L'Italia antisemita e antisraeliana

Re: L'Italia antisemita e antisraeliana

Messaggioda Berto » ven dic 17, 2021 9:47 am

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Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Berto
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Re: L'Italia antisemita e antisraeliana

Messaggioda Berto » ven dic 17, 2021 9:48 am

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Il terrorista Arafat armato nel parlamento italiano (1982)





Arafat sì, Gheddafi no: al Senato si svelano tutte le ipocrisie della sinistra
Dolasilla
11 Giugno 2009

https://loccidentale.it/arafat-si-ghedd ... -sinistra/

Quando il 15 settembre 1982 il leader dell'Olp Yasser Arafat varcò il portone di Montecitorio, indossava la kefia insieme alla sua pistola d'ordinanza. Lo accompagnavano le guardie del corpo, armate di khalasnikov. In barba a ogni regolamento e in spregio alle guarentigie parlamentari. Arafat venne accolto dalla presidente della Camera, Nilde Iotti, ebbe incontri con il ministro degli Esteri Giulio Andreotti e con il presidente della Repubblica, Sandro Pertini. Incontrò i segretari del Pci, Enrico Berlinguer, e del Psi, Bettino Craxi, vale a dire i veri fautori di quello che fu il primo viaggio di Arafat in un paese europeo, accolto con gli onori riservati a un Capo di Stato.

All'epoca Arafat non aveva ancora riconosciuto lo Stato di Israele. L'articolo 5 dello Statuto dell'Olp prevedeva sempre la distruzione dell'entità sionista. Nonostante tutto, venne accolto in aula alla Camera fra scrosci di applausi dai banchi di sinistra ma anche dai banchi della Dc e del Msi. Erano vuoti i pochi scranni occupati dai deputati del Partito Repubblicano, del Partito Liberale e del Partito Socialista democratico. Le forze che si erano sottratte dall'ombra di una finta equidistanza sulla vicenda mediorientale per schierarsi, senza reticenze o tentennamenti, al fianco di Israele.

Oggi i nipoti e i pronipoti delle grandi forze "di massa" della sinistra hanno scelto di mettersi in fila dietro quel pifferaio magico che è Antonio Di Pietro. Che è successo? La conferenza dei capigruppo del Senato ha deciso, martedì 9 giugno, di concedere la tribuna del Senato a Gheddafi, nella sua qualità di presidente dell'Unione africana. I dipietristi sono stati gli unici a votare contro la decisione, appoggiata convintamene dalla maggioranza e dal vicecapogruppo del Pd, il dalemiano Nicola Latorre . Tutto bene, fino a mezzogiorno circa di mercoledì 10 giugno. Quando una breve riunione del gruppo del Pd al Senato registra dapprima qualche incertezza e, subito dopo, un vistoso sbandamento fino a proporre di disertare la seduta di giovedì contro il feroce Saladino libico. Che è successo? Mistero, ma non tanto. La paura di lasciare a Di Pietro l'esclusiva dell'antitiranno è forte e i risultati elettorali ancora troppo freschi per dimenticare il travaso di voti dal PD in direzione dipietrista.

Certo, chi dubita sulla circostanza non ha tutti i torti. Gheddafi ha flirtato e non poco con le fazioni del terrorismo palestinese. Le ha manovrate e usate come più gli faceva comodo. Le ombre di Lockerbie, cioè dell'aereo passeggeri esploso per un attentato terroristico nel 1988, non sono del tutto dissolte. Gheddafi ha una biografia ingombrante e il tentativo di curvarla può comportare più di un rischio.

Ma la diplomazia italiana ha diverse frecce nel suo arco. La Libia non è più il Paese isolato degli anni Ottanta. Esercita la presidenza di turno dell'Unione africana. Ha guidato per tre anni la Commissione per i diritti umani affidata dell'Onu. Vero, sarebbe agevole osservare, l'Onu è quella stessa organizzazione che si è tenuto un presidente con il passato nazista di Kurt Waldheim, ed è la stessa organizzazione che fra una Durban e l'altra si fa attiva promotrice di politiche antisemite. Tant'è. Una raccomandazione sentiamo di fare agli interlocutori italiani di Gheddafi: sarà bene rivolgersi al colonnello libico con il linguaggio crudo e realista di un Paese che è a posto con il passato (almeno quello coloniale) e, dunque, intenzionato a far valere nel presente l'amicizia secolare che ci unisce a Israele. Qualcuno, insomma, dovrà ricordare a Gheddafi che visitando l'Italia deve aspettarsi di incontrare non solo i discendenti del Pci ma anche quelli di Carlo Cattaneo e delle Interdizioni israelitiche.

http://www1.adnkronos.com/Archivio/AdnA ... 163010.php

https://ricerca.repubblica.it/repubblic ... stola.html



Ecco la disumanità (l'incultura e l'inciviltà) criminale e razzista antisemita e antisraeliana dei nazi moamettani impropriamente detti palestinesi, politicamente e ideologicamente discendenti da Arafat e seguaci di Maometto lo sterminatore di ebrei e di cristiani


Esemplare, da leggere e condividere, questo intervento di Marco Paganoni:
Emanuel Segre Amar
12 dicembre 2021

https://www.facebook.com/emanuel.segrea ... 2233911528

Questa è troppo gustosa per lasciarsela scappare. Breve premessa. Quei rompiscatole di Palestine Media Watch si sono presi la briga di leggere 17 numeri pubblicati fra dicembre 2014 e settembre 2021 di Waed, un giornaletto edito dal movimento giovanile di Fatah che viene distribuito nelle scuole e nei campi estivi ai ragazzini palestinesi fra i 6 e i 15 anni (https://palwatch.org/…/Waed-The-PA-Fatah-Vision-for-Israels…). Waed esalta i terroristi che ammazzano israeliani e sostiene la cancellazione dello stato ebraico con relativa cacciata degli israeliani dal Paese. Per i redattori di Waed, infatti, gli israeliani non sono altro che “invasori ebrei venuti da ogni angolo della Terra, che non conoscevano la Palestina e non vivevano in essa: né loro, né i loro padri e antenati”. Per sostenere la tesi, Waed reinventa la storia, con un popolo “arabo palestinese cananeo” (sic) che si sarebbe stabilito nel paese cinquemila anni fa.

E qui arriva la perla. A pagina 17 del numero 40, Waed pubblica l’immagine di un siclo di Giudea definendolo un esempio di “moneta palestinese”. Facendo notare che porta la stessa immagine che compare sul moderno shekel israeliano, aggiunge: “Che ladri, vero?”. Come dire: quegli impostori di israeliani ci rubano anche la storia coniando il loro moderno shekel a immagine dell’antico siclo palestinese. Peccato che sull’antico “siclo palestinese” si legga distintamente la scritta Yehud, Giudea, in caratteri ebraici. Non si saprebbe se definire più patetico o più svergognato un tentativo così goffo di taroccare la storia. Ma suvvia, in fondo non è peggio dei propagandisti palestinesi che spacciano Gesù di Nazareth come palestinese, anzi come “il primo profugo palestinese” e persino come “il primo martire palestinese” (https://palwatch.org/database/213), ignorando serenamente che Gesù era ebreo in base a ogni nozione storica (e per la dottrina cristiana). Sanno, ma tacciono, che l’Impero Romano cambiò in “Palestina” il nome della Terra d’Israele, e della regione di Giudea, solo cento anni dopo l’epoca di Gesù, e che lo fece appunto per cancellare ogni legame fra il Paese e gli ebrei. Per questo, sentir parlare di “Gesù palestinese” o della “Palestina in cui visse Gesù” stride quanto sentire che Giulio Cesare conquistò la Francia.

Conosciamo la difesa d’ufficio di questi strafalcioni. Palestinese è solo un aggettivo che significa, come da vocabolario, “relativo alla regione dell’Asia sud-occidentale tra il Mediterraneo e il tavolato transgiordanico, storicamente indicata con varie denominazioni fra cui quella di Palestina”. Come avrebbe detto von Metternich, una mera espressione geografica. In questo senso, se l’antico siclo di Giudea è “palestinese” per mera collocazione geografica, allora è palestinese anche lo shekel di oggi. Se Gesù era palestinese, allora aveva ragione Golda Meir a definirsi palestinese (https://www.youtube.com/watch?v=GZPyyAWGK0w ), e aveva ragione l’Onu nel ’47 a parlare di popolo ebraico palestinese. E sarà forse per questo che fino a tutta la prima metà del XX secolo, “palestinesi” in Palestina erano gli ebrei e le loro istituzioni (mentre gli arabi si guardavano bene dal definirsi a quel modo). E dunque, sono palestinesi gli ebrei che vivono a Tel Aviv come quelli che vivono a Gerusalemme (est e ovest). Ma, un momento. Waed dice una cosa un po’ diversa. Come tutti i dirigenti, gli imam, gli insegnanti e i propagandisti palestinesi, Waed dice che no, gli ebrei non sono affatto palestinesi, sono colonialisti stranieri imposti dall’esterno e se ne dovrebbero andare. E dicono che “palestinese” significa distintamente “arabo e musulmano”. Lo hanno anche sancito per legge. La Legge fondamentale dell’Autorità Palestinese approvata a Ramallah il 29 maggio 2002 stabilisce, all’art.1, che “il popolo palestinese fa parte della nazione araba” e all’art. 4 che “l’islam è la religione ufficiale della Palestina” e che “i principi della shari’a islamica sono la fonte primaria della legislazione”. Riassumendo. Quando vogliono fabbricare una storia antica che delegittimi Israele, “palestinese” è solo un generico aggettivo che si può candidamente applicare anche a Gesù e al siclo in caratteri ebraici. Quando invece si tratta di sovranità e autodeterminazione, ecco che “palestinese” significa esclusivamente “arabo e musulmano” e vadano al diavolo Gesù, gli ebrei, la loro storia e le monete che coniavano duemila anni fa. Insomma, un volgare imbroglio da pataccari. Cerchiamo di ricordarcene quando a Natale ci sentiremo ripetere che – testuale – “Gesù è palestinese e coloro che lo hanno combattuto duemila anni fa stanno ora distruggendo il suo popolo”




Erano in molti i dc antisemiti, antisraeliani e filo nazi maomettani
Ricordare una politica, la visione mediorientale di Giulio Andreotti
Andrea Riccardi
7 maggio 2018

https://www.lastampa.it/vatican-insider ... 1.34014634


“Andreotti d’Arabia”: è un’espressione d’ironia e critica sulla sua capacità mediativa e sul suo filoarabismo. “Giulio d’Arabia”: così titola Panorama nel 1983, ricordando come – per il governo Craxi, ad agosto 1983 - alcuni avrebbero preferito agli Esteri, ad Andreotti, Spadolini filoisraeliano. All’inizio del 1983, la sua candidatura alla Farnesina era stata bruciata dall’accusa di filoarabismo e terzomondismo, manifestati alla presidenza e nell’attività dell’Interparlamentare. Un’organizzazione senza potere, ma occasione per una rete di contatti internazionali per Andreotti, che ne aveva il gusto, nonostante non si fosse tanto dedicato agli affari esteri nella sua carriera fino agli anni Ottanta. I rapporti personali, la forte memoria e la costante attenzione erano elementi preziosi per un politico che studiava i dossier come mostra il suo archivio.

Dal 1983 al 1989, Andreotti guidò la Farnesina per cinque governi. Poi fu presidente del Consiglio sino al 1992. Nonostante la criticata instabilità dei governi della prima Repubblica, si potevano svolgere azioni governative di lungo periodo, anche perché quei governi erano espressione della stessa classe dirigente e di visioni condivise. La politica estera era un capitolo su cui c’era una visione, se non unanime, ancorata all’atlantismo e all’Europa, consapevole di alcuni spazi propri, in cui agire anche in forza dalla collocazione mediterranea dell’Italia.

Riflettere – come facciamo a cinque anni dalla sua scomparsa - sulla visione mediorientale di “Giulio d’Arabia” è un debito verso di lui. E ringrazio il dottor Angelo Chiorazzo di avermi chiesto questo impegno. È anche una necessità morale per una regione, tormentata come sempre, ma peggio, distrutta. In Siria, di cui tratteremo, la guerra dura da sette anni con cinque-sei milioni di rifugiati fuori dal paese. Aleppo, patrimonio dell’umanità e culla della convivenza islamo-cristiana da più di un millennio, è stata distrutta dalle bombe e dalle lotte tra ribelli e regime.

In Siria tanti sono morti e molti scomparsi: alcuni amici, come Paolo Dall’Oglio, gesuita, inghiottito nel niente o Gregorios Ibrahim, vescovo siriaco di Aleppo, figura ecumenica, non più tornato da una missione umanitaria. Un paese intero divorato dalla guerra e – come dice Domenico Quirico - non si vede più un bambino sorridere. Le immagini dei droni mostrano Aleppo atterrata: i quartieri periferici e quelli storici. Si è colpita la città della convivenza in cui le religioni si connettevano a una cultura millenaria. Hanno distrutto persino il minareto della moschea degli Omayyaddi, con dieci secoli di storia.

Parlare di Andreotti e Siria significa interrogarsi sugli strumenti con cui affrontare il Medio Oriente. Per me è anche dire la dolorosa nostalgia per la Siria scomparsa, che non tornerà più: un paese sotto un pesante regime, ma con larghi spazi di umanità e cultura. La Siria era vivere insieme, ma anche gli orrori delle pitture di Najah Albukaï, a lungo nelle prigioni del regime. Dolce e amara, ma un grande paese. La tesi di Andreotti era che il Medio Oriente andasse affrontato con le armi sottili del dialogo, mai con interventi drastici. Valorizzava i politici in loco che, nonostante il deficit di democrazia, davano garanzie di dialogo. L’intervento militare americano del 2003 fu per lui un errore, nonostante volesse portare la democrazia in Iraq. Per Andreotti bisognava prosciugare i focolai di violenza. Il terrorismo sarebbe prosperato, se la sfida passava alle armi. La transizione necessaria, dopo le guerre tra Israele e i paesi arabi, era dal conflitto armato al negoziato politico.

Parlare di Andreotti e Siria fa riflettere sulla responsabilità di Paesi medi, come l’Italia, che lui sentiva molto facendo scelte, non condivise da tutti, consapevole però di uno spazio italiano, senza esagerazioni protagonistiche: l’azione diplomatica, le missioni di pace, non gli interventi militari o l’appoggio a quelli altrui. Si potrà discutere sulla visione andreottiana, ma essa merita considerazione, non rappresentazioni pregiudiziali.

Politica vaticana o italiana?

Perché uno dei principali garanti verso gli americani (messo alla testa del governo che, dopo la rottura del tripartito nel 1947, reintroduceva i comunisti nell’area di governo nel 1978), fu considerato un atlantista eretico? Filoarabo, attento a Mosca… Poco lo predisponeva al mondo arabo-islamico. Non era La Pira, che – prima del Vaticano II - sviluppò il dialogo mediterraneo forte di una sensibilità religiosa e di contatti, anche mediati dalla Francia e dal suo cattolicesimo. Cossiga attribuiva i cambiamenti di Andreotti in politica estera all’influenza vaticana: così da anticomunista divenne favorevole al dialogo con l’Est, quando iniziò l’ostpolitik di Casaroli. Il leader liberale Giovanni Malagodi affermava criticamente che la politica estera di Andreotti era «sempre utile al Vaticano, spesso utile anche all’Italia».

Andreotti non ha perseguito gli interessi della Santa Sede, anche se c’è un legame profondo nella visione: una diplomazia di pace e di mediazione, tipica della Santa Sede, che Andreotti cominciò ad apprezzare nella seconda guerra mondiale, per lui rappresentata da Pio XII, sempre difeso con forza dall’accusa di inerzia verso il nazismo. C’era in Andreotti l’orrore della guerra, conosciuta da vicino. Ricordo un giorno d’estate, a Fondi per una presentazione d’un libro, già molto anziano, mi raccontava come fossero impressionanti le distruzioni nella città e come sembrasse impossibile tornare alla condizione prima della guerra. Si sentiva vibrare in lui l’orrore per la guerra.

Andreotti condivideva il cattolicesimo conciliare, anche se non amava tutte le sue manifestazioni, come nella Roma del cardinale Poletti, specie il convegno del febbraio ’74. Si sentiva più vicino al senso pratico del cardinale Angelini. Sentiva con forza il dialogo tra le religioni, che lanciò anche con il trialogo tra i monoteismi. Lo ricordo, da ministro, presente agli incontri tra religioni nello Spirito di Assisi della Comunità di Sant’Egidio. Massimo Franco titola un capitolo nella biografia: “Giulio l’ecumenico”. Nell’ecumenismo, Andreotti raggiunse un democristiano diverso, La Pira, che durante la Guerra Fredda aprì i contatti con Mosca e realizzò convergenze tra ebrei, cristiani e musulmani, facendo di Firenze il cuore di un dialogo di pace. Il suo tratto profetico era lontano dal realismo di Andreotti, alieno dagli impeti visionari del sindaco (intrisi però di senso concreto della storia).

Andreotti stimava il cardinale Pignedoli, alla testa del dialogo interreligioso vaticano, attore di un primo incontro tra cristiani e musulmani a Tripoli nel 1976 sotto gli auspici di Gheddafi, concluso malamente con una condanna del sionismo, per imbroglio libico alla parte vaticana. Ne scrive Concretezza. “Giulio l’ecumenico” non faceva la politica del Vaticano, ma condivideva una visione. Soprattutto in un’Italia autocentrata, appagata solo dei problemi di politica interna come se il mondo finisse ai suoi confini, era convinto non solo che potesse avere una funzione internazionale, ma che per la sua natura mediterranea non doveva essere provinciale.

Bisogna ricordare le risorse di Roma negli anni Ottanta: erano attive la diplomazia italiana, vaticana (molto sollecitata), quella del Pci, impegnata nell’Est e nel Sud del mondo. I tre soggetti talvolta si concertavano e se ne trovano tracce negli archivi del Pci. Casaroli parlava con Alceste Santini, giornalista ma anche passeur con servizi ed esponenti dell’Est, per inviare messaggi. Roma non era la periferia dell’impero occidentale, ma un crocevia di rilievo. Negli anni Ottanta, ci fu forte sintonia tra Andreotti e monsignor Silvestrini, guida dei rapporti internazionali vaticani dal 1979 al 1988. Grande figura di diplomatico della scuola di Tardini, forse l’ultima, sentiva con passione i problemi dell’Est e le relazioni con il Terzo Mondo. Il rapporto Andreotti-Silvestrini va studiato: entrambi si rifacevano a Tardini, ben conosciuto da Andreotti. Con la nomina di Sodano al posto di Silvestrini nel 1988, non fu più la stessa intensità di propositi, anche se il senatore ricordava spesso il padre del prelato sui banchi della Camera, deputato DC ed esponente della Coldiretti. Andreotti è protagonista di quella stagione internazionale –in cui Roma ebbe un ruolo- che precedette e preparò la fine della Guerra Fredda.

La Siria nel 1982

Andreotti individuò nella Siria un interlocutore decisivo per il Medio Oriente. Il paese era retto dal regime Ba’th (laico) di Hafez al Assad, militare, alawita, al potere dal 1970. I rapporti cominciano con la visita a Damasco del 1982, quando non era ancora agli Esteri. Il regime viveva una grave crisi, che lo spingeva ad un forte controllo sulla società, anche se il presidente era popolare specie nei primi anni. Gli attacchi venivano soprattutto dall’ambiente sunnita maggioritario, emarginato dal potere, espressi dai Fratelli Musulmani anche con atti terroristici. La repressione fu dura nella zona di Aleppo nel 1980 e durissima nel 1982 a Hama, distrutta in una battaglia di tre settimane con la morte di migliaia di persone e l’incarcerazione di tanti. La Siria era isolata: esasperava Washington attaccando la svolta del trattato di pace tra l’Egitto di Sadat e Israele, aveva rotto i rapporti con l’Iraq, guidato dall’altro spezzone di partito Ba’th di Saddam Hussein, si misurava con Israele in Libano, era in crisi con la Giordania.

Ha scritto Patrick Seale, nella biografia del leader siriano sulla svolta degli anni Ottanta: «L’ottimismo viene meno. Una certa fiducia nel futuro lascia il posto a un giudizio più severo e cinico sulle persone e sulle vicende politiche, mentre la natura di Assad si fa più crudele, più dura e sospettosa» (385). Assad solitario e autoritario, lavorava la notte, governava con il telefono, era accessibile a pochi. Amava – come Fidel Castro - le lunghe conversazioni con gli ospiti stranieri, che erano anche una sua finestra sul mondo.

Nel 1979, con la rivoluzione di Khomeini, Assad trovò un alleato nel nuovo potere iraniano che appoggiò poi nel conflitto con l’Irak (sperava nella caduta di Saddam). Intermediario con Khomeini fu l’imam Musa al Sadr, pur scomparso nell’agosto 1978. Guida degli sciiti libanesi, aiutò Assad nel 1973 con una fatwa, dichiarandolo abile alla presidenza come musulmano, benché alawita. L’imam guidò gli sciiti libanesi all’alleanza con la Siria. Nel 1979, scomparve misteriosamente in Libia. Significativamente nell’archivio Andreotti si trova un grosso dossier, anche carte processuali, su questa figura, che lo interessava molto.

Gli sciiti libanesi, umiliati dall’alleanza tra cristiani e sunniti, i veri padroni del paese, conobbero il riscatto grazie a Moussa Sadr e all’estesa rete socio-educativa da lui organizzata. Così le masse sciite in Libano, povere e contadine, si avviarono a essere protagoniste. Nel 1982 nacque Hezbollah, unica forza armata non statale libanese oggi, prezioso alleato della Siria. Il Libano, detto la “Svizzera del Medio Oriente”, era segnato da gravi diseguaglianze, senza politica sociale e sanità pubblica, dominato dal confessionalismo e dai clan. Il vescovo melkita, Grégoire Haddad, segnalò il dramma sociale del paese, fondando il Movimento sociale libanese con sei persone di confessione diversa. Accusato di deviazioni dottrinali, fu assolto dalla Santa Sede, ma deposto dal suo patriarca Maximos V Hakim.

Proprio nel 1982, sul fragile terreno libanese (con 300mila profughi palestinesi), avviene lo scontro tra Siria e Israele. In realtà la Siria, dal 1920, mai aveva accettato l’indipendenza libanese e la perdita di terre siriane. Assad rilanciò la grande Siria. Appare un paradosso, ma nel 1975 sono stati i cristiani (specie maroniti), sotto la pressione dei palestinesi e di altre forze, a allearsi con le truppe di Assad in Libano. Questi stanziò nella valle della Bekaa una rete di missili Sam. Israele si sentiva minacciato dai siriani e di palestinesi contro la Galilea.

Il premier israeliano Begin trovò un alleato nel leader libanese maronita Bashir Gamayel, capo delle forze falangiste, fondate dal padre Pierre nel 1937 probabilmente su modello del fascismo, destinato alla presidenza della Repubblica (sempre assegnata a un maronita). Begin intervenne in Libano, forte dell’alleanza con falangisti e maroniti. Il controllo israeliano sul Libano intendeva avvalersi di uno Stato cuscinetto cristiano filoisraeliano, allontanando siriani e palestinesi. Ma la cantonizzazione confessionale era inaccettabile dalla maggioranza dei libanesi. Il 1982 è un anno drammatico, in cui si rischia lo scontro campale tra siriani e israeliani. Lo impedisce la mediazione americana –il presidente è Reagan - che Assad considera esageratamente favorevole a Begin.

L’operazione “Pace in Galilea” porta gli israeliani fino a Beirut e a distruggere i Sam siriani nella Bekaa. Aerei israeliani e siriani si battono nel cielo libanese. Assad vola a Mosca, dove Breznev è malato, e chiede l’intervento dell’Urss, che si risolve nella fornitura di nuove armi e in un passo equilibratore nei confronti d’Israele. Si coglie qui una convinzione di lungo periodo di Assad (trasmessa al figlio): per fronteggiare Israele, in assenza di solidarietà araba, è necessario uno stretto rapporto tra Mosca e Damasco. Un giorno –mi ha raccontato Andreotti- Assad gli disse: «Mi accusano di collaborare con i sovietici, ma anche gli occidentali, per battere Hitler, si sono alleati con Mosca…». [Lo stesso disse ad Andreotti nel 1983 il vicepresidente Khaddam: il rapporto con l’Urss «non implica asservimento alcuno alle tesi sovietiche, allo stesso modo che l’alleanza russo-americana della Seconda Guerra mondiale era dettata da esigenze militari e non rappresentava un riavvicinamento ideologico»].

La Siria è alleato fedele di Mosca. È stato illusorio credere che il paese potesse scivolare fuori dall’orbita russa, quando resta l’unico paese costiero su cui Mosca può appoggiarsi sul Mediterraneo. Però, Assad non era alla testa di un governo fantoccio di Mosca, come gli americani riconoscono fin dal 1983. [Anzi, allora, i servizi americani – così viene detto alla Farnesina - hanno la sensazione che il rapporto Damasco-Mosca non sia così scontato.] L’autonomia siriana è una convinzione su cui Andreotti basa la sua politica con Damasco.

Per completare la ricostruzione del tragico 1982, va ricordato che gli israeliani arrivarono a Beirut e Gemayel “ripulì” i sobborghi della capitale dalla presenza dell’Olp di Arafat. Gemayel fu eletto presidente nell’agosto 1982 e sarebbe entrato in carica un mese dopo, se un attentato non lo avesse ucciso nella sede del partito falangista, opera, pare, di una figura vicina ai siriani. La conseguenza dell’attentato fu la strage dei palestinesi nel campo di Sabra e Chatila, condotta dai falangisti, protetti dalle truppe israeliane: un migliaio di morti: donne, uomini e bambini. Ho visitato quei campi, un mese dopo le stragi, e ricordo un drammatico spettacolo di distruzioni e dolore. Intanto gli israeliani entrarono a Beirut per colpire i palestinesi. Gli armati dell’Olp e Arafat furono costretti a lasciare il Libano. Il parlamento libanese elesse alla presidenza Amin Gemayel, fratello dello scomparso.

Il 1982 è duro per Assad, con le truppe israeliane in Libano a 28 km da Damasco. Assad reagì favorendo la formazione delle milizie sciite libanesi, ostili a un regime maronita, sorrette dal mito dell’ayatollah Khomeini, facendo entrare in Libano tramite la Siria un primo gruppo di 2000 iraniani. Era un modo per battere l’isolamento.

Nell’instabile Libano, tra 1982 e 1984, con Francia, Stati Uniti e Gran Bretagna, l’Italia inviò una missione militare, una svolta nel ruolo delle forze armate per la pace (si ricordi la popolarità del generale Angioni). Il buon rapporto con le varie milizie, che colpirono duramente gli altri partecipanti alla missione, fu un test della capacità italiana sul terreno, favorita dalla creazione di un ospedale da campo vicino all’aeroporto di Beirut, in cui si curavano i feriti di ogni appartenenza. Andreotti sostenne questa missione con convinzione.

Andreotti a Damasco nel 1982

Con la prima visita a Damasco, Andreotti iniziò il rapporto diretto con Assad. Ci furono quattro incontri: 1982, 1983, 1988, 1995. Non mancarono lettere personali, come per la morte del figlio Bassel. [Interlocutore costante fu Mosen Bilal, presidente della commissione esteri, mentre costanti furono gli incontri con Khaddam, ministro degli esteri e poi vicepresidente, e il successore agli Esteri.] Già sulla rivista andreottiana Concretezza erano apparsi negli anni Settanta articoli su Siria, Libano, Medio Oriente, dialogo islamo-cristiano ed ebraico-cristiano. Nel 1976, si ribadì che la guerra libanese non era tra cristiani e musulmani, come invece diceva molta stampa europea. Su Trenta Giorni avrebbe continuato questi interessi.

Prima di conoscere Assad, il presidente già coltivava canali personali. Nel settembre 1982 incontrò, a Sant’Egidio, il patriarca melkita Maximos V, personalità filosiriana. Andreotti lo utilizzò come messaggero con il potere siriano, come nel 1983, quando inviò suo tramite una lettera a Khaddam, dicendosi «testimone e ammiratore» dell’intelligenza del prelato e del suo amore per Siria e Libano. Hakim vedeva l’uccisione di Gemayel come ritorsione d’Israele perché il leader si allontanava dalla sua influenza. Andreotti gli confidò di conoscere Begin da quando era ministro della Difesa, perché gestiva intese segrete con lui, capo di Stato maggiore israeliano, su questioni militari. Non lo considerava credibile: sperava invece in Peres. Sia Andreotti che Maximos erano favorevoli al piano Reagan (settembre 1982), che a loro avviso concedeva almeno una homeland ai palestinesi e la cittadinanza anche se in diaspora. Andreotti utilizzava i contatti con i religiosi cattolici per informarsi: così con il patriarca maronita Sfeir, cattolico come Hakim, ma tanto antisiriano da non mettere piede in Siria

Per lo statista, il pluralismo religioso in Siria era una ricchezza. Assad, che veniva dalla minoranza alawita (900mila circa) e dal partito laico Ba’th, era una garanzia per cristiani (circa 800mila) e drusi verso la maggioranza sunnita. Andreotti, nel 1982 a Damasco, non solo visitò Hakim, ma anche la piccola comunità ebraica. Nel 1982 gli ebrei in Siria erano circa 5mila dai 30mila del 1948: molti erano emigrati dopo le manifestazioni antisemite e la nascita d’Israele. Spesso s’ignora che, dagli anni quaranta, la convivenza nel mondo arabo ha perso la sua millenaria componente ebraica, provocando un grande cambiamento. Tramite l’ebreo libico, Raffaello Fellah, Andreotti aveva contatti con gli ebrei del mondo arabo. Del resto in Siria sono stati ospitati alcuni criminali nazisti, come Alois Brunner, che hanno offerto il loro know how in materia di repressione o guerra. Il ministro della Difesa, il sunnita Tlass, figura decisiva nel sistema di Assad, pubblicò un libello, “The Matzah of Zion”, su un presunto omicidio rituale di un bambino cristiano da parte degli ebrei damasceni nel 1840. Antisemitismo e antisionismo s’intrecciavano.

A Damasco nel 1982, Andreotti visitò gli ebrei, umiliati e controllati. A me – l’ho annotato - disse che, oltre l’ottimismo ufficiale, il responsabile gli fece capire gravi difficoltà. Tra l’altro c’erano problemi di matrimoni, non trovandosi giovani ebrei in Siria. In seguito, Andreotti ricevette dal rabbino Toaff un dossier sugli ebrei siriani con l’invito a occuparsene. Gli ebrei erano controllati individualmente dal Moukabarat, il servizio segreto, mentre un loro centro era installato nel ghetto di Damasco e veniva dissuaso l’ingresso degli stranieri. Ricordo un agente in permanenza dentro un negozio ebraico alla moschea degli Omayaddi. Nel 1994 Andreotti scrisse a Assad per un soldato israeliano (forse Ron Arad) scomparso in Libano.

Il colloquio tra Andreotti e Assad nel 1982 pose la base della sua politica. Trovò Assad sfiduciato verso Stati Uniti, nostalgico di Kissinger che – egli disse - a differenza dei successori almeno manteneva la parola. Qui cominciò il lavorio di Andreotti convinto dell’errore d’isolare la Siria. Arafat, in pessimi rapporti con Assad lavorava in senso contrario: nel 1983 (dopo l’abbandono del Libano per la Tunisia) inviò un messaggio per isolare la Siria, tramite Pajetta. Andreotti parlava di questi problemi con i comunisti e con Craxi, in contatto con il leader druso Jumblatt. Il senatore faceva sua la formula di Kissinger: «Se gli arabi non possono fare la guerra senza l’Egitto, non possono fare la pace senza la Siria».

Amicizie pericolose

Per Andreotti, anche l’Olp andava coinvolto. Nel settembre 1982, invitò Arafat a rivolgere un discorso all’assemblea dell’Unione Interparlamentare mondiale che si svolgeva nell’aula di Montecitorio. La visita romana si realizzò con il determinante contributo di esponenti del Pci, in particolare Bufalini, vicino ad Andreotti nella lettura delle vicende mediorientali e nella “romanità”. La presenza di Arafat a Roma voleva essere un modo per frenare la possibile radicalizzazione del frammentato mondo palestinese, fatto che Andreotti temeva. Nel 1982 era convinto di aperture nell’Olp, ma –scrive a Khaddam un anno dopo con l’abbandono palestinese del Libano- oggi l’Olp rischia il dominio di «fazioni massimalistiche». Sa che i rapporti tra Assad e Arafat sono negativi, anche se la Siria sostiene ufficialmente che l’Olp debba essere parte della soluzione. È politica costante di Andreotti l’inclusione dell’Olp . Lo dice nel 1990 al presidente Bush: «Evitare situazioni che escludano l’Olp dal processo di pace perché diversamente ci sarebbe il rischio di una ritorno alle condizioni di violenza pre-Algeri…».

“Giulio d’Arabia” non coltiva «amicizie pericolose», che trovano l’ostilità d’Israele, che sottolinea il terrorismo dell’Olp, o degli Stati Uniti? Andreotti è convinto che sia impossibile una soluzione alla crisi mediorientale senza coinvolgere tutti i protagonisti: l’Olp e Israele per primi. È stato accusato di antisemitismo. Vorrei riportare la voce di Luciano Bassan, vecchio amico del presidente incontrato in Israele nel 1983: «Quanto alla tua politica estremamente antisraealiana - gli disse - la capisco… noi non siamo che una piccolissima pedina di fronte al mondo arabo ricco, potente e violento». Andreotti rispose di non essere mai stato antisemita o antisionista, anzi di aver partecipato a manifestazioni contro le leggi razziste del ’38: «Ho sempre ritenuto che la sicurezza d’Israele sia indiscutibile…». Israele deve però cooperare ad una «soluzione per i palestinesi» in una «piattaforma globale».

Forse il problema che suscitava più polemiche è stato il legame tra la Siria e il terrorismo, di cui Andreotti è informato. Ritiene che, attraverso le pressioni sulla Siria, si possano controllare i terroristi. Lo stesso Gemayel gli chiede nel 1984 di «spingere se si può i siriani ad essere più attivi nell’impedire atti terroristici nelle zone occupate». Preoccupa in particolare la presenza di Abu Nidal a Damasco, in rottura con Arafat, alla testa dell’Al Fath- Consiglio rivoluzionario, cui si collegano atti terroristici contro israeliani, occidentali e arabi moderati. Ad Abu Nidal è attribuito il crudele attentato alla sinagoga di Roma che uccise il piccolo Stefano Taché nel 1982. Poi quello a Fiumicino con tredici morti (simultaneo a uno a Vienna), in cui fu arrestato Khaled Ibrahim, che confessò al giudice Priore legami con Abu Nidal tramite servizi siriani (e il ruolo di El Khoury, capo servizi dell’aeronautica siriana).

La politica di Andreotti fu spingere la Siria alla rottura con Abu Nidal. Il terrorista non si era impegnato nel cosiddetto “lodo Moro”, a differenza delle fazioni palestinesi facenti capo a Arafat e Habbash, che, dopo gli atti terroristici a Fiumicino nel 1973, escludevano attentati in Italia, ricevendo possibilità di passaggio. Opposta è la posizione britannica sul terrorismo: mira a colpire la Siria come sponsor. Lo si vede nel caso Nezar Hindawi, giordano con passaporto di servizio siriano, che aveva spinto la fidanzata irlandese a prendere l’aereo a Londra per Tel Aviv con esplosivo nella valigia. Hidawi, in partenza per Damasco, fu arrestato. Gli inglesi esibirono le prove del coinvolgimento siriano e chiesero solidarietà europea. Hindawi fu condannato a 45 anni di prigione. Andreotti era critico sulla richiesta britannica di sanzioni alla Siria e nel 1986 disertò il consiglio europeo per partecipare alla preghiera interreligosa voluta da Giovanni Paolo II ad Assisi. Un segnale.

La Siria faceva il doppio gioco? Era la tesi inglese. Nel 1985, all’epoca del dirottamente della Achille Lauro da parte di terroristi di Abu Nidal, Assad accettò la proposta di Andreotti di accogliere in Siria la nave sequestrata dai palestinesi che uccisero crudelmente Leon Klingofher, ebreo americano. Gli americani si opposero. Andreotti ha narrato la vicenda in un suo libro, spiegando: «L’isolamento politico del commando avrebbe costituto l’arma per farlo arrendere».

Nel 1987, Bilal assicurò Andreotti: «Al minuscolo ufficio di Abu Nidal hanno tagliato il telefono, messo altri controlli attorno… è certamente innocuo… Ma Abu Nidal è attivo in Libano presso Sidone dove ha fatto molti proseliti ed ha in programma azioni di disturbo sulle truppe israeliane e filoisraeliane». Nel 1987 i servizi britannici e italiani credono che l’ufficio Abu Nidal sia aperto a Damasco. Nello stesso anno, Andreotti non accettò la Conferenza internazionale, proposta dalla Siria per definire il terrorismo. La lettera del ministro degli Esteri siriano Shara trova freddezza in Italia per l’inaccettabile distinzione dei siriani tra terrorismo ammissibile (per la liberazione dei popoli) e terrorismo inaccettabile. Nel 1987 Andreotti insiste con Assad per «un gesto significativo che evidenzi il rifiuto dei metodi terroristici di persone e gruppi che con la loro azione dissennata, oltre che versare sangue innocente, finiscono per recare danno alla stessa causa…». Sapere isolato Abu Nidal sarebbe per l’Italia un fatto di grande rilievo: così conclude. È evidente però la differenza di strategia della Gran Bretagna e dell’Italia.

Siria e soluzione globale in Medio Oriente

Sulle basi del 1982, si sviluppò la politica andreottiana, consacrata nella visita del 1983 da ministro degli Esteri. Il punto centrale è coinvolgere Assad, ottenere da lui un’azione moderatrice sul terrorismo palestinese e in Libano, magari avviandolo a negoziati con Israele. Nel 1983 Andreotti uscì convinto dai colloqui con Assad e Khaddam che il regime intendeva proseguire nel dialogo con gli Stati Uniti, mentre Andreotti lo spingeva a non disertare i tavoli internazionali come la Conferenza di Ginevra. Il presidente ebbe la sensazione che le pressioni italiane sulla Siria avessero esito, come quando nel 1987 ci fu un riavvicinamento tra Assad e Gemayel, decisivo per il Libano.

Non ricostruisco l’articolata politica di Andreotti, che rende l’Italia protagonista in Libano. Nel 1985, a Andreotti, recatosi in Libano in modo fortunoso per gli scontri, Gemayel ricordò: «La Siria è il nostro cordone di congiunzione con il mondo arabo…». Andreotti presidente del Consiglio nel 1989 ribadì: «L’unica via per fermare gli scontri in Libano è fare pressioni sulla Siria». Nel 1984 Gemayel gli chiese una mediazione riservata con Israele su questioni comuni. “Giulio d’Arabia” si muove bene nelle complessità mediorientali con una politica di tessitura che avvicina gli avversari per stringerli in relazioni più pacifiche e trasparenti.

Per Andreotti, bisognava ricomporre il quadro mediorientale. Sulla questione israelo-palestinese, era convinto del coinvolgimento comune dell’Olp e degli Stati arabi, senza escludere la Siria. Nel 1994, Andreotti scrive a Assad sulla «necessità di una procedura globale, tale comunque da concludersi simultaneamente anche se su tavoli separati». Assad gli aveva detto: «Non voglio fare la fine degli Orazi e dei Curiazi». Non un paese dopo l’altro… Del resto – Andreotti lo constatò nei colloqui del 1984 con Gromyko a Mosca - i sovietici erano contrari a «paci separate» e si dicevano vicini alla posizione italiana. Il disegno che nutriva – scrisse nel 1991 ad Assad - era creare qualcosa di simile al processo globale di Helsinki per il Medio Oriente: un quadro che tenesse dentro contendenti da decenni e gli obbligasse a parlarsi e negoziare, trovando comuni interessi. La prospettiva era in continuità con quella di Aldo Moro che, nel maggio 1972, aveva proposto – nel corso del Consiglio atlantico di Bonn - di applicare il modello negoziale della Csce ai Paesi del Mediterraneo. Moro, come negli anni successivi Andreotti, era alla ricerca di una via per inserire l’Europa nel processo di pace arabo-israeliano ritenendolo un interesse prioritario per il vecchio Continente.

Andreotti crede che il canale con Assad sia utile all’Occidente. Insiste con lui per migliorare i rapporti con gli Stati Uniti. Nel 1983, Shamir, a Gerusalemme, manifesta ad Andreotti «l’interesse di stabilire contatto informale e segreto con Siria»: scambio di prigionieri e canale di comunicazione. L’ambasciata italiana nel 1984 sonda Damasco, che trova invece rigida.

Se la politica siriana di Andreotti non sempre è condivisa a Washington, talvolta vista con sospetto, il presidente è pure utilizzato come canale di pressione. Reagan dice ad Andreotti a Washington «che la mia idea di non trascurare la Siria è stata coltivata». Per la conferenza di Madrid 1991, Bush è favorevole che Andreotti parli con Assad per convincerlo a partecipare. Quando Andreotti visita Bush nel 1991, il segretario di Stato Baker afferma che Assad gli è apparso più aperto alla pace. Prima di incontrare il presidente americano, Andreotti aveva chiesto ad Assad la sua visione. Damasco ricambiava l’attenzione italiana, proponendo Roma per la Conferenza di pace.

Andreotti credeva che politici e ideologie potessero cambiare, se inseriti in un tessuto di relazioni. Per questo gli piace quanto Assad gli dice in un colloquio del 1988: «Noi in Siria abbiamo sofferto dell’estremismo religioso… Possiamo parlare con una certa efficacia di questa nostra esperienza in Libano, dialogando con gli Hezbollah. Certo, ragionando con l’Iran non possiamo arrivare agli stessi risultati… All’inizio essi volevano imporre in Libano uno Stato islamico. Noi abbiamo discusso con loro e gli abbiamo fatto capire che ciò non è possibile». Andreotti aggiunge che si dovessero prendere alla lettera quanto scritto da Khomeini sarebbe drammatico. Le idee possono cambiare, evolvere. Assad ricorda come «all’inizio della rivoluzione gli iraniani consideravano l’Urss come un demonio…» e poi hanno cambiato idea.

Questa era la speranza anche verso Assad. Nel 2000 alla sua morte Andreotti dichiara: «Era un personaggio chiave in Medio Oriente. Senza di lui diventa tutto più difficile». Ma Andreotti era realista, capace di un ritratto vero degli interlocutori pur con varie ombre: «Gli piaceva molto parlare. L’ultima volta che ci siamo visti ci intrattenne a chiacchierare tutto il pomeriggio, continuò a discorre durante la cena e anche dopo. Una volta mi spiegò la storia di San Marone, dal quale hanno preso nome i maroniti…. Certo – aggiunge criticamente - una fazione di palestinesi contrari alla soluzione accettata da Arafat, un colloquio con Damasco ce l’aveva».

Andreotti conosceva le ambiguità di quel “colloquio”. Era dell’idea che gli uomini cambiano con la storia, ma bisogna usare le armi fini del dialogo. Il 5 febbraio 1977 va al capezzale di La Pira morente, che lo aveva chiamato: «Fu un discorso tutto spirituale, invitandomi a non perdere la fiducia nella comprensione degli uomini, che talvolta ritarda, ma all’appuntamento finale non tradisce». Ingenuità? Sarebbe paradossale parlare di Andreotti come ingenuo... Certo è che l’Economist, tutt’altro che ingenuo, fin dal 1983, titolava: «La Siria è chiave!». Forse Andreotti aveva ragione… Perché credeva che l’Italia dovesse fare la sua parte e soprattutto perché i problemi del mondo si affrontano con gli strumenti sottili del dialogo e della diplomazia.
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Re: L'Italia antisemita e antisraeliana

Messaggioda Berto » ven dic 17, 2021 9:49 am

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Re: L'Italia antisemita e antisraeliana

Messaggioda Berto » ven dic 17, 2021 9:49 am

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Re: L'Italia antisemita e antisraeliana

Messaggioda Berto » ven dic 17, 2021 9:49 am

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Craxi e Sigonella (1985)


Alberto Pento
A Sigonella il sinistrato socialista, anti americano, antisemita e filo nazi-maomettano Bettino Craxi, allora capo del governo, fece una cattivissima figura, mettendosi dalla parte dei terroristi nazi maomettani impropriamente detti palestinesi, che durante il sequestto della nave turistica italiana Achille Lauro assassinrono brutalmente un invalido in carozzina perché ebreo, fu una grande vergogna che rimarrà per resterà indelebile a disdoro di questo paese.


La crisi di Sigonella (che prende il nome dalla base aerea presso la quale scaturì, in Sicilia) fu un caso diplomatico tra Italia e Stati Uniti d'America avvenuto nell'ottobre 1985.
https://it.wikipedia.org/wiki/Crisi_di_Sigonella
L'accaduto rischiò di sfociare in uno scontro armato tra VAM (Vigilanza Aeronautica Militare) e Carabinieri da una parte, e i militari della Delta Forc (reparto speciale delle forze armate statunitensi) dall'altra, all'indomani di una rottura politica tra il presidente del Consiglio italiano Bettino Craxi e il presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan circa la sorte dei terroristi palestinesi che avevano sequestrato e dirottato la nave da crociera italiana Achille Lauro uccidendo un passeggero statunitense.

Il dirottamento dell'Achille Lauro fu un atto terroristico avvenuto nell'ottobre del 1985, con il sequestro, da parte di un gruppo di terroristi palestinesi del Fronte per la Liberazione della Palestina, dei passeggeri della nave da crociera battente bandiera italiana e l'uccisione di Leon Klinghoffer, cittadino statunitense paralitico e di fede ebraica.
Il dirottamento sfociò nella crisi di Sigonella, la più grave crisi diplomatica del secondo dopoguerra tra l'Italia e gli Stati Uniti.
https://it.wikipedia.org/wiki/Dirottame ... ille_Lauro


Quando Craxi disse "La lotta armata palestinese è legittima"
Riccardo Ghezzi
27 Maggio 2018

http://www.linformale.eu/quando-craxi-d ... legittima/

Era il 6 novembre 1985 e l’allora presidente del Consiglio Bettino Craxi riferì in aula sulla politica estera dell’esecutivo da lui guidato. Il leader socialista, che per altri sette mesi avrebbe guidato il terzo governo più longevo della storia dell’Italia repubblicana – dal 4 agosto 1983 al 1 agosto 1986 per un totale di 1093 giorni durante la nona legislatura – si soffermò sulla questione arabo-israeliana giudicando “legittima” la lotta armata dei palestinesi.
“Io contesto la lotta armata all’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina, all’epoca guidata da Arafat n.d.r.) non perché penso non ne abbia diritto ma perché ritengo che non porterà ad alcuna soluzione” dice Craxi davanti ai deputati, sostenendo che non vada però contestata “la legittimità del ricorso alle armi” per “liberare il proprio Paese dall’occupazione straniera”. Era opinione di Bettino Craxi, infatti, che Israele occupasse territori arabi da 18 anni, cioè dalla Guerra dei Sei Giorni vinta nel 1967.
Le parole di Craxi suscitano polemiche ma il presidente del Consiglio è anche applaudito dalla maggior parte dei parlamentari. Tra i contestatori se ne distinguono tre in particolare richiamati dalla presidente della Camera, la comunista Nilde Iotti. Il primo è l’onorevole Guido Martino, del Pri, non immediatamente riconosciuto dalla Iotti: “Ma chi è quello là? Onorevole Martino, la prego”.

Guido Martino

L’onorevole Martino, scomparso nel 2001, inveisce contro Craxi immediatamente dopo la frase “Non ne contesto la legittimità” (della lotta armata n.d.r.), in ossequio alle posizioni filo-israeliane del Partito Repubblicano, ben rappresentato all’epoca da un segretario come Giovanni Spadolini che pure era Ministro della Difesa di quel governo Craxi.
Seguono contestazioni dai banchi del Msi, Il Movimento Sociale Italiano. Due esponenti del partito di destra sono richiamati all’ordine da Nilde Iotti: Filippo Berselli, avvocato rimasto parlamentare fino alla scorsa legislatura prima in quota An, poi Pdl e infine Ncd, e Cesco Giulio Baghino, giornalista scomparso nel 2003.

Ancora oggi Craxi è ricordato come un eroe per i fatti di Sigonella: “il grande statista che si oppose al gigante Usa”, ma in realtà contribuì alla fuga del terrorista palestinese Abu Abbas, organizzatore del sequestro della nave Achille Lauro sfociato nell’omicidio del cittadino ebreo statunitense Leon Klinghoffer, disabile.
Il video di uno stralcio dell’intervento di Craxi, con relative contestazioni e richiami di Nilde Iotti, aiuta a ricordare chi eravamo: c’è stato un periodo, nella prima repubblica, in cui nel parlamento italiano si definiva “legittimo” il terrorismo palestinese, provocando contestazioni solo dai banchi del Pri e del Msi. Due partiti marginali e, nel caso del Msi, perennemente all’opposizione.
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Re: L'Italia antisemita e antisraeliana

Messaggioda Berto » ven dic 17, 2021 9:50 am

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Re: L'Italia antisemita e antisraeliana

Messaggioda Berto » ven dic 17, 2021 9:50 am

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Re: L'Italia antisemita e antisraeliana

Messaggioda Berto » ven dic 17, 2021 9:50 am

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La strage di Bologna 1980 (???) e quelle di Fiumicino (1973-1985)


La strage di Bologna è stato un attentato commesso sabato 2 agosto 1980 alle 10:25 alla stazione ferroviaria di Bologna Centrale, a Bologna, in Italia. Nell'attentato rimasero uccise 85 persone e oltre 200 rimasero ferite. Si tratta del più grave atto terroristico avvenuto nel Paese nel secondo dopoguerra, da molti indicato come uno degli ultimi atti della strategia della tensione.
È uno dei più gravi attentati verificatisi negli anni di piombo, assieme alla strage di piazza Fontana del 12 dicembre 1969, alla strage di piazza della Loggia del 28 maggio 1974 e alla strage del treno Italicus del 4 agosto 1974, quello con il maggior numero di vittime.
https://it.wikipedia.org/wiki/Strage_di_Bologna


A causa del protrarsi negli anni delle vicende giudiziarie e dei numerosi comprovati depistaggi, intorno ai veri esecutori e ai mandanti dell'attentato si sono sempre sviluppate numerose ipotesi e strumentalizzazioni politiche divergenti dai fatti processuali che hanno portato alle condanne definitive dei tre esecutori materiali della strage.
https://it.wikipedia.org/wiki/Ipotesi_a ... di_Bologna



L'attentato di Fiumicino del 1973 fu un attentato terroristico palestinese che il 17 dicembre colpì l'aeroporto di Roma-Fiumicino uccidendo 34 persone e causando il ferimento di altre 15.

https://it.wikipedia.org/wiki/Attentato ... o_del_1973
Il 17 dicembre 1973 alle ore 12:51, un commando terrorista palestinese composto da 5 persone, fece irruzione all'interno del Terminal di Fiumicino. Gli uomini, dopo aver estratto armi automatiche ed esplosivi dalle loro valigie, si sono fatti strada all'interno del Terminal fino alla pista sparando all'impazzata e uccidendo 2 persone. Raggiunta la zona di stazionamento dell'aeroporto, i terroristi si sono diretti verso il Boeing 707 della Pan Am, volo 110 per Teheran con scalo a Beirut delle 12.45, e vi gettarono all'interno una bomba al fosforo e due granate dirompenti. Gli assistenti di volo tentarono di evacuare il velivolo il più velocemente possibile aprendo le uscite di emergenza sulle ali, dal momento che le altre erano ostacolate dai terroristi. Molti passeggeri riuscirono a scappare, ma 30 rimasero uccisi; tra questi quattro italiani: l'ing. Raffaele Narciso, il funzionario Alitalia Giuliano De Angelis, di ritorno alla sede di Teheran con la moglie Emma Zanghi e la loro figlia Monica di appena 9 anni. Nell'attacco perse inoltre la vita il finanziere ventenne Antonio Zara che, giunto per primo sul luogo dell'assalto a seguito dell'allarme generale emanato dalla Torre di controllo dell'aeroporto, tentò di contrastare i dirottatori.
L'attacco risultò essere talmente fulmineo, da non consentire un'adeguata risposta da parte delle forze dell'ordine. All'interno dell'aeroporto infatti in quel momento erano in servizio 117 agenti: 9 carabinieri, 46 finanzieri e 62 poliziotti, dei quali soltanto 8 erano addetti al servizio anti-sabotaggio; un numero irrisorio per un aeroporto intercontinentale come Fiumicino. Il tutto aggravato dal fatto che la struttura aeroportuale non era assolutamente adatta alla prevenzione di attacchi terroristici, in quanto concepita in un'epoca in cui tali eventi non erano prevedibili.



IL TERRORISMO PALESTINESE COMPIE LA PRIMA STRAGE DI FIUMICINO: È IL 17 DICEMBRE 1973
Daniel Clark

https://www.facebook.com/permalink.php? ... 8174765883

È il 1973. È l’anno in cui il presidente degli Stati Uniti Nixon è travolto dallo scandalo Watergate. Quello nel quale Juan Domingo Perón viene eletto presidente in Argentina e nel vicino Cile il generale Augusto Pinochet sale al potere dopo un colpo di stato.
Le tensioni in Medio Oriente culminano nella Guerra del Kippur, che termina con l’esercito israeliano che respinge gli attacchi di Egitto e Siria, l’Egitto libera la penisola del Sinai e la Siria subisce una pesante sconfitta.
In Italia il golpe cileno colpisce la politica italiana. Tanto che pochi giorni dopo l’accaduto, in un saggio su Rinascita intitolato Riflessioni sull’Italia, il segretario del PCI Enrico Berlinguer lancia la proposta del compromesso storico con la DC.
Solo qualche mese prima il ministro dell’Interno Mariano Rumor scampa a un attentato (in cui moriranno quattro persone) durante una cerimonia davanti alla Questura di Milano in memoria del commissario Luigi Calabresi ucciso un anno prima.
È un anno intenso il 1973, sia per l’Italia che per altri paesi. È un anno che prima di volgere al termine, lascia un ultimo grande “strascico”. Quello che dovrebbe rimanere vivo nella memoria collettiva di un paese e di un popolo e, invece, col tempo verrà chiamata la “strage dimenticata”.
Forse perché a differenza di altre stragi, non è stata costituita un’associazione di familiari delle vittime. O forse perché il numero degli italiani morti è una piccola parte rispetto al numero complessivo (32).
Sta di fatto, che il processo di rimozione per la strage di Fiumicino per mano del terrorismo palestinese vale ancora oggi. Una stranezza, visto che nel 1973 questo attacco è quello che ha causato più morti nell’Italia repubblicana: un primato che lascerà sette anni più tardi alla strage di Bologna.
Stranezza che potrebbe essere spiegata così: la strage di Fiumicino è simbolo degli accordi segreti, delle reti di potere e della politica italiana della “moglie americana e l’amante araba”.
Il 1973 è un anno cruciale per gli storici, che studiano quello che in Italia è stato rinominato come Lodo Moro.
Lodo Moro che ancora non è dato sapere se in quel 1973 sia cosa fatta oppure no. Nel corso degli anni, però, si saprà che il 1973 è un anno importante per un accordo che non è prerogativa italiana, tanto che in quegli anni il generale e politico d’Israele, Moshé Dayan, dirà: “Su centodieci terroristi (palestinesi) finora catturati in tutto il mondo, 70 sono stati rilasciati entro breve tempo. Non sappiamo a quanto ammonta il riscatto che è stato pagato ne quali accordi alla luce del sole o sottobanco i vari stati abbiano preso con loro”.*
E infatti anche i terroristi palestinesi responsabili della strage di Fiumicino rimarranno impuniti. Affidati dopo una lunga trattativa al leader palestinese Yasser Arafat.
Sono da poco passate le 12:30 del 17 dicembre 1973 e cinque terroristi palestinesi (ma forse erano di più, il numero non è mai stato accertato con sicurezza) scendono all’aeroporto Leonardo da Vinci di Fiumicino da un aereo appena arrivato da Madrid. Sono anni in cui i controlli di sicurezza negli aeroporti sono praticamente inesistenti, tanto che i terroristi palestinesi non devono sforzarsi più di tanto per nascondere mitra e bombe a mano nei bagagli.
Arrivati al controllo passaporti, i terroristi palestinesi imbracciano le armi e prendono in ostaggio sei agenti di polizia. Il commando si divide: quelli con gli ostaggi si dirigono verso il gate 14, mentre gli altri cominciano a sparare contro delle vetrate per poter uscire direttamente sulla pista.
Pista dove il volo Pan Am 110 si sta preparando al decollo con un ritardo di quasi mezz’ora. Sono le 13.10 e di lì a poco 30 persone stanno per morire perché i terroristi palestinesi lanceranno una bomba al fosforo all’interno dell’aereo.
L’altro gruppo di terroristi raggiunge un Boeing 737 della Lufthansa. Sotto l’aereo c’è l’agente della Guardia di Finanza, Antonio Zara, 20 anni, immobilizzato dai terroristi che gli dicono di allontanarsi. Lui esegue l’“ordine”, ma questo non gli salva la vita, perché i terroristi gli spararono alla schiena.
Un gesto vile, che testimonia la malvagità dei terroristi palestinesi che, con la scusa di rivendicare chissà quale diritto, continuano a uccidere senza pietà.
Poi prendono altri due ostaggi dal personale di terra dell’aeroporto, si ricongiungono al primo gruppo e salgano a bordo dell’aereo Lufthansa e obbligarono l’equipaggio a decollare per Atene.
Sono le 13.32 e da quaranta minuti il terrore regna sovrano sullo scalo internazionale di Roma. Dopo una fuga durata ore e con vari paesi che non vogliono rifornire di carburante l’aereo, i terroristi arrivano in Kuwait. Dopo una lunga trattativa i terroristi vengono consegnati nelle mani dell’OLP.
Gli viene permesso di tenere le loro armi e di scendere dall’aereo come se fossero eroi nazionali per poi essere inghiotti dalla storia e non lasciare più traccia.
C’è un altro particolare. Mentre scendono dall’aereo, i terroristi palestinesi fanno con le dita il segno di “V per vittoria”. Perché per il terrorismo palestinese vincere significa uccidere persone innocenti.



Attentato aeroporto Fiumicino, il terrorismo palestinese colpisce l'Italia
27 dicembre 1985. È il giorno in cui il terrorismo palestinese colpì per la terza volta il suolo italiano.


https://www.facebook.com/permalink.php? ... 8174765883
https://www.progettodreyfus.com/attenta ... cino-1985/

La prima fu 17 dicembre 1973 sempre all’aeroporto di Fiumicino provocando la morte di trentaquattro persone e il ferimento di quindici e la seconda il 9 ottobre 1982 fuori la Sinagoga di Roma dove perse la vita Stefano Gaj Taché e vennero ferite trentasette persone.

Esattamente 32 anni fa, alle nove del mattino, quattro terroristi palestinesi entrano nell’atrio dell’aeroporto Leonardo da Vinci, posizionandosi di fronte ai banchi accettazione delle compagnie aeree El Al e Twa.

Poco dopo, il gruppo terroristico cominciò a sparare coi i propri kalashnikov e lanciò bombe a mano sulle persone che stazionavano davanti ai banchi del check-in e nel bar vicino. Le forze dell’ordine italiane e gli addetti alla sicurezza israeliani risposero al fuoco, uccidendo tre attentatori mentre il quarto venne arrestato. Il vile attentato provocò la morte di tredici persone e il ferimento di altre settanta.

Contemporaneamente, il terrorismo palestinese colpì nel medesimo modo l’aeroporto Schwechat di Vienna, provocando tre morti e quaranta feriti.

Per l’attentato di Fiumicino vennero fatte tre rivendicazioni diverse.

Nel pomeriggio di quel tragico 27 dicembre una telefonata alla rete radiofonica spagnola Ser attribuì l’azione all’organizzazione Abu Nidal nella Costa del Sol.

Poi, arrivò la rivendicazione del gruppo Cellule della guerriglia araba a un’agenzia di stampa internazionale a Beirut (per entrambi gli attentati) e infine quella all’Agenzia Ansa di Milano a nome dell’OLP:

“Abbiamo colpito a Roma e a Vienna perché l’Italia tiene prigioniero un nostro capitano”.

Nonostante le altre rivendicazioni, sia l’attentato di Roma che quello di Vienna vennero attribuiti ad Abu Nidal, lo stesso ritenuto responsabile dell’attacco alla Sinagoga Maggiore.

I due gruppi terroristici erano formati da giovani di età compresa dai 20 ai 25 anni che concepirono le azioni come suicida. Giovani che avrebbero potuto vive una vita diversa e più longeva invece di divenire delle macchine di morte.
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Re: L'Italia antisemita e antisraeliana

Messaggioda Berto » ven dic 17, 2021 9:51 am

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Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: L'Italia antisemita e antisraeliana

Messaggioda Berto » ven dic 17, 2021 9:51 am

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Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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