Un demenziale ebreo non israeliano antisraeliano e filo palestinese Se non ora, quando?J-LINK agli ebrei di Israele e del mondo contro l’annessione
Giorgio Gomel
https://www.hakeillah.com/2_20_16.htm In “Una rete mondiale della sinistra ebraica” (HK, dicembre 2019) riferivo di un tentativo di dare vita ad una rete mondiale dell’ebraismo progressista, un’esigenza esistenziale indifferibile in un frangente difficile per l’ebraismo mondiale, in Israele e nella Diaspora. Questo lavoro di tessitura ha prodotto un risultato importante: si è formato J-Link (vedi il documento fondativo) che raggruppa uno spettro ampio di organizzazioni ebraiche progressiste: fra le principali, Jstreet, Ameinu e New Israel Fund negli Stati Uniti; Jcall in Europa; Jspace in Canada; Jewish Democratic Initiative in Sud Africa; J -Amlat in America del Sud; in Israele Peace now e Policy working group; Ameinu e altri in Australia. Il comitato direttivo di sette membri riflette questo assetto multinazionale; chi scrive rappresenta Jcall Europa.
Il primo atto pubblico è stato, nel corso delle trattative per la formazione del governo di unità nazionale in Israele, una lettera aperta inviata a Binyamin Gantz e agli altri parlamentari dei partiti Kahol Lavan (Blu e bianco) e laburista contro il proposito – divenuto poi una delle clausole del patto di governo - , sotto la spinta della destra nazionalista e religiosa, di proporre una legge al Parlamento per annettere una parte rilevante della Cisgiordania. Ciò avverrà senza una trattativa con i palestinesi, in contrasto con le risoluzioni dell’ONU e il diritto internazionale. Con una maggioranza semplice del Parlamento, che è nei numeri dell’attuale Knesset uscita dalle elezioni di marzo, una decisione siffatta porrà fine alla possibilità di una soluzione “a due stati” del conflitto. Secondo il piano Trump, a cui tale clausola si rifà esplicitamente, Israele potrà annettere la valle del Giordano, abitata da circa 80.000 palestinesi e 10.000 israeliani, e la totalità degli insediamenti dove vivono oltre 400.000 israeliani – in toto circa il 30% della Cisgiordania – cedendo al più in cambio il 14% di territorio lungo il deserto del Negev non distante dalla striscia di Gaza. Questo “scambio” di territori è vistosamente lontano da quanto discusso in precedenti trattative fra le parti (a Taba nel 2001 e Annapolis nel 2008, dove offerte pragmatiche di Israele furono respinte da Arafat e Abbas).
Un atto unilaterale di annessione da parte di Israele porrebbe fine all’ipotesi di una composizione del conflitto basata sul principio di “due stati per due popoli” e sancirebbe per i palestinesi l’impossibilità di giungere ad uno stato indipendente con mezzi non-violenti. L’illusione che la destra in Israele coltiva che essi accettino una soggezione permanente all’occupante è esiziale.
In un documento di recente reso pubblico, i “Comandanti per la sicurezza di Israele” – un’associazione che raggruppa più di 200 ex alti ufficiali dell’esercito, del Mossad e Shabak, nonché della polizia – ammoniva che tale decisione – una conferma de iure di una condizione di fatto sedimentatasi con il protrarsi da oltre cinquant’anni di un’occupazione militare - “condurrà alla perdita di legittimità dell’Autorità palestinese, alla denuncia della cooperazione in materia di scurezza fra essa e Israele come atto di collaborazionismo con l’occupante, infine alla disintegrazione della stessa ANP e all’esplodere di violenza intestina nei territori.”
Ma le implicazioni di un atto di annessione saranno dirompenti anche sul piano regionale e internazionale. Soprattutto la Giordania, fortemente popolata di palestinesi, in particolare rifugiati, potrebbe essere percorsa da un’onda di instabilità interna e costretta a rivedere il trattato di pace con Israele.
La comunità internazionale, i paesi della UE in primis, difenderanno la soluzione “a due stati” in coerenza con i parametri noti; la UE stessa, la Francia, la Germania, il Belgio, l’Irlanda hanno già manifestato una netta opposizione ad un’annessione. Quanto agli atti concreti, al di là della diplomazia “dichiarativa”, la UE dispone di mezzi di pressione sul piano giuridico ed economico-finanziario non irrilevanti nei suoi rapporti con Israele. In primis, l’impegno ad applicare con maggiore rigore la direttiva convalidata dalla recente sentenza della Corte di giustizia europea circa l’esigenza di etichettare in modo corretto le produzioni degli insediamenti (non “made in Israel”) in conformità con il principio di una distinzione netta fra gli insediamenti, illegali, e lo stato di Israele. In secondo luogo, la conferma delle regole introdotte nel 2013 che escludono l’erogazione di prestiti o doni finanziari a entità israeliane operanti negli insediamenti. Nell’ambito della ricerca scientifica, sotto l’egida di Horizon Europe, la decisione di escludere dalla fruizione di contributi agenzie o istituzioni pubbliche insediate nei territori. Potrebbe essere persino sospeso l’accordo di associazione fra la UE e Israele in vigore dal 1995 che consente fra l’altro a Israele di godere di trattamenti preferenziali sul piano commerciale nei paesi europei. In ultimo, la UE potrebbe reagire con maggiore vigore alle confische, demolizioni di case, ordini di espulsione di palestinesi da Gerusalemme est o altre aree della Cisgiordania.
Infine Israele stesso, il cui futuro ci sgomenta di più. Dei costi distruttivi dell’occupazione sulla società, risultato di una pervicace rimozione della realtà (la “Linea verde” rimossa dalle mappe, dai libri di scuola, dalla coscienza stessa del paese), siamo consapevoli da tempo. Con l’annessione l’attuale sistema legale, doppio e separato, che opera nei territori distinguendo i coloni israeliani soggetti alla legge israeliana e gli abitanti palestinesi soggetti ad un regime militare, troverà una sanzione sul piano normativo: Israele sarà uno stato che discrimina ufficialmente i palestinesi, sulla base di un principio di appartenenza etnica, privandoli di diritti civili e politici, violando gli stessi dettami di eguaglianza sanciti dalla Dichiarazione di indipendenza del 1948 che sono a fondamento della genesi e storia dello stato.
E per gli ebrei della diaspora? Un regime del genere – uno stato “unico” di fatto con diritti diseguali - non potrà non pregiudicare i rapporti fra Israele e gli ebrei del mondo forzandoli ad una scelta dolorosa fra il sostegno acritico al paese e la difesa di valori di eguaglianza e rispetto dei diritti umani propri dell’etica ebraica.
Un ebreo non israeliano filo israelianoLa nostra bandieraEmanuel Segre Amar
il 22 Maggio 2020
http://www.linformale.eu/la-nostra-bandiera/ Il titolo scelto rimanda non a caso al giornale che la Comunità Israelitica di Torino (così si chiamava allora) fondò nel 1934 subito dopo gli arresti di una decina di ebrei, in massima parte torinesi, poi condannati dal Tribunale Speciale. Leggo in rete, a proposito de “La nostra bandiera: si intendeva ‘fascistizzare’ tutta la comunità ebraica italiana ed estirparne gli indifferenti, i sionisti e gli antifascisti.”
Non molto diverso è, credo, il progetto di altri ebrei torinesi (anche se certo non si tratta oggi di fascistizzare, ma di convertire al verbo progressista), nipoti e pronipoti di quelli che gestivano la Kehillah (Comunità) di allora, e che non solo da oggi occupano posti di rilievo nella Comunità Ebraica torinese.
HaKeillah nacque nel 1975 e la testata sembra da sempre volersi presentare come l’autentica voce della Comunità torinese, così come appare dal nome che, tradotto, significa appunto La Comunità. Giorgio Gomel, che è una delle colonne di questa testata si presenta come la voce dell’ebraismo europeo. Il suo articolo, leggibile nel link in fondo, merita di essere esaminato con attenzione, quasi frase dopo frase.
Nel mese di dicembre del 2019 Gomel “riferiva di un tentativo di dare vita ad una rete mondiale dell’ebraismo progressista, un’esigenza esistenziale indifferibile per l’ebraismo mondiale”. Anche grazie a lui, Jstreet, Jcall, Jspace, Jewish Democratic Initiative e tante altre associazioni dei cinque continenti hanno creato J-Link, e Gomel ha l’onore di rappresentare in questa nuova associazione Jcall Europa.
Ma forse dobbiamo andare più in profondità, e così si comprenderà la ragione dello “sgarbo” di Gantz. Sì, perché qui si parla di non voler “annettere una parte rilevante della Cisgiordania”. Parlare di “annessione” è giuridicamente errato, come ha esaurientemente illustrato David Elber su questo giornale, e altrettanto hanno fatto autorevolmente Michael Calvo e Caroline Glick e Dore Gold, presidente del Jerusalem Center for Public Affairs e già direttore generale del ministero degli Esteri di Israele.
Subito dopo, Gomel si rammarica per la mancanza di una “trattativa con i palestinesi”, come se fosse per colpa della destra di Netanyahu. Il programma della destra israeliana sarebbe “in contrasto … col diritto internazionale”. Del tutto falso, poiché ciò che il governo si appresta a fare, l’estensione della sovranità israeliana sul 30% dei terriotori cisgiordani è perfettamente in linea con quel diritto internazionale di cui si misero le basi a Sanremo nel 1920 e che venne poi sancito dalla Società delle Nazioni, e poi ancora definitivamente fatto proprio dalle Nazioni Unite.
Con quella che Gomel chiama “annessione” e attenzione alle parole, si “porrà fine alla possibilità di una soluzione a due stati del conflitto”, ma da quanti anni gli arabi palestinesi hanno rifiutato l’esistenza di due Stati?
Grave è anche voler “annettere la valle del Giordano”: eppure anche quel primo ministro Isaac Rabin, tanto amato dalla sinistra ebraica, anche se solo dopo la sua tragica fine, aveva chiaramente questo nel suo programma.
Gomel si rammarica che le “offerte” fatte in “precedenti trattative fra le parti (a Taba nel 2001 e Annapolis nel 2008) furono respinte da Arafat e Abbas”. Sarebbe interessante che ci venisse spiegato che cosa Abbas abbia mai accettato fin da quando era il braccio destro di Arafat, e che cosa Arafat, dopo aver accettato, abbia usato per promuovere la pace.
“L’annessione unilaterale…sancirebbe per i palestinesi l’impossibilità di giungere ad uno stato indipendente con mezzi non violenti”. Curioso. Precedentemente i mezzi usati furono notoriamente pacifici, vedi alla voce Prima e Seconda Intifada. Ad Accordi di Oslo ancora caldi, Arafat invocava in una moschea di Johannesburg il jihad, e no, non lo intendeva nel senso di tenzone spirituale. Forse ora la violenza sarà maggiore? Proprio adesso che gli Stati sunniti, da anni stanchi della “causa palestinese” si sono fatti così prossimi a Israele in funzione anti-iraniana? C’è qualcuno, oltre a Gomel, che ci crede veramente?
Ci sarebbe anche un ulteriore rischio, tuttavia. Grave. La “perdita di legittimità dell’Autorità palestinese”. Un vero vulnus. Parliamo dell’organizzazione cleptocratica che governa l’Area A e B della Cisgiordania e il cui leader è un autocrate che non ha più indetto elezioni dopo che il suo mandato è scaduto il 15 gennaio 2009. Ma ci sono altri attori che si adonteranno. La “UE in primis, con Francia, Germania, Belgio, Irlanda”: proprio quegli stati che all’UNESCO hanno votato le mozioni che rinominano in arabo il Muro Occidentale e il Monte del Tempio, annullando nominalmente ogni legame ebraico con essi. La UE che, incalza il Nostro, “Potrebbe reagire con maggiore vigore…alle demolizioni delle case”. Case costruite abusivamente secondo quanto stabilito della Suprema Corte di Giustizia israeliana, che non ha mai fatto mancare di fare sentire la sua voce quando si è trattato di fare abbattere insediamenti ebraici ritenuti illegali. Nulla ci viene detto degli immobili fatti costruire illegalmente dalla UE in spregio assoluto di quegli Accordi di Oslo, di cui essa sarebbe garante. Ma è normale, qui si parla dei programmi abietti di Netanyahu, ci sarà una futura occasione, per parlare delle UE relativamente a Israele. Attenderemo fiduciosi.
Dall’articolo estraiamo anche altre gemme, “Israele…rimuoverebbe dalle mappe e dai libri di scuola la Linea verde”. Gomel si meraviglia. Curioso, perché la “linea verde” è una linea armistiziale, non sancisce alcun confine, se non quello in cui gli Stati arabi vorrebbero rinchiudere Israele. Confini indifendibili. La linea verde venne rimossa dai libri in quanto Israele si accordò con la Giordania nel 1994. Una delle conseguenze del trattato di pace tra i due paesi fu appunto la sua rimozione e il ripristino dei confini mandatari. Un fatto sfuggito all’attenzione di Gomel, come un altro fatto, che nelle mappe dell’Autorità Palestinese Israele è stato completamente cancellato.
In conclusione di articolo l’autore arriva a temere che Israele arrivi a “privare i palestinesi dei diritti civili e politici”, esattamente come accaduto da parte degli arabi, i quali, per decenni hanno allestito campi profughi in prossimità dei confini di Israele dove il popolo arabo-palestinese è stato privato di qualsiasi forma di rappresentanza istituzionale. Gomel dovrebbe rasserenarsi consultando il Piano di Pace proposto dall’amministrazione Trump dal quale scoprirebbe che l’Area C si allargherà soltanto negli insediamenti, e i palestinesi nella stessa non vedranno modificato il loro status attuale in attesa che Abbas si decida, finalmente, a sedersi al tavolo delle trattative.
Ma cosa succederà per “gli ebrei della diaspora” si chiede preoccupato Gomel, alto rappresentante di Jcall dentro J-Link? È bene che tutti rimangano allineati, come preconizzava già La nostra bandiera.