Farisei, buoni ebrei

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Messaggioda Berto » lun feb 17, 2020 8:16 pm

Farisei, buoni ebrei
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Non capisco perché i cristiani non ebrei debbono sentirsi migliori degli ebrei non cristiani.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Farisei, buoni ebrei

Messaggioda Berto » lun feb 17, 2020 8:18 pm

Farisei brava gente
di Giulio Meotti
10 novembre 2014

https://www.ilfoglio.it/articoli/2014/1 ... 4aDIBLT8qw

Papa Francesco li ha attaccati quattro volte soltanto nell’ultimo mese. Il 6 novembre: contro “i farisei che si fermano a metà cammino”, a cui “importava che il bilancio dei profitti e delle perdite fosse più o meno favorevole”. Il 31 ottobre: contro i farisei che chiedono a Gesù se sia lecito guarire i malati di sabato. Il 17 ottobre: contro il “lievito dei farisei”, che è l’ipocrisia, per cui si “fa finta”. Il 12 ottobre: contro “l’abitudine di collocarci comodamente al centro, come facevano i farisei”. Il 19 settembre: contro “l’atteggiamento degli scribi, dottori della legge e farisei”. E prima ancora, omelie contro “i farisei che non sapevano carezzare”.
Con due millenni di tradizione alle spalle, l’antifariseismo è uno tra i rari ubi consistam cristiani su cui più non ci si interroga. Quasi un must ecumenico, un genere letterario. San Giovanni Bosco, nella sua “Storia Sacra scritta per il popolo e i giovani”, afferma: “I farisei facevano consistere tutta la loro pietà nel portamento esterno, riputando lecita ogni sorta di nequizia, purché si facesse in segreto. Una parte degli ebrei d’oggi segue ancora la dottrina dei farisei”. Sull’onda delle invettive di Gesù contro questi “sepolcri imbiancati”, la parola fariseo è diventata la più insultante del vocabolario cristiano.

Egocentrici, melliflui, avidi, legalisti, ostentatori, crudeli, affamapopolo per arricchire la Sinagoga, elitari. Gli ebrei farisei sono stati ingiuriati in tutti i modi possibili. “Fariseo quattoquatto”, quello che cammina affettato per far mostra di umiltà; “fariseo spalla”, che porta con ostentazione le buone opere, fino al “fariseo contuso”, che riportava ferite andando a sbattere contro i muri per non voler guardare le donne.

L’aggettivo “farisaico” entra persino nella fisiognomica, perché come riporta Francesco Cardinali nel suo “Dizionario portatile della lingua italiana” del 1827, il “viso da fariseo” è sinonimo di bruttezza. Si arriva all’uso extrateologico, con “Il Vangelo secondo Matteo” di Pier Paolo Pasolini che rese familiare il grido “Guai a voi, scribi e farisei ipocriti!”. E Friedrich Nietzsche, che poco prima di diventare matto scrisse contro “il rauco e indignato abbaiare dei cani malati, la falsità e la rabbia che morde di tali farisei”. Che ormai l’odio per i farisei abbia una tradizione extracristiana lo riconosce anche Benedetto XVI nel “Gesù di Nazareth”: “Non sono solo le interpretazioni passate della storia di Gesù a rappresentare i farisei, i sacerdoti e i giudei in generale quali figure negative. Sono proprio le presentazioni liberali e moderne a proporre nuovamente il cliché dei contrasti: farisei e sacerdoti appaiono quali rappresentanti di una legalità indurita, della legge eterna di una struttura ormai stabilita, delle autorità religiose e politiche che ostacolano la libertà e vivono sottomettendo gli altri”.

Nei testi di spiritualità, sui quali hanno basato la loro formazione ascetica preti, monaci, religiosi, religiose e laici devoti di ogni sorta, il fariseismo è la quintessenza dell’ipocrisia, il compendio delle non virtù. Attacchi continui ai farisei si trovano negli scritti di don Lorenzo Milani, il prete di Barbiana, e del monaco Enzo Bianchi, esponenente di quella cristianità innamorata di se stessa, problematica, flagellante, scuola di modestia tranne che per i suoi portavoce, sempre ermetici ed elitari, altro che i farisei. Più che pensiero debole, metafisica fragile. Genere un solo Dio, molti nomi per dirlo. Proprio coloro che si dimenticano la lettera privilegiando il puro spirito.

E poi ancora gli editoriali di Famiglia Cristiana, che ha scomodato i farisei addirittura per attaccare “la casta”. “L’ipocrita fariseo senza sete di verità”, recitava un editoriale dell’Unità. E durante la lunga notte di Mani pulite anche il procuratore di Milano, Francesco Saverio Borrelli, vergava scritti antifarisei sul Segno, mensile della diocesi ambrosiana.

Dagli anni Ottanta c’era stata una positiva rivalutazione dei farisei nella chiesa cattolica, che sembra venire meno sotto il pontificato di Francesco. Del resto, a guardar bene dentro il Vangelo, si vede che Gesù ha avuto anche molti amici tra di loro, come Nicodemo e Giuseppe d’Arimatea. San Paolo stesso si vanta di essere “ebreo da ebrei, secondo la Legge fariseo”. Lo scrittore americano Chaim Potok li chiamava “i vecchi cortesi dalle fluenti barbe bianche”, “i seguaci appassionati degli insegnamenti degli scribi, in molti casi abili con la spada e la lancia così come con i testi della legge, pronti a uccidere per amore del loro Dio”.

Un altro grande studioso dell’ebraismo come André Chouraqui, nella sua “Storia del giudaismo”, ha scritto che i farisei ebbero un ruolo determinante non soltanto nella vita religiosa di Israele, ma anche in quella “dell’umanità”. Furono loro, “gli ipocriti”, a introdurre nella cultura ebraica inferno e paradiso, risurrezione dei morti e ruolo degli angeli, e la cultura cristiana occidentale ne è soltanto erede. Sono i farisei i primi a parlare di “predestinazione”.

Forse Papa Francesco cambierebbe idea sui farisei se leggesse un testo dimenticato di un grande esegeta dell’ebraismo come Leo Baeck. Si tratta di “Die Pharisäer”, pubblicato da Schocken Verlag a Berlino nel 1934. Il “Feldrabbiner” Baeck venne confinato nel ghetto di Theresienstadt, dove rimase per più di due anni e impartì ai deportati lezioni di Talmud, drammaturgia greca ed etica kantiana. La Shoah si portò via quattro sue sorelle. Dopo la guerra insegnò negli Stati Uniti, dove ebbe allievi straordinari come Leo Strauss, con frequenti ritorni a Londra presso l’istituto che porta il suo nome e da dove passarono personaggi come Hans Jonas. Baeck morì nel 1956.

Il suo libro voleva essere una risposta alla massima autorità teologica del tempo, Adolf Harnack, e al suo “L’essenza del cristianesimo”, il campione della teologia cristiana progressista che intendeva dividere il cristianesimo dall’ebraismo in un momento fatale per le sue sorti in Europa. In quello stesso periodo, un altro grande studioso di ebraismo, l’inglese Travers Herford, scrisse un libro a favore dei farisei. “Il fariseismo è stato il grandioso tentativo di fare della religione la religione della vita, della vita del singolo e di tutti, in modo che la religione camminasse di pari passo non solo con l’uomo, ma con la comunità, con lo stato”, scriveva Leo Baeck. Baeck ricolloca il messianismo di Gesù nelle vicissitudini dei farisei. Ricorda che la parola “Vangelo” deriva dal Libro dei Profeti, che il numero quattro corrisponde alla visione celestiale di Ezechiele, che l’asino con cui Gesù entra a Gerusalemme è un cardine della tradizione sapienziale, che i libri di Daniele e dei Maccabei offrirono le storie dei martiri, che i Proverbi e il Qohelet sono un modello per gli adagi, che la Passione è presente nei Salmi sul Servo Sofferente e il tradimento di Giuda nel pugno di monete d’argento di Amos. E cosa sperimentò Cristo se non “l’elezione nella fornace della povertà” di Isaia?

Baeck è attratto gelosamente dalla figura del Cristo fariseo, che morì come membro del suo popolo, fedele alle sue pratiche, figlio della speranza ebraica e “resuscitato dai morti il terzo giorno”, come dicevano i Profeti. Il Vangelo è “un libro integralmente e perfettamente ebraico”, celebra la fede, l’oppressione, la sofferenza, lo spirito, la disperazione e l’attesa ebraica. Per questo “l’ebraismo non ha il diritto di passare davanti a esso senza fermarsi, di ignorare e di cercare di rinunciarvi. Anche qui deve cogliere e conoscere il proprio genio”.

In quegli anni anche l’esegeta Joseph Klausner, lo zio dello scrittore israeliano Amos Oz, difendeva i farisei: “Se per ipocrisia si intendeva l’autocontrollo e per pedanteria l’insistenza nell’osservanza di ogni minuzia della Legge, essi erano colpevoli di ambedue. Ma erano immuni dalla colpa di falsità, di fanatismo e di ipocrisia e dei motivi che erano attribuiti loro come ai puritani della nostra epoca”. Parole di una certa attualità.

Nel 1940 il rabbino Louis Finkelstein, il presidente del Jewish Theological Seminary of America scomparso nel 1991, in uno studio sui farisei, scriveva: “Non c’è alcun dubbio che il cristianesimo derivò in più gran parte dal giudaismo farisaico. Gesù e i suoi discepoli non appartenevano al partito sacerdotale aristocratico dei Sadducei, ma all’umile popolo che seguiva i farisei”. Per questo lo studioso F. C. Baur definirà i farisei “pii democratici”. “Gesù può avere esposto alcuni insegnamenti differenti da quelli dei farisei o può, in alcune questioni, aver dissentito dall’interpretazione farisaica della Legge; ma nella maggior parte della sua dottrina egli è pienamente d’accordo con i farisei e le sue massime riecheggiano le sentenze di quei maestri”.

Di recente uno dei più stimati specialisti ebrei dei Vangeli, il filosofo francese Armand Abécassis, ha scritto un monumento ai farisei in “La pensée juive”. Sotto la dinastia asmonea ne vennero crocifissi migliaia, come ci informa Giuseppe Flavio. Per fedeltà alla Parola, per il rifiuto di compromissioni con il potere, per l’apertura verso il popolo, per non essere integrabili nella secolarizzazione a carattere sincretistico cui la cultura greca sottoponeva da decenni l’ebraismo, fra cui il terribile divieto di circoncisione. Come scrive Helmer Ringgren nel suo studio su Israele, “tutta la letteratura rabbinica, dalla Mishnah al Talmud, è una derivazione dei farisei”.


Asmonei
https://it.wikipedia.org/wiki/Asmonei
La dinastia degli Asmonei (in greco 'Ασσαμωναῖοι, forse dall'ebraico ḥašmannīm, oppure dall'eponimo Asmon, il nome del bisnonno di Mattatia, padre dei Maccabei), fondata da Simone Maccabeo, segnò l'inizio del regno di Giudea, a partire dal 140 a.C., e mantenne il potere civile e religioso fino alla conquista romana, dopo la quale nel 37 a.C. fu posto a governo della regione Erode il Grande.
Poiché i re dovevano idealmente discendere dalla casa di David, i Maccabei, che erano una famiglia di sacerdoti, non avevano un effettivo diritto al potere regale. Il loro regno venne messo in pericolo dall'opposizione dei Farisei, e il Talmud li ricorda appena. La loro ascesa è descritta nei libri Primo e Secondo libro dei Maccabei della Bibbia. Sovrani del Regno di Giudea fino alla metà del I secolo a.C., restaurarono le istituzioni politiche e religiose dell'antico Israele.



Il grande Arnaldo Momigliano li ha celebrati come “gli indomiti” che rifiutavano qualsiasi giuramento ai romani. Se oggi esiste l’ebraismo lo si deve anche e soprattutto ai farisei. Furono loro il nucleo duro sul quale fondare per i secoli futuri l’identità ebraica, e lo dimostra la loro sopravvivenza alla formidabile crisi nel 70 d. C. Sopravvissero a incendi, massacri, distruzioni, conversioni. Fu la scuola farisaica, resistendole vittoriosamente, a perpetuare il giudaismo preservandolo dalla soluzione finale romana. In un periodo di atrocità e di sterminio operati dalla dominazione imperiale nella Terra d’Israele (I e II sec.), i farisei riuscirono a preservare l’identità spirituale e culturale del popolo ebraico, salvandola dall’annientamento e offrendo tale ricchezza alle generazioni future. Nasce allora il mistero di come abbia potuto diffondersi un giudizio, o meglio il pregiudizio, così ingiusto contro una corrente spirituale, il fariseismo, diventato secondo Finkelstein, “la base della più alta struttura intellettuale e spirituale che il mondo abbia veduto: cioè, la civiltà occidentale”.

Chiede lo storico Bruno di Porto nell’ultimo numero del periodico ebraico Hazman Veharaion, il Tempo e l’idea: “Johanan ben Zakkai, che assicurò la sopravvivenza del giudaismo nella rovina dello Stato e del Tempio, con la scuola di Javne, rientra anche lui nel gruppetto indurito, facile a scivolare dall’indurimento nella corruzione, di cui ha parlato Papa Bergoglio, nell’omelia?”. Anna Foà in questi giorni ha lanciato una nuova e bella collana editoriale digitale, “Tiqqun”. Il primo libro in uscita è “La fine di Gerusalemme”, il capolavoro da tempo scomparso dalle librerie italiane di Lion Feuchtwanger, l’autore dell’indimenticabile “Süss l’Ebreo” morto in esilio in California. Nel romanzo, Feuchtwanger racconta proprio del più famoso dei maestri farisei, Johanan ben Zakkai.

Contemporaneo di Gesù, di Vespasiano e di Tito, Ben Zakkai era uno di questi “sepolcri imbiancati”, gli intellettuali e maestri della Legge. Durante la distruzione di Gerusalemme, fingendosi morto, Ben Zakkai si fece trasportare dentro una bara fuori dalla città. Portato dal comandante dei Romani, Vespasiano, il saggio ebreo gli profetizzò l’ascesa al trono imperiale, chiedendogli al tempo stesso la possibilità di fondare una sua scuola a Yavne. Appena divamparono le fiamme del Tempio, Zakkai trasferì alla sinagoga le funzioni essenziali proprie del Tempio, salvando così l’ebraismo. Giuseppe Flavio non capiva un simile carattere calmo e senza ambizioni, anzi Ben Zakkai gli faceva quasi paura e lo opprimeva; tanto che preferiva evitare il gran dottore. Feuchtwanger ci consegna pagine bellissime su questo “giudeo vecchissimo, piccolo, molto ragguardevole, i cui occhi azzurri spiccavano con strana freschezza nel suo volto tutto rughe incorniciato da una barbetta stinta”.

Fu in una colombaia a Yavne, al piano superiore di una casa nella città che oggi fa parte dello Stato d’Israele, che gli ultimi farisei fecero i calcoli del calendario ebraico e completarono la canonizzazione della Bibbia. Da quella bara, il fariseo resuscitò il giudaismo distrutto. Ma gettò anche le basi per la cultura occidentale.
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Re: Farisei, buoni ebrei

Messaggioda Berto » lun feb 17, 2020 8:27 pm

La pena della crocifissione nel mondo antico
(da P. Giglioni)
20 /05 /2012
http://www.gliscritti.it/blog/entry/1469

Riprendiamo un breve testo da P. Giglioni, La croce e il crocifisso nella tradizione e nell’arte, LEV, Città del Vaticano, 2000, pp. 9-10. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

La pena della crocifissione, di origine orientale - in particolare persiana -, venne adottata da cartaginesi e romani. Nella letteratura romana è descritta come punizione crudele e temuta; non era inflitta ai cittadini romani, ma riservata agli schiavi e ai non romani che avessero commesso atroci delitti, come assassini, gravi furti, tradimenti e ribellioni. Giuseppe Flavio narra che Antioco Epifane crocifisse gli ebrei che si erano rifiutati di obbedire ai suoi decreti sulla ellenizzazione, e che Alessandro Ianneo aveva crocifisso i suoi avversari farisei.

La croce sulla quale fu crocifisso Gesù era o la crux commissa, a forma di T, o la crux immissa o capitata, a forma di daga o pugnale. Il fatto che il titolo della condanna fosse posto al di sopra della testa (Mt 27,37) fa pensare alla seconda forma di croce. Dato che l'esecuzione di Gesù era stata affidata ai soldati romani, è probabile che si seguisse la maniera di esecuzione romana.

Il procedimento romano della crocifissione doveva essere pressappoco così: avvenuta la condanna legale, il condannato stesso portava la trave trasversale (il patibulum) sul luogo fissato, per lo più fuori le mura cittadine. Da qui il detto «portare la croce», tipica espressione per indicare la punizione di uno schiavo.

Giunti sul luogo dell' esecuzione, il condannato veniva spogliato e flagellato. Il condannato veniva legato a braccia tese alla trave che poggiava sulle sue spalle (in casi più rari si parla anche di inchiodatura) e quindi innalzato sul palo verticale già preparato. La morte subentrava lentamente e tra sofferenze indicibili a causa dei crampi tetanici e per soffocamento, poiché il sangue del crocifisso non poteva circolare nelle membra violentemente tese; per lo stesso motivo i polmoni e il cuore si sentivano soffocare pur mantenendo il condannato in uno stato di piena coscienza. Talvolta la morte veniva accelerata per mezzo della rottura delle gambe o con un colpo di lancia al cuore. Quando i familiari lo richiedevano, veniva concesso il cadavere.

La croce portata da Gesù fino al luogo dell'esecuzione non doveva essere, secondo la procedura comune, l'intera croce ma soltanto il palo trasversale. Di regola, il palo verticale veniva lasciato sul luogo dell'esecuzione, mentre quello trasversale veniva attaccato di volta in volta. Le braccia del condannato venivano prima attaccate al palo trasversale mentre egli era disteso al suolo; poi il condannato veniva innalzato, insieme con il palo trasversale, su quello verticale, al quale venivano legati i suoi piedi.

Lo si attaccava con corde o con chiodi, che eventualmente erano quattro. Il criminale veniva sempre legato con corde intorno alle braccia, alle gambe, alla vita: i soli chiodi non avrebbero potuto reggere tutto il peso del corpo e le corde impedivano al condannato di scivolare giù. La maggior parte del peso del corpo era sorretta da una specie di sostegno (sedile) sporgente sul palo verticale e sul quale si poneva la vittima a cavalcioni: tale sedile non è menzionato nel NT ma ne parlano moltissimi antichi scrittori romani. Il sostegno per i piedi (suppedaneum), spesso rappresentato nell'arte cristiana, è invece sconosciuto all'antichità.

La vittima non era innalzata dal terreno più di mezzo metro: i presenti potevano facilmente raggiungere la bocca mettendo una spugna in cima a una canna (Mt 27,48; Mc 15,36). I romani crocifiggevano criminali interamente nudi e non vi è motivo di pensare che si facesse un'eccezione per Gesù.

Questo tipo di esecuzione, tanto ignominioso e crudele, era conosciuto (anche se non praticato) in Israele: «Se un uomo avrà commesso un delitto degno di morte e tu lo avrai messo a morte e appeso a un palo, il suo cadavere non potrà rimanere tutta la notte al palo, ma lo seppellirai lo stesso giorno, perché l'appeso è maledetto da Dio» (Dt 21,22-23; cf Gs 8,29; 10,26-27). Sappiamo che il principe giudeo Alessandro Ianneo (103-76 a.C.) fece appendere degli uomini ancora vivi ad un palo durante una esecuzione capitale di massa. Resta tuttavia confermato che la crocifissione era un procedimento straordinario di condanna, abominevole e inusitato per il giudaismo; non invece per i romani ed altri popoli del vicino Oriente (cf 1 Sam 31,10).

Le vesti dell'ucciso andavano in dono ai soldati (Mt 27,35). Un titolo con il nome del criminale e con il suo delitto veniva scritto su una tavoletta che si portava legata al collo fino al luogo dell'esecuzione. Nella crocifissione di Gesù questa tavoletta con il titolo fu affissa al di sopra del suo capo, sulla croce. Per l'ironia di Pilato, il titolo di Gesù non esprimeva un delitto ma l'espressione «re dei giudei» (Mt 27,37; Mc 15,26; Lc 23,38; Gv 19,19-22). Il titolo era scritto in tre lingue: aramaico, il dialetto del paese; greco, la lingua del mondo romano; e latino, la lingua ufficiale dell'amministrazione romana.

Nella crocifissione la vittima si lasciava morire di fame e di sete. Se necessario, la morte veniva affrettata spezzando le gambe della vittima con delle clavi, come si fece coi criminali crocifissi insieme a Gesù (Gv 19,32ss). I soldati furono sorpresi del fatto che Gesù morisse così presto, dato che la morte per crocifissione in genere avveniva solo dopo qualche giorno. Era un'abitudine giudaica, non romana, quella di somministrare al condannato una bevanda narcotica prima dell'esecuzione per attutirne la sensibilità (Mt 27,34; Mc 15,23). Anche a Gesù venne offerta questa bevanda, ma egli la rifiutò. Secondo la prassi romana, gli insulti precedevano spesso la crocifissione, come accadde per Gesù. Per la legge romana, l'accusa per cui la pena della crocifissione fu inflitta a Gesù era quella di tradimento e di ribellione, delitti dei quali i Giudei lo avevano accusato (Lc 23,2-5; Gv 19,12).

La crocifissione come pena giudiziaria fu soppressa dal primo Imperatore cristiano, Costantino (306-337). Fu così possibile passare ad una raffigurazione della croce nell'arte dal momento che non suscitava più associazioni negative.
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Re: Farisei, buoni ebrei

Messaggioda Berto » lun feb 17, 2020 8:30 pm

La Mishnah, o Mishnà (ebraico: מִשְׁנָה, "studio a ripetizione") è uno dei testi fondamentali dell'ebraismo.

https://it.wikipedia.org/wiki/Mishnah

La parola mishnah proviene dalla radice ebraica š-n-h (in ebraico: שנה‎?), collegata con il campo semantico del "ripetere" (quindi anche "studiare e revisionare", "insegnare"), suggerisce ciò che è imparato a memoria, per ripetizione, e designa l'insieme della Torah orale e il suo studio, in opposizione a Miqrà, che si riferisce alla Bibbia ebraica e al suo studio. Può anche designare l'insieme della halakhah (parte legislativa) o ancora una forma d'insegnamento di quella, che non parta dal testo biblico, ma dalle sentenze dei Maestri della tradizione, riguardo a problemi concreti. È inoltre la prima grande opera di letteratura rabbinica.

La Mishnah fu redatta da Rabbi Yehudah HaNasi prima della sua morte verso il 217, in un'epoca in cui, secondo il Talmud, la persecuzione degli ebrei ed il passar del tempo metteva a rischio la sopravvivenza della tradizione orale dei Farisei, iniziata dal periodo del Secondo Tempio (536 a.C.–70). La maggior parte della Mishnah è scritta in ebraico mishnaico, mentre alcune parti sono in lingua aramaica.


Ben Zakkai
https://it.wikipedia.org/wiki/Jochanan_Ben_Zakkai
Yochanan ben Zakkai (I secolo a.C. – Jabneh, I secolo) è stato un rabbino ebreo, una delle principali figure del periodo che seguì la distruzione del Secondo Tempio (I secolo d.C.).

Yochanan Ben Zakkai, che era discepolo di Hillel, era favorevole a che Gerusalemme assediata si arrendesse ai romani, ma gli Zeloti non erano d'accordo. Perciò egli fu portato fuori dalla città dai suoi seguaci, chiuso in una bara, fingendosi morto, e portato davanti al comandante romano Vespasiano. Yochanan chiese che l'accademia rabbinica di Javneh venisse risparmiata dai romani quando essi avessero sconfitto la rivolta ebraica. Fu qui che, quando il Tempio cadde in rovina, lui e i suoi colleghi ricostruirono il giudaismo insegnando che le buone azioni avevano sostituito il potere espiatorio dei sacrifici rituali. Il nome ebraico Yochanan ben Zakkai, traslitterato in italiano è Giovanni figlio di Zaccheo.
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Re: Farisei, buoni ebrei

Messaggioda Berto » gio mag 27, 2021 8:05 pm

GESÙ, UN FARISEO MARGINALE CHE VOLLE FARSI RE

https://www.facebook.com/groups/fede.sc ... 4718526521

Il cristianesimo dei primi secoli fece di tutto per DEGIUDAIZZARE la figura di Gesù, trasformandolo in una realtà metastorica. Ciò si spiega con la difficile situazione in cui vennero a trovarsi le comunità protocristiane nel contesto dell'Impero romano tra la seconda metà del I secolo e la fine del II secolo. Le ricorrenti tensioni tra questo e il mondo ebraico (le guerre giudaiche e le rivolte, sia in patria che in altre località dell'impero, oltre al ruolo dell'impero partico come alternativa politica e punto di riferimento per gli Ebrei) spinsero quella che era nata come una SETTA EBRAICA a prendere vistosamente le distanze dai suoi originari riferimenti culturali, ridefinendosi dal punto di vista identitario al fine di sopravvivere e di proseguire la lenta ma progressiva azione di incistamento nel tessuto sociale dell'impero stesso.
All'interno di questo processo ideologico e mistificatorio si inquadra anche la stilizzazione del rapporto tra il predicatore galileo e quella che Giuseppe Flavio chiama la “filosofia” dei FARISEI. Più di duemila anni di cristianesimo hanno connotato negativamente questo termine, ponendolo in alternativa al messaggio gesuano e trasformandolo in sinonimi di “ipocrisia” e di “adesione solo formale ma non sostanziale a qualcosa”. L'operazione è riuscita così bene che ancora oggi nelle società di tradizione cristiana il termine “fariseo” equivale di fatto a un insulto.
Al contrario Gesù è perfettamente comprensibile e inquadrabile all'interno del variegato e sfumato contesto del giudaismo del I secolo. Vi prego in particolare di porre l'attenzione sull'aggettivo “sfumato”, che è centrale per la comprensione di quanto sto scrivendo. Non bisogna pensare alle varie correnti ebraiche come a dei compartimenti stagni. I farisei ad esempio, pur riconoscendosi reciprocamente in alcuni elementi comuni, potevano al loro interno divergere per vari aspetti, ad esempio per quanto riguarda il rapporto da tenere nei confronti dell'occupante romano e della dinastia erodiana.
E i punti di convergenza tra il fariseismo e Gesù sono diversi.
Gesù, come i farisei e in polemica con i SADDUCEI, crede nella RISURREZIONE e nelle dispute con questi ultimi cita le scritture ebraiche con argomentazioni sovrapponibili a quelle utilizzate dai farisei (si veda Marco 12, 18-27).
Allo scriba che gli domanda quale sia il comandamento più importante, Gesù risponde citando lo SHEMÀ del Deuteronomio, che è significativamente anche la centrale professione di fede dell'ebraismo attuale , figlio in ultima analisi del fariseismo sopravvissuto alla catastrofe delle due grandi guerre giudaiche: “Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore. Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l'anima, con tutta la tua mente e con tutte le forze”. (si veda Deuteronomio 6, 4-5 e Marco 12, 28-34). Altrettanto significativamente i due (lo scriba e Gesù) concordano.
Persino alcuni passaggi citati tradizionalmente come un elemento di rottura da parte di Gesù nei confronti della iper formalistica dottrina farisaica, ad una analisi più attenta tali non sono. La frase “il SABATO è stato fatto per l'uomo e non l'uomo per il sabato” (Marco 2, 27) ce la ritroviamo quasi invariata in una fonte rabbinica (Mekilta Sab I che commenta Esodo 13, 31) in cui si sottolinea come le azioni volte a preservare la vita debbano prevalere sulle norme relative al sabato.
Quando i farisei criticano Gesù per la sua commensalità con peccatori e pubblicani, lui risponde: “non sono i sani ad aver bisogno del medico, ma i malati... non sono venuto a chiamare i GIUSTI, ma i peccatori” (Matteo, 9, 11-12). Tale frase non è solo una polemica nei confronti della rigidità farisaica. Se ci pensiamo bene è contemporaneamente anche il riconoscimento da parte sua della giustezza delle loro posizioni.
La frase attribuita in Matteo e Luca a Gesù “tutto quanto vorreste che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro”, oltre a rimandare alle scritture ebraiche (“Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il prossimo tuo come te stesso”, Levitico 19, 18), presenta evidenti analogie con quanto espresso dal fariseo HILLEL, vissuto dal 60 a.e.v. al 7 e.v.: “Non fare al prossimo ciò che a te è odioso. Questa è tutta la Torah, il resto è commento”. Certo, qui poi bisognerebbe aprire un capitolo a parte sul concetto di PROSSIMO. Dal momento che lo stesso Gesù paragona in un episodio evangelico la donna fenicia ad un CANE, ho il fondato sospetto che quando parlava di UOMINI si riferisse non alla totalità della specie umana, ma ai componenti della sua comunità etnico/religiosa: gli Ebrei.
Il suo stesso proclamarsi MESSIA non fu di per sé una rottura con la mentalità farisaica. Nel 133 il rabbino Akiva proclamò BAR KOCHBA (significativamente chiamato “il figlio della stella”, non vi ricorda qualcosa?) messia di Israele, segno che non doveva essere affatto scandaloso per i farisei l'arrivo in tempi brevi del salvatore escatologico di Israele.
Cosa dire poi dell'episodio citato in Luca 13, 31, in cui alcuni farisei avvertono Gesù di allontanarsi perché Erode Antipa voleva ucciderlo? Al di là della storicità dell'episodio spesso (sul quale personalmente nutro dei dubbi), esso lascia trasparire il ricordo di una certa SIMPATIA dei primi (o almeno di una parte di questi) nei confronti di Gesù.
Concludendo, il fatto che Gesù venga dipinto nei vangeli a DISPUTARE con scribi e farisei, non deve essere necessariamente interpretato come l'indizio di un forte antagonismo (come poi verrà fatto passare dalla vulgata cristiana), ma come una prassi normale. Prassi che, se attestata solo a partire dalla letteratura rabbinica, non è affatto detto che non fosse in essere già nei primi decenni del I secolo, in un contesto culturale peraltro vivace e percorso da inquietudini varie. Nel cristianesimo il ricordo di tali CONFRONTI DIALETTICI venne enfatizzato a prova di una supposta forte ostilità dei farisei (e dunque degli Ebrei nel loro insieme) nei confronti del predicatore galileo. Ciò che invece io vedo, sotto la coltre distorsiva del Nuovo Testamento e della patristica, è la “normale” vicenda di un “fariseo marginale” che ad un certo punto credette di potersi fare RE (davidico messianico) e che dunque entrò inevitabilmente in conflitto con il POTERE ROMANO.
La cosa non è così strana. Lo stesso GIUSEPPE FLAVIO ci parla della forte continuità ideologica tra i farisei e gli esponenti della QUARTA FILOSOFIA (coloro che intendevano ribellarsi a Roma). GIUDA IL GALILEO, che nell'anno 6 organizzò una rivolta, repressa duramente dai Romani con 2000 crocifissioni, era affiancato (come consigliere “spirituale”?) dal fariseo SADOC. C'è addirittura chi si è spinto a sostenere che la figura di Gesù sia stata costruita su quella di questo Giuda, i cui figli o nipoti ritroveremo di nuovo contro i Romani alcuni decenni dopo. Io non ho di queste certezze. Tuttavia è indubbio che la Galilea fu durante tutto il I secolo un centro del nazionalismo ebraico di stampo davidico messianico. Il padre di Giuda il Galileo aveva combattuto contro l'asmoneo Ircano II anche in nome di una tradizione che non considerava gli Asmonei legittimati a regnare su Israele in quanto non di stirpe davidica. Nei vangeli peraltro vediamo con quanta cura si indichi l'ascendenza di Giuseppe e di Maria fino a Davide. Solo un caso? Non direi.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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