Gerusalemme, la Giordania e gli ebreihttp://www.danielpipes.org/19600/jerusa ... d-the-jews Traduzione in italiano di Angelita La Spada
http://www.linformale.eu/gerusalemme-la ... gli-ebrei/L’Autorità Palestinese e Hamas negano notoriamente qualsiasi legame storico o religioso tra gli ebrei e Gerusalemme. Per fare un esempio, Ikrima Sabri, mufti della città, nel 2001 annunciò che “Non c’è la minima indicazione dell’esistenza di un tempio ebraico in questo luogo in passato. In tutta la città, non c’è nemmeno una sola pietra che testimoni la storia ebraica”.
Questa bizzarra bufala, ha spiegato Itamar Marcus, si basa su una semplice sostituzione: prendere l’autentica storia ebraica, “documentata da migliaia di anni di letteratura”, cancellare il termine ebraico e sostituirlo con arabo.
Questo per quanto riguarda i palestinesi negazionisti. E per quanto concerne il moderato e sobrio governo giordano, partner discreto e di lunga data di Israele? Che ne pensa? Amman non arriva a negare qualsiasi legame tra gli ebrei e Gerusalemme, ma fa confusione storica.
Prendiamo, ad esempio, il libro bianco di 108 pagine intitolato The Hashemite Custodianship of Jerusalem’s Islamic and Christian Holy Sites 1917–2020 CE (“La custodia hashemita dei luoghi santi islamici e cristiani di Gerusalemme, 1917-2020”), appena pubblicato solo in lingua inglese da The Royal Aal Al-Bayt Institute for Islamic Thought (Aal Al-Bayt significa “famiglia della casa” o la famiglia di Maometto, il Profeta islamico.) Sebbene sia formalmente un’organizzazione indipendente non governativa, questo istituto è stato fondato da Re Hussein nel 1980 e da allora è stato diretto continuamente da un membro della famiglia reale. C’è riserbo in merito al suo prodigo finanziamento, l’istituto sembra dipendere interamente dalla generosità del governo.
La custodia hashemita afferma esplicitamente che
“Gerusalemme è sempre stata una città araba”.
“Quando arrivarono gli antichi ebrei, attaccarono, uccisero e distrussero chiunque e qualunque cosa trovarono”.
“Gli arabi palestinesi di oggi sono in gran parte i discendenti diretti degli arabi cananei autoctoni che erano lì oltre 5000 anni fa.
Ci sono però alcuni problemi in questa narrazione. L’identità araba non risale a 5000 anni fa e nemmeno a 3000 anni fa. I Cananei non sono arabi. Gli antichi ebrei fecero qualcosa di più che “attaccare, uccidere e distruggere chiunque e qualunque cosa trovarono”: è necessario puntualizzare che la Bibbia che hanno scritto serve come base dell’Ebraismo, del Cristianesimo e dell’Islam, i cui seguaci costituiscono più della metà della popolazione mondiale?
E mentre le prove del Dna mostrano che i discendenti dei Cananei in Palestina sono presenti in tutto il Medio Oriente, la grande maggioranza dei suoi musulmani e cristiani discende da immigrati. Scrivendo nel 1911, prima delle numerose migrazioni del XX secolo, l’archeologo irlandese Robert Macalister aveva già menzionato 19 etnie straniere oltre agli agricoltori autoctoni e agli ebrei presenti in Palestina, tali gruppi etnici erano i seguenti: algerino, arabo, armeno, assiro, bosniaco, circasso, crociato, tedesco, greco, italiano, curdo, Motawila, Nawar, persiano, romano, samaritano, sudanese, turco e turcomanno.
È deludente il fatto che il Regno hashemita di Giordania, che desidera essere considerato responsabile e moderato, abbia pubblicato tale assurdità in un presunto studio accademico. È ancora più inquietante se si rammenta che Re Abdullah II, sovrano della Giordania dal 1999, ha preso una posizione coraggiosa e decisa contro gli islamisti, definendoli “Totalitari religiosi (…) che cercano il potere con l’intimidazione, la violenza e la delinquenza”. Il sovrano giordano auspicò inoltre “un Islam dinamico, moderato: un Islam che tutela la santità della vita umana, presta attenzione agli oppressi, rispetta allo stesso modo uomini e donne, e afferma con insistenza la fratellanza umana”. Un libro bianco in stile islamista applaudito da un antisionista palestinese mina sostanzialmente queste parole audaci.
Questo libro bianco promuove un imperialismo islamico familiare. Tra gli altri esempi recenti spiccano quello del governo turco di Recep Tayyip Erdoğan che si ostina ad affermare che la Basilica di Santa Sofia fosse originariamente una moschea; e poi ci sono i musulmani che esercitano pressioni per utilizzare la Cattedrale di Cordoba come moschea; e infine, la cosiddetta Moschea di Ground Zero, vicino al sito del World Trade Center a New York [distrutto l’11 settembre 2001].
Paradossalmente, Hashemite Custodianship, in lingua inglese e rivolto a un pubblico internazionale, distorce la storia più dei materiali arabi destinati alla popolazione locale. Ad esempio, il Royal Committee for Jerusalem Affairs della Giordania si limita ad affermare che gli arabi fondarono Gerusalemme 5000 anni fa senza il cattivo corollario che gli ebrei “attaccarono, uccisero e distrussero chiunque e qualunque cosa trovarono”.
Il governo giordano può e dovrebbe impegnarsi di più. Se falsificare la storia antica sembra una bazzecola, di fatto, non lo è. Errori del genere formano opinioni, modellano i governi e rischiano di portare a rinnovate ostilità.
Dove sono gli storici e i teologi a denunciare queste menzogne ? Dove sono gli amici della Giordania a sollecitare un insegnamento responsabile? Dove sono gli israeliani, inibiti da una perenne sindrome dell’amante, a protestare contro questa calunnia?
Uno dei principi cardine degli Accordi di Oslo sottoscritti da Israele e dall’OLP di Yasser Arafat era quello che prevedeva la cessazione di ogni forma di terrorismo da parte palestinese. Questo requisito era stato introdotto già con la lettera dei principi che Arafat aveva mandato all’allora premier israeliano Isaac Rabin. Tale lettera era alla base degli accordi stessi.
Nella realtà dei fatti questo fondamentale punto non è mai stato rispettato ne dall’OLP ne dall’Autorità Nazionale Palestinese che è diventata, con gli Accordi di Oslo, l’interlocutore di Israele nel processo di pace.
In questa sede ci focalizzeremo su un aspetto particolare di appoggio al terrorismo: lo stipendio corrisposto dall’ANP ai terroristi e ai loro famigliari.
Questa “pratica amministrativa” è tanto diffusa quanto celebrata tanto da essere una voce del bilancio stesso dell’ANP. E non è una voce di poco conto visto che da una attenta analisi dei bilanci palestinesi, dal 2011 al 2018, si evince che l’ANP abbia corrisposto circa due miliardi di dollari ai terroristi o ai famigliari dei celebrati “martiri”.
Da diversi anni, l’istituto di ricerca Palestinian Media Watch svolge un capillare lavoro d’analisi sui bilanci dell’ANP. Quello che è emerso è sconcertante, come ha riferito Maurice Hirsch, capo della sezione legale dell’istituto di ricerca, “L’ANP utilizza sistematicamente i fondi di Stati Uniti e UE per finanziare organizzazioni quali il Fronte popolare di liberazione della Palestina e il Fronte di liberazione palestinese che sia gli USA che la UE hanno riconosciuto come organizzazioni terroristiche. Il tutto semplicemente assegnando i fondi all’OLP che a sua volta li gira alle organizzazioni terroristiche”.
Il sistema per eludere i già molto allentati controlli di USA e UE sulla destinazione dei fondi è molto semplice: l’ANP che è tenuta a rendicontare i soldi ricevuti li mette a bilancio come spese di finanziamento dell’OLP, poi l’OLP che non è tenuta a rendicontare nessuna spesa li destina direttamente alle organizzazioni terroristiche in una sorta di gioco delle tre carte.
Mentre un altro capitolo è il finanziamento diretto dei terroristi, descritti nei bilanci come “martiri” e le loro famiglie.
In questa voce di bilancio, Palestinian Media Watch, ha scoperto che nel solo 2017 l’ANP ha corrisposto 183 milioni di dollari direttamente alle famiglie dei “martiri” uccisi durante atti terroristici e 160 milioni di dollari ai “martiri” detenuti nelle prigioni israeliane per aver compiuto attacchi contro civili. Per il 2017 il totale delle donazioni straniere ricevute direttamente dall’ANP (esclusi i soldi dell’UNRWA) è stato di 693 milioni di dollari dei quali, come abbiamo visto, 343 milioni sono finiti ai terroristi. Quindi, la metà dei soldi che arrivano dall’estero ogni anno all’ANP servono a pagare i terroristi.
Nel dettaglio è emerso che circa 13.000 terroristi ricevono, annualmente, uno stipendio di 12.307 dollari, che è molto più alto dello stipendio medio percepito da chi lavora nei territori palestinesi. In pratica l’attività di terrorista è assai più remunerativa di una qualsiasi attività lavorativa svolta nei territori palestinesi.
Dopo queste prime indagini è emerso un altro aspetto sconcertante della vicenda: esiste un vero e proprio onorario per le attività terroristiche, come si può vedere dal documento qui di seguito:
Questa tabella è stata pubblicata dal Jerusalem Post in seguito alla diffusione del rapporto sul pagamento dei salari. Le cifre riportate sono in Shekel israeliani (1 dollaro equivale circa a 3.5 Shekel). Quindi dalla tabella si deduce che il “salario” per un atto terroristico non “troppo grave” con condanna fino a 5 anni di carcere da diritto ad una paga di circa 500 dollari al mese. Ma se il terrorista ha commesso uno o più omicidi ed è condannato a oltre 20 anni di reclusione la paga aumenta a 2.500 dollari al mese. Ma oltre la “paga base”, i terroristi, possono contare su ulteriori benefit: se il terrorista è sposato ha “diritto” a ulteriori cento dollari mensili, se ha figli ha diritto a ulteriori 15 dollari per figlio. Se i terroristi sono residenti a Gerusalemme o in altro territorio israeliano possono contare su una maggiorazione rispettivamente di 100 o 150 dollari dello “stipendio”. Tutto questo succede nell’indifferenza dell’ONU, della UE e degli USA fino all’Amministrazione Trump (nel marzo del 2018 ha firmato il Taylor Force Act, legge con la quale l’amministrazione può bloccare fino ad un terzo degli aiuti USA destinati all’Autorità palestinese).
Lo stesso governo israeliano per numerosi anni non ha fatto nulla di concreto per porre fine a questa vergognosa pratica. E’ solo da due anni a questa parte che ha iniziato a trattenere dai soldi raccolti (relativamente ai dazi doganali sulle esportazioni) per conto dell’ANP, l’equivalente dei soldi versati ai terroristi dall’Autorità palestinese: quasi 350 milioni di dollari all’anno. Dopo questa decisione del governo Netanyhau è piovuta l’immancabile sequela di critiche e accuse da parte dell’ONU, della UE e di numerosi altri paesi. Ovviamente nessuna critica è mai stata espressa nei confronti dell’Autorità Palestinese per aver avviato e portato avanti una pratica tanto odiosa e piena di disprezzo verso la vita umana.
Alla luce di questa politica portata avanti con orgoglio – tutti i dirigenti palestinesi a cominciare da Abu Mazen hanno dichiarato che non sospenderanno mai tali pagamenti perché li trovano giusti e legittimi – dai “moderati” dell’ANP diventa poco plausibile parlare di volontà di pace. Nel migliore dei casi bisogna sperare in una sorta di coesistenza quasi pacifica per gli anni a venire.
Al netto del suo benemerito passato, Amnesty International è, oggi, un’organizzazione con vedute ambigue che, sempre più spesso, impiega i «diritti umani» come grimaldello per scardinare le sovranità nazionali e portare avanti una lotta che poco sembra aver a che fare coi diritti dell’uomo. I suoi operatori sembrano lavorare più con intenti politici (anticolonialisti, antisovranisti) che con intenti autenticamente professionali. Sotto il tema dei diritti umani, si può rilevare una ben precisa visione del mondo.
Amnesty International è un’avanguardia del moderno progressismo transnazionale, il cui obiettivo è un ordine mondiale post-nazionale e post-sovrano, retto da un’astrazione giuridica che l’associazione fondata da Benenson chiama «diritto umanitario internazionale». Con questo non si vuole affermare che Amnesty sia priva di autentici difensori dei diritti umani, ma come istituzione si colloca alla sinistra dello spettro politico. Non a caso, sceglie di esercitare la sua pressione maggiore su quegli Stati disinteressati alla formazione di un mondo post-nazionale e scettici nei confronti delle grandi strutture sovranazionali. La nota organizzazione manifesta una inusitata fissazione per Israele, considerato un violatore seriale di diritti umani e un criminale di guerra.
La principale accusa che Amnesty muove nei confronti di Israele ruota attorno alla nozione di risposta «sproporzionata». Trattasi dell’assurda accusa secondo cui i contrattacchi israeliani causerebbero tassi più elevati di vittime e danni alle proprietà maggiori degli attacchi palestinesi.
Questa sarebbe una prova delle violazioni dei diritti umani. In tale argomento, manca il fatto che Hamas e altri gruppi terroristici palestinesi usano abitualmente i propri civili come scudi umani. Postazioni civili come moschee, ospedali e scuole vengono abitualmente utilizzate come depositi di armi e rampe di lancio per i missili. Di questa realtà, gli «eyewitness» di Amnesty non sembrano accorgersi.
Nel corso degli anni, Amnesty International ha propagandato un’immagine deformata di Israele, equiparando le necessarie misure antiterrorismo israeliane in Cisgiordania e a Gaza con le politiche di segregazione dell’apartheid Sudafricana. Promuovendo la finzione contorta, secondo cui i palestinesi sarebbero vittime di violenze coloniali sistematiche. Nel rapporto 2019-20, possiamo leggere: «Israele ha mantenuto il suo blocco illegale sulla Striscia di Gaza, sottoponendo i suoi abitanti a punizioni collettive e intensificando la crisi umanitaria» e più avanti «I soldati israeliani, la polizia e gli ufficiali della Agenzia di sicurezza israeliana hanno continuato a torturare e maltrattare i detenuti palestinesi, compresi i minori, impunemente».
Amnesty non scrive da dove prende queste informazioni, ma è probabile che arrivino da alcune delle ONG palestinesi con cui collabora, il cui obiettivo è la demonizzazione della democrazia israeliana. La nota organizzazione umanitaria presta il fianco a quanti mirano a boicottare Israele e cercare di negargli il diritto all’autodifesa contro gli attacchi terroristici, bollando come «crimine di guerra» o «reazione spropositata» qualsiasi azione militare compiuta dallo Stato Ebraico.
I documenti di Amnesty in merito alle vicende mediorientali sono cronicamente sfavorevoli a Israele in modo ideologico e infondato. L’organizzazione ha sostenuto le manifestazioni palestinesi in memoria della «Nakba» e condannato le azioni militari a difesa della frontiera, omettendo i tentativi dei manifestanti di entrare illegalmente e armati in territorio israeliano.
La vera ragione per cui Israele è così inviso all’organizzazione per la difesa dei diritti umani non si colloca tanto nelle azioni militari del suo esercito, quanto nell’idea di ordine politico che esso incarna. Israele è uno Stato nazionale geloso della sua sovranità, diffidente rispetto ai processi di ruminazione diplomatica delle agenzie globali e animato da una visione eraclitea del mondo, dove il conflitto è fondamento dell’essere. Per questi motivi Amnesty è così sbilanciata a sfavore dello Stato Ebraico, inimicizia più volte sottolineata anche dal Foreign Office britannico.
Per le medesime cause anche gli Stati Uniti d’America finiscono sovente sotto lo sguardo inquisitorio di Amnesty International, che non manca mai di mettere sotto accusa l’«unilateralismo» americano e la tendenza di Washington, soprattutto durante le presidenze repubblicane, a difendere in solitaria la propria sicurezza nazionale, scavalcando le Nazioni Unite.
Fece scalpore, dieci anni fa, la relazione fra Amnesty International e l’associazione «Cageprisoners» di Moazzam Begg, un talebano jihadista catturato in Afghanistan e detenuto nel carcere di Guantánamo. Pur di attaccare il governo statunitense, l’organizzazione per i diritti umani fece causa comune con un islamista. I rapporti tra Amnesty e Begg vennero pesantemente criticati dall’attivista Gita Sahgal, che venne censurata e sospesa dal suo ruolo nell’organizzazione.
Queste posizioni non sorprendono, le ONG come Amnesty International attingono ai sensi di colpa dell’Occidente per il passato coloniale e il razzismo. Prendere di mira Israele e gli Stati Uniti è redditizio e consente di ottenere ampia visibilità. Il posizionamento di Amnesty rispetto a molte e decisive questioni dimostra il suo collocamento a sinistra.
Nelle fasi più accese della crisi migratoria europea, la «candela nel filo spinato» ha impiegato il tema dei diritti umani per negare ai popoli europei il diritto alla sicurezza e alle frontiere. Così facendo, ha, nuovamente, manifestato la sua antipatia ideologica nei confronti dell’Occidente. Non a caso, l’organizzazione è stata finanziata da George Soros, da anni impegnato a plasmare un mondo senza nazioni né confini e amministrato da impersonali autorità globali.