Paolo Barnard
Paolo Barnard e il revisionismo storico
Andrea Carancini
PAOLO BARNARD E IL REVISIONISMO STORICO
Di Carlo Mattogno
https://www.andreacarancini.it/2010/01/ ... o-storico/ L’articolo di Paolo Barnard Cosa penso io, antisionista e critico dei crimini d’Israele, dell’Olocausto[1] è uno dei più sconcertanti che abbia letto sull’argomento, e non certo per il contenuto, quanto per il tono insolitamente acceso e l’abbondanza di paragoni truculenti del tutto fuori luogo.
Il suo tema centrale, la questione numerica delle presunte vittime olocaustiche, dimostra che egli non ha ben chiaro che cosa si intenda per “Olocausto” e, conseguentemente, di che cosa si occupi il revisionismo. Mi limito a riferire quanto al riguardo hanno osservato due scrittori ebrei, Michael Shermer e Alex Grobman:
«Quando gli storici parlano di “Olocausto” nell’accezione più generale si riferiscono al fatto che circa sei milioni di Ebrei sono stati uccisi in modo intenzionale e sistematico dai nazisti, con l’utilizzo di un certo numero di mezzi diversi, comprese le camere a gas. Secondo questa definizione dell’Olocausto, ampiamente accettata, ciò che i cosiddetti revisionisti dell’Olocausto di fatto stanno facendo è negarlo, poiché ne negano le tre componenti fondamentali: l’uccisione di sei milioni di persone, le camere a gas e l’intenzionalità»[2].
Il revisionismo condivide questa definizione, con la precisazione che i fattori essenziali sono le camere a gas e, soprattutto, l’intenzionalità, ossia la presunta uccisione pianificata e sistematica di Ebrei in quanto tali. Ho già esaminato questo punto in un breve scritto in rete al quale rimando[3].
Il fattore numerico è il meno rilevante, perché – in via di principio – i sei milioni non dimostrano la realtà di un piano di sterminio intenzionale, pianificato e attuato in camere a gas o in qualunque altro modo, come non lo dimostrano i 23 milioni di morti dell’ Unione Sovietica durante la seconda guerra mondiale. Al riguardo, i due autori rilevano giustamente, anche se in senso diverso:
«se siano stati cinque milioni o sei milioni è fondamentale per le vittime, ma è irrilevante se la questione è stabilire se l’Olocausto abbia effettivamente avuto luogo»[4].
In questo contesto va rilevato che i veri «ragionieri contabili dell’atrocità» sono i fondamentalisti dei 6 milioni; coloro che, invece di rallegrarsi per il fatto che il numero reale delle vittime naziste è ben al di sotto di quello preteso, se ne rammaricano e si indignano, perché viene intaccata la loro cifra sacra; coloro che, crollata la leggenda sovietica dei 4 milioni di vittime ad Auschwitz (in massima parte presunti gasati ebrei) e trovatisi all’improvviso defraudati di quasi 3 milioni di vittime, hanno giocato impudentemente al rialzo in altri settori dell’orrore per ripristinare la cifra fatidica dei 6 milioni; coloro che operano «distinguo psicopatici» tra morti ebrei e morti non ebrei, tra “gasati” e “non gasati”, ai primi soltanto essendo riservata la plenitudine divina, salvo poi fingere nelle cerimonie ufficiali di rammaricarsi per zingari e omosessuali, le uniche due categorie di vittime degne di farisaica commozione: per tutte le altre vittime c’è solo un razzistico «chissenefrega». Jahveh non ama i goijm.
Sono costoro a «trovare una differenza determinante nel fatto che 6 milioni di sterminati possano essere in realtà “solo” 4 o 500.000»; è per costoro che «l’orrore si qualifica solo sopra a un certo chilaggio», quello dei 6 milioni; costoro sono i detentori del «termometro dell’Olocausto che dà non applicabile» sotto i 6 milioni di morti.
A questa impostazione del problema, con riferimento agli Ebrei morti sotto il regime nazionalsocialista, indipendentemente dal loro numero, Barnard può sempre obiettare: «Ma che differenza fa, Cristo, se sono morti così o nelle camere a gas?». Certamente nessuna, ma questo è un giudizio morale, non storico. La storia, come accertamento dei fatti, si occupa proprio di questa distinzione, che non è «psicopatica», ma, appunto, storica.
Il tono dell’articolo, virulento e offensivo, è tipico di chi si ritiene il depositario esclusivo dell’humanitas, il monopolista unico della pietas, che profonde la sua virtuosa indignazione sui bruti revisionisti, «malati nell’anima prima ancora che nel cervello», dall’alto di una presunta superiorità intellettuale, morale e culturale.
Egli riassume così la sua attività di studioso:
«Ho dedicato anni del mio lavoro alla questione israelo-palestinese. Ho viaggiato in quelle terre, ho studiato molto, e sono arrivato a una conclusione, o meglio, a un giudizio storico. Premetto che un giudizio storico non dialoga con i singoli accadimenti, coi numeri e con le statistiche, ma solo con la più basilare onestà morale nell’osservazione di un segmento di Storia. Ebbene, la mia conclusione è che in Palestina la componente ebraico-sionista abbia torto marcio».
Egli aggiunge che, al riguardo,
«la storiografia occidentale e i media ad essa asservita ci hanno raccontato sempre e solo menzogne, una colossale e incredibile mole di menzogne, talmente reiterate da divenire realtà per chiunque»
e avverte che la sua conclusione non è una
«ennesima speculazione delirante su chissà quale complotto internazionale plutocratico-giudaico-massone, né una fantasticheria negazionista»,
bensì il frutto di «una autorevolissima ricerca storiografica», di «una rigorosa documentazione» che si attua «nell’ambito della revisione storica degli eventi fondamentali del passato» e fa riferimento a una «mole di dettagli e fatti taciuti e sepolti dalla storiografia ufficiale»[5], la quale, naturalmente, non è troppo incline a riconoscere i meriti di questa ricerca. Esattamente come avviene per la ricerca revisionistica, le cui analogie formali con quella condotta da Barnard sono tanto evidenti che non c’è bisogno di sottolinearle.
Lungi da me il dubbio sulla sua serietà e sul suo rigore, come pure, in modo particolare, sul suo valore come studioso della questione israelo-palestinese. Ciò che però sorprende, e che stona spiacevolmente nel suo articolo, è il gratuito disprezzo che egli manifesta nei confronti di coloro che hanno dedicato anni del loro lavoro alla questione olocaustica, che hanno ispezionato luoghi e visitato archivi, che hanno studiato molto, che hanno messo in luce una mole di dettagli e di fatti taciuti e sepolti da decenni, che hanno elaborato una revisione storica e sono giunti ad una conclusione diversa da quella propalata dalla “storiografia ufficiale”.
Per lui infatti tutto si riduce a «fantasticheria negazionista», giudizio irrispettoso nei confronti di chi ha studiato la propria materia con la stessa serietà, lo stesso rigore, la stessa onestà intellettuale e morale con cui egli ha studiato la sua. E non vale certo chiamare in causa gli “storici” pretesi “demolitori” del revisionismo, perché i “demolitori” delle conclusioni di Barnard sono “storici” che hanno esattamente la stessa competenza e la stessa dirittura intellettuale e morale. Che cosa direbbe egli di chi, facendosi forte della “storiografia ufficiale”, liquidasse la sua ricerca, senza nulla sapere di essa, come fantasticheria antisemitica?
Qui traspare il senso profondo della critica che gli è stata mossa e che ha provocato la sua reazione. Avendo egli sperimentato sulla propria pelle che nel mondo occidentale infuria una storiografia propagandistica, adeguatamente spalleggiata dai mezzi di informazione, forgiatrice di menzogne colossali, incredibili, reiterate a tal punto da divenire realtà per chi non conosce la realtà vera, come può credere sensatamente che tale storiografia operi unicamente nel settore della questione israelo-palestinese? Perché non riconoscere quantomeno la possibilità che la “storiografia ufficiale” ci abbia «raccontato sempre e solo menzogne, una colossale e incredibile mole di menzogne» anche sul tema olocaustico?
D’altra parte, bisognerà pur chiedersi per quale ragione la storiografia occidentale si sia asserragliata su queste posizioni ingannatrici. Scartando l’ «ennesima speculazione delirante su chissà quale complotto internazionale plutocratico-giudaico-massone», resta una sola spiegazione: l’unità d’intenti e di vedute degli Occidentali in funzione olocaustica, ossia il riconoscimento agli Israeliani di «uno status di vittima storica dell’Europa indifferente, quando non pienamente complice» che li rende creditori irrisarcibili: che cosa sono qualche migliaio di Palestinesi assassinati al cospetto dell’immane tragedia olocaustica? L’Olocausto, agli occhi degli Occidentali, conferisce giustificazione morale ai crimini israeliani e li induce a «distinguo», quelli sì, «psicopatici»: sì, è vero, hanno commesso dei crimini, ma che cosa sono di fronte ad Auschwitz? Ogni nuovo crimine trova sempre dei solerti «ragionieri contabili dell’atrocità» pronti a soppesare le sofferenze ebraiche e quelle palestinesi, e il piatto della bilancia precipita sempre immancabilmente dalla parte israeliana. Grazie anche all’offuscamento indotto da “giornate delle memoria”, “criminali di guerra” ultranovantenni, “superstiti” dell’ultim’ora, celebrazioni, libri, film; in breve, grazie all’industria dell’Olocausto. E così gli Occidentali, intimamente rosi da un senso di colpa sordo e artificioso, si scaricano della loro cattiva coscienza esaltando gli Israeliani e sacrificando i Palestinesi.
Ora, dato che la radice della questione israelo-palestinese, per quanto riguarda l’atteggiamento degli Occidentali, è olocaustica, e atteso che è impossibile spezzare dall’interno questo nefasto circolo vizioso, non vale la pena di considerare la possibilità che anche la storiografia olocaustica sia mendace? Accertare se per caso anche questi storici abbiano «torto marcio»? Se è possibile liberare i crimini israeliani dall’enorme contrappeso olocaustico?
Il riconoscimento di questa possibilità legittimerebbe in via di principio la ricerca revisionistica, ma proprio questo, incomprensibilmente, è per tutti intollerabile. Al riguardo Barnard sentenzia apoditticamente:
«L’Olocausto c’è stato, e ribadisco: chissenefrega dei vostri distinguo psicopatici».
Cioè la “storiografia ufficiale” mente sulla questione israelo-palestinese, ma non su quella olocaustica, dove è oracolo di verità; lì ricercatori seri e onesti lavorano alacremente allo smantellamento delle sue menzogne e al trionfo della verità, qui invece c’è una verità precostituita, al di sopra e al di fuori di qualunque indagine, e coloro che osano indagarla sono dei «malati nell’anima prima ancora che nel cervello» e «chissenefrega» delle loro ricerche. Solo quelle condotte da Barnard sono serie, scientifiche, rigorose, accurate, documentate; quelle revisionistiche sono, nel migliore dei casi, «fantasticherie».
Il senso profondo della «pavidità» che gli è stata rimproverata – e che vale per tutti gli altri studiosi anticonformisti, inclusi quelli dei fatti dell’11 settembre 2001[6] – sta tutto qui, nel fatto inquietante che questi valenti ricercatori si dimostrano giustamente ipercritici nel loro settore specifico di studi, ma, in campo olocaustico, diventano ipercreduloni, perdono inspiegabilmente ogni facoltà critica e rifiutano in modo aprioristico qualunque indagine scientifica.
E, per definire un tale atteggiamento, «pavidità» è indubbiamente il termine meno offensivo.
Perché esso potrebbe anche avere a che fare «con la più basilare onestà morale nell’osservazione di un segmento di Storia».
Carlo Mattogno
18 Gennaio 2010
[1] In:
http://www.paolobarnard.info/intervento ... php?id=165.
[2] Negare la storia. L’Olocausto non è mai avvenuto: chi lo dice e perché. Editori Riuniti, Roma, p. 28.
[3] Faurisson: “un vero e proprio insulto alla verita’ storica”?, in:
http://ita.vho.org/012Losurdo.htm[4] Negare la storia. L’Olocausto non è mai avvenuto: chi lo dice e perché, op. cit., p. 231.
[5] Torto marcio, in:
http://www.paolobarnard.info/palestina.php[6] Riguardo a questi ho già svolto considerazioni analoghe nell’articolo Revisionismo e “complottismo”, in:
https://www.andreacarancini.it/2009/02/ ... logie-tra/Paolo Barnard: come asfaltare chi osa negare i crimini di Israele
Tratto da
www.stampalibera.comhttps://www.disinformazione.it/Israele_barnard.htm Quando, il 22 luglio 1946, il terrorismo sionista fece esplodere l’hotel King David di Gerusalemme che ospitava il quartier generale britannico uccidendo 86 funzionari e 5 passanti, e mandando all’ospedale altre 58 persone, Winston Churchill dichiarò testualmente: «Se i nostri sforzi per il futuro del sionismo devono produrre un nuovo gruppo di delinquenti degni della Germania nazista, molti come me dovranno riconsiderare le posizioni tenute così a lungo». Nella stessa epoca, 1948, Albert Einstein e Hannah Arendt scrissero di loro pugno sul “New York Times” una protesta veemente contro la brutale ferocia sionista verso i palestinesi, definendola «simile, in organizzazione e metodi, ai partiti nazisti e fascisti». Lo stesso anno, fu addirittura un ministro del primo governo dello Stato d’Israele, Aharon Cizling, a dichiarare: «Adesso anche gli ebrei si sono comportati come i nazisti, e io sono sotto shock». Parole che tutti dovrebbero ricordare sempre, sottolinea Paolo Barnard, autore di uno studio – basato su prove e documenti storici – che accerta le spaventose e sistematiche atrocità (preventive) commesse da Israele contro i palestinesi.
E’ sempre Israele che sferra il primo colpo, e si tratta di un colpo mortale: pulizia etnica, aggressioni terroristiche, omicidi, campagne militari, stragi, stupri di massa, persecuzioni di ogni genere. Tramortiti da tanta violenza, i palestinesi impiegarono oltre 50 anni a reagire, portando il loro caso di fronte alle Nazioni Unite. Tutto inutile, però: Israele continua a uccidere, e il mainstream lo dipinge regolarmente come vittima della storia e della violenza araba. Una montagna sanguinosa di mistificazioni, che Barnard prova a demolire pubblicando il mini-saggio “Come ‘asfaltare’ chi difende Israele con 10 autorevoli risposte”. Fonti: libri di storia di ogni provenienza, relazioni di organi internazionali, documenti ufficiali di governi occidentali. Autore di libri scomodi come “Perché ci odiano”, che indaga le reali cause della (recente) ostilità del mondo islamico verso l’Occidente imperialista, Barnard definisce questo nuovo studio una «guida imbattibile per distruggere uno per uno gli argomenti usati dai personaggi mediatici asserviti alla menzogna quando difendono il terrorismo d’Israele e il genocidio dei palestinesi».
Premessa: «Anti-sionismo non significa antisemitismo. Sionisti = élite ebrea criminale genocida dominante in Palestina dall’800 a oggi. Semiti sono i normali ebrei e palestinesi, d’Israele, della Palestina o del mondo. Solo gli ignoranti, o i falsari amici dei sionisti, spacciano un anti-sionista per antisemita». Primo luogo comune: “Sono gli arabi ad aver sempre attaccato gli ebrei emigrati in Palestina per sfuggire alle persecuzioni europee”. Falso: «Menzogna storica totale. Per tutto il XIX secolo e oltre, i palestinesi accolsero l’emigrazione ebraica europea con favore, amicizia ed entusiasmo. Al punto che le massime autorità religiose ebraiche d’Europa lo testimoniarono». Lo disse il 16 luglio del 1947 l’eminente rabbino Yosef Tzvi Dushinsky, alle Nazioni Unite: prima del sionismo, «non vi fu mai un momento, nell’immigrazione degli ebrei ortodossi europei in Palestina, nel quale gli arabi abbiano opposto resistenza alcuna. Al contrario, quegli ebrei erano i benvenuti per via dei benefici economici e del progresso che ricadevano sugli abitanti locali, che mai temettero di essere sottomessi. Era risaputo che quegli ebrei giungevano solo per motivi religiosi e non ebbero difficoltà a stabilire rapporti di fiducia e di vera amicizia con le comunità locali».
Vent’anni prima, si esprimeva nello stesso modo un altro rabbino di grande fama, Baruch Kaplan, già a capo della “Beis Yaakov Girls School” di Brooklyn, in giovinezza attivo nella Yeshiva (scuola religiosa) di Hebron. «Gli arabi – dichiarò Kaplan – furono sempre assai amichevoli, e noi ebrei condividemmo la vita con loro a Hebron secondo relazioni di buona amicizia». Lo stesso religioso riferì che il rabbino polacco Avraham Mordechai Alter aveva compiuto una ricognizione in Palestina per «capire che tipo di persone erano i palestinesi, così da poter poi dire alla sua gente se andarci o no». In una lettera, «scrisse che gli arabi erano un popolo amichevole e assai apprezzabile». Lo conferma la Commissione Shaw del governo inglese, a proposito delle violenze fra arabi e sionisti nel 1929: «Prima della Grande Guerra (1915-18) gli arabi e gli ebrei vivevano fianco a fianco, se non in amicizia, almeno con tolleranza». Negli 80 anni precedenti, cioè in epoca precedente al fenomeno sionista, «non ci sono memorie di scontri violenti fra i due popoli». Due popoli? Secondo la vulgata sionista, non esisteva un vero popolo Si trattava di “tribù sparse”, con “pochi individui che vivevano sulle terre bibliche”. Un leader storico del movimento sionista europeo, Israel Zangwill, dichiarò a inizio secolo che «la Palestina è una terra senza popolo», al contrario degli ebrei, «popolo senza terra». Una menzogna, scrive Barnard, smentita di nuovo dall’interno dello stesso movimento sionista europeo, che iniziò la colonizzazione su larga scala della Palestina alla fine del XIX secolo.
Al 7° congresso sionista del 1905, un leader di nome Yitzhak Epstein si alzò e lasciò agli atti questa frase: «Diciamoci la verità. Esiste nella nostra cara terra d’Israele un’intera nazione palestinese, che vi ha vissuto per secoli, e che non ha mai pensato di abbandonarla». La narrazione filo-sionista condanna chi considera colonialisti gli israeliani? Peccato, perché «il movimento sionista europeo nacque razzista, violento e prevaricatore (come è oggi). All’arrivo in Palestina trattarono subito i palestinesi come bestie, perché li consideravano poco più che bestie. Furono i sionisti a iniziare violenze e atrocità contro i palestinesi pacifici». A inizio ‘900, in uno scambio fra un fondatore del movimento sionista ebreo europeo, Chaim Weizmann (che sarà il primo presidente d’Israele nel 1948) e gli allora padroni coloniali inglesi, si legge: «Gli inglesi ci hanno detto che in Palestina ci sono qualche migliaio di negri (“kushim”), che non valgono nulla». Parole inequivocabili, e indelebili. Il più celebre umanista sionista della storia, Ahad Ha’am, lanciò un allarme contro la violazione dei diritti dei palestinesi da parte dei sionisti: gli ex “servi nelle terre della Diaspora” «d’improvviso si trovano con una libertà senza limiti, e questo cambiamento ha risvegliato in loro un’inclinazione al dispotismo».
«Essi – continua Ha’am – trattano gli arabi con ostilità e crudeltà, gli negano i diritti, li offendono senza motivo, e persino si vantano di questi atti. E nessuno fra di noi si oppone a queste tendenze ignobili e pericolose». Era il 1891, osserva Barnard, mezzo secolo prima di Hitler: già allora il razzismo e la violenza sionista faceva questo a palestinesi innocenti. «Per quasi 50 anni prima dell’Olocausto – continua Barnard – i sionisti che emigravano in Palestina aggredirono i palestinesi e programmarono nei dettagli la pulizia etnica della Palestina, con metodi feroci e terroristici. Ripeto: 50 anni prima di Hitler». Il padre del movimento sionista, Theodor Herzl, aveva dichiarato: «Tenteremo di sospingere la popolazione (palestinese) in miseria oltre le frontiere, procurandogli impieghi nelle nazioni di transito, mentre gli negheremo qualsiasi lavoro sulla nostra terra… Sia il processo di espropriazione che l’espulsione dei poveri devono essere condotti con discrezione e di nascosto». Un’altra personalità sionista di fine ‘800, Leo Motzkin, sancì: «La colonizzazione della Palestina si fa colonizzando tutta l’Israele biblica, e deportando i palestinesi da altre parti».
E’ quindi ovvio che il destino di pulizia etnica del palestinesi fu progettato 50 anni prima della Shoah. E anche nelle decadi successive alla fine ‘800, «il razzismo e la pulizia etnica contro i palestinesi rimasero priorità», per lo Stato ebraico. Alla fine degli anni ’30, ricorda Barnard, «il leader sionista Yossef Weitz aveva anticipato gli infami protocolli nazisti di Wannsee (che, fra le altre cose, listavano gli ebrei d’Europa da deportare) scrivendo i ‘Registri dei Villaggi’ dove si indicavano tutte le famiglie palestinesi da cacciare a forza». Peggio: «Addirittura Ephraim Katzir (che diventerà presidente di Israele, pensate) arrivò a lavorare in laboratorio per trovare un veleno per accecare i palestinesi». Il leader storico sionista, David Ben Gurion, aveva redatto il Piano Dalet per la completa pulizia etnica della Palestina ben prima dell’arrivo in Palestina dei profughi dai campi di sterminio tedeschi. Nel suo stesso diario, Ben Gurion scrisse cose atroci su come colpire i palestinesi innocenti: «Dobbiamo essere precisi su coloro che colpiamo. Se accusiamo una famiglia palestinese non c’è bisogno di distinguere fra colpevoli e innocenti. Dobbiamo fargli del male senza pietà, altrimenti non sarebbe un’azione efficace».
E allora, l’aggressione araba contro gli ebrei del 1948? “Tutte le nazioni arabe attorno alla Palestina – dice il mainstream sionista – tentarono di sterminare gli ebrei, che per fortuna vinsero quella guerra, se no sarebbe stato un altro Olocausto!”. Infatti, i leader arabi “incitarono via radio i palestinesi ad abbandonare i loro villaggi per permettere lo sterminio degli ebrei!”. Per questo, “i palestinesi se ne andarono volontariamente”. «Menzogna completa», protesta Barnard. Intanto, allo scoppio della guerra arabo-ebraica del 1948, gli ebrei sionisti avevano già inflitto 50 anni di atrocità, pulizia etnica e stragi ai civili palestinesi, «per cui la reazione araba aveva una giustificazione pluri-decennale». Ma la tanto millantata guerra del 1948 fu «una messa in scena totale, una vera bufala già organizzata affinché i sionisti vincessero, grazie ad accordi segreti fra Ben Gurion e il Re arabo della Transgiordania, Abdullah». La “guerra bufala”, la chiamò nelle sue memorie il comandante delle truppe arabe, l’ufficiale arabo-inglese Glubb Pasha.
Il re Abdullah e Ben Gurion finsero di combattersi per poi spartirsi la Palestina. Le altre truppe arabe non potevano impensierire Israele: «Gli egiziani erano per la metà Fratelli Musulmani con le ciabatte ai piedi, i libanesi non combatterono mai, i siriani erano armati ma erano quattro gatti, e gli iracheni erano sotto gli ordini del traditore Abdullah, per cui fecero nulla». Infatti, dai diari di Ben Gurion, risulta che in piena guerra del ’48 raccomandò al suo esercito: «Tenete il meglio delle truppe per la pulizia etnica della Palestina, secondo il Piano Dalet». Quanto alle “trasmissioni radio” dei leader arabi per incitare i palestinesi ad abbandonare la regione, si tratta di un falso storico sonoramente smentito dalla Bbc, che monitorò l’intera massa di comunicazioni circolate in Medio Oriente nel 1948. Tutte le trascrizioni sono custodite al British Museum di Londra: in esse, scrive Barnard, non vi è traccia di un singolo ordine di evacuazione da parte di alcuna radio araba dentro o fuori dalla Palestina.
Al contrario, si possono leggere gli appelli ai civili palestinesi affinché rimanessero a presidiare le loro case. E lo si può ben capire: nel 1948, alla vigilia della guerra “fondativa” del mito dell’invincibilità militare di Davide che si batte per difendersi dal gigante Golia, «la pulizia etnica sionista aveva già espulso 750.000 palestinesi, tutti civili». Ma la menzogna è tenace, si replica puntualmente con la Guerra dei Sei Giorni del 1967, quando gli arabi “tentarono di sterminare gli israeliani”, i quali “in una prova di eroismo militare riuscirono ad evitare un altro Olocausto”. «Questa versione è una farsa, distrutta vergognosamente dai documenti segreti del governo americano e della Cia», annota Barnard. «Non solo gli israeliani non corsero alcun reale pericolo nella cosiddetta Guerra dei Sei Giorni, ma gli arabi tentarono di tutto per non combattere, e furono ignorati da Tel Aviv e dagli Usa. Il governo israeliano invece terrorizzò la popolazione ebraica in quell’occasione, sapendo perfettamente che avrebbe attaccato per primo e avrebbe stravinto».
Lo rivelano i documenti americani “declassificati” nel 2005: fu Israele ad aggredire gli arabi, non il contrario. La Cia sapeva che Israele avrebbe annientato gli arabi. Il 3 giugno 1967, al Pentagono, il ministro della difesa statunitense Robert McNamara incontrò il capo del Mossad, Meir Amit. «Quanto durerà questa guerra?», gli chiese. «Durerà sette giorni», rispose il capo dell’intelligence israeliana. Tutto questo mentre il presidente egiziano Nasser, teoricamente nemico di Israele, «disperatamente tentava i contatti con gli inglesi e con gli americani per evitare la guerra», inviando a Washington il suo ministro degli esteri Zakariya Mohieddin per cercare di mediare la pace. «Mentre Mohieddin sta per partire per l’America, gli israeliani attaccano l’Egitto e distruggono l’esercito egiziano».
Il premier israeliano Menahem Begin, molti anni dopo confessò tutto: l’aggressione araba era una ‘bufala’. Fu Israele ad aggredire, disse al “New York Times”: «Nel giugno del 1967 di nuovo affrontammo una scelta. Le armate egiziane nel Sinai non erano per nulla la prova che Nasser ci stesse attaccando. Dobbiamo essere onesti con noi stessi. Noi decidemmo di attaccare lui». Questa, conclude Barnard, è un’altra grande bugia che ci hanno raccontato, ed è un modello della storiografia su Israele: «Ci raccontano sempre questa cosa, che Israele è la vittima, che sta per soccombere agli arabi cattivi, mentre la realtà è esattamente diametralmente l’opposto». Perché tante menzogne? Semplice: «L’élite bellica sionista-israeliana ha bisogno delle finte aggressioni arabe, ha bisogno dei pericoli, ha bisogno della minaccia inventata o gonfiata per mantenersi al potere».
Per questo, aggiunge Barnard, l’élite israeliana ha così tanta paura della pace, e lavora da sempre – anche all’Onu – per sabotarla in ogni modo, a partire dalla storica risoluzione 181 del 1947. «La leadership sionista visse, e sopravvive oggi, solo grazie alla strategia della tensione che loro creano provocando violenze, proprie o palestinesi, continue». Se la leadership sionista accettasse la pace, continua Barnard, «dovrebbe confrontarsi con un paese, Israele, che essa gestisce da cani». A quel punto, «gli israeliani li caccerebbero». Sono vittime del loro governo, debitamente disinformate. Come valutare, del resto, lo stesso piano di pace del 1947? Consegnava agli ebrei, minoranza assoluta, il 56% delle terre. Il Negev andava a Israele, benché abitato da 90.000 arabi e appena 600 ebrei, ai quali andava anche l’unico porto commerciale vitale, Haifa. Poi andava agli ebrei l’86% delle terre fertili, aranceti, ulivi. Ai palestinesi erano anche negati i confini con la Siria, dove vi sono le fonti di acqua. E Gerusalemme rimaneva “internazionale”, ma di fatto in mano ebraica. «Questa è la vergognosa realtà. Come potevano i palestinesi accettare?».
Lord Alan Cunningham, l’ultimo Alto Commissario inglese in Palestina, scrisse a Ben Gurion nel marzo 1948: «I palestinesi sono calmi e ragionevoli, voi sionisti fate di tutto per provocare violenza». Il diplomatico americano Mark Ethridge, inviato alla conferenza di Pace di Losanna nel 1949, dichiarò furioso: «Se non siamo arrivati alla pace è primariamente colpa d’Israele». Nel 1971 il presidente egiziano Sadat aveva offerto la pace a Israele in cambio del suo Sinai illegalmente occupato. Tel Aviv reagì mandando Ariel Sharon a fare la pulizia etnica del Sinai, dove l’esercito israeliano fece orrende stragi condannate dall’Onu e causò la Guerra del Kippur, del 1973. Inoltre, «la criminosa invasione israeliana del Libano nel 1982 (19.000 morti civili arabi) fu causata non da minacce a Israele, ma dall’esatto contrario». Massima rivelazione dell’orrore, il massacro dei civili rifugiati nei campi profughi palestinesi di Sabra e Chatila, sterminati da miliziani su ordine dello stesso Sharon.
La vera crisi, per Israele, è la pace: Tel Aviv andò in tilt nel 1982, di fronte alla clamorosa proposta di pace avanzata da Yasser Arafat. Il leader dell’Olp, futuro capo dell’Autorità Nazionale Palestinese, fece di tutto per fermare gli estremisti islamici. Lo ammise lo stesso capo dei servizi segreti ebraici Shab’ak, cioè Ami Ayalon, in una relazione al governo: «Arafat sta facendo un ottimo lavoro, si è lanciato anima e corpo contro i terroristi». La massima occasione per la pace? Fu l’incontro a Camp David nel luglio del 2000 fra Clinton, Arafat e il premier israeliano Ehud Barak. «La stampa mondiale riportò che fu Arafat a rifiutare la pace, ma è falso. Fu il contrario. Ai palestinesi non fu presentata alcuna proposta scritta, gli fu chiesto di cedere un 9% di terre, e di ricevere un misero 1%, gli fu negata ogni discussione sul ritorno dei profughi cacciati dalla pulizia etnica pre 1948 (come invece sancisce la Risoluzione Onu 194) e non gli fu concesso nulla su come dividersi Gerusalemme. Come poteva Arafat accettare?».
E’ provato che, mentre Israele predicava la pace, in segreto pianificava altra pulizia etnica della Palestina, nonché l’uccisione di Arafat e la guerra ai civili. Sono stati scoperti 5 piani segreti della difesa israeliana a questo scopo, racconta Barnard: nel 1996 il piano “Field of Thorns”, nel 2000 il secondo piano “Field of Thorns”, nel 2001 il piano Dagan, nel luglio 2001 il piano di Shaul Mofaz chiamato “La Distruzione dell’Anp di Arafat”, che in quel momento collaborava con Tel Aviv, e nel 2002 il piano “Eitam” con gli stessi scopi. Nel 2003 gli Usa propongono la pace nel documento “The Road Map”, dove si parla anche di un “Israele che cessi ogni violenza contro i civili palestinesi”. I palestinesi l’accettarono e dichiararono il cessate il fuoco. Tel Aviv portò 14 emendamenti alla proposta americana e di fatto la distrusse. Ma non solo. Ariel Sharon intensificò gli assassinii di sospetti (ma non processati) membri di Hamas, ammazzandogli spesso anche mogli e bambini, ovviamente esacerbando le tensioni. Fine della “Road Map”.
Stessa musica con i cessate il fuoco di Hamas, «praticamente sempre violati da Israele, al punto che nel 2006 in una conversazione segreta fra i leader di Hamas in Gaza e Damasco, si sente dire “Non abbiamo ricevuto nessun beneficio dal nostro cessate il fuoco di un intero anno, Israele continua la violenza contro i civili, e stiamo perdendo la reputazione coi civili palestinesi”». Nel famoso rapimento da parte di Hamas del soldato israeliano Gilad Shalit, viene omessa una verità scomoda, e cioè che «il giorno prima Israele aveva rapito due medici palestinesi senza alcun mandato legale, e li ha fatti sparire “incommunicado” (mai rilasciati né processati). La provocazione fu quindi israeliana». Eppure, in un articolo sul “Washington Post” del luglio 2006, il leader di Hamas Ismail Haniyeh riconobbe pienamente il diritto d’Israele di esistere, nonché il diritto alla pace fra «tutti i popoli semiti dell’area». Haniyeh lo fece «nonostante sapesse che quando Arafat riconobbe Israele nel 1993 non ottenne assolutamente nulla, solo violenza». Così, Tel Aviv ignorò anche l’offerta di Haniyeh.
Nel 2007 gli Stati Uniti offrono la pace nel Trattato di Annapolis. Ma poiché il testo della Casa Bianca contiene la frase “cessare il terrorismo sia da parte palestinese che israeliana”, Israele boicottò tutto l’accordo. Fine del Trattato di Annapolis. Persino da dentro l’establishment militare d’Israele arriva l’ammissione che è Tel Aviv che boicotta la pace. L’ex capo del Mossad, Efraim Halevy, dicharò nel 2009: «Se Israele volesse veramente eliminare la minaccia dei razzi di Hamas», rudimentali aggeggi, «dovrebbe permettere ai civili di Gaza di sopravvivere consentendo loro di ricevere i beni vitali attraverso la frontiera con l’Egitto, non strangolarli alla fame. Questo garantirebbe la pace a Israele per decenni». Lo conferma Robert Pastor, docente all’American University, già inviato dell’ex presidente Usa Jimmy Carter nei Territori Occupati, cioè Cisgiordania e Gaza. Parole esplicite: è Israele che boicotta la pace. «Hamas – dice Pastor – aveva fermato il lancio dei razzi dal giugno al novembre 2008, ma Tel Aviv non solo rinnegò la promessa di allentare lo strangolamento dei civili di Gaza per cibo, medicinali, e acqua, ma bombardò un “tunnel della disperazione”, quelli che fanno passare poche cose dall’Egitto ai palestinesi. Comunicai chiaramente al governo israeliano che Hamas avrebbe esteso il cessate il fuoco se l’assedio di Gaza si fosse allentato, ma mi ignorarono totalmente».
Scrive il mitico reporter d’inchiesta americano Seymour Hersh: «L’attacco a Gaza (2008) da parte d’Israele, e i massacri conseguenti, vennero guarda caso quando il governo turco era riuscito a mediare con diplomatici di Tel Aviv un accordo completo per il ritiro israeliano dal Golan occupato illegalmente da Israele. Ma è ovvio che l’assalto a Gaza distrusse tutta la mediazione. Non fu una coincidenza». Lo sostiene anche l’“Huffington Post”: «Il cessate il fuoco di Hamas del 2008 reggeva benissimo. Fu Israele a uccidere per primo, il 4 novembre. Poi sempre un raid aereo israeliano uccise altri 6 palestinesi, nonostante il cessate il fuoco. Abbiamo fatto un seria ricerca su chi, fra Israele e Hamas, ha rotto più volte il cessate il fuoco in quasi 10 anni, con l’aiuto dell’organizzazione israeliana B’Tselem. E’ indubbiamente Israele che uccide per primo durante un cessate il fuoco, nel 78% dei casi precisamente. Hamas ha violato le tregue solo nell’8% dei casi. Ma se parliamo di tregue lunghe più di 9 giorni, Israele le ha violate per primo nel 100% dei casi».
Come si può affermare di fronte a queste prove che sono i palestinesi a rifiutare la pace? A spezzare le tregue? E’ l’esatto contrario, protesta Barbnard. «Questo, senza dimenticare che anche in tempi di cessate il fuoco, Israele continua la sua politica di pulizia etnica palestinese e di violenze gratuite e distruttive contro i villaggi palestinesi, contro il loro diritto di nutrirsi, con rapimenti di minori che spariscono “incommunicado”, torture di prigionieri senza processo e senza tutele legali». Nonostante ciò, la narrazione filo-sionista ha il coraggio di ripetere che “Israele è l’unico Stato democratico della zona”, e quindi “è vergognoso chiamarlo Stato razzista”. In realtà, proprio il razzismo «fu ed è la linfa vitale di tutto il movimento sionista: oggi Israele è l’unico Stato moderno che mantiene un sistema di apartheid feroce contro i palestinesi, talmente rivoltante da essere stato condannato in tutto il mondo». La democrazia in Israele? «Riguarda solo la popolazione ebraica, e neppure tutta».
Pochi sanno che le leggi emanate nei decenni dal Jewish National Fund sulle terre di Palestina, da loro occupate attraverso la pulizia etnica, sanciscono che tali terreni sono riservati al 90 agli ebrei; ai palestinesi è proibito affittare o comprare quei terreni che una volta erano loro, prima della colonizzazione sionista. Nel 2003 l’Istituto Israeliano per la Democrazia fece un sondaggio fra gli ebrei israeliani che diede questi risultati: il 53% sostenne che i palestinesi non avevano diritto all’eguaglianza civica con gli ebrei, e il 57% disse che andavano semplicemente cacciati a forza. Il Comitato dell’Onu sui diritti economici, sociali e culturali ha denunciato in termini tragici la mancanza di democrazia in Israele: anche i cittadini israeliani di origine araba sono esclusi dalla residenza nel 93% delle terre; sono esclusi dalla maggior parte dei sindacati, dei servizi pubblici come acqua, elettricità, alloggi, sanità, e sono relegati alle scuole peggiori. I loro salari sono sempre inferiori a quelli degli ebrei. Infine, dice il rapporto dell’Onu, il trattamento da parte israeliana dei beduini è al limite dei crimini contro l’umanità. Bella democrazia, no?
«Non c’è Stato ebraico senza la cacciata dei palestinesi e l’espropriazione della loro terra», chiarì Sharon. Razzismo, apartheid. Lo disse anche un famoso giurista sudafricano, John Dugard, esperto di segregazione razziale, inviato dalle Nazioni Unite in Israele e Territori Occupati. Dugard consegnò all’Onu le seguenti parole: «Le leggi e le azioni d’Israele nei Territori Occupati (illegalmente), certamente rispecchiano parti dell’apartheid sudafricana. Si può forse negare che lo scopo di tali azioni e di tali leggi è di mantenere il dominio di una razza (ebrei) su un’altra razza (palestinesi), per schiacciarli sistematicamente?». La democrazia israeliana, inoltre, tollera fra i partiti dell’arco costituzionale il “National Union Party”, che chiede apertamente la distruzione della popolazione palestinese e nega ai palestinesi il diritto di esistere. «Israele – scrive Barnard – è l’unico Stato al mondo dove nel 1995 il governo ha introdotto il concetto di “gruppi di popolazione”, distinguendo il gruppo “ebrei e altri” dal gruppo “arabi”. Il primo comprende ebrei e cristiani non arabi, il secondo musulmani e arabi cristiani. L’unico altro Stato al mondo che aveva questa distinzione settaria era il Rwanda».
E c’è di peggio: una rappresentante del partito israeliano “Jewish Home”, la giovane Ayelet Shaked, insieme all’accademico israeliano Mordechai Kedar dell’università di Bar Ilan, ha scritto che le famiglie, cioè bambini, mogli e nonni dei “terroristi” di Hamas «vanno sterminate», e che le loro sorelle e madri «vanno stuprate», dopo 80 anni di orrori ebraici contro quelle famiglie, quelle madri e quelle sorelle. E’ esplicito il professor Joel Beinin, docente di storia alla Stanford University, negli Usa: ha intitolato un suo saggio “Il razzismo è il pilastro dell’operazione Protective Edge di Israele”. Davide e Golia? Sì, ma bisogna invertire le parti:«Il primo attacco suicida palestinese contro Israele è dell’aprile 1994 ad Afula, esattamente dopo un secolo di terrore e di crimini sionisti-israeliani contro i civili palestinesi», chiosa Barnard, che nel suo dossier documenta in modo millimetrico lo sterminato bilancio dell’orrore israeliano. «Uno dei più gravi atti terroristici commessi dal regime di Tel Aviv, in violazione di ogni norma morale e di legalità internazionale, è l’indiscriminato attacco armato agli operatori medici e paramedici che vanno in soccorso ai civili e ai militari palestinesi feriti o uccisi durante gli scontri».
Anche questa indicibile pratica è documentata oltre ogni dubbio. «Le Forze di Difesa Israeliane hanno sparato sui veicoli che tentavano di raggiungere gli ospedali, con conseguenti morti e feriti. Medici e personale paramedico sono stati uccisi da colpi di arma da fuoco mentre viaggiavano sulle ambulanze, in chiara violazione della legalità internazionale». Da anni Israele sferra attacchi mostruosi su Gaza, sterminando i civili, col pretesto di difendersi dai rudimentali razzi di Hamas, sparati per disperazione. In 14 anni, i razzi Kassam hanno ucciso dai 33 ai 50 civili israeliani, mentre in soli 6 anni Israele ha assassinato un totale di 2.221 civili palestinesi di Gaza, donne e bambini. Norman Finkelstein, ebreo americano e professore di scienze politiche, aggiunge un dettaglio agghiacciante: «Per reprimere la resistenza palestinese, un ufficiale israeliano di alto rango ha sollecitato l’esercito ad analizzare e a far proprie le lezioni su come l’armata tedesca combatté nel Ghetto di Varsavia». Finkelstein è figlio di vittime dell’Olocausto. «Se gli israeliani non vogliono essere accusati di essere come i nazisti – scrive – devono semplicemente smettere di comportarsi da nazisti».
Risposta al volumetto "Come asfaltare chi difende Israele..." (parte 1) - Zhistorica
18 maggio 2015
https://zweilawyer.com/2015/05/18/rispo ... e-parte-1/ Questo volumetto di Paolo Barnard, che si autoassegna la vittoria dialettica, mi ha subito attirato. A farmelo conoscere è stato un amico pro-palestina, no-global e no-tav che, leggendomelo, era convinto di farmi cambiare idea su Israele.
In questo ed in altri articoli farò emergere la modestia delle 10 argomentazioni addotte da Barnard.
Il pdf si apre con il titolo e le foto di Saviano e Travaglio. Ora, pur apprezzando pochissimo il primo (mentre il secondo non mi dispiace nella maggior parte dei suoi interventi), non vedo quale sia il nesso con gli argomenti trattati nelle pagine seguenti. I due sono favorevoli a Israele, ma prenderli come archetipo del sionista militante mi sembra un poco esagerato.
Comunque, iniziamo dall’introduzione del volumentto.
paolobarnard.info docs Come_asfaltare_chi_difende_israele_in_10_mosse 1
Il riferimento al genocidio dei Palestinesi, o il parallelo olocausto-genocidio palestinese, sono menzogne che trovano particolare favore presso taluni ambienti. Forzare la storia in modo da mettere sullo stesso piano fatti già condannati e fatti che non hanno nulla a che vedere con i precedenti è un ottimo metodo per distorcere il sentire comune. Martellato dalla propaganda pro-palestina, l’uomo medio è portato a credere che in Palestina sia in atto un massacro indiscriminato di arabi, analogo a quello subito dagli ebrei nella germania nazista. Al parallelo fra il vero genocidio subito dagli ebrei e quello, fasullo, degli arabi di Palestina, non può che seguire quello fra nazismo e sionismo.
Ai poveri di spirito e cultura che parlano di pulizia etnica e genocidio (tecnicamente sono due fattispecie distinte, ma le lascio nello stesso calderone per semplicità) è necessario far notare una cosa:
1) nel 1933 in Germania c’erano 500.000 ebrei, nel 1943 circa 20.000 (quasi tutti sposati con cristiani).
2) nei territori Palestinesi nel 1970 abitava 1 milione di arabi, 3.5 milioni nel 2004 , 4.4 milioni nel 2013.
Quanto al conflitto arabo-israeliano, questo viene visto come la modalità principale attraverso cui Israele porterebbe avanti il genocidio degli arabi di Palestina. Tuttavia, Gunnar Heinsohn and Daniel Pipes hanno dimostrato ampiamente come il questo conflitto sia uno dei meno letali della seconda metà del XX secolo. Dal 1948, nelle guerre con Israele sono morti infatti 46.000 arabi musulmani (compresi quelli appartenenti alle forze armate giordane, libanesi, siriane ecc.), ma questi numeri sono sufficienti a raggiungere solo la 49° posizione nella classifica della “letalità” dei conflitti dal 1950 ad oggi. Al termine dello studio, i due professori hanno affermato:
“Nonostante la relativa non letalità del conflitto arabo-israeliano, la sua fama, notorietà, complessità, e importanza diplomatica probabilmente continueranno a dargli una rilevanza esagerata nell’immaginario comune. E la reputazione di Israele continuerà a farne le spese.”
Che strano modo di portare avanti un genocidio, non trovate? Arabi di Palestina quadruplicati in quaranta anni, conflitti con un basso indice di letalità, parità di diritti fra cittadini a dispetto della fede professata. Sono dati incontrovertibili che rendono ridicola ogni accusa di pulizia etnica o genocidio.
Passiamo alla definizione di Sionismo.
da wikipedia:
“Il sionismo è un movimento politico internazionale il cui fine è l’affermazione del diritto alla autodeterminazione del popolo ebraico mediante l’istituzione di uno stato ebraico, inserendosi nel più vasto fenomeno del nazionalismo moderno.”
Garzanti:
“Movimento politico e culturale ebraico nato alla fine del secolo XIX per opera dello scrittore Th. Herzl (1860-1904) con lo scopo di ricondurre gli ebrei nell’antica terra di Israele per costituirvi una comunità nazionale | dopo la proclamazione dello stato d’Israele (1948), movimento internazionale d’opinione che sostiene il diritto all’esistenza del nuovo stato“
la Treccani si spinge oltre:
“Movimento politico-religioso ebraico, espressione di vari orientamenti ideologici, costituitosi a Basilea nel 1897 allo scopo di creare in Palestina uno stato nazionale indipendente per il popolo ebraico, e praticamente esauritosi nel 1948, con la proclamazione dello Stato d’Israele. Nell’attuale pubblicistica politica, il termine è passato a indicare, con connotazione polemica, la politica di intransigente chiusura del governo di Israele nei confronti del movimento per l’autodeterminazione del popolo palestinese.”
Barnard però va oltre, e ha la pretesa di riscrivere il significato del termine. Lo fa, per giunta, prima ancora di provare, tramite le sue famose “10 argomentazioni”, che questo nuovo significato possa avere una qualche veridicità.
E’ liberissimo di farlo, così come io sono libero di definire, da domani, il “comunismo” come “un insieme di idee economiche, sociali e politiche, volto a privatizzare i mezzi di produzione e ad approvare il più sfrenato capitalismo individualista”.
Definendo il sionismo come il movimento della “Elite ebrea criminale genocida dominante in Palestina”, si dimostra solo una completa ignoranza della questione (oltre a una certa difficoltà nell’uso della punteggiatura).
Vogliamo definire il Sionismo in due parole? Si tratta semplicemente dell’aspirazione degli ebrei ad avere un proprio stato nei territori una volta appartenuti al Regno di Giuda e di Israele. Niente di più. Chi si proclama orgogliosamente antisionista (specificando, di solito, “ma non antisemita”), non fa altro che dichiararsi contrario allo Stato di Israele. Un antisionista vuole uno stato arabo palestinese e tutti gli ebrei fuori dalla zona. Non ci può essere, di conseguenza, un antisionista che sia a favore della soluzione a due stati o anche solo all’esistenza di Israele.
Dopo questa premessa, passiamo al punto 1.
asf israele punto 1
Devo essere sincero: penso di non aver mai sentito (quantomeno non in questi termini) un sionista utilizzare questa argomentazione. Gli arabi di Palestina, dopo secoli di immobilismo istituzionale, economico e sociale dovuto alla dominazione ottomana, erano ovviamente felici di vedere rimpolpate le piccole comunità ebraiche presenti in Palestina e la creazione di nuove. Già negli ultimi decenni del XIX secolo, gli Ebrei (che nel 1925 rappresentavano il 15% della popolazione) erano riusciti a costituire centri agricoli e commerciali che migliorarono in modo massiccio le condizioni di vita degli arabi. Questo porta a poter considerare il primo punto proposto da Bernard come un “autogoal”, o almeno a denotare una certa confusione del soggetto in questione.
Per approfondire il discorso, bisogna sottolineare come l’immigrazione degli ebrei fu accompagnata da una parallela immigrazione di arabi dalle province ottomane limitrofe. Purtroppo le statistiche relative alla Palestina pre-Mandataria sono mediocri, ma sappiamo che fra il 1922 e il 1930 la popolazione della Palestina si modificò così:
ANNO MUSULMANI EBREI
1922 589.177 83.790
1930 733.149 164.796
Ad un aumento della popolazione ebraica pari a 80.000 unità (il doppio rispetto al 1922), ce ne fu uno di quella musulmana pari a 150.000.
Fra tutti le fonti che poteva citare Barnard sulla coesistenza fra arabi ed ebrei, pescare proprio Baruch Kaplan è pura sfortuna (per lui). Barnard infatti dice, giustamente, che il rabbino si formò a Hebron negli anni ’20, ma omette un piccolissimo particolare.
Hebron era una delle comunità ebraiche più antiche della Palestina, composta perlopiù da Sefarditi e da Ashkenazi giunti nel secolo precedente. A metà agosto del 1929, prendendo a pretesto le mire ebraiche sul Muro Occidentale (Muro del Pianto), Haj Amin El Husseini e Aref el Aref istigarono una folla inferocita a massacrare gli Ebrei. Il 24 agosto ne furono uccisi 67. I rapporti parlano di rabbini castrati, bambini decapitati e giovani cui erano state amputate le dita o le mani.
Molti Ebrei riuscirono a rifugiarsi presso la stazione di polizia o alcune famiglie arabe, ma quella fu la fine della convivenza pacifica ad Hebron.
Un concetto di pacifica convivenza tipicamente islamico, in cui finché sei capace di fornirmi denaro o vantaggi sei il benvenuto, ma se alzi la testa meriti di essere massacrato. Come testimoniò Mousa J. Kaleel (arabo cristiano), nel suo libro When I was a boy in Palestine (1914):
When I was a boy in Palestine
Vai alla SECONDA PARTE.
Risposta al volumetto “Come asfaltare chi difende Israele…” (parte 2) - Zhistorica
https://zweilawyer.com/2015/05/25/rispo ... e-parte-2/ La seconda parte dell’articolo che confuta le (mediocri) argomentazioni di Barnard contro il Israele e il Sionismo. Nella prima parte ho già parlato della grottesca definizione di Sionismo proposta dall’ignorante di cui sopra.
n2 asflatare israele
Nella mente di alcuni soggetti, la Palestina di fine XIX secolo era una terra ricca e densamente abitata dal presunto popolo palestinese. Nulla di più falso.
Ma andiamo con ordine, partiamo dalla prima frase, attribuita a Israel Zangwill. La pronunciò nel 1901, ma non si tratta di uno slogan propriamente sionista, visto che era stata usata già sessanta anni prima (QUI per approfondire la genesi dello slogan). Ad ogni modo, prendere proprio Zangwill fra tutti gli appartenenti al Movimento Sionista non è un’ottima idea. Pochi anni dopo infatti, egli abbandonò le posizioni di Herzl e divenne un convinto territorialista. Ora, non sta a me riassumere tutte le vicende interne al Movimento Sionista, ma è doveroso precisare che, accanto ai sostenitori di un ritorno in Israele, si formò un gruppo di Ebrei che pensavano fosse più fattibile la creazione di uno Stato Ebraico in Uganda, Canada, Australia, o in altri luoghi individuati di volta in volta.
Senza bisogno di andare a pescare Y. Epstein, a Barnard sarebbe bastato leggere gli scritti successivi di Zangwill, in cui arrivò a dare la cifra esatta, confermata dalle fonti mandatarie, di 600.000 arabi presenti in Palestina (The Voice of Jerusalem, MacMillan, 1921).
A titolo di curiosità, e come remind per questo ed i prossimi articoli, riporto il brano originale:
The voice of Jerusalem Z
Come potete vedere, anche un territorialista come Zangwill non parla di Palestinesi, mai considerati come popolazione a sé stante prima del XX secolo, ma di Siriani, Egiziani, Drusi e addirittura Bulgari (trasferiti nel corso della ritirata Ottomana dal continente europeo) e “insediamenti considerevoli” di Circassiani portati lì dal Sultano dopo la Guerra Caucasica con l’Impero Russo.
In James William, History of the Peoples of Palestine (1970), leggiamo addirittura che c’erano interi villaggi costituiti da abitanti dell’Impero Ottomano spostati dai loro paesi d’origine nel XIX secolo (era una prassi comune), in particolare dalla già menzionata Circassia, dall’Egitto e dalla Bosnia.
Da Jacob Haas, History of Palestine, The Last Two Thousand Years (1934) sappiamo anche molte tribù algerine furono trascinate fino a Safed.
Le testimonianze di questo genere sono numerosissime, ed è difficile scegliere le più significative. Tuttavia, un particolare può aiutarci a certificarne l’autenticità. Fra gli attuali Arabi di Palestina (o Palestinesi che dir si voglia) i cognomi più diffusi rimandano direttamente all’origine della famiglia: “al-Djazair”/Algeria, “Halabi”/Aleppo, “Bushnak”/Bosnia, “Metzarwah”/Egitto, “al-Husayni”/Arabia Saudita; “al-Mughrab”/Marocco, “Khamis”/Iraq, “El Baghdadi”/ Iraq, ecc.
Tornando ai 600.000 di Zangwill, possiamo riprendere tabella del precedente articolo:
ANNO MUSULMANI EBREI
1922 589.177 83.790
1930 733.149 164.796
E’ vero, nel 1922 c’erano 590.000 arabi e 84.000 ebrei, ma parliamo, per l’appunto, del 1922.
Zangwill, il “Dickens del Ghetto”, propendeva per una soluzione differente da Herzl e cercava di portare più Ebrei possibile dalla sua parte facendo presente a tutti che la popolazione Araba era consistente. Non diceva però che la medesima popolazione era aumentata in maniera massiccia proprio in seguito all’arrivo degli Ebrei.
Qual’era, dunque, la vera consistenza della popolazione Araba e Cristiana di Palestina nel XIX secolo, ossia prima della ondata migratoria ebraica (NOTA BENE: gli Ebrei abitavano Giudea e Samaria in modo continuativo da venticinque secoli, sebbene la loro consistenza numerica fosse variata in modo sostanziale nel corso degli anni)?
Le statistiche ottomane purtroppo sono scarse e poco affidabili, soprattutto perché la mobilità interna all’Impero Ottomano quasi non veniva tracciata. Ma anche quelle mandatarie non tengono praticamente conto di questi flussi. A testimonianza di ciò, sappiamo che nel 1934 gli Inglesi inserirono nei rapporti ufficiali solo 1.700 immigrati legali non-Ebrei (e 3.000 clandestini), mentre il governatore del distretto di Hauran (Siria) dichiarò “Negli ultimi mesi 30.000-36.000 siriani sono entrati in Palestina negli ultimi mesi (prima metà del 1834) e si sono stabiliti lì.
Pur evitando di inserire nei registri ciò di cui non avevano contezza assoluta, gli Inglesi sapevano ciò che stava accadendo:
“Questa immigrazione Araba illegale non arriva solo dal Sinai, ma anche dalla Transgiordania e dalla Siria, ed è molto difficile trovare una soluzione alla miseria degli Arabi se, al tempo stesso, i loro compatrioti degli stati vicini non sono trattenuti dal recarsi in Palestina a condividere detta miseria”
Palestine Royal Commission Report, London (1937)
Lo stesso Churchill fu piuttosto chiaro in proposito:
“Non solo non sono stati perseguitati, ma addirittura gli Arabi sono entrati in massa nel paese e di sono moltiplicati fino a che la loro popolazione è aumentata più di quanto potesse fare l’intera popolazione Ebraica mondiale.”
Sulla demografia palestinese fra fine XIX e prima metà del XX secolo, uno dei lavori più interessanti è stato svolto da Joan Peters nel libro From Time Immemorial, in cui dimostra come l’aumento della popolazione araba fu dovuto essenzialmente all’immigrazione ebraica. Nel suo libro (criticato dal sostenitore di Hamas N. Finkelstein con argomenti mediocri che vi invito a leggere), la Peters divide la Palestina Mandataria (più grande di quella intesa oggi) in tre parti:
1) Area senza insediamenti Ebraici;
2) Area con pochi insediamenti Ebraici;
3) Area con molti insediamenti Ebraici.
Dopo, utilizzando i dati ottomani elaborati da Kemal Karpat, paragona i dati relativi alla popolazione araba del 1893 e del 1947:
1) da 337.000 a 730.000 (+116%);
2) da 39.000 a 111.000 (+185%);
3) da 92.300 a 462.000 (+401%).
Ne consegue che la presenza araba aumentava in proporzione a quella ebraica della zona di riferimento.
Studi ancora più accurati sono stati svolti dagli italo-israeliani Sergio Bachi e Roberto Della Pergola. Per un approfondimento e una bibliografia adeguati alla questione, vi consiglio di fare una capatina QUI.
Andando ancora più indietro nel tempo, troviamo diverse testimonianze, più o meno famose, sulla situazione demografica palestinese (vi evito però le due più ripetute, quella di Mark Twain e quella del console inglese James Finn).
H. B. Tristram, nel suo The Land of Israel, A Journal of Travels in Palestine (1865) scrisse nel suo diario:
“Le terre a sud e a nord della pianura di Sharon non sono più coltivate e interi villaggi stanno scomparendo rapidamente dalla faccia della Terra. Dal 1838 non meno di 20 villaggi sono stati cancellati dalle mappe [dai Beduini] e la popolazione stanziale è stata estirpata.”
Nel 1835, il francese Alphonse de Lamartine descrisse così i dintorni di Gerusalemme nel suo Recollections of the East:
A pilgrimage to the Holy Land comprising recol...1835
“Fuori dalle mura di Gerusalemme, non abbiamo visto esseri viventi, non abbiamo sentito nessun suono vivente. Abbiamo trovato lo stesso vuoto, lo stesso silenzio, all’entrata di una città di 30.000 abitanti, che avremmo trovato davanti alle porte sotterrate di Pompei o Ercolano…”
Cinquanta anni prima, nel 1785, un altro francese, Constantine Francois de Volney riportò l’esatta popolazione delle tre principali città della Palestina: Gerusalemme non arrivava a 14.000 abitanti, Betlemme a 600 uomini, Hebron a 900.
A metà del ‘700, l’archeologo Thomas Shaw faceva notare che la Palestina mancava di persone che potessero coltivarne la terra.
Ad ogni modo, gli Ebrei continuarono a vivere in comunità di medie e piccole dimensioni per tutto il periodo ottomano, tanto che, nel 1523, un italiano riportò nei suoi diari un censimento della popolazione Ebraica nella Palestina ottomana:
pagina 18.000 ebrei 1533
Nella parte finale dell’estratto, si può notare anche come il numero di 18.000 Ebrei sia inferiore rispetto a quello riscontrato quasi quattrocento anni prima, nel 1170.
Questo dato è ancora più interessante se lo si mette in relazione con quanto riportato in In “International Journal of Humanities and Social Science Vol. 3 No. 6 [Special Issue – March 2013]”, Effect of Demographic Factor on Palestinian – Israeli Conflict, dove il prof. Hussein Al-Rimmawi ed il prof. Esmat Zeidan sostengono che, nel 1596 (anno del primo censimento ottomano), gli abitanti della Palestina (sempre intesa in senso più ampio di quella attuale) fossero 206.000.
Ci vediamo fra qualche giorno con la terza parte. Il mio unico dispiacere è che avrei voluto dedicare a ciascuno di questi articoli almeno 3.000 parole, ma purtroppo il tempo fugge.