremisti violenti che costituiscono una grave minaccia per la nostra sicurezza. E questo perché anche noi disapproviamo ciò che le persone di tutte le confessioni religiose disapprovano: l'uccisione di uomini, donne e bambini innocenti. Il mio primo dovere in quanto presidente è quello di proteggere il popolo americano.

La situazione in Afghanistan dimostra quali siano gli obiettivi dell'America, e la nostra necessità di lavorare insieme. Oltre sette anni fa gli Stati Uniti dettero la caccia ad Al Qaeda e ai Taliban con un vasto sostegno internazionale. Non andammo per scelta, ma per necessità. Sono consapevole che alcuni mettono in dubbio o giustificano gli eventi dell'11 settembre. Cerchiamo però di essere chiari: quel giorno Al Qaeda uccise circa 3.000 persone. Le vittime furono uomini, donne, bambini innocenti, americani e di molte altre nazioni, che non avevano commesso nulla di male nei confronti di nessuno. Eppure Al Qaeda scelse deliberatamente di massacrare quelle persone, rivendicando gli attentati, e ancora adesso proclama la propria intenzione di continuare a perpetrare stragi di massa. Al Qaeda ha affiliati in molti Paesi e sta cercando di espandere il proprio raggio di azione. Queste non sono opinioni sulle quali polemizzare: sono dati di fatto da affrontare concretamente.

Non lasciatevi trarre in errore: noi non vogliamo che le nostre truppe restino in Afghanistan. Non abbiamo intenzione di impiantarvi basi militari stabili. È lacerante per l'America continuare a perdere giovani uomini e giovani donne. Portare avanti quel conflitto è difficile, oneroso e politicamente arduo. Saremmo ben lieti di riportare a casa anche l'ultimo dei nostri soldati se solo potessimo essere fiduciosi che in Afghanistan e in Pakistan non ci sono estremisti violenti che si prefiggono di massacrare quanti più americani possibile. Ma non è ancora così.

Questo è il motivo per cui siamo parte di una coalizione di 46 Paesi. Malgrado le spese e gli oneri che ciò comporta, l'impegno dell'America non è mai venuto e mai verrà meno. In realtà, nessuno di noi dovrebbe tollerare questi estremisti: essi hanno colpito e ucciso in molti Paesi. Hanno assassinato persone di ogni fede religiosa. Più di altri, hanno massacrato musulmani. Le loro azioni sono inconciliabili con i diritti umani, il progresso delle nazioni, l'Islam stesso.

Il Sacro Corano predica che chiunque uccida un innocente è come se uccidesse tutto il genere umano. E chiunque salva un solo individuo, in realtà salva tutto il genere umano. La fede profonda di oltre un miliardo di persone è infinitamente più forte del miserabile odio che nutrono alcuni. L'Islam non è parte del problema nella lotta all'estremismo violento: è anzi una parte importante nella promozione della pace.

Sappiamo anche che la sola potenza militare non risolverà i problemi in Afghanistan e in Pakistan: per questo motivo stiamo pianificando di investire fino a 1,5 miliardi di dollari l'anno per i prossimi cinque anni per aiutare i pachistani a costruire scuole e ospedali, strade e aziende, e centinaia di milioni di dollari per aiutare gli sfollati. Per questo stesso motivo stiamo per offrire 2,8 miliardi di dollari agli afgani per fare altrettanto, affinché sviluppino la loro economia e assicurino i servizi di base dai quali dipende la popolazione.

Permettetemi ora di affrontare la questione dell'Iraq: a differenza di quella in Afghanistan, la guerra in Iraq è stata voluta, ed è una scelta che ha provocato molti forti dissidi nel mio Paese e in tutto il mondo. Anche se sono convinto che in definitiva il popolo iracheno oggi viva molto meglio senza la tirannia di Saddam Hussein, credo anche che quanto accaduto in Iraq sia servito all'America per comprendere meglio l'uso delle risorse diplomatiche e l'utilità di un consenso internazionale per risolvere, ogniqualvolta ciò sia possibile, i nostri problemi. A questo proposito potrei citare le parole di Thomas Jefferson che disse: "Io auspico che la nostra saggezza cresca in misura proporzionale alla nostra potenza e ci insegni che quanto meno faremo ricorso alla potenza tanto più saggi saremo".

Oggi l'America ha una duplice responsabilità: aiutare l'Iraq a plasmare un miglior futuro per se stesso e lasciare l'Iraq agli iracheni. Ho già detto chiaramente al popolo iracheno che l'America non intende avere alcuna base sul territorio iracheno, e non ha alcuna pretesa o rivendicazione sul suo territorio o sulle sue risorse. La sovranità dell'Iraq è esclusivamente sua. Per questo ho dato ordine alle nostre brigate combattenti di ritirarsi entro il prossimo mese di agosto. Noi onoreremo la nostra promessa e l'accordo preso con il governo iracheno democraticamente eletto di ritirare il contingente combattente dalle città irachene entro luglio e tutti i nostri uomini dall'Iraq entro il 2012. Aiuteremo l'Iraq ad addestrare gli uomini delle sue Forze di Sicurezza, e a sviluppare la sua economia. Ma daremo sostegno a un Iraq sicuro e unito da partner, non da dominatori.

E infine, proprio come l'America non può tollerare in alcun modo la violenza perpetrata dagli estremisti, essa non può in alcun modo abiurare ai propri principi. L'11 settembre è stato un trauma immenso per il nostro Paese. La paura e la rabbia che quegli attentati hanno scatenato sono state comprensibili, ma in alcuni casi ci hanno spinto ad agire in modo contrario ai nostri stessi ideali. Ci stiamo adoperando concretamente per cambiare linea d'azione. Ho personalmente proibito in modo inequivocabile il ricorso alla tortura da parte degli Stati Uniti, e ho dato l'ordine che il carcere di Guantánamo Bay sia chiuso entro i primi mesi dell'anno venturo.

L'America, in definitiva, si difenderà rispettando la sovranità altrui e la legalità delle altre nazioni. Lo farà in partenariato con le comunità musulmane, anch'esse minacciate. Quanto prima gli estremisti saranno isolati e si sentiranno respinti dalle comunità musulmane, tanto prima saremo tutti più al sicuro. La seconda più importante causa di tensione della quale dobbiamo discutere è la situazione tra israeliani, palestinesi e mondo arabo. Sono ben noti i solidi rapporti che legano Israele e Stati Uniti. Si tratta di un vincolo infrangibile, che ha radici in legami culturali che risalgono indietro nel tempo, nel riconoscimento che l'aspirazione a una patria ebraica è legittimo e ha anch'esso radici in una storia tragica, innegabile.

Nel mondo il popolo ebraico è stato perseguitato per secoli e l'antisemitismo in Europa è culminato nell'Olocausto, uno sterminio senza precedenti. Domani mi recherò a Buchenwald, uno dei molti campi nei quali gli ebrei furono resi schiavi, torturati, uccisi a colpi di arma da fuoco o con il gas dal Terzo Reich. Sei milioni di ebrei furono così massacrati, un numero superiore all'intera popolazione odierna di Israele.

Confutare questa realtà è immotivato, da ignoranti, alimenta l'odio. Minacciare Israele di distruzione - o ripetere vili stereotipi sugli ebrei - è profondamente sbagliato, e serve soltanto a evocare nella mente degli israeliani il ricordo più doloroso della loro Storia, precludendo la pace che il popolo di quella regione merita. 

D'altra parte è innegabile che il popolo palestinese - formato da cristiani e musulmani - ha sofferto anch'esso nel tentativo di avere una propria patria. Da oltre 60 anni affronta tutto ciò che di doloroso è connesso all'essere sfollati. Molti vivono nell'attesa, nei campi profughi della Cisgiordania, di Gaza, dei Paesi vicini, aspettando una vita fatta di pace e sicurezza che non hanno mai potuto assaporare finora. Giorno dopo giorno i palestinesi affrontano umiliazioni piccole e grandi che sempre si accompagnano all'occupazione di un territorio. Sia dunque chiara una cosa: la situazione per il popolo palestinese è insostenibile. L'America non volterà le spalle alla legittima aspirazione del popolo palestinese alla dignità, alle pari opportunità, a uno Stato proprio.

Da decenni tutto è fermo, in uno stallo senza soluzione: due popoli con legittime aspirazioni, ciascuno con una storia dolorosa alle spalle che rende il compromesso quanto mai difficile da raggiungere. È facile puntare il dito: è facile per i palestinesi addossare alla fondazione di Israele la colpa del loro essere profughi. È facile per gli israeliani addossare la colpa alla costante ostilità e agli attentati che hanno costellato tutta la loro storia all'interno dei confini e oltre. Ma se noi insisteremo a voler considerare questo conflitto da una parte piuttosto che dall'altra, rimarremo ciechi e non riusciremo a vedere la verità: l'unica soluzione possibile per le aspirazioni di entrambe le parti è quella dei due Stati, dove israeliani e palestinesi possano vivere in pace e in sicurezza.

Questa soluzione è nell'interesse di Israele, nell'interesse della Palestina, nell'interesse dell'America e nell'interesse del mondo intero. È a ciò che io alludo espressamente quando dico di voler perseguire personalmente questo risultato con tutta la pazienza e l'impegno che questo importante obiettivo richiede. Gli obblighi per le parti che hanno sottoscritto la Road Map sono chiari e inequivocabili. Per arrivare alla pace, è necessario ed è ora che loro - e noi tutti con loro - facciamo finalmente fronte alle rispettive responsabilità.

I palestinesi devono abbandonare la violenza. Resistere con la violenza e le stragi è sbagliato e non porta ad alcun risultato. Per secoli i neri in America hanno subito i colpi di frusta, quando erano schiavi, e hanno patito l'umiliazione della segregazione. Ma non è stata certo la violenza a far loro ottenere pieni ed eguali diritti come il resto della popolazione: è stata la pacifica e determinata insistenza sugli ideali al cuore della fondazione dell'America. La stessa cosa vale per altri popoli, dal Sudafrica all'Asia meridionale, dall'Europa dell'Est all'Indonesia. Questa storia ha un'unica semplice verità di fondo: la violenza è una strada senza vie di uscita. Tirare razzi a bambini addormentati o far saltare in aria anziane donne a bordo di un autobus non è segno di coraggio né di forza. Non è in questo modo che si afferma l'autorità morale: questo è il modo col quale l'autorità morale al contrario cede e capitola definitivamente.

È giunto il momento per i palestinesi di concentrarsi su quello che possono costruire. L'Autorità Palestinese deve sviluppare la capacità di governare, con istituzioni che siano effettivamente al servizio delle necessità della sua gente. Hamas gode di sostegno tra alcuni palestinesi, ma ha anche delle responsabilità. Per rivestire un ruolo determinante nelle aspirazioni dei palestinesi, per unire il popolo palestinese, Hamas deve porre fine alla violenza, deve riconoscere gli accordi intercorsi, deve riconoscere il diritto di Israele a esistere.

Allo stesso tempo, gli israeliani devono riconoscere che proprio come il diritto a esistere di Israele non può essere in alcun modo messo in discussione, così è per la Palestina. Gli Stati Uniti non ammettono la legittimità dei continui insediamenti israeliani, che violano i precedenti accordi e minano gli sforzi volti a perseguire la pace. È ora che questi insediamenti si fermino. 



Israele deve dimostrare di mantenere le proprie promesse e assicurare che i palestinesi possano effettivamente vivere, lavorare, sviluppare la loro società. Proprio come devasta le famiglie palestinesi, l'incessante crisi umanitaria a Gaza non è di giovamento alcuno alla sicurezza di Israele. Né è di giovamento per alcuno la costante mancanza di opportunità di qualsiasi genere in Cisgiordania. Il progresso nella vita quotidiana del popolo palestinese deve essere parte integrante della strada verso la pace e Israele deve intraprendere i passi necessari a rendere possibile questo progresso.

Infine, gli Stati Arabi devono riconoscere che l'Arab Peace Initiative è stato sì un inizio importante, ma che non pone fine alle loro responsabilità individuali. Il conflitto israelo-palestinese non dovrebbe più essere sfruttato per distogliere l'attenzione dei popoli delle nazioni arabe da altri problemi. Esso, al contrario, deve essere di incitamento ad agire per aiutare il popolo palestinese a sviluppare le istituzioni che costituiranno il sostegno e la premessa del loro Stato; per riconoscere la legittimità di Israele; per scegliere il progresso invece che l'incessante e autodistruttiva attenzione per il passato.

L'America allineerà le proprie politiche mettendole in sintonia con coloro che vogliono la pace e per essa si adoperano, e dirà ufficialmente ciò che dirà in privato agli israeliani, ai palestinesi e agli arabi. Noi non possiamo imporre la pace. In forma riservata, tuttavia, molti musulmani riconoscono che Israele non potrà scomparire. Allo stesso modo, molti israeliani ammettono che uno Stato palestinese è necessario. È dunque giunto il momento di agire in direzione di ciò che tutti sanno essere vero e inconfutabile.

Troppe sono le lacrime versate; troppo è il sangue sparso inutilmente. Noi tutti condividiamo la responsabilità di dover lavorare per il giorno in cui le madri israeliane e palestinesi potranno vedere i loro figli crescere insieme senza paura; in cui la Terra Santa delle tre grandi religioni diverrà quel luogo di pace che Dio voleva che fosse; in cui Gerusalemme sarà la casa sicura ed eterna di ebrei, cristiani e musulmani insieme, la città di pace nella quale tutti i figli di Abramo vivranno insieme in modo pacifico come nella storia di Isra, allorché Mosé, Gesù e Maometto (la pace sia con loro) si unirono in preghiera.

Terza causa di tensione è il nostro comune interesse nei diritti e nelle responsabilità delle nazioni nei confronti delle armi nucleari. Questo argomento è stato fonte di grande preoccupazione tra gli Stati Uniti e la Repubblica islamica iraniana. Da molti anni l'Iran si distingue per la propria ostilità nei confronti del mio Paese e in effetti tra i nostri popoli ci sono stati episodi storici violenti. Nel bel mezzo della Guerra Fredda, gli Stati Uniti hanno avuto parte nel rovesciamento di un governo iraniano democraticamente eletto. Dalla Rivoluzione Islamica, l'Iran ha rivestito un ruolo preciso nella cattura di ostaggi e in episodi di violenza contro i soldati e i civili statunitensi. Tutto ciò è ben noto. Invece di rimanere intrappolati nel passato, ho detto chiaramente alla leadership iraniana e al popolo iraniano che il mio Paese è pronto ad andare avanti. La questione, adesso, non è capire contro cosa sia l'Iran, ma piuttosto quale futuro intenda costruire.

Sarà sicuramente difficile superare decenni di diffidenza, ma procederemo ugualmente, con coraggio, con onestà e con determinazione. Ci saranno molti argomenti dei quali discutere tra i nostri due Paesi, ma noi siamo disposti ad andare avanti in ogni caso, senza preconcetti, sulla base del rispetto reciproco. È chiaro tuttavia a tutte le persone coinvolte che riguardo alle armi nucleari abbiamo raggiunto un momento decisivo. Non è unicamente nell'interesse dell'America affrontare il tema: si tratta qui di evitare una corsa agli armamenti nucleari in Medio Oriente, che potrebbe portare questa regione e il mondo intero verso una china molto pericolosa.

Capisco le ragioni di chi protesta perché alcuni Paesi hanno armi che altri non hanno. Nessuna nazione dovrebbe scegliere e decidere quali nazioni debbano avere armi nucleari. È per questo motivo che io ho ribadito con forza l'impegno americano a puntare verso un futuro nel quale nessuna nazione abbia armi nucleari. Tutte le nazioni - Iran incluso - dovrebbero avere accesso all'energia nucleare a scopi pacifici se rispettano i loro obblighi e le loro responsabilità previste dal Trattato di Non Proliferazione. Questo è il nocciolo, il cuore stesso del Trattato e deve essere rispettato da tutti coloro che lo hanno sottoscritto. Spero pertanto che tutti i Paesi nella regione possano condividere questo obiettivo. Il quarto argomento di cui intendo parlarvi è la democrazia. Sono consapevole che negli ultimi anni ci sono state controversie su come vada incentivata la democrazia e molte di queste discussioni sono riconducibili alla guerra in Iraq. Permettetemi di essere chiaro: nessun sistema di governo può o deve essere imposto da una nazione a un'altra.

Questo non significa, naturalmente, che il mio impegno in favore di governi che riflettono il volere dei loro popoli, ne esce diminuito. Ciascuna nazione dà vita e concretizza questo principio a modo suo, sulla base delle tradizioni della sua gente. L'America non ha la pretesa di conoscere che cosa sia meglio per ciascuna nazione, così come noi non presumeremmo mai di scegliere il risultato in pacifiche consultazioni elettorali. Ma io sono profondamente e irremovibilmente convinto che tutti i popoli aspirano a determinate cose: la possibilità di esprimersi liberamente e decidere in che modo vogliono essere governati; la fiducia nella legalità e in un'equa amministrazione della giustizia; un governo che sia trasparente e non si approfitti del popolo; la libertà di vivere come si sceglie di voler vivere. Questi non sono ideali solo americani: sono diritti umani, ed è per questo che noi li sosterremo ovunque.

La strada per realizzare questa promessa non è rettilinea. Ma una cosa è chiara e palese: i governi che proteggono e tutelano i diritti sono in definitiva i più stabili, quelli di maggior successo, i più sicuri. Soffocare gli ideali non è mai servito a farli sparire per sempre. L'America rispetta il diritto di tutte le voci pacifiche e rispettose della legalità a farsi sentire nel mondo, anche qualora fosse in disaccordo con esse. E noi accetteremo tutti i governi pacificamente eletti, purché governino rispettando i loro stessi popoli.

Quest'ultimo punto è estremamente importante, perché ci sono persone che auspicano la democrazia soltanto quando non sono al potere: poi, una volta al potere, sono spietati nel sopprimere i diritti altrui. Non importa chi è al potere: è il governo del popolo ed eletto dal popolo a fissare l'unico parametro per tutti coloro che sono al potere. Occorre restare al potere solo col consenso, non con la coercizione; occorre rispettare i diritti delle minoranze e partecipare con uno spirito di tolleranza e di compromesso; occorre mettere gli interessi del popolo e il legittimo sviluppo del processo politico al di sopra dei propri interessi e del proprio partito. Senza questi elementi fondamentali, le elezioni da sole non creano una vera democrazia.

Il quinto argomento del quale dobbiamo occuparci tutti insieme è la libertà religiosa. L'Islam ha una fiera tradizione di tolleranza: lo vediamo nella storia dell'Andalusia e di Cordoba durante l'Inquisizione. Con i miei stessi occhi da bambino in Indonesia ho visto che i cristiani erano liberi di professare la loro fede in un Paese a stragrande maggioranza musulmana. Questo è lo spirito che ci serve oggi. I popoli di ogni Paese devono essere liberi di scegliere e praticare la loro fede sulla sola base delle loro convinzioni personali, la loro predisposizione mentale, la loro anima, il loro cuore. Questa tolleranza è essenziale perché la religione possa prosperare, ma purtroppo essa è minacciata in molteplici modi.

Tra alcuni musulmani predomina un'inquietante tendenza a misurare la propria fede in misura proporzionale al rigetto delle altre. La ricchezza della diversità religiosa deve essere sostenuta, invece, che si tratti dei maroniti in Libano o dei copti in Egitto. E anche le linee di demarcazione tra le varie confessioni devono essere annullate tra gli stessi musulmani, considerato che le divisioni di sunniti e sciiti hanno portato a episodi di particolare violenza, specialmente in Iraq. La libertà di religione è fondamentale per la capacità dei popoli di convivere. Dobbiamo sempre esaminare le modalità con le quali la proteggiamo. Per esempio, negli Stati Uniti le norme previste per le donazioni agli enti di beneficienza hanno reso più difficile per i musulmani ottemperare ai loro obblighi religiosi. Per questo motivo mi sono impegnato a lavorare con i musulmani americani per far sì che possano obbedire al loro precetto dello zakat.

Analogamente, è importante che i Paesi occidentali evitino di impedire ai cittadini musulmani di praticare la religione come loro ritengono più opportuno, per esempio legiferando quali indumenti debba o non debba indossare una donna musulmana. Noi non possiamo camuffare l'ostilità nei confronti di una religione qualsiasi con la pretesa del liberalismo. 

È vero il contrario: la fede dovrebbe avvicinarci. Ecco perché stiamo mettendo a punto dei progetti di servizio in America che vedano coinvolti insieme cristiani, musulmani ed ebrei. Ecco perché accogliamo positivamente gli sforzi come il dialogo interreligioso del re Abdullah dell'Arabia Saudita e la leadership turca nell'Alliance of Civilizations. In tutto il mondo, possiamo trasformare il dialogo in un servizio interreligioso, così che i ponti tra i popoli portino all'azione e a interventi concreti, come combattere la malaria in Africa o portare aiuto e conforto dopo un disastro naturale.

Il sesto problema di cui vorrei che ci occupassimo insieme sono i diritti delle donne. So che si discute molto di questo e respingo l'opinione di chi in Occidente crede che se una donna sceglie di coprirsi la testa e i capelli è in qualche modo "meno uguale". So però che negare l'istruzione alle donne equivale sicuramente a privare le donne di uguaglianza. E non è certo una coincidenza che i Paesi nei quali le donne possono studiare e sono istruite hanno maggiori probabilità di essere prosperi.

Vorrei essere chiaro su questo punto: la questione dell'eguaglianza delle donne non riguarda in alcun modo l'Islam. In Turchia, in Pakistan, in Bangladesh e in Indonesia, abbiamo visto Paesi a maggioranza musulmana eleggere al governo una donna. Nel frattempo la battaglia per la parità dei diritti per le donne continua in molti aspetti della vita americana e anche in altri Paesi di tutto il mondo.

Le nostre figlie possono dare un contributo alle nostre società pari a quello dei nostri figli, e la nostra comune prosperità trarrà vantaggio e beneficio consentendo a tutti gli esseri umani - uomini e donne - di realizzare a pieno il loro potenziale umano. Non credo che una donna debba prendere le medesime decisioni di un uomo, per essere considerata uguale a lui, e rispetto le donne che scelgono di vivere le loro vite assolvendo ai loro ruoli tradizionali. Ma questa dovrebbe essere in ogni caso una loro scelta. Ecco perché gli Stati Uniti saranno partner di qualsiasi Paese a maggioranza musulmana che voglia sostenere il diritto delle bambine ad accedere all'istruzione, e voglia aiutare le giovani donne a cercare un'occupazione tramite il microcredito che aiuta tutti a concretizzare i propri sogni.

Infine, vorrei parlare con voi di sviluppo economico e di opportunità. So che agli occhi di molti il volto della globalizzazione è contraddittorio. Internet e la televisione possono portare conoscenza e informazione, ma anche forme offensive di sessualità e di violenza fine a se stessa. I commerci possono portare ricchezza e opportunità, ma anche grossi problemi e cambiamenti per le comunità località. In tutte le nazioni - compresa la mia - questo cambiamento implica paura. Paura che a causa della modernità noi si possa perdere il controllo sulle nostre scelte economiche, le nostre politiche, e cosa ancora più importante, le nostre identità, ovvero le cose che ci sono più care per ciò che concerne le nostre comunità, le nostre famiglie, le nostre tradizioni e la nostra religione.

So anche, però, che il progresso umano non si può fermare. Non ci deve essere contraddizione tra sviluppo e tradizione. In Paesi come Giappone e Corea del Sud l'economia cresce mentre le tradizioni culturali sono invariate. Lo stesso vale per lo straordinario progresso di Paesi a maggioranza musulmana come Kuala Lumpur e Dubai. Nei tempi antichi come ai nostri giorni, le comunità musulmane sono sempre state all'avanguardia nell'innovazione e nell'istruzione.

Quanto ho detto è importante perché nessuna strategia di sviluppo può basarsi soltanto su ciò che nasce dalla terra, né può essere sostenibile se molti giovani sono disoccupati. Molti Stati del Golfo Persico hanno conosciuto un'enorme ricchezza dovuta al petrolio, e alcuni stanno iniziando a programmare seriamente uno sviluppo a più ampio raggio. Ma dobbiamo tutti riconoscere che l'istruzione e l'innovazione saranno la valuta del XXI secolo, e in troppe comunità musulmane continuano a esserci investimenti insufficienti in questi settori. Sto dando grande rilievo a investimenti di questo tipo nel mio Paese. Mentre l'America in passato si è concentrata sul petrolio e sul gas di questa regione del mondo, adesso intende perseguire qualcosa di completamente diverso.

Dal punto di vista dell'istruzione, allargheremo i nostri programmi di scambi culturali, aumenteremo le borse di studio, come quella che consentì a mio padre di andare a studiare in America, incoraggiando un numero maggiore di americani a studiare nelle comunità musulmane. Procureremo agli studenti musulmani più promettenti programmi di internship in America; investiremo sull'insegnamento a distanza per insegnanti e studenti di tutto il mondo; creeremo un nuovo network online, così che un adolescente in Kansas possa scambiare istantaneamente informazioni con un adolescente al Cairo.

Per quanto concerne lo sviluppo economico, creeremo un nuovo corpo di volontari aziendali che lavori con le controparti in Paesi a maggioranza musulmana. Organizzerò quest'anno un summit sull'imprenditoria per identificare in che modo stringere più stretti rapporti di collaborazione con i leader aziendali, le fondazioni, le grandi società, gli imprenditori degli Stati Uniti e delle comunità musulmane sparse nel mondo. 

Dal punto di vista della scienza e della tecnologia, lanceremo un nuovo fondo per sostenere lo sviluppo tecnologico nei Paesi a maggioranza musulmana, e per aiutare a tradurre in realtà di mercato le idee, così da creare nuovi posti di lavoro. Apriremo centri di eccellenza scientifica in Africa, in Medio Oriente e nel Sudest asiatico; nomineremo nuovi inviati per la scienza per collaborare a programmi che sviluppino nuove fonti di energia, per creare posti di lavoro "verdi", monitorare i successi, l'acqua pulita e coltivare nuove specie. Oggi annuncio anche un nuovo sforzo globale con l'Organizzazione della Conferenza Islamica mirante a sradicare la poliomielite. Espanderemo inoltre le forme di collaborazione con le comunità musulmane per favorire e promuovere la salute infantile e delle puerpere.

Tutte queste cose devono essere fatte insieme. Gli americani sono pronti a unirsi ai governi e ai cittadini di tutto il mondo, le organizzazioni comunitarie, gli esponenti religiosi, le aziende delle comunità musulmane di tutto il mondo per permettere ai nostri popoli di vivere una vita migliore.

I problemi che vi ho illustrato non sono facilmente risolvibili, ma abbiamo tutti la responsabilità di unirci per il bene e il futuro del mondo che vogliamo, un mondo nel quale gli estremisti non possano più minacciare i nostri popoli e nel quale i soldati americani possano tornare alle loro case; un mondo nel quale gli israeliani e i palestinesi siano sicuri nei loro rispettivi Stati e l'energia nucleare sia utilizzata soltanto a fini pacifici; un mondo nel quale i governi siano al servizio dei loro cittadini e i diritti di tutti i figli di Dio siano rispettati. Questi sono interessi reciproci e condivisi. Questo è il mondo che vogliamo. Ma potremo arrivarci soltanto insieme.

So che molte persone - musulmane e non musulmane - mettono in dubbio la possibilità di dar vita a questo nuovo inizio. Alcuni sono impazienti di alimentare la fiamma delle divisioni, e di intralciare in ogni modo il progresso. Alcuni lasciano intendere che il gioco non valga la candela, che siamo predestinati a non andare d'accordo, e che le civiltà siano avviate a scontrarsi. Molti altri sono semplicemente scettici e dubitano fortemente che un cambiamento possa esserci. E poi ci sono la paura e la diffidenza. Se sceglieremo di rimanere ancorati al passato, non faremo mai passi avanti. E vorrei dirlo con particolare chiarezza ai giovani di ogni fede e di ogni Paese: "Voi, più di chiunque altro, avete la possibilità di cambiare questo mondo".

Tutti noi condividiamo questo pianeta per un brevissimo istante nel tempo. La domanda che dobbiamo porci è se intendiamo trascorrere questo brevissimo momento a concentrarci su ciò che ci divide o se vogliamo impegnarci insieme per uno sforzo - un lungo e impegnativo sforzo - per trovare un comune terreno di intesa, per puntare tutti insieme sul futuro che vogliamo dare ai nostri figli, e per rispettare la dignità di tutti gli esseri umani.

È più facile dare inizio a una guerra che porle fine. È più facile accusare gli altri invece che guardarsi dentro. È più facile tener conto delle differenze di ciascuno di noi che delle cose che abbiamo in comune. Ma nostro dovere è scegliere il cammino giusto, non quello più facile. C'è un unico vero comandamento al fondo di ogni religione: fare agli altri quello che si vorrebbe che gli altri facessero a noi. Questa verità trascende nazioni e popoli, è un principio, un valore non certo nuovo. Non è nero, non è bianco, non è marrone. Non è cristiano, musulmano, ebreo. É un principio che si è andato affermando nella culla della civiltà, e che tuttora pulsa nel cuore di miliardi di persone. È la fiducia nel prossimo, è la fiducia negli altri, ed è ciò che mi ha condotto qui oggi. Noi abbiamo la possibilità di creare il mondo che vogliamo, ma soltanto se avremo il coraggio di dare il via a un nuovo inizio, tenendo in mente ciò che è stato scritto. Il Sacro Corano dice: "Oh umanità! Sei stata creata maschio e femmina. E ti abbiamo fatta in nazioni e tribù, così che voi poteste conoscervi meglio gli uni gli altri". Nel Talmud si legge: "La Torah nel suo insieme ha per scopo la promozione della pace". E la Sacra Bibbia dice: "Beati siano coloro che portano la pace, perché saranno chiamati figli di Dio".

Sì, i popoli della Terra possono convivere in pace. Noi sappiamo che questo è il volere di Dio. E questo è il nostro dovere su questa Terra. Grazie, e che la pace di Dio sia con voi.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Antisemitismo, antisionismo, antisraelismo negli USA

Messaggioda Berto » dom mar 05, 2023 8:58 am

Bergoglio l'antisemita occulto che nega agli ebrei la loro capitale Gerusalemme
http://www.filarveneto.eu/forum/viewtop ... 197&t=2848
https://www.facebook.com/permalink.php? ... 7003387674
Nella sua visita ai pochi cristiani discriminati del Marocco e al sue Re maomettano, Bergoglio dichiara la sua "santa" alleanza con l'Islam contro gli ebrei e Israele, negando loro Gerusalemme come capitale.
La negazione non è esplicita ma indiretta contenuta nell'affermazione che Gerusalemme dovrebbe essere patrimonio comune dell’umanità e soprattutto per i fedeli delle tre religioni monoteiste, come luogo di incontro e simbolo di coesistenza pacifica, in cui si coltivano il rispetto reciproco e il dialogo; affermazione dove si omette appunto di sottolineare che la città oltre a ciò è anche luogo storico e capitale dell'etnia o popolo ebraico e del suo stato nazionale di Israele.


Gerusalemme capitale storica sacra e santa di Israele, terra degli ebrei da almeno 3 mila anni.
http://www.filarveneto.eu/forum/viewtop ... 197&t=2472
https://www.facebook.com/alberto.pento/ ... 1317729634
https://www.facebook.com/permalink.php? ... 7003387674


Gerusalemme è la città santa degli ebrei e la capitale del loro paese e stato nazionale che è Israele da circa 3000 anni.
Gerusalemme è la città santa e storico politica anche degli ebrei cristiani in quanto ebrei, ed è la città santa anche dei cristiani non ebrei ma non è la loro capitale storico politica in quanto non ebrei.
I cristiani non ebrei hanno il dovere di rispettare Gerusalemme come capitale storico politica degli ebrei e gli ebrei cristiani hanno il dovere di rispettare Gerusalemme come la città santa e la capitale storico politica degli ebrei non cristiani che sono gli ebrei tradizionali. la stragrande maggioranza degli ebrei e per il fatto fondamentale che Gesù Cristo era un ebreo a tutti gli effetti, vissuto da ebreo e morto da ebreo ucciso dagli invasori romani in quanto ebreo che si opponeva a suo modo al dominio imperiale romano.
Per quanto riguarda i moamettani o gli islamici arabi e non, essi vanno considerati storicamente come invasori violenti e senza alcun rispetto per gli ebrei e per i cristiani (ebrei e non), e in quanto tali e per la loro totale mancanza di rispetto verso gli ebrei (Israele e Gerusalemme) non hanno alcun titolo e alcun diritto per rivendicare Gerusalemme come terra e città santa islamica, primo perché non rispettando si perde il diritto al rispetto altrui, poi perché l'Islam non ha nulla di santo per la buona umanità e la civiltà del bene ed è un male e un pericolo per l'umanità intera da sempre, specialmente per gli ebrei di Israele e di Gerusalemme che i nazimaoemettani impropriamente detti palestinesi vorrebbero sterminare e distruggere.



Le menzogne e le demenze fatatiche e irresponsabili di Bergoglio e dei bergogliani
http://www.filarveneto.eu/forum/viewtop ... 132&t=2591
https://www.facebook.com/alberto.pento/ ... 7047032338


Bergoglio il papa vigliacco che non difende i cristiani
Il papa malvagio che sta dalla parte dei ladri, dei farabutti, dei violenti, dei criminali, dei carnefici e del male sempre contro le loro vittime e contro il bene.
Un uomo scriteriato che non sa più dove stia il bene e dove il male.
Tutte le demenzialità e le incoerenze di un uomo che non merita il mio rispetto e che ci fa tanto del male
viewtopic.php?f=199&t=2933
https://www.facebook.com/alberto.pento/ ... 6636654604

Capitoli:
1)
un uomo che ha perso il corretto senso del bene e del male e che non sa più giudicare, un uomo senza giudizio, scriteriato;

2)
che ha giustificato la strage di Charlie Hebdo, paragonando la più che doverosa satira critica su Maometto e l'Islam (profeta, Corano e Allah), alle offese e alle calunnie sulla mamma di ogni uomo che provocherebbero una naturale, comprensibile, legittima reazione violenta da parte di ogni uomo;

3)
che ha santificato Maometto, il Corano e l'Islam come religione che eleverebbe spiritualmente l'umanità a Dio e che promuoverebbe la pace e la fratellanza tra gli uomini, i popoli e gli stati; ma non si capisce dove ciò sia mai accaduto e dove ciò sia riscontrabile e ben verificabile, considerati l'orrore e il terrore che caratterizzano da sempre l'Islam o il maomettismo o nazismo maomettano;

4)
che ha negato che l'Islam sia stato e sia violento e terrorista, senza però mai dirci cos'è stato mai l'islam a cominciare da Maometto, se pacifico o violento e quando mai questa religione è stata pacifica, nonviolenta e fraterna;

5)
che ha affermato che il cristianismo è stato violento come il maomettismo come se l'ebreo Gesù Cristo avesse praticato e predicato la violenza imperialista predatoria e suprematista al pari di Maometto, come se gli apostoli e i discepoli e i cristiani dei primi secoli avessero praticato e predicato la violenza, come se il cristianismo si fosse diffuso e imposto con la violenza allo stesso modo del maomettismo di Maometto ad opera di Maometto stesso e dei suoi seguaci che da sempre e ovunque hanno praticato e predicato la violenza politico-religiosa per la supremazia islamica (il nazismo dell'Umma) e per la sottomissione mussulmana dell'umanità intera all'idolo Allah e al suo profeta presuntuso e demenziale Maometto;

7)
che ha giudicato la fede/credenza maomettana politico-religiosa con il suo dogmatismo demenziale e fanaticamente violenta, come qualcosa di spiritualmente, umanamente e culturalmente superiore al nonviolento e ragionevole laicismo, ateismo areligioso dell'Occidente secolarizzato;

8)
che ha esortato i pochi cristiani perseguitati, maltrattati, minacciati e uccisi nei paesi maomettani ad essere umili testimoni di Cristo e cittadini obbedienti e mansueti di quei paesi a dominio islamico/islamista, accettando di buon grado la condizione di dhimmitudine e il martirio come una benedizione del Signore che dà a loro la grazia di poter condividere la persecuzione e le sofferenze di Gesù Cristo, così da meritarsi il paradiso;

22)
che non riconosce Gerusalemme come capitale d'Israele ed è manifestatamente antisemita/antisraeliano e filo nazi maomettano-palestinese;
non condanna in alcun modo o in modo chiaro le aggressioni dei nazi maomettani in particolare palestinesi e iraniani agli ebrei e a Israele; i suoi seguaci stanno dalla parte del BDS che boicotta Israele e dell'ONU che sanziona persino la legittima difesa di Israele e dei suoi ebrei;

24)
che racconta che siamo tutti fratelli ma che non difende i cristiani perseguitati e sterminati dai nazi maomettani nei paesi islamici,
che non prende posizione e non condanna il nazismo maomettano (Maometto che lo predicava e attuava e il Corano che lo prescrive) che perseguita e uccide ogni diversamente religioso, areligioso e pensante, i gay e le donne libere;
che giustifica i crimini parassitari, predatori, persecutori, suprematisti, criminali, ...
dei migranti clandestini, degli africani, dei nazi maomettani, degli zingari, di tutti quelli che lui considera come perseguitati, poveri, ultimi, scartine, ... con considerazioni spesso prive di ogni fondamento e che manipolano la storia per calunniare, incolpare e demonizzare le vittime di questi crimini che si rifiutano di accogliere, accettare, subire, sottomettersi, piegarsi, rassegnarsi, all'esproprio dei dei loro diritti umani naturali, civili e politici, della loro libertà e dei loro beni, della sovranità nella loro casa e nel loro paese, ...
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Antisemitismo, antisionismo, antisraelismo negli USA

Messaggioda Berto » dom mar 05, 2023 9:00 am

5)
Gli USA pro ebrei e pro Israele di Trump


Trump e la sua America ha preso le parti di Isarele e degli ebrei senza se e senza ma, in tutto e per tutto.
Ha riconosciuto Gerusalemme come la capitale esclusiva d'Israele, trasferendovi l'ambasciata.
Ha tolto i finanziamenti ai nazi maomettani impropriamente detti palestinesi.
Ha rotto gli accordi per il nucleare iraniano finalizzato alla distruzione di Israele.
Ha eliminato l'iraniano Soleimani l'assassino di ebrei.
Ha difeso Israele all'ONU in ogni occasione, minacciando di espellere l'ONU dagli USA.
Ha promosso gli accordi di Abramo.
Non ha lesinato aiuti per la difesa di Israele dalle minacce nazimaomettane.
...

Solidarietà assoluta al buon repubblicano Trump
viewtopic.php?f=196&t=3014#p39966
https://www.facebook.com/Pilpotis/posts ... 8N5pPoxdal


Trump: 'Gerusalemme capitale di Israele'. Hamas: 'Sarà l'inferno'
Sky TG24
6 dicembre 2017

https://tg24.sky.it/mondo/2017/12/06/do ... le-israele

Il presidente statunitense ufficializza la sua decisione e spiega: "È un nuovo approccio". Date disposizioni per trasferire ambasciata Usa da Tel Aviv. Netanyahu: "Pietra miliare". Onu: "Contrari a decisioni unilaterali". Hamas: "Aperte porte dell'inferno"

"E' il momento di riconoscere Gerusalemme capitale di Israele. E' la cosa giusta da fare". Lo storico annuncio di Donald Trump arriva in diretta tv. Un brevissimo discorso dalla Diplomatic Reception Room della Casa Bianca (qui l'integrale) per spiegare che la svolta che manda in soffitta 70 anni di politica estera Usa è "una scelta necessaria per la pace".

Pazienza se il mondo arabo è in fibrillazione, se a Gaza già bruciano le bandiere americane e se Hamas parla di decisione che "ha aperto le porte dell'inferno". E pazienza se dalla comunità internazionale arriva un coro di no compreso quello di Papa Francesco che chiede il rispetto dello status quo. L'unico a esultare è il premier israeliano Benyamin Netanyahu, che parla di "pietra miliare" e di "decisione storica".


Trump: "Serve un nuovo approccio"

Trump tira dritto per la sua strada, anche a costo di isolare l'America tra i suoi più stretti alleati, e conferma anche che l'ambasciata americana in Israele sarà trasferita da Tel Aviv a Gerusalemme tra sei mesi. "Non si può continuare con formule fallimentari, per risolvere la questione israelo-palestinese serve un nuovo approccio", afferma risoluto il presidente americano. Davanti alle telecamere appare più serio che mai, insolitamente misurato nelle parole, conscio della delicatezza di una mossa che in molti giudicano spregiudicata, se non avventata, e che potrà avere ripercussioni importanti anche sugli interessi americani in
Medio Oriente e in tutto il mondo.
Netanyahu: "Una pietra miliare, decisione storica"
Immediata la reazione del premier israeliano Benyamin Netanyahu che ha definito la giornata di oggi "un momento storico", una "pietra miliare" ma anche "un passo verso la pace". Quello di Trump, ha aggiunto, è un atto giusto e coraggioso".

Abu Mazen:"Gerusalemme capitale eterna della Palestina"

"Trump ci porta in guerre senza fine", tuona invece il presidente palestinese Abu Mazen, che vede la decisione di Trump come la "rinuncia degli Usa al loro ruolo di mediatori di pace". 'Gerusalemme "è la capitale eterna dello Stato di Palestina", ribadisce, accusando anche Trump di aver offerto un premio immeritato ad Israele ''che pure infrange tutti gli accordi''e annunciando di aver ordinato alla delegazione diplomatica palestinese di lasciare Washington e di rientrare in patria.


Onu: "Contrari a decisioni unilaterali"

Anche l'Onu si è detto contrario alle decisioi unilaterali. "Solo realizzando la visione di due Stati che convivono in pace e sicurezza, con Gerusalemme capitale di Israele e della Palestina, tutte le questioni sullo status saranno risolte in via definitiva attraverso negoziati, e le legittime aspirazioni di entrambi i popoli saranno raggiunte", ha detto il segretario generale, Antonio Guterres. E ha aggiunto: "Dal mio primo giorno qui mi sono costantemente dichiarato contrario ad ogni misura unilaterale che metta a repentaglio la prospettiva della pace". Ma l'ambasciatore israeliano all'Onu, Danny Danon, ha risposto così: "Nel 1948 il presidente Truman fu il primo leader mondiale a riconoscere lo stato di Israele, e oggi il presidente Trump ha corretto un errore storico riconoscendo Gerusalemme come nostra capitale". Danon ha poi sottolineato che "ora è il momento per tutti gli stati membri delle Nazioni Unite di seguire la guida Usa".


Hamas: "Trump ha aperto le prote dell'inferno"

Dura anche la reazione di Hamas che ha lanciato un avvertimento: riconoscendo Gerusalemme come capitale di Israele, il presidente degli Usa "ha aperto le porte dell'inferno". Secondo Hamas, l'annuncio "è ingiusto" e dunque l'Autorità nazionale palestinese dovrebbe a questo punto annullare gli accordi di Oslo, di riconoscimento fra Olp e Israele. Hamas ha fatto anche appello all'Anp affinché "conceda adesso piena libertà di azione alla resistenza armata" in Cisgiordania. Da parte sua Ismail Radwan, un dirigente di Hamas, ha osservato che nella situazione che si è creata, Hamas ed al-Fatah dovranno cementare al più presto gli accordi di riconciliazione nazionale. A Gaza, intanto, sono iniziati i cortei di protesta, ma già nella giornata di oggi (6 dicembre) in diverse località di questa zona e della Cisgiordania erano state bruciate bandiere americane e si erano formati cortei contro Trump, dove venivano scanditi slogan contro gli Stati Uniti. Intanto, il Dipartimento di stato americano ha invitato tutto il suo personale a non viaggiare in Israele, Gerusalemme e Cisgiordania almeno fino al prossimo 20 dicembre, se non per estrema necessità. C’è infatti il timore che si verifichino episodi di violenze dopo l'annuncio della Casa Bianca.


Gentiloni: "Futuro Gerusalemme è su processo di pace basato su due Stati"

Sulla questione è intervenuto anche il presidente del Consiglio italiano, Paolo Gentiloni, che da Twitter ha detto: "Gerusalemme città santa, unica al mondo. Il suo futuro va definito nell'ambito del processo di pace basato sui due Stati, Israele e Palestina".


Merkel

Contraria anche la cancelliera tedesca, Angela Merkel, che attraverso il portavoce Steffen Seibert afferma che "il governo tedesco non appoggia questo comportamento, perchè lo status di Gerusalemme va negoziato all'interno della cornice della soluzione di due Stati".


Macron: decisione americana è "deplorevole"

Dall'Europa arriva inoltre la reazione della Francia, con il presidente Emmanuel Macron, attualmente impegnato in una tournée diplomatica in Algeria e Qatar, che ha fatto sapere che il suo Paese "non approva" la "deplorevole" decisione del presidente Trump.


Opposizione dall’Egitto alla Turchia

Opposizione espressa anche dall’Egitto che "denuncia la decisione degli Stati Uniti di riconoscere Gerusalemme quale capitale di Israele e respinge ogni effetto di questa decisione", come scrive l'agenzia Mena sintetizzando un comunicato del ministero degli Esteri del Cairo. Una condanna è arrivata anche da Ankara, dove il ministro degli Esteri turco ha scritto su Twitter: "Condanniamo la dichiarazione irresponsabile dell'amministrazione Usa di riconoscere Gerusalemme come la capitale di Israele" che "avrà effetti negativi sulla pace e la stabilità nella regione".






Il discorso di Pompeo e il riconoscimento dei fatti
David Elber
19 Novembre 2019

http://www.linformale.eu/il-discorso-di ... dei-fatti/

Il breve ma incisivo discorso del Segretario di Stato Mike Pompeo, a poche ore dalla sua diffusione, è stato dipinto dai mass-media e dagli immancabili “esperti” come un discorso in aperta rottura con la politica americana dell’ultimo cinquantennio e in contrasto con il diritto internazionale. Ma le cose stanno davvero in questi termini?

Nella parte finale del suo discorso Pompeo rimarca il fatto che il caso di Giudea e Samaria sia un “unicum” nella storia dei territori contesi. Questo è vero anche per il diritto internazionale, e non è certo un’interpretazione del Segretario di Stato. Infatti, il preambolo del Mandato di Palestina approvato nel 1922 dalla Società delle Nazioni, rimarca la “storica connessione tra il popolo ebraico e la Palestina” e la necessità di “ricostituire” uno Stato degli ebrei in quella terra. Questa specificazione esiste solo nel Mandato di Palestina e non è presente in nessuno degli oltre 20 mandati approvati contestualmente dalla Società delle Nazioni. E’ importante ricordare come tutti i mandati ancora esistenti nel 1945, quando fu approvato il Trattato di San Francisco con cui si costituì l’ONU, furono incorporati nel diritto internazionale con l’art. 80 dello Statuto dell’ONU. Quindi Pompeo non ha detto nulla di rivoluzionario ma ha dimostrato di conoscere il diritto internazionale.

Più volte nel suo discorso, Pompeo, ha rimarcato che l’unica possibilità di trovare una soluzione alla controversia territoriale può avvenire unicamente tramite negoziati diretti tra le parti. Anche qui non si tratta certamente di una “rivoluzione” nell’approccio al conflitto. Infatti, sono esattamente le parole utilizzate nella Risoluzione 242 del 1967, confermata dalla Risoluzione 338 del 1973, che sono la base degli accordi di pace tra Israele ed Egitto, tra Israele e Giordania e non da ultimo degli Accordi di Oslo firmati nel 1995 con l’OLP. E vero semmai il contrario: qualsiasi tentativo di imporre confini alle due parti è una violazione del diritto internazionale sancito dagli Accordi di Oslo stessi che sono vincolanti per Israele, per l’Autorità Nazionale Palestinese, ma anche per i garanti degli Accordi: USA, UE, Russia, Norvegia, Egitto e Giordania.

Quindi volendo riassumere la legalità della presenza ebraica nei territori, che solamente dal 1995 sono contesi, si possono citare come fonti del diritto internazionale: il Mandato britannico di Palestina, lo Statuto dell’ONU, le risoluzioni 242 e 338 e gli accordi di Oslo. Nessuna fonte del diritto dice il contrario anche se UE e numerose agenzie dell’ONU asseriscono il contrario. Cosa ribadita dalla Mogherini pochi minuti dopo il discorso di Pompeo. Ma a che cosa si riferisce la Mogherini?

Ad una interpretazione della IV Convenzione di Ginevra. In particolare il comma 6 dell’art. 49. Il testo dell’articolo è il seguente:

[…]

Comma VI:

“La Potenza occupante non potrà procedere alla deportazione o al trasferimento di una parte della sua propria popolazione civile nel territorio da essa occupato.”

[…]

La prima annotazione importante da fare è la seguente: questo articolo, come peraltro nessun articolo del diritto internazionale, fa alcuna menzione a “insediamenti”, “colonie” o sinonimi attinenti. Allora perché si continua a dire che per il diritto internazionale gli “insediamenti”, diventati nel tempo “ebraici”, sono illegali se non esistono concettualmente per il diritto internazionale? Per mere ragioni politiche.

Inoltre, l’art. 49 della IV convenzione di Ginevra, non è applicabile alla West Bank , Cisgiordania o Giudea e Samaria, perché si applica, solamente, nel caso di conflitto armato tra due Stati, cosa evidentemente non applicabile ai “territori” riconquistati da Israele dalla Giordania che li aveva occupati illegalmente mentre il diritto internazionale li aveva assegnati agli ebrei fin dal 1920.

Inoltre entrando nel dettaglio, si può affermare che il significato dei verbi “trasferire” o “deportare” presuppone che un governo o una forza occupante sposti in massa un certo numero di persone da una località ad un’altra in maniera organizzata e coatta. Cosa che, evidentemente, non è applicabile al caso degli abitanti ebrei di Giudea e Samaria, perché qui la popolazione è tornata, in taluni casi, dopo essere stata cacciata dai giordani, in altri casi acquistando un terreno ed edificando, in altri ancora, acquistando una casa. Quindi, dei privati cittadini che sono andati a vivere in diversi luoghi di una regione – non in un luogo unico e concentrato – in modo indipendente e senza imposizioni governative. Tanto è vero che in molti casi sono state demolite abitazioni costruite abusivamente e senza autorizzazioni con sentenza della stessa Corte Suprema israeliana. Il termine “trasferire”, nella IV convenzione di Ginevra –oltre nell’art. 49 citato- si trova negli art. 45 e art 127 con lo stesso significato.

Anche secondo l’interpretazione fatta dalla Croce Rossa Internazionale, l’art. 49 comma VI si riferisce all’opera di deportazione e colonizzazione che fece la Germania nazista durante la Seconda Guerra mondiale quando invase i paesi dell’Est Europa. Nel commento della Croce Rossa Internazionale si fa esplicito riferimento al “trasferimento” forzato “sotto minaccia delle armi”. Ma la vera prova del nove sull’infondatezza di tali accuse si è avuta con l’istituzione della Corte Penale Internazionale, creata con il Trattato di Roma del 1998 ed entrata in vigore nel 2002. All’art 8 comma VIII, al concetto di deportazione o trasferimento è stato aggiunto quello di crimine di guerra, ripreso – copia e incolla – dalla IV Convenzione di Ginevra. L’unica aggiunta, sotto espressa richiesta dei paesi arabi, è stata la dicitura “diretta o indiretta” riferita al trasferimento di popolazione, con il chiaro intento di aggiungere il concetto di trasferimento “volontario” di persone per poterlo un giorno applicare alla popolazione israeliana.

E’ opportuno ribadire che in nessun caso al mondo, anche in caso di reale occupazione, è mai stato applicato l’art. 49 comma VI della IV Convenzione di Ginevra.

Alla luce di quanto esposto l’Amministrazione Trump per bocca del suo Segretario di Stato non ha fatto altro che ribadire dei concetti di diritto già espressi da numerosi giuristi che hanno contribuito alla formazione del diritto internazionale con le loro opinioni, come i professori di diritto internazionale Rostow, Stone, Swhebel e Morris Abram che fu uno dei redattori della IV Convenzione di Ginevra: per tutti loro gli “insediamenti” non sono illegali e il territorio di Giudea e Samaria non è occupato.

Ma questa posizione assunta dall’Amministrazione Trump è poi così di “rottura” con il passato? Anche questa affermazione è falsa concettualmente o perlomeno è una forzatura giornalistica, poichè la prima amministrazione USA che decise “politicamente” di considerare illegali gli insediamenti è stata quella di Carter nel 1978 ben 11 anni dopo che Israele aveva riconquistato i territori di Giudea e Samaria. Tutte le amministrazioni precedenti non avevano eccepito nulla sulla presenza israeliana. Però già nel 1981 l’amministrazione Reagan aveva ribaltato questa posizione. La posizione politica americana è rimasta ondivaga nel corso degli anni in base all’orientamento politico dell’amministrazione che di volta in volta governava. Il penultimo capito fu la decisione di Obama di far passare la Risoluzione 2334 al Consiglio di Sicurezza dell’ONU che ribadiva l’illegalità della presenza ebraica. La posizione espressa da Mike Pompeo è solo l’ultimo capitolo di questa saga in cui la politica ha preso il posto del diritto scalzandolo dalla scena.

Nel discorso di Pompeo, si fa riferimento esplicito al fatto che l’amministrazione Trump ha seguito una posizione politica già espressa in passato dall’amministrazione Reagan e che non c’è nulla di nuovo, è semplicemente una rottura politica rispetto all’amministrazione che l’ha preceduto così come, parole di Pompeo, l’amministrazione Reagan aveva ribaltato la posizione di Carter. Mentre i consulenti legali dell’amministrazione hanno confermato la legalità dell’acquisizione territoriale e la presenza ebraica nei “territori”.

In conclusione, questa amministrazione ha ribadito un’ovvietà che è peraltro utilizzata in tutti i casi di contese territoriali nel mondo: le contese si possono risolvere solo tramite accordi diretti tra le parti e non imposte da altri. Bisogna solo farlo capire a Federica Mogherini e alla UE.




Il piano Trump: Tra realtà e responsabilità
David Elber
29 Gennaio 2020

http://www.linformale.eu/il-piano-trump ... nsabilita/

Il piano di pace presentato dal presidente americano Donald Trump è senza dubbio per molti aspetti “rivoluzionario” rispetto a tutte le trattative, tra israeliani e palestinesi, che hanno caratterizzato gli ultimi 25 anni di infruttuosi colloqui.

Dopo aver ascoltato il discorso del presidente americano e averlo “scrostato” dalle immancabili critiche e storture ideologiche della maggior parte dei commentatori, si scopre che la sua visione del piano di pace ha solide basi di diritto. Nella sua parte relativa ad Israele, i punti salienti sono gli stessi che si ripetono da un secolo a questa parte e più precisamente dalla Conferenza di Sanremo del 1920, quindi davvero nulla di nuovo. Ripercorriamoli brevemente.

Per quanto riguarda Israele, Trump ha rimarcato alcuni semplici punti.

Israele è e rimane lo Stato degli ebrei. In questo non c’è nulla di nuovo. È la posizione che il diritto internazionale ha sancito nella Conferenza di Sanremo del 1920 e ha formalizzato inequivocabilmente con il Mandato di Palestina nel 1922. Questo concetto lo si trova nel preambolo e negli articoli 2,4,6 e 7 del Mandato di Palestina.
Gerusalemme è la capitale di Israele. Questo fatto non è mai messo in discussione né nel Mandato britannico di Palestina, né nelle Risoluzioni 242 e 338 del Consiglio di Sicurezza che sono la base degli Accordi di Oslo, accordi accettati e sottoscritti da israeliani, palestinesi e dai garanti: USA, UN, EU, Norvegia, Russia e Egitto. Quindi in perfetta aderenza del diritto internazionale.
Garanzia per tutte le fedi di libero accesso ai luoghi santi. Questo concetto ribadito dal presidente americano è quanto già stabilito dal Mandato di Palestina con gli articoli 13 e 15. Israele si è sempre attenuto al suo rispetto. Anche prima della stipula degli accordi di pace con la Giordania del 1994 (caso unico al mondo). Infatti già alcune settimane dopo la vittoria nella guerra dei Sei giorni fu stabilito che i luoghi santi islamici di Gerusalemme fossero gestiti dai sovrani Hashemiti tramite l’apposito l’ente islamico Waqf.
Controllo israeliano della valle del Giordano. Anche in questo caso Trump non ha detto nulla di nuovo e soprattutto non è in contrasto con il diritto internazionale. Questo punto era già sancito nel Mandato britannico di Palestina nella sua versione definitiva del settembre 1922. Ribadito con l’indipendenza della Giordania nel 1946, con la quale la parte ad est del fiume Giordano del mandato di Palestina diventava uno Stato arabo. Concetto mai messo in discussione dagli accordi di Oslo, che anzi prevedono il controllo israeliano sull’area C.
Diritto di Israele ad avere confini sicuri e riconosciuti. Questo punto di fondamentale importanza è ribadito più volte nel piano di pace di Trump. Anch’esso non è una novità: è già presente nelle Risoluzioni 242 e 338 del Consiglio di Sicurezza. Ed è bene ribadire che tali risoluzioni solo la base degli accordi di pace con Egitto e Giordania nonché la base degli accordi di Oslo.
Problema dei rifugiati. Il piano di Trump è categorico: non verranno assorbiti da Israele come è logico che sia. Il diritto internazionale non prevede un “diritto al ritorno” come la propaganda palestinese, amplificata in Europa, vuol far credere. Perché poi, dovrebbe Israele, che è stato aggredito dagli arabi in numerose guerre dal 1948, farsi carico dei profughi palestinesi? La soluzione al problema dei rifugiati – compresi i rifugiati ebrei – deve essere concordato tra le parti come sancito dalle risoluzioni 242 e 338 e dagli accordi di Oslo.

Il vero quesito è, e rimane, il perché la quasi totalità della stampa, degli immancabili esperti e dei diplomatici europei continua a vedere nell’azione politica di Trump qualcosa di improvvisato (nella migliore delle ipotesi) o di assolutamente dilettantesco e fuori dalla realtà nella peggiore. Il senso di realtà e di diritto sono senza dubbio dalla parte di Trump.

Ciò che viene chiesto ai palestinesi nel piano di pace è senza dubbio qualcosa di nuovo e importante: avere, inequivocabilmente, un senso di responsabilità che li porterà entro quattro anni ad avere uno Stato indipendente anche se smilitarizzato. Casi di Stati smilitarizzati nel mondo (Lesotho, San Marino, Monaco i casi più noti) già ne esistono quindi non è una novità assoluta.

In sintesi ai palestinesi, Trump chiede:

Rinuncia al terrorismo in tutte le sue forme.
Cessazione del pagamento degli stipendi ai terroristi omicidi e alle loro famiglie.
Porre fine una volta per tutte all’incitamento all’odio anti ebraico nelle scuole, nei giornali, nei programmi televisivi e radiofonici e nelle manifestazioni.
Smilitarizzazione delle organizzazioni terroristiche ad iniziare da Hamas e Jihad islamica.

Una volta che si è ottenuto tutto ciò il piano prevede il pieno sviluppo economico del futuro Stato palestinese. Inoltre vista la conformazione dell’area designata alla formazione dello Stato palestinese diventa fondamentale il pieno coordinamento con Israele per la viabilità stradale (molte aree sono caratterizzate da enclave ebraiche), per l’accesso al mare (sono previsti accessi al porto di Ashdod e Haifa). Il pieno coordinamento è un fattore di grande responsabilità da parte di entrambe le parti.

Inoltre il piano prevede anche scambi territoriali: in compensazione per le aree di Giudea e Samaria che rimarranno parte di Israele, lo Stato ebraico cederà porzioni di territorio israeliano vicino al confine con l’Egitto per creare un’area industriale in zona franca per portare sviluppo a Gaza. In più alcune aree della valle di Jezreel, in Israele, dove sorgono 10 villaggi arabi (Kafr Kara, Arara, Baqa al-Gharbiyye, Umm al-Fahm, Kalanswa, Taibeh, Kafr Qasem, Tira, Kafr Bara e Jaljulia tutti citati testualmente nel piano di pace), verranno ceduti al futuro Stato palestinese. Questo è il primo piano di pace dove i confini sono decisi con estrema precisione dal piano di spartizione della commissione ONU, l’UNSCOP, incaricata di studiare come risolvere il problema di convivenza tra arabi ed ebrei del 1947 e rigettato dagli arabi.

A ben vedere questo piano di pace è il primo che prevede come unica soluzione al conflitto israelo-palestinese la nascita di due Stati e non come per gli accordi di Oslo una delle ipotesi contemplate.

Non c’è dubbio che la piena responsabilità delle leadership politiche è di fondamentale importanza per poter realizzare questo piano di pace. Oltre a ciò diviene vitale il pieno appoggio, al piano, degli Stati arabi che dovranno una volta per tutte riconoscere il pieno diritto di Israele ad vivere in pace. Questa è senza dubbio la sfida più grossa del piano di Trump.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Antisemitismo, antisionismo, antisraelismo negli USA

Messaggioda Berto » dom mar 05, 2023 9:03 am

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Re: Antisemitismo, antisionismo, antisraelismo negli USA

Messaggioda Berto » dom mar 05, 2023 9:05 am

6)
Gli USA antisemiti dei democratici e di Biden come nell'era Obama



Fin dal suo insediamento, l’Amministrazione Biden ha iniziato una sistematica campagna di attacchi politici nei confronti di Israele. Di questo modus operandi abbiamo già dato conto in vari articoli (http://www.linformale.eu/lamministrazio ... o-copione/ ); (http://www.linformale.eu/amici-problema ... one-biden/ ); e (http://www.linformale.eu/alcune-nomine- ... io-oriente /).

È quasi superfluo dire che mai nella storia delle relazioni bilaterali tra alleati si è assistito a un’opera di delegittimazione delle istituzioni nazionali così profondo e scientificamente organizzato come quello operato dai rappresentanti americani nei confronti di Israele. Forse l’unico precedente fu quello di Taiwan quando, nel 1971 per volere dell’Amministrazione Nixon, le fu tolto il seggio permanente al Consiglio di Sicurezza e fu esclusa dall’ONU.

Tra i numerosi casi che si possono evidenziare, ne illustreremo cinque molto indicativi.

Caso Shireen Abu Akleh

Il caso della giornalista palestinese con cittadinanza americana è emblematico.

La giornalista di Al Jazeera è rimasta uccisa – lo scorso 11 maggio – durante un’operazione anti terrorismo condotta dall’esercito israeliano nella città di Jenin. La prima considerazione da fare è che lo scontro a fuoco che le fu fatale, avvenne appunto a Jenin, cioè in una città amministrata dall’Autorità Palestinese di Abu Mazen. Negli ultimi anni Jenin è diventata una roccaforte delle organizzazioni terroristiche palestinesi che, nel solo 2022, hanno causato 31 morti in Israele, la quasi totalità dei quali civili. Di questo fatto nessun rappresentate americano ha mai chiesto conto al leader palestinese. Non di meno sono ripresi copiosi i finanziamenti degli Stati Uniti nei confronti dei cleptocrati dell’Autorità Palestinese.

Un secondo punto da mettere in rilievo è che l’AP ha trattenuto il corpo della giornalista e il proiettile che l’ha colpita negando per molti mesi ai periti israeliani e a quelli americani di potere svolgere le indagini indispensabili per stabilire la dinamica della sua morte. Fin da subito, tuttavia, sono iniziate le pressioni su Israele affinché rivedesse le proprie regole d’ingaggio per combattere i terroristi dando per scontata la sua responsabilità nella morte della giornalista.

Analoghe pressioni non hanno avuto luogo da parte americana nei confronti dell’AP per avere subito ripulito la scena dell’uccisione impedendo così le indagini forensi, o per non aver permesso l’autopsia congiunta con esperti americani nè per avere occulatato il proiettile per molto tempo.

Solamente oltre tre mesi dopo il fatto, i palestinesi hanno consegnato un proiettile compatibile con le armi in dotazione all’esercito israeliano – ma va sottolineato che anche i palestinesi hanno le stesse armi come si evince dalle tante foto postate sui social – ad una commissione congiunta israelo-americana composta insieme ad alcuni periti dell’FBI. Contestualmente, il Segretario di Stato Antony Blinken e vari membri del partito democratico hanno ricevuto i famigliari di Shireen in segno di deferenza. Deferenza che non è mai stata espressa nei confronti dei familiari dei giornalisti americani morti in vari teatri di guerra nel corso degli anni.

Secondo il responso della commissione della quale faceva parte anche l’FBI è impossibile stabilire con certezza chi abbia sparato il colpo fatale. Subito dopo la morte della giornalista, il comando dell’IDF aveva immediatamente dichiarato che c’erano “alte probabilità che il colpo fosse stato sparato accidentalmente da un soldato israeliano” durante il conflitto armato nel quale essa si era trovata coinvolta, ma, “non si escludeva che il colpo potesse essere stato sparato da palestinesi armati”. Quest’ultima frase è stata quasi del tutto taciuta dalla stampa che ha voluto enfatizzare esclusivamente l’eventuale responsabilità di Israele. Caso chiuso? Neanche per idea. Per nulla soddisfatti molti rappresentanti democratici (almeno 57 membri del Congresso e 22 senatori) hanno chiesto al Presidente Biden di incaricare l’FBI di una ulteriore indagine. Siccome la prima indagine è stata condotta per volere del Dipartimento di Stato, la seconda è stata affidata direttamente all’FBI dal Procuratore di Stato su richiesta dell’amministrazione.

Si vedrà a cosa porterà la nuova indagine. Una cosa è certa: non esistono dei precedenti di richieste simili in nessun paese “amico” soprattutto dopo che l’FBI ha già avuto accesso a tutte le informazioni utili. Inoltre, nessuna rimostranza è stata fatta all’AP per aver ostacolato in tutti i modi le indagini. Alcune considerazioni ulteriori vanno fatte in merito alla decisione di aprire una seconda indagine dell’FBI.

Nel corso degli ultimi tre decenni circa 2.600 giornalisti – molti dei quali americani – sono morti durante le loro corrispondenze in giro per il mondo ma in nessun caso l’FBI ha aperto un’indagine sulla loro morte. Solamente nel conflitto ucraino sono morti 15 giornalisti americani ma non è stata aperta alcuna indagine. Durante il conflitto in Iraq 13 giornalisti di vari paesi sono stati uccisi dalla truppe americane senza che l’FBI se ne sia occupata, anzi un procedimento penale intentato in una corte di giustizia di Madrid nel 2011 per l’uccisione di un giornalista spagnolo ad opera di soldati americani, fu fatto chiudere per le forti pressioni diplomatiche dell’Amministrazione Obama. Cosa dire dell’uccisione del giornalista saudita, residente negli USA, Jamal Khashoggi, ucciso, smembrato e fatto sparire con l’acido nel consolato saudita di Istanbul? Oltre a non avere mai aperto indagini da parte dell’FBI, gli Stati Uniti, con un atto del Presidente Biden, hanno dichiarato l’impunità dei mandanti (i regnanti sauditi) facendo terminare tutte le indagini tentate dai parenti. Infine, negli ultimi 20 anni, almeno 49 israeliani con passaporto americano sono stati uccisi dai palestinesi ma, anche in questo caso l’FBI non se ne è mai occupata nè nessuno dei loro parenti è mai stato ricevuto dal Segretario di Stato in carica.

In conclusione, ci troviamo di fronte a un chiaro esempio di doppio standard orientato da evidenti fini politici: mettere Israele sul banco degli imputati.

Ultima annotazione: Alcuni giorni orsono il canale televisivo Al Jazeera ha deciso di portare il caso di Shireen Abu Akleh presso il Tribunale Penale Internazionale per accusare Israele di crimini di guerra. Questa decisione sarà stata influenzata dalla precedente decisione americana?

Regole d’ingaggio

Come accennato in precedenza l’Amministrazione Biden, quasi sempre per bocca del suo portavoce presso il Dipartimento di Stato, Ned Price, ha iniziato una campagna ossessiva contro l’esercito di Israele chiedendo innumerevoli volte di modificare le regole d’ingaggio contro i terroristi e le bande armate palestinesi. E’ quasi superfluo dire che analoghe richieste non sono mai state presentate al Pentagono in occasione delle campagne di Afghanistan e Iraq, dove le morti di combattenti e soprattutto di civili causate dai militari americani sono state enormemente superiori (almeno 150.000 morti) a quelle avvenute negli scontri con i terroristi palestinesi. Anche in relazione alla percentuale di popolazione la sproporzione di vittime causate dagli americani è disarmante. Nessuna richiesta simile è stata mai fatta neanche ai paesi della NATO che hanno partecipato alle guerre indirizzate dagli USA. Se volessimo anche paragonare il numero di cittadini americani uccisi dalla polizia USA, circa 1.000 ogni anno (https://www.washingtonpost.com/graphics ... -database/), e le condizioni nelle quali queste uccisioni avvengono (non paragonabili alla criticità di azioni anti terroristiche in territorio ostile) e con le dovute proporzioni di popolazione, si scopre che i poliziotti americani, negli ultimi 7 anni, hanno ucciso molte più persone, delle quali ben poche erano terroristi ben armati che avevano ucciso civili innocenti. Ma nessuno nello staff presidenziale si è mai sognato di “suggerire” al Dipartimento per la Sicurezza di cambiare le regole d’ingaggio della polizia americana. A questo bisogna aggiungere che il Dipartimento di Stato non ha mai chiesto ad Abu Mazen di cessare l’incitamento all’odio anti ebraico che è alla base del terrorismo o di intervenire per disarmare le organizzazioni terroristiche che di fatto controllano ampie zone di territorio in teoria amministrato dall’AP, come ha ampiamente dimostrato il caso di Jenin. Al massimo il Dipartimento di Stato si è sempre espresso condannando le morti di entrambe le parti così da instillare l’equiparazione dei morti civili causati dai terroristi con la morte dei terroristi stessi o di civili coinvolti accidentalmente negli scontri a fuoco, criterio mai utilizzato con altri Stati che non fossero Israele.

Queste continue ingerenze americane hanno senza dubbio portato ad un alleggerimento delle disposizioni difensive che sono la causa della morte di alcuni militari e poliziotti di frontiera nel corso del 2022. Oltre a questi gravi effetti, bisogna anche sottolineare le conseguenze politiche di tali ingerenze. Con quale altro paese alleato o amico, sotto molteplici attacchi terroristici, gli USA si sono sentiti in dovere di sindacare le regole d’ingaggio per difendere la propria popolazione civile? Mai con nessuno. Questa amministrazione – sulla falsa riga di quella Obama – ha la pretesa che Israele segua dei principi imposti che non sono richiesti a nessun altro, di nuovo, un doppio standard che rientra tranquillamente tra le definizioni di antisemitismo approvate dall’IHRA.

Chiusura di ONG colluse con il terrorismo

Un altro capitolo della campagna di delegittimazione di Israele orchestrata dall’Amministrazione Biden, è quello relativo a 7 ONG palestinesi colluse con gruppi terroristici come il Fronte Popolare di Liberazione Palestinese. In merito alla decisione presa dal ministro della difesa Benny Ganz (certo non un “estremista”), si può osservare che tale atto è stato deciso dopo anni di indagini e una enorme raccolta di prove che sono state condivise con gli stessi americani.

Presso lo stesso Congresso americano nel lontano 1993, si era tenuta una audizione per fare chiarezza se organizzazioni benefiche americane fornissero fondi a organizzazioni palestinesi collegate con il terrorismo. Già allora era emerso che due delle ONG chiuse da Israele la scorsa estate (la Union of Agricultural Work Committees e la Union of Palestinian Women’s Committees) erano implicate con il terrorismo palestinese. Al direttore di un’altra ONG chiusa, la Al-Haq, è stato negato l’ingresso in Giordania da diversi anni per collusione con il terrorismo. Sempre a questa ONG, Visa, Mastercard e American Express hanno negato transazioni sotto forma di donazioni sempre perché colluse con il terrorismo.

In merito alle restanti 4 ONG (Addameer, Bisan Center for Research and Discovery, Defense for Children International-Palestine, Samidoun Palestinian Prisoner Solidarity Network) ci sono abbondanti prove di collusione con il terrorismo. Ma l’unica preoccupazione nei loro confronti che ha riguardato il Dipartimento di Stato americano è stata in merito alla loro chiusura, interpretata dall’Amministrazione Biden come un attacco alla libertà e ai diritti civili dei palestinesi.

Viste le tante prove raccolte da vari enti americani nel corso degli anni, anche in questo caso è evidente che l’unico intento, dell’amministrazione in carica è quello di delegittimare una doverosa azione di sicurezza del governo israeliano. Qualsiasi cosa faccia un governo di Israele, anche il più “progressista” degli ultimi decenni, per l’Amministrazione Biden, sulla falsariga dell’Amministrazione Obama, si tratta a priori di un attacco alla libertà, ai diritti civili e alla pacifica convivenza.





Nelle università americane, fucina dei leader di domani, la lotta contro gli ebrei è arrivata a un grado altissimo di virulenza

di Paolo Salom
2 novembre 2022

https://www.facebook.com/ugo.volli/post ... 7128633776

Qualcuno potrà pensare (e magari giustamente) che io mi ripeta. Tuttavia, trovo che il grado di irrealtà diffusa nel lontano Occidente sia a un punto tale da meritare di essere raccontata: ancora una volta. Mi riferisco, naturalmente, alle prese di posizione anti-israeliane dei cosiddetti benpensanti (e auto nominati “difensori degli oppressi”) che evitano accuratamente di condannare con la stessa sicumera le azioni, queste sì irresponsabili e terroristiche, della Russia in Ucraina. Tanto per intenderci: Tsahal entra nel Territori amministrati dall’Anp per inseguire e arrestare i responsabili di sanguinosi attacchi in Israele (il più delle volte contro civili inermi), ne segue una sparatoria con miliziani di questa o quella fazione, e l’onere di eventuali morti e feriti tra i combattenti arabi, ovviamente, viene gettato tutto contro lo Stato ebraico.
Io davvero non riesco a capire come questi personaggi riescano a vedere il mondo così, suddiviso in compartimenti stagni che rimangono serrati e non comunicanti: alcuni sono famosi, vedi l’ex Pink Floyd Roger Waters o la modella Gigi Hadid e ancora attori di Hollywood come Susan Sarandon o Mark Ruffalo; altri meno ma non pochi, ahimè, sono ebrei.
Cambiamo scenario: non si sono accorti, ancora, questi signori della natura spietata della guerra in Ucraina? Quel Paese dell’Est Europa (non all’altro capo del mondo) è praticamente raso al suolo. Mesi di incessanti bombardamenti da parte dell’Armata russa. Missili e altri ordigni lanciati consapevolmente (ovvero: di proposito) contro obiettivi civili: palazzi, scuole, ospedali. E tutto quello che riesce a emergere dalle bocche dei soliti censori non è: “Putin sei un terrorista, fermati!”. Piuttosto: “Chi lo dice al presidente ucraino Zelensky che è ora di trattare la pace?”.
Ecco: queste stesse anime belle del lontano Occidente – e qui bisogna riconoscer loro una certa coerenza – sono ovviamente in prima linea quando si tratta di condannare i “crimini e l’apartheid dei sionisti”. Qualche esempio? Quando in uno scontro a fuoco muore un terrorista armato, ecco gridare all’“assassinio di un adolescente palestinese”. Quando da Gaza arrivano razzi a decine, silenzio. Quando Israele risponde, facendo attenzione a colpire soltanto i combattenti, strepiti di “genocidio”. O quando invece un giovane arabo di Hebron, che ha trovato rifugio e asilo a Tel Aviv perché gay, viene rapito e brutalmente ucciso dai suoi compatrioti, il silenzio è assordante.
Non funziona così. Il mondo è uno solo e non è accettabile questa assoluta ipocrisia. E non dovremmo essere noi a dirlo. Già, perché la verità dei fatti, quando esce dalla bocca (o dalla penna) di un ebreo, conta poco a dispetto di chi afferma che i media occidentali sono “controllati dai sionisti”.
Insomma, siamo alle solite. La campagna d’odio contro l’unico Stato ebraico rinato miracolosamente dopo duemila anni di esilio è incessante, scientifica, ricca di risorse (provate a riflettere: quanti megafoni antisemiti sono pagati per il loro “lavoro”?). Nelle università americane, fucina dei leader di domani, la lotta contro gli ebrei sembra arrivata a un grado di virulenza che avrebbe fatto sorridere Hitler. Non è una novità: quando ho frequentato l’ateneo di Venezia, qualche decennio fa, l’attivismo anti-israeliano degli studenti arabi era formidabile. Ora, qualcuno ha capito che la chiave della lotta contro lo Stato ebraico (che ovviamente “va distrutto”, nessuno pensa a un futuro di coesistenza in questi ambienti) è oltre oceano più che in Europa. E sta ripetendo la stessa macchina del fango.
Sta noi dunque resistere e continuare, senza mai stancarci, a denunciare la follia dell’odio antisemita.
(Bet Magazine Mosaico, 2 novembre 2022)



Come gli americani e gli europei incoraggiano il terrorismo palestinese
Bassam Tawil
(*) Tratto dal Gatestone Institute – Traduzione a cura di Angelita La Spada
3 novembre 2022

https://www.facebook.com/progettodreyfu ... 6793059303
https://www.opinione.it/esteri/2022/11/ ... bas-biden/

Lions’ Den è un nuovo gruppo terroristico stanziato nella città cisgiordana di Nablus, controllata dall’Autorità Palestinese (Ap). Il gruppo è composto da decine di uomini armati affiliati a un certo numero di fazioni palestinesi, tra cui Hamas, la Jihad islamica palestinese e il partito al governo Fatah guidato dal presidente dell’Ap, Mahmoud Abbas.

L’Autorità Palestinese, che conta centinaia di agenti di sicurezza a Nablus, non ha adottato alcuna misura per tenere a freno i terroristi di Lions’ Den, i quali nelle ultime settimane hanno rivendicato una serie di attacchi sferrati nell’area di Nablus contro soldati e civili israeliani.

Invece di assumersi la responsabilità di fermare gli attacchi terroristici nelle aree sotto il loro controllo, i palestinesi continuano a violare gli accordi che hanno firmato con Israele.

L’articolo XV dell’accordo ad interim (o provvisorio) israelo-palestinese sulla Cisgiordania e la Striscia di Gaza del 1995 afferma: “Entrambe le parti prenderanno tutte le misure necessarie per prevenire atti di terrorismo, criminalità e di ostilità perpetrate reciprocamente, contro individui che ricadono sotto l’autorità dell’altra parte e contro la loro proprietà, e adottano misure legali nei confronti dei trasgressori”.

L’articolo XIV stabilisce che: “Ad eccezione della polizia palestinese e delle forze militari israeliane, nessun’altra forza armata deve essere istituita né deve operare in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Fatta eccezione per le armi, le munizioni e l’equipaggiamento della polizia palestinese e quelli delle forze militari israeliane, nessuna organizzazione, gruppo o individuo in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza deve produrre, vendere, acquisire, possedere, importare né in altro modo introdurre in Cisgiordania o nella Striscia di Gaza armi da fuoco, munizioni, armi, esplosivi, polvere da sparo o qualsiasi attrezzatura connessa”.

La realtà dei fatti, tuttavia, mostra che l’Autorità Palestinese non ha rispettato i suoi accordi con Israele.

Nella Striscia di Gaza, l’Ap non ha adottato misure concrete per impedire ad Hamas di costruire una massiccia infrastruttura terroristica. Hamas in seguito ha utilizzato il suo arsenale di armi non solo per attaccare Israele, ma anche per rovesciare il regime dell’Autorità Palestinese e prendere il pieno controllo della Striscia di Gaza.

Lo stesso scenario si ripete ora in Cisgiordania, in particolare nelle aree controllate dalle forze di sicurezza di Mahmoud Abbas.

Dall’inizio dell’anno, numerosi gruppi terroristici, tra cui Lions’ Den, sono emersi in queste zone sotto il naso di Abbas, il quale sembra riluttante o incapace di costringere le sue forze di sicurezza a dare la caccia ai terroristi. Questa, ovviamente, è una chiara violazione degli obblighi dei palestinesi previsti dagli accordi firmati con Israele.

Anziché cercare di contenere i terroristi, Abbas e l’Autorità Palestinese condannano Israele per averli arrestati o uccisi. Invece di esortare i gruppi armati a fermare i loro tentativi quotidiani di uccidere gli israeliani, i leader palestinesi continuano a glorificare gli uomini armati definendoli “eroi” e “martiri”.

Quando le forze di sicurezza israeliane hanno finalmente raggiunto e ucciso alcuni membri del gruppo Lions’ Den, a Nablus, il portavoce di Abbas, Nabil Abu Rudaineh, ha accusato Israele di aver commesso un “crimine di guerra” contro i palestinesi. Questa è la logica contorta della leadership palestinese: invece di denunciare i terroristi per aver preso di mira gli israeliani, come si sono ufficialmente e ripetutamente impegnati a fare, si scagliano contro Israele per essersi difeso dall’attuale ondata di terrorismo.

Mahmoud Habbash, consigliere per gli Affari religiosi di Abbas, ha definito l’uccisione dei terroristi a Nablus un “efferato massacro”. Habbash è andato oltre, appoggiando attivamente gli attacchi terroristici contro Israele e affermando che i terroristi hanno il diritto di “resistere” a Israele. È opportuno notare che anche i terroristi definiscono i loro attacchi contro gli israeliani una forma di “resistenza”.

Quando un alto funzionario palestinese come Habbash afferma che i terroristi hanno il diritto di condurre attacchi finalizzati alla “resistenza”, in realtà, sta dicendo loro di continuare a prendere di mira gli israeliani. Tali dichiarazioni non sono soltanto una violazione degli accordi firmati dai palestinesi con Israele, ma anche un ordine di lanciare ulteriori attacchi terroristici contro gli israeliani.

Un giorno prima che le forze di sicurezza israeliane facessero irruzione in una base appartenente al gruppo Lions’ Den, a Nablus, e uccidessero uno dei suoi comandanti, il ministro della Salute dell’Ap, Mai al-Kaila, ha apertamente elogiato i terroristi. Durante una visita a Nablus, al-Kaila ha dichiarato: “Rendiamo onore e stimiamo Lions’ Den e le famiglie dei martiri”.

Per “martiri” s’intendono i terroristi uccisi dalle forze di sicurezza israeliane dopo aver compiuto attacchi terroristici contro gli israeliani. I commenti del ministro rendono tristemente chiaro che la leadership palestinese sostiene e glorifica qualsiasi palestinese che abbia trasportato armi e abbia deciso di uccidere israeliani.

La leadership palestinese, in una politica denominata “pagare per uccidere”, fornisce già stipendi mensili ai terroristi palestinesi imprigionati da Israele e alle famiglie dei terroristi che sono stati uccisi durante gli attacchi. Presumibilmente anche le famiglie dei terroristi di Nablus beneficeranno di queste erogazioni.

Anche la fazione Fatah di Abbas continua a elargire elogi ai terroristi. Monir al-Jaghoub, un alto dirigente di Fatah in Cisgiordania, ha encomiato Uday Tamimi, un terrorista che ha ucciso a colpi di arma da fuoco una donna soldato israeliana a Gerusalemme all’inizio di ottobre.

Un altro dirigente di punta di Fatah, Abbas Zaki, ha coperto di lodi il gruppo Lions’ Den: “Ognuno di noi è un [membro di] Lions’ Den. Ognuno di noi è un [membro delle] Brigate dei Martiri di al-Aqsa [l’ala armata di Fatah]”.

Evidentemente, la leadership palestinese non ha problemi con i suoi fedelissimi di Fatah che effettuano attacchi terroristici contro Israele. Le Brigate dei Martiri di al-Aqsa, che hanno approvato alcuni dei terroristi di Lions’ Den come propri combattenti, appartengono alla fazione guidata da Mahmoud Abbas.

L’approvazione e l’esaltazione del terrorismo da parte della leadership palestinese non sorprende. Ciò che invece sorprende, ed è profondamente sconcertante, è che quei governi stranieri che forniscono aiuti finanziari e politici all’Autorità Palestinese, soprattutto gli americani e gli europei, non richiamino Abbas e la leadership palestinese per il loro sostegno pubblico al terrorismo e per la continua violazione degli accordi che hanno firmato volontariamente con Israele.

“Non ricorreremo alle armi e nemmeno alla violenza”, ha dichiarato Abbas nel suo ultimo discorso davanti all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, “non ricorreremo al terrorismo, lo combatteremo”. Le sue parole erano dirette alla comunità internazionale, non al suo stesso popolo. Dopo il suo discorso, i palestinesi che vivono nelle aree controllate dalle forze di sicurezza di Abbas hanno compiuto decine di attacchi terroristici contro gli israeliani.

Il silenzio degli americani e degli europei riguardo alle azioni e alla retorica dei leader palestinesi equivale ad autorizzare Lion’s Den ed altri terroristi a continuare a lanciare i loro attacchi terroristici.

Se l’amministrazione Biden e gli europei credono che Abbas o qualsiasi altro leader palestinese impedirà a un terrorista di uccidere gli ebrei, si illudono in modo sconcertante.


Alberto Pento
Non gli americani e gli europei ma una loro parte finora politicamente egemone, antisemita/antisraeliana e filo nazimaomettana, perlopiù sinistrata, atea e politicamente corretta.



Definizione IHRA antisemitismo, funzionario Onu propone la sospensione
Redazione
2 novembre 2022

https://www.facebook.com/progettodreyfu ... 6880862961
https://www.progettodreyfus.com/ihra-an ... spensione/

La divisione e inclusività sono termini che hanno una loro precisa natura, troppo spesso disattesa da chi in realtà vuole nascondere qualcosa.

Come nel caso del relatore speciale delle Nazioni Unite sul razzismo E. Tendayi Achiume, che ha proposto la sospensione della definizione operativa di antisemitismo dell’International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA) durante i lavori della relazione annuale al Terzo Comitato dell’Assemblea Generale, facendo leva proprio sui due termini.

Achiume ha presentato un rapporto in merito ai crescenti pericoli dell’antisemitismo, del neonazismo e del razzismo:

“Sottolineo lo stato controverso, gli effetti divisivi e gli impatti negativi sui diritti umani della definizione di lavoro dell’IHRA sull’antisemitismo, che rimane una questione urgente di preoccupazione per i diritti umani, esorto il sistema delle Nazioni Unite e gli Stati membri ad avviare un processo aperto e inclusivo”.

Pronta e immediata la replica dell’ambasciatore israeliano alle Nazioni Unite Gilad Erdan:

“Definire l’antisemitismo è il primo passo necessario per combatterlo, rifiutare la definizione IHRA è spesso un atteggiamento usato da coloro che difendono chi prende di mira le comunità ebraiche o che fanno atti antisemiti”.

E in merito ad Achiume ha affermato:

“Sta superando la sua autorità e promuovendo un’agenda politica che non ha posto nella discussione sulla lotta al razzismo, e la sua posizione sta aiutando gli antisemiti”.

Critiche alla proposta sono arrivate anche dall’Italia che ha respinto quanto sostenuto da Achiume. La professoressa Milena Santerini, già Coordinatrice nazionale per la lotta contro l’antisemitismo durante i governi Conte e Draghi, è intervenuta sulla vicenda:

“L’Italia non condivide l’opinione secondo cui l’adozione e la promozione della definizione operativa di antisemitismo dell’Alleanza internazionale per la memoria dell’Olocausto debba essere sospesa. Piuttosto, vorremmo sottolineare il valore della definizione operativa di antisemitismo dell’IHRA nella costruzione di una definizione comune e nel fornire un utile strumento di orientamento, a partire dalle attività di istruzione e formazione”.

Divisione e inclusività sono termini che vanno utilizzati con estrema precisione, senza distorcerli come ha fatto la funzionaria E. Tendayi Achiume proponendo sospensione di antisemitismo dell’IHRA.



A New York la comunità ebraica ha paura
In tutto il paese gli episodi di violenza sono stati 2.717, con un aumento del 34% rispetto al 2020
Gianna Pontecorboli
28 novembre 2022

https://morasha.it/a-new-york-la-comuni ... -ha-paura/

In un paese che ha visto moltiplicarsi recentemente gli episodi di antisemitismo anche violento, solo nel 2021 vi sono stati 2,717 incidenti, con un aumento del 34 per cento rispetto al 2020, la storia merita però di essere raccontata. E i dettagli che stanno lentamente emergendo a due giorni di distanza dall’episodio e che lunedì sono stati confermati durante una conferenza stampa a New York, dimostrano quanto sia urgente. Quando, sabato mattina, gli agenti di sicurezza della metropolitana newyorkese hanno fermato Christopher Brown, 21 anni, di Aquebogue, New York, e Matthew Maher, 22 anni, di Manhattan, pochi dei passeggeri che affollavano la Penn Station di New York hanno probabilmente notato l’episodio.

Secondo quanto hanno raccontato alla CNN alcune fonti della polizia, in realtà, l’allarme era cominciato già venerdì, quando erano apparsi su Twitter alcuni post minacciosi che gli agenti avevano fatto risalire alla clinica veterinaria in cui lavorava uno dei giovani. ”Vado a chiedere a un prete se posso sposarmi o sparare a una sinagoga e morire” diceva uno dei messaggi.

Messi in allerta, gli agenti della Joint Terrorism Task Force dell’FBI e quelli della Polizia di New York si erano subito impegnati in quello che hanno descritto come ”un frenetico lavoro” per individuare l’autore del post e nel giro di poche ore avevano individuato i due giovani sospetti. Le loro foto e una descrizione erano stati trasmessi a migliaia di agenti di polizia e alle guardie di sicurezza della metropolitana. Poco dopo, alcuni poliziotti e agenti dell’FBI avevano fatto irruzione nella abitazione di un loro amico sulla 94esima strada, dove i due sospetti si erano fermati per lasciare un sacco da montagna prima di avviarsi verso la Penn Station.

Quando gli agenti Ryan Fackner e Connor Conasurdo, che hanno raccontato la loro esperienza durante la conferenza stampa, li hanno poi fermati all’ingresso della stazione, i due giovani avevano un’arma semiautomatica illegale, un lungo coltello e altro materiale sospetto. Dopo l’arresto, i due giovani sono stati incriminati per il possesso delle armi. A Christopher Brown, che è stato incriminato anche per minacce terroristiche, e’ stata negata la possibilità di ottenere la libertà provvisoria su cauzione, mentre Matthew Mahrer l’ha ottenuta.

”Secondo l’accusa, i due arrestati possedevano armi da fuoco, munizioni, un coltello militare, una svastica, una maschera da sci, un giubbotto antiproiettile e altre cose’ – ha spiegato il procuratore generale di Manhattan Alvin Bragg – è stata evitata una potenziale tragedia, considerato il fatto che i post indicavano la loro intenzione di usare quelle armi in una sinagoga di New York”.

Adesso, per tutti è arrivato il momento di un’amara riflessione. Durante la conferenza stampa, il rappresentante dell’FBI di New York Mike Driscoll ha dichiarato lunedì che una decisione sulla possibile incriminazione federale dei due arrestati non è ancora stata presa ma potrebbe essere possibile e che le indagini continuano.” Non ci sono pericoli immediati per la comunità ebraica newyorkese, ha garantito.

”Grazie al nostro sforzo collettivo siamo stati in grado di scoprire, indagare e soprattutto fermare una minaccia alla nostra comunità ebraica”, ha dichiarato durante l’incontro con la stampa la responsabile della polizia newyorkese Keechant Sewell.

“Questa non era una vaga minaccia” le ha fatto però eco il sindaco di New York, Eric Adams,” Era una banda armata nazista a New York nel 2022. Pensateci un momento”. ”C’e’ una nuvola scura sulla nostra nazione”, ha poi aggiunto prima di chiedere un’azione più forte per fermare il terrorismo domestico e una maggiore vigilanza alla vigilia della stagione delle feste. Per questa volta, insomma, è andata bene, ma la spirale dell’odio potrebbe colpire anche quella Grande Mela che sembrava fino a ieri al riparo.

https://lavocedinewyork.com/new-york/20 ... -ha-paura/



Antisemitismo a New York, 63 ebreo aggredito a Central Park
Redazione
20 dicembre 2022

https://www.progettodreyfus.com/antisem ... gressione/


Antisemitismo a New York, Stati Uniti. Nella città e nel paese che la pubblicistica vuole essere un porto sicuro per gli ebrei, la polizia ha registrato nel solo mese di novembre 45 episodi antisemiti contro i 20 del novembre 2021.

Il dato fornito dalla polizia di New York non pare migliorare nel mese in corso. Un ebreo di 63 anni, infatti, è stato aggredito al Central Park la settimana scorsa da un uomo, che l’ha colpito alle spalle, facendolo cadere a terra.

Fortuna vuole che la vittima abbia riportato solo una mano rotta e un dente scheggiato. Ma la paura è stata tanta. Perché a tendergli un’imboscata è stato un 40enne che gli urlato insulti antisemiti ed è scappato su una bicicletta con un rimorchio, con un cartello attaccato con la scritta “Hungry Disabled”.

Un uomo comune, che secondo la polizia avrebbe inveito contro la sua vittima urlando “Kanye 2024”, riferendosi a Kanye West, noto rapper bandito dai social dopo diversi post antisemiti.

Scott Richman, direttore regionale dell’Anti-Defamation League di New York/New Jersey è intervenuto sulla vicenda e alla CNN ha detto:

“Crimini come questi hanno un effetto a catena nelle comunità e causano traumi unici oltre a danni fisici. Quando personaggi pubblici con enormi piattaforme alimentano le fiamme dell’antisemitismo, le persone lo copieranno e inizieranno a pensare che sia normale”.

Il consigliere Eric Dinowitz, presidente del Jewish Caucus del consiglio comunale, sempre alla CNN non poteva che rilasciare dichiarazione in scia a quelle di Richman:

“Sono profondamente turbato da questo vile, ma prevedibile attacco antisemita a Central Park. Gli attacchi antiebraici stanno aumentando a un ritmo allarmante, alimentati da una retorica odiosa e da un’ostinata ignoranza. Questi attacchi contro i newyorkesi ebrei non sono incidenti isolati, ma uno schema di attacchi contro un intero popolo”.

Antisemitismo a New York, Stati Uniti. Un uomo è stato aggredito perché ebreo. È stato aggredito da un uomo normale, perché l’Odio Antiebraico ha tratti comuni, non ha le fattezze dell’Orco.

Perché l’Odio Antiebraico non arriva da Marte, arriva da chi è vicino a noi.


Israele e Medio Oriente
La posta in gioco intorno al consolato americano a Gerusalemme
David Elber
15 Ottobre 2021

http://www.linformale.eu/la-posta-in-gi ... rusalemme/

Da quando si è insediata l’amministrazione Biden si è assistito ad un crescendo di azioni politiche tese a minare le importanti conquiste politiche e diplomatiche che lo Stato ebraico è riuscito ad ottenere con l’amministrazione Trump. Di questi risultati ne abbiamo parlato in diversi interventi su L’Informale (http://www.linformale.eu/il-piano-trump ... dei-fatti/).

Qui si vuole mettere in rilievo un nuovo e pericoloso attacco alla legittima sovranità israeliana su Gerusalemme proveniente dall’amministrazione Biden: la pressante richiesta di riapertura del consolato americano a Gerusalemme.

La pressione politica americana su questo tema è stata condotta sia dal Segretario di Stato Antony Blinken sia da Joe Biden in persona durante l’incontro che ha avuto con il premier israeliano Naftali Bennett lo scorso agosto.

Si tratta di una pressione infida e pericolosa allo stesso tempo.

Infida perché sta avvenendo più dietro le quinte piuttosto che in maniera aperta e con motivazioni del tutto pretestuose e false dal punto di vista storico, diplomatico e giuridico.

Per prima cosa Joe Biden e il suo Segretario di Stato, da quando hanno iniziato a premere per la riapertura del consolato, hanno addotto come motivazione che essa facesse parte del programma elettorale del Presidente, cosa del tutto falsa visto che la riapertura del Consolato americano a Gerusalemme non compare in nessun documento ufficiale, né in quelli della presidenza né in quelli del partito democratico prima della vittoria alle elezioni nello scorso novembre.

Si tratta semplicemente da parte dell’amministrazione Biden del tetativo di cercare di accattivarsi le simpatie dei palestinesi i quali non hanno alcuna intenzione di sedersi attorno ad un tavolo negoziale (prassi che dura da oltre un decennio) per trovare un qualsiasi accordo con Israele. Si tratta, in pratica, dell’ennesimo “regalo” che l’amministrazione democratica vuol fare ad Abu Mazen per neutralizzare una legge dello Stato (the Jerusalem Embassy Act approvato al Congresso nel lontano 1995 sotto la presidenza Clinton) che il Presidente Trump ha solamente resa effettiva dopo oltre ben due decenni di procastinazioni immotivate. Joe Biden e la sua squadra l’hanno bollata come una iniziativa “sbilanciata” di Trump a favore di Israele “dimenticando” completamente che essa non è stata una sua iniziativa ma quella di tutto il Congresso degli Stati Uniti e quindi del popolo americano.

Similmente, l’amministrazione Biden sta facendo di tutto per neutralizzare un’altra legge, il Taylor Force Act, la quale proibisce espressamente il finanziamento di organizzazioni o amministrazioni implicate direttamente o indirettamente nell’uccisione di cittadini americani, cioè quello che da decenni fa impunemente l’ANP di Abu Mazen. Lo stesso discorso lo si può fare con la ripresa dei lauti finanziamenti americani all’UNWRA i cui testi scolatici sono palesemente di stampo antisemita.

E’ opportuno fare luce sulla motivazione ufficiale addotta da Biden e dalla sua squadra per la richiesta di riapertura del consolato a Gerusalemme: “il consolato USA a Gerusalemme c’è sempre stato dal 1844”. Si palesa già, in questa affermazione, tutta la malafede di questa amministrazione, che non ha il coraggio di dichiarare la vera motivazione politica di tale richiesta e si trincera dietro una interpretazione storica parziale e obsoleta.

L’affermazione che “il consolato USA a Gerusalemme c’è sempre stato dal 1844” non tiene conto che la situazione di Gerusalemme del 2021 è ben diversa da quella del 1844 o anche dei decenni scorsi, per il motivo evidente che, fino al 2018, l’ambasciata USA non era a Gerusalemme. E non esiste un solo caso al mondo che vede un’ambasciata e un consolato dello stesso paese situati nella stessa città. Questo è già sufficiente per comprendere l’infondatezza di questa affermazione. Se poi ci soffermiamo sullo specifico della città di Gerusalemme, si può osservare che quando il consolato USA fu aperto nel 1844 l’ambasciata americana era a Costantinopoli (Istanbul) e Gerusalemme faceva parte dell’Impero ottomano, quindi il consolato aveva un senso diplomatico e legale ben disciplinato. Con l’indipendenza di Israele nel 1948 la città di Gerusalemme fu divisa in due a causa dell’occupazione illegale della sua parte est ad opera dei giordani. Gli americani mantennero aperto il consolato perché decisero di aprire l’ambasciata accreditata in Israele a Tel Aviv, questo per decisione politica e non legale, mentre l’ambasciata in Giordania era ad Amman. Quindi, la decisione di mantenere il consolato a Gerusalemme aveva una sua logica e una labile parvenza di legalità. Ma ora, nel 2021, dopo che nel 2018 la precedente amministrazione ha spostato l’ambasciata a Gerusalemme (riconoscendola implicitamente come capitale di Israele) e contestualmente chiuso il consolato per ovvie ragioni diplomatiche e di diritto internazionale, non c’è nessuna ragione plausibile per riaprirlo. A meno che, non vi siano delle ragioni politiche e non legali dietro questa intenzione. Ragioni tanto semplici quanto pericolose: riaprendo il consolato – che serve unicamente come mezzo diplomatico e amministrativo per l’Autorità Nazionale Palestinese – l’amministrazione Biden vuole creare de facto una ambasciata di un ipotetico e futuro Stato palestinese a Gerusalemme. E questo in spregio al diritto internazionale e agli stessi accordi di Oslo sottoscritti e vincolanti per gli USA, creando dunque sul terreno uno stato di fatto che non sarebbe più necessario negoziare tra le parti.

Una ulteriore riprova di quanto siano prive di fondamento le giustificazioni americane per non ammettere la valenza di questo tentativo truffaldino-diplomatico è che già altri paesi hanno delle rappresentanze consolari per i palestinesi a Ramallah o a Abu Dis (nella periferia di Gerusalemme). Quindi, se la ragione fosse solo quella di migliorare l’efficienza amministrativa verso i palestinesi il consolato potrebbe essere aperto in una delle due località. Si staglia chiara la ragione esclusivamente politica di questa iniziativa.

Come già evidenziato, questa mossa non ha alcun fondamento nel diritto internazionale ed è addirittura in contrasto con la legge americana (the Jerusalem Embassy Act diventata esecutiva nel 2018 per volontà di Trump). Come possono allora Biden e la sua squadra bypassare questi ostacoli legali? Semplice, facendo forti pressioni sul governo d’Israele affinché sia quest’ultimo a dare il suo nulla osta all’operazione e una volta ottenuta la disponibilità del governo israeliano non ci sono più ostacoli legali che possono contrastare la riapertura del consolato.

L’unica speranza, per poter contrastare questa rovinosa decisione, rimane nella risolutezza del governo Bennett di non volere commettere un suicidio politico dalle conseguenze irreparabili.


Il doppio standard dell'Amministrazione Biden nei confronti di Israele, parte seconda
David Elber
22 Dicembre 2022

http://www.linformale.eu/il-doppio-stan ... -parte-ii/

La questione della riapertura del consolato americano a Gerusalemme è uno dei cavalli di battaglia dell’Amministrazione Biden. Abbiamo già scritto qui su L’Informale della questione in maniera approfondita (http://www.linformale.eu/la-posta-in-gi ... rusalemme/) . Qui possiamo solo ribadire che anche nel 2022 la sua riapertura è ancora in agenda. Soprattutto il Segretario di Stato Blinken, in più di una circostanza ha voluto precisare che l’amministrazione Biden vede come necessaria la sua riapertura per migliorare le relazioni con i palestinesi.

Per circa un anno e mezzo (il tempo della durata del governo Bennet/Lapid) la questione è stata congelata in modo da non mettere in crisi il governo di centro-sinistra. Ma ora che le ultime elezioni hanno ridato la maggioranza al centro-destra di Netanyahu non ci sono più ostacoli per riproporre questa operazione illegale di delegittimazione della sovranità israeliana sulla città. Si tratta di una operazione politica che si configura come una delle più meschine e dannose ai danni di Israele, considerato a parole come alleato, ma nei fatti trattato come uno Stato canaglia.

In attesa di lanciare una nuova offensiva politico-diplomatica ai danni dello Stato ebraico finalizzata alla riapertura del consolato, il duo Biden/Blinken ha nominato Hady Amr alla carica di “Special Representative for Palestinian Affairs”. Va precisato che questa carica non è mai esistita in precedenza ma è stata costruita su misura dal Dipartimento di Stato per inserirla nell’ambasciata di Gerusalemme in attesa della riapertura del consolato. Al momento presso l’ambasciata, ci sono: un ambasciatore (Tom Nides) e un console “ombra” per i palestinesi (Hady Amr) cosa che non ha precedenti nella diplomazia mondiale. E’ chiaro che un consolato americano a Gerusalemme per i palestinesi avrebbe la funzione di una vera e propria ambasciata e sarebbe solo questione di tempo (una futura amministrazione democratica?) per far si che lo diventi a tutti gli effetti. A questo punto si potrebbe anche cessare la pantomima delle trattative di pace visto che un po’ alla volta tutte le richieste palestinesi si stanno realizzando nei fatti.

Una menzione a parte la merita la figura di Hady Amr scelto per ricoprire il ruolo di console.

Andando a leggere il suo curriculum vitae si è portati subito a pensare che sia la “persona giusta al posto giusto”. Nel 2002 fu coordinatore nazionale presso il Middle East Justice Network, organizzazione americana che si è distinta unicamente per le sue posizioni anti israeliane. Il suo esordio come coordinatore è ben descritto dalle sue stesse parole: “Sono stato ispirato dall’intifada palestinese”. Negli anni successivi, assieme al suo amico Maher Bitar (altra figura di rilievo dell’amministrazione Biden: è responsabile delle informazioni di intelligence e sicurezza nazionale) si distingue per il sua attivismo anti israeliano lanciando accuse allo Stato ebraico di praticare l’apartheid, la pulizia etnica e la sistematica discriminazione dei palestinesi in ogni forum nazionale e internazionale. Fino al 2006 si divide tra il suo attivismo e varie cariche nel partito democratico, fino a quando le sue competenze lo portano a diventare il direttore del Brookings Doha Center, istituto completamente finanziato dal Qatar per gli studi sul Medio Oriente. Rivestirà la carica fino al 2010 quando inizierà a lavorare come consulente del Dipartimento di Stato con Barak Obama e consigliere di Biden. Tra il 2017 e il 2021, durante la presidenza Trump, ritornerà al Brookings Doha Center prima di essere richiamato al Dipartimento di Stato dal duo Biden/Blinken. Sicuramente le sue credenziali lo rendono il più appropriato “ambasciatore” in pectore per i palestinesi.

Accordo con il Libano per la suddivisione dell’EEZ

Come ultimo punto della disamina dell’operato dell’Amministrazione Biden relativamente al dossier Israele non può mancare l’accordo imposto allo Stato ebraici relativamente alla suddivisione della zona economica esclusiva con il Libano. Questo accordo salutato da molti come “storico”, nei fatti è una vera e propria capitolazione di Israele nei confronti del Libano sotto fortissima pressione americana interessata unicamente a portare a casa un trofeo diplomatico da esibire.

Molto sinteticamente si possono ricordare i passaggi principali della disputa sulla zona economica esclusiva.

Il tutto inizia nel 2007 quando il Libano e Cipro siglano un accordo sulle rispettive zone economiche esclusive. L’accordo in questione prevedeva come confine sud la così detta “linea 1” (si veda la cartina).

Nel 2010 Israele e Cipro a loro volta firmano un accordo analogo mantenendo la linea 1 come confine nord per la loro linea di separazione delle rispettive EEZ. Questo accordo viene depositato all’ONU che lo ratifica nel 2011. A questo punto il Libano protesta e non accetta più la linea 1 come suo confine sud. La linea che andava bene con Cipro non va più bene con Israele. Il Libano inizia così un contenzioso con Israele, sostenendo che il confine marittimo della sua EEZ è molto più a sud e precisamente la linea 23. La disputa, per molti anni, non fa progressi e le trattative si fermano. Nel frattempo Israele scopre un importante giacimento di gas chiamato Karish molto più a sud della linea 23. Nel 2017 delle esplorazioni condotte dal Libano portano alla scoperta di un giacimento, Qana, a ridosso della linea 23. Israele interviene perché parte del giacimento si trova poco più a sud della linea 23. L’amministrazione americana di Trump si offre come mediatore non essendoci relazioni diplomatiche tra i due paesi. Dopo anni di trattative sembra che un’intesa si possa trovare con un compromesso che prevede la spartizione del giacimento di Qana con il 55% al Libano e il 45% a Israele. Quando l’accordo sembra ormai raggiunto il Libano si tira in dietro, nel 2020, quando cambia l’amministrazione americana e alla presidenza viene eletto Biden. Nel 2021 il Libano sostiene che il confine sud del suo EEZ passa dalla linea 29 cioè molto più a sud di quanto aveva prima sostenuto con Cipro (linea 1) e poi nelle trattative con Israele (linea 23). Ora secondo il Libano tutto il giacimento Qana è di competenza libanese mentre il giacimento Karish che fino al 2020 non è mai stato in discussione appartiene per metà al Libano. Hezbollah inizia a minacciare Israele di attacchi militari sulle piattaforme di trivellazione se Israele non cede alla richieste libanesi. L’amministrazione Biden, tramite il suo rappresentante e mediatore Hochstein, si dichiara pronta a mediare. Ma fin da subito la “mediazione” americana si dimostra ben poco bilanciata: tutte le pressioni sono fatte esclusivamente sulla controparte israeliana. Alla fine il neo premier ad interim Lapid cede alla pressioni americane, nonostante il suo governo sia solo “facenti funzioni” e non pienamente legittimato dalla Knesset a poco più un mese dalle elezioni. Tutti (libanesi, israeliani e americani) gridano al risultato storico di questo accordo.

Ma proviamo, brevemente, a puntualizzare quello che faticosamente è emerso (c’è stato anche un tentativo del governo Lapid di tenere nascoste tutte le clausole). Per prima cosa va rimarcato che questo accordo non implica – come è stato evidenziato subito dai libanesi – il riconoscimento di Israele da parte del Libano: lo stato di belligeranza voluto dal Libano fin dal 1948 rimane in essere. Tanto è vero che le due controparti, per volontà libanese, non si sono mai incontrate nella stessa sala ma le reciproche richieste venivano riferite al “mediatore” americano che le riferiva poi alle parti. Va altresì notato che nell’accordo il nome Israele, nella versione in arabo per i libanesi, non compare mai per non “offendere” i libanesi. In pratica il Libano con questo accordo non riconosce Israele, né i suoi confini marittimi né terrestri, ma semplicemente “rinuncia” ad ogni pretesa sul giacimento Karish che non era mai stato in discussione nei dieci anni di trattative pre-Biden ma che all’ultimo minuto è stato inserito furbescamente assieme alle minacce di bombardamenti da parte di Hezbollah. Su questo punto è importante chiarire che l’accordo non è tra il Libano e Israele ma è tra gli USA e il Libano e tra gli USA e Israele. Il Libano non ha nessun obbligo verso Israele. Se per ipotesi il Libano dovesse rompere l’accordo e attaccare le istallazioni estrattive di Israele o rivendicare ulteriori zone EEZ a sud, dovrebbero essere gli USA ad intervenire contro il Libano secondo gli accordi. E’, francamente, pensabile che gli USA facciano la guerra al Libano per alcune miglia nautiche contese con Israele? E’ poco credibile. Dal punto di vista economico, il Libano, ha ottenuto tutto il giacimento conteso di Qana senza dover nulla ad Israele. Sarà Israele, eventualmente ad accordarsi sulle royalties con la società internazionale di estrazione che otterrà la licenza. Le royalties sono pattuite per un valore massimo del 15% del gas estratto. Ma una osservazione è doverosa farla: l’accordo non parla di una società specifica ma solamente di “società internazionale di estrazione non inserita nella lista di società sotto embargo internazionale.” La convinzione del governo Lapid è che sarà una società francese, americana o italiana a ottenere la licenza. Ma se il governo libanese sotto ricatto permanente di Hezbollah fosse costretto a cedere la licenza a una società qatariota o peggio iraniana? Sì, questo è possibile perché le società petrolifere iraniane NON sono sotto embargo internazionale ma solamente sotto embargo americano. Quindi si potrebbe verificare il caso in cui gli iraniani siano autorizzati a portare navi e attrezzature a pochi chilometri dalla costa israeliana. Infine se l’Iran o il Qatar decidessero di non pagare le royalties?

Sembra davvero un bel accordo, tanto è vero che il governo Lapid non voleva svelarne tutti i dettagli ma è stato costretto a farlo davanti alla Knesset. Un ultimo inquietante punto è doveroso rimarcarlo e riguarda esclusivamente la politica e soprattutto le regole del diritto in Israele.

Questo accordo (fatto con gli USA e non con il Libano come è stato dipinto dal governo Lapid), per come è stato condotto e approvato, ha inferto un duro colpo anche allo stato di diritto in Israele, per almeno due motivi. Il primo è che una legge fondamentale dello Stato di Israele sancisce che tutte le decisioni in merito al territorio nazionale devono essere prese con la maggioranza dei due terzi della Knesset oppure tramite l’approvazione con referendum nazionale. Il governo facente funzioni di Lapid (che è bene ribadire non ha i pieni poteri di un governo pienamente in carica) ha sostenuto che la EEZ non rientra in questo ambito. Su questo punto ha avuto l’appoggio del procuratore generale dello Stato, Gali Baharav-Miara. Poi il procuratore, viste le numerose proteste, si è tirato indietro e ha chiesto il parere della Corte Suprema che ha dato il via libera.

La decisione della Corte Suprema è del tutto sindacabile e sembra più un parere politico che dai contenuti legali, creando di fatto un precedente. Il secondo colpo allo stato di diritto è stato inferto anche nella procedura con la quale si è giunti all’accordo: infatti era prassi consolidata che un governo facente funzioni potesse esercitare solo le funzioni ordinarie ma non prendere decisioni importanti per lo Stato non rappresentando di fatto una maggioranza parlamentare. Un cosa simile era accaduta alcuni anni orsono per una decisione importante che il governo Netanyahu non ha potuto prendere proprio perché facente funzioni e in attesa di elezioni come quello attuale. In quel caso l’allora procuratore generale dello Stato, Avichai Mandelblit, diede parere negativo adducendo proprio il fatto che essendo solo un governo facente funzioni e non avendo i pieni poteri non aveva la legalità per prendere decisioni importanti per lo Stato. Ora il governo Lapid, che si trova nelle medesime condizioni dell’allora governo Netanyahu, ha avuto invece il nulla osta per firmare un accordo internazionale che senza ombra di dubbio è importante per lo Stato. A questo punto sorge il dubbio che per il procuratore o per la Corte Suprema non sia “la decisione importante” la discriminante per ammettere la legalità o meno di un atto ma è il governo che la propone ad esserlo. Questo precedente avrà certamente delle ripercussioni.

A conclusione degli esempi mostrati dell’operato dell’Amministrazione Biden nel 2022 verso Israele, si può affermate che esso è stato a dir poco problematico e siamo solo a metà del mandato.
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