Ebrei e non più ebrei che odiano gli ebrei e/o Israele

Ebrei e non più ebrei che odiano gli ebrei e/o Israele

Messaggioda Berto » mer dic 20, 2017 10:22 pm

L’assalitore israeliano di Israele: Le bugie di Gideon Levy
18/11/2017

http://www.linformale.eu/lassalitore-is ... ideon-levy

La propaganda contro Israele prosegue inesorabile da cinquanta anni, e come tutte le propagande, si fonda su menzogne, omissioni, distorsioni. I suoi feticci sono inossidabili, alla pari di ogni mitologia funzionale a interessi ben precisi, a obbiettivi da raggiungere. Tra i propagandisti più tenaci è sicuramente annoverabile l’israeliano Gideon Levy, firma di punta di Haaretz, le cui intemerate contro lo stato in cui risiede si sono fatte con il tempo sempre più sguaiate e allucinate.

Levy non va per il sottile, il suo martellare ricorda per violenza e iperbole le vignette che Julius Streicher faceva pubblicare su Der Stürmer (l’Assalitore) la rivista virulentemente antisemita tedesca che usciva settimanalmente in Germania dal 1923 al 1945. Lo stile è esattamente il medesimo. Urlato, bombastico, truce, a tratti onirico. La demonizzazione a cui è sottoposto Israele negli articoli di Levy è identica alla demonizzazione degli ebrei nelle vignette di Der Stürmer. In entrambi i casi la diagnosi è la stessa, al lettore viene offerto in pasto qualcosa che ha lo scopo di apparire moralmente ripugnante.

Come nella Germania nazista l’ebreo era l’agente di una patologia tremenda che sconciava la purezza del Volk, per Levy Israele è l’orrore che sfigura l’innocenza della vita araba. Nell’ultimo articolo dello stürmer israeliano, La verità su Israele che Israele non vuole vedere, doviziosamente tradotto in italiano da L’Internazionale, ci troviamo al cospetto di un altro saggio di propaganda truculenta. Gaza viene paragonata a un grande laboratorio di cavie umane costruito appositamente dagli israeliani e dove per causa loro regnano miseria e follia. Si tratta di uno dei più consumati stereotipi antisemiti, quello dell’ebreo nazificato, trasformato in carnefice. Gli arabi, ovviamente, sono le vittime, i nuovi ebrei. Come abbiamo già fatto in passato, commenteremo qui alcuni estratti dell’articolo in questione, per evidenziarne la grossolanità, il trucido armamentario menzognero. Levy trae spunto per l’articolo dalla visita dello psicologo arabo-israeliano Mohammed Mansur a Gaza.

“Più di un terzo dei bambini che ha incontrato nel campo profughi di Jabalya ha dichiarato di aver subìto abusi sessuali. I loro genitori, alle prese con una guerra per la sopravvivenza e a loro volta vittime di depressione, non sono in grado di proteggerli. A Gaza è impossibile allontanare i bambini e i loro genitori dalle origini del loro trauma perché quest’ultimo non ha avuto fine e non finirà. Adulti e bambini vivono un dolore terribile. Nessuno è mentalmente sano a Gaza. Caos, è questa la parola”.

I bambini sono sempre la carta vincente da giocare per ogni scaltro propagandista. Bambini e donne, la loro sofferenza, soprattutto quella dei primi, premia sempre quando si vuole additarne il responsabile all’esecrazione pubblica. Le immagini dell’ultimo conflitto a Gaza del 2014, rimbalzate in tutto il mondo, in cui soprattutto venivano mostrati bambini feriti o morti e donne straziate dal dolore, servirono benissimo allo scopo: quello di mostrare la presunta ferocia di Israele, omettendo naturalmente che la massimizzazione delle vittime civili era uno degli scopi di Hamas. Sono in quantitativo eccedente le prove che evidenziano come il gruppo integralista stoccasse armi e munizioni nei pressi delle aree più densamente abitate, intimando alla popolazione di non tenere conto degli avvisi di imminente bombardamento da parte dell’IDF. La prima vittima della guerra, come diceva Churchill, è la verità. Hamas è fin dall’inizio gran maestro di finzione e nel 2014, come già nel 2009, ottenne il risultato sperato: suscitare nei confronti di Israele la massima esecrazione internazionale.

“Nessuno è mentalmente sano a Gaza. Caos, questa è la parola“. Ovviamente Levy non ci dice che questa follia e questo caos sono cominciatati quasi subito, nel 2007, due anni dopo la vittoria di Hamas alle elezioni, quando con un golpe trasformatosi in guerriglia urbana, nel più puro stile tribale arabo, il clan di Hamas e quello di Fatah si fronteggiarono. Fu un’orgia di sangue, con lancio di esponenti dell’Autorità Palestinese giù dai tetti e esecuzioni sommarie in strada. Poi, quando la presa del potere da parte di Hamas fu salda, iniziò ciò che ancora oggi è sotto i nostri occhi. Una intera popolazione presa in ostaggio dal gruppo islamico integralista. Ma questo Levy, non lo può dire. Non è funzionale al suo racconto nero in cui il colpevole della sofferenza dei bambini, il generatore di caos, è Israele.

“Mansour descrive una distopia, una società che sta andando a rotoli. Distruzione. Gli abitanti di Gaza hanno dimostrato una resistenza, una forza d’animo e una solidarietà straordinarie all’interno delle loro famiglie, dei loro villaggi, quartieri e campi profughi, dopo tutte le disgrazie subite. Oggi però rifugiati, figli di rifugiati, nipoti di rifugiati e bisnipoti di rifugiati stanno crollando”.

Peccato non raccontare quali sono le cause della distopia, cosa abbia portato Gaza, dopo dieci anni di rigido terrore islamico, di sharia imposta con la forza, di delazioni, uccisioni, violenze, torture, sottomissioni, esecuzioni, alla situazione attuale, quella di un esperimento sociale completamente fallito, quello di un emirato arabo (cosa che di fatto Gaza è), collassato su se stesso in virtù della sua classe dirigente. Dal 2007 si calcola che sia stato investito qualcosa come un miliardo di dollari nella infrastruttura militare, fondi che avrebbero sensibilmente contribuito a sollevare dai disagi la popolazione dell’enclave costiera dove il 70% dipende dai sussidi assistenziali e il 60% si arrangia con meno di due dollari al giorno. Ma attenzione, non è Hamas il problema, il problema è il blocco israeliano sulla Striscia. Sono i controlli minuziosi di Israele per ragioni di sicurezza sul materiale importato, soprattutto materiali edili, che hanno provocato il disastro umanitario. I materiali edili che Israele raziona poiché sa benissimo che essi vengono impiegati per costruire tunnel e fortificare postazioni militari.

“I resoconti di Mansour, per quanto duri, non dovrebbero sorprendere nessuno. Tutto va avanti secondo il copione, quello del più grande esperimento mai condotto su degli esseri umani. È questo l’unico risultato possibile quando s’imprigionano due milioni di persone in un’enorme gabbia per oltre dieci anni, senza nessuna possibilità di uscita e senza speranza. Il blocco della Striscia di Gaza è il peggior crimine di guerra che Israele abbia mai commesso. È una seconda naqba, perfino più raccapricciante della precedente”.

L’immagine del “più grande esperimento mai condotto su degli esseri umani” evoca Josef Mengele e al contempo rimpicciolisce oscenamente Auschwitz, Sobibor, Treblinka, Dachau. Si provvede poi a indicare il responsabile: Israele. Come gli ebrei nei libelli medioevali avvelenavano i pozzi, sacrificavano i bambini cristiani e propagavano la peste, oggi Israele imprigiona in un ghetto la popolazione di Gaza portandola allo stremo. Il blocco sarebbe, per l’autore di queste righe, il responsabile della catastrofe. Ogni giorno, da Israele, 600 camion con provviste di vario genere, attraversano il confine tra Israele e Gaza, ma questo fatto non è funzionale alla narrativa criminalizzante di Levy.
Il “blocco della Striscia di Gaza è il peggior crimine che Israele abbia mai commesso“. Questa è l’iperbole, questa è la menzogna elevata ad apoteosi, a espettorazione delirante. Hamas scompare dalla scena, insieme all’Islam, insieme alla Carta Programmatica del 1989 in cui è scritta a chiare lettere la necessità del jihad contro Israele, essendo tutta la Palestina reputata dal gruppo terrorista un waqf islamico. Al posto della realtà, dei criminali veri, del suprematismo islamico, della volontà omicida di Hamas nei confronti di Israele che gli ha fatto intraprendere due guerre fallimentari, nel 2009 e nel 2014, c’è il criminale ebreo, o meglio israeliano, che altro non è se non lo stato di Israele.


Le tele nere di Gideon Levy
20/12/2017

http://www.linformale.eu/le-tele-nere-di-gideon-levy

Gideon Levy, di cui l’Internazionale pubblica tradotti in italiano gli articoli che prima appaiono su Haaretz, è da tempo un caso da annali. L’odio che nutre per Israele, paese in cui vive, non ha nulla da invidiare a quello più furente di Hamas o Hezbollah, o di chi, in Occidente, vorrebbe vedere lo Stato ebraico scomparire. I suoi pezzi raccontano a puntate un unico romanzo criminale in cui i palestinesi sono sempre e solo vittime di una entità mostruosa e spietata, sanguinaria, crudele, folle. Sì, Levy è ebreo, sì è israeliano. E allora? Sono numerosi i casi di autodissoluzione ebraica. Qui si tratta di una conclamata autoidentificazione con il proprio nemico, trasformato in vittima mentre si rappresenta la propria stessa identità, in questi casi collettiva, sfigurata dall’abiezione, come un ritratto di Dorian Grey non più celato ma esibito al pubblico senza vergogna.

Nel suo ultimo pezzo, Levy ci racconta la morte di un manifestante palestinese disabile, Abu Thuraya, morto venerdì scorso mentre manifestava a Gaza contro la decisione di Donald Trump di dichiarare Gerusalemme capitale di Israele. Il giovane, in sedia a rotelle, è stato ucciso durante gli scontri che ci sono stati ai confini con Israele. Levy non si interroga nemmeno un attimo sulla dinamica dei fatti. Per lui ciò che è sufficiente è evidenziare due cose, che si tratta di omicidio e che la vittima fosse disabile. Cosa c’è di meglio per raffigurare i soldati dell’IDF come assassini di disabili, quando non di bambini? Certo, i bambini uccisi sono sempre l’asset migliore per chi voglia mostrificare Israele. Nessuno si sogna di parlare dei migliaia di bambini fatti uccidere da Assad in Siria in questi anni, quelli non indignano. Solo quando muoiono i bambini a Gaza come conseguenza di un conflitto iniziato da Hamas, allora si scuotono le coscienze, si riempiono le piazze, si brucia in effige lo Stato ebraico. Questa volta no, non si tratta di bambini, ma il corpo di un manifestante senza gambe di 29 anni diventa, per la rapacità di Levy, perfetto ai fini della più bieca strumentalizzazione. E’ un magnifico soggetto per un canovaccio orrendamente espressionista il cui unico scopo è quello di suscitare in chi lo legge odio, disprezzo e livore per Israele e il suo esercito.

“Abu Thuraya che solleva entrambe le braccia in segno di vittoria, Abu Thuraya trasportato dai suoi amici mentre muore dissanguato”, scrive Levy. La pennellata è grossolana, non c’è tempo per le finezze, si tratta di andare al sodo. La vittima senza gambe che si dissangua, le braccia sollevate. E’ sufficiente? No, non basta, ci vuole l’infamia, condensata in questa frase, “Il tiratore scelto dell’esercito non poteva mirare alla parte bassa del corpo della sua vittima il 15 dicembre, e quindi ha deciso di sparargli alla testa e di ucciderlo”. Non c’è altro da dire. Il giudizio è definitivo, perentorio. Si tratta di crudeltà, di omicidio contro un poveraccio senza gambe che era lì a manifestare. Come si siano svolti i fatti, perché tra le vittime (tre in tutto) ci fosse anche Abu Thuraya, Levy non se lo chiede. Il suo scopo non è quello di fornire una rappresentazione problematica, i soldati che sparano selettivamente contro i principali istigatori, uno zelo forse eccessivo, un errore, qualcosa di meno chiaro di come sembra, no. Tutto questo è irrilevante per chi ha solo una missione da compiere, quella di condannare senza appello. “Quanta malvagità e insensibilità occorre per sparare a una persona in sedia a rotelle?”. Ci siamo. Eccolo fornito l’alibi ai fanatici, ai jihadisti, agli antisemiti più agguerriti. Armatevi e uccidete chi ammazza con “malvagità” un povero disabile. Siete moralmente autorizzati, perché “Abu Thuraya non è stato il primo, e non sarà l’ultimo disabile palestinese ucciso dai soldati dell’esercito israeliano”.

Da un caso di cui non si conoscono ancora con chiarezza i contorni, si giunge a una generalizzazione colpevolizzante il cui senso è che i soldati israeliani uccidono i disabili. Ora, c’è da chiedersi, cosa c’è di diverso qui dai libelli del sangue medioevali, dalle accuse rivolte agli ebrei di uccidere bambini cristiani per usare il loro sangue nella confezione delle azzime? Oppure di avvelenare i pozzi o propagare la peste? Nulla, la sostanza è la medesima.

La demonizzazione lavora sempre con gli stessi materiali, li aggiorna, li pesca dal contesto del presente. Levy fa questo lavoro, pesca a piene mani e imbratta le sue tele in cui la realtà è stravolta, capovolta, allucinata, in cui Hamas, la violenza e il fanatismo musulmano sono sempre assenti, come è assente la causa della tragedia di Gaza, il fatto che dal 2007 essa sia sotto il tallone di ferro di una dittatura brutale che ha nella sharia la sua regola. Gaza dove i ragazzini vengono sfruttati per costruire tunnel che dovrebbero trasferire commando terroristici in Israele per provocare massacri, dove sia nel 2009 che nel 2014 la popolazione civile è stata cinicamente usata come scudo per massimizzare le vittime causate da conflitti voluti da Hamas, dove regolarmente vengono ammazzati palestinesi accusati di essere al soldo di Israele, “spie sioniste”, senza prove, basta un bisbiglio, un passaparola. Gaza sotto ostaggio, imprigionata sì, come scrive Levy, ma certo non da Israele, bensì dall’integralismo islamico, dal tribalismo, da una congrega torva di fanatici per i quali l’autoimmolazione e il jihad sono il compimento di una vita. Tutto questo è assente dalle tele, non può apparire.

Chi legge Levy e lo apprezza ama i sapori forti, gli odori acri, vuole di Israele una raffigurazione nero pece. Lui non li delude mai, soprattutto in questo pezzo in cui chiede, alla fine, che non solo Netanyahu venga arrestato ma che per lui ci sia, come per Milosevic, il Tribunale dell’Aja.

Ci sono casi, e questo è uno dei più eclatanti, in cui dalla melma in cui si sguazza non è più possibile levarsi. Serviranno dunque come chiosa gli immortali versi del Poeta:

Quivi venimmo; e quindi giù nel fosso
vidi gente attuffata in uno sterco
che da li uman privadi parea mosso.
E mentre ch’io là giù con l’occhio cerco,
vidi un col capo sì di merda lordo.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Ebrei e no' pì ebrei ke łi odia łi ebrei e Ixrael

Messaggioda Berto » ven dic 22, 2017 7:42 pm

Niram Ferretti

IL CALUNNIATORE D'ORCHESTRA

https://www.facebook.com/permalink.php? ... 4575318063

Il Corriere della Sera pubblica un articolo del direttore d'orchestra israeliano Daniel Barenboim, noto per le sue viscerali posizioni propal. Sodale di Edward Said, uno dei maggiori ciarlatani del secolo scorso, autore del libro patacca "Orientalismo", diventato testo feticcio nelle università americane e in virtù del quale generazioni di studenti hanno appreso che lo sguardo dell'Occidente sull'Oriente è ontologicamente razzista, nell'articolo in questione ci regala la sua solita versione menzognera dei fatti.

A un certo punto del mirabile pezzo, Barenboim scrive, "I fatti sono noti non è necessario riportarne il dettaglio. La risoluzione del 1947 di dividere la Palestina ha incontrato il netto rifiuto del mondo arabo. Forse questa decisione o la reazione conseguente sono state un errore".

Ecco sì, "forse" rifiutare una ripartizione che avrebbe consentito agli arabi di avere un loro stato da settanta anni è stato un errore, come, sempre "forse" lo è stata la reazione araba, quella di cercare di annientare lo Stato ebraico appena nato nel 1948, per riprovarci nel 1967 e poi di nuovo nel 1973. "Forse". Ma proseguiamo.

"Comunque dal punto di vista palestinese è stata una catastrofe" E su questo poco ci piove. Ma ad una affermazione vera ne segue una vistosamente falsa. "I palestinesi hanno da tempo rinunciato al loro diritto all'intero territorio della Palestina". Se fosse vero sarebbe una notizia straordinaria. Evidentemente per il direttore d'orchestra con passaporto palestinese Hamas non è palestinese e la sua Carta Programmatica del 1989 dove è chiaramente esplicitato che tutta la Palestina è waqf islamica, non esiste.

Forse per Barenboim i palestinesi sono solo quelli di Fatah, cioè Abu and Sons, i quali, però pubblicano mappe nelle quali Israele non esiste e al suo posto c'è unicamente la Palestina lungo tutta l'estensione territoriale. Evidentemente lo fanno per scherzo, un pò per demagogia. Peccato che Abu Mazen non abbia mai, come il suo predecessore Yasser Arafat, riconosciuto ufficialmente la legittimità dello Stato ebraico. Ma nel mondo di Barenboim la realtà è un optional, al suo posto c'è la fiction.

In questa fiction di pura propaganda, udite, udite, mentre i palestinesi hanno da tempo rinunciato al loro diritto all'intero territorio della Palestina, gli israeliani, questi ottusi e poco malleabili israeliani cosa fanno? "continuano la pratica illegale degli insediamenti, mostrando scarsa disponibilità ad imitare i palestinesi". Non è uno scherzo. Sul principale quotidiano italiano dobbiamo leggere roba del genere.

Ma questo è il canovaccio che l'Europa tesse e ritesse da decenni basato unicamente su menzogne. I buoni e disponibili palestinesi e gli indisponibili israeliani che si estendono illegalmente. Ci sarebbe da ridere difronte a queste bestialità, ma purtroppo la questione è molto seria, terribilmente seria. Riguarda uno stato, l'unico stato ebraico al mondo e la sua sopravvivenza contro chi ne vuole la distruzione.

La questione della presunta illegalità degli insediamenti è una delle grandi patacche del Ventesimo e Ventunesimo secolo. E' una questione problematica giuridicamente, ma basti dire che non esiste alcun testo del diritto internazionale, alcuna giruisprudenza al riguardo che sancisca che i territori della Cisgiordania siano illegali. Esistono solo risoluzioni ONU, testi eminentemente politici e una sentenza della Corte dell'Aia che dal punto di vista del diritto internazionale non ha alcuna rilevanza. Questo è tutto. In realtà si può tranquillamente affermare che gli insediamenti siano perfettamente legali facendo riferimento al Mandato Britannico per la Palestina del 1922, mai abrogato, e al parere di alcuni tra i maggiori giuristi del Novecento. Ma occorre qui fermarsi.

Invito a leggere l'articolo di Barenboim, un concentrato di luoghi comuni, amenità, menzogne in cui il direttore di orchestra espatriato chiede il riconoscimento del fantomatico Stato palestinese come risposta al fatto che Donald Trump abbia dichiarato che Gerusalemme è la capitale di Israele. Come se le due cose fossero simmetriche.

No, Barenboim, Gerusalemme è da tremila anni legata all'ebraismo e tu da ebreo dovresti saperlo, ed è da settanta anni la capitale di Israele. Lo Stato palestinese non esiste, o se vuoi esiste già da dopo Oslo. Si trova nell'Area A e B della Cisgiordania e a Gaza. Questo si può riconoscere. Altro non vi è, e non vi è da ben prima del 1947, quando gli arabi rifiutarono nel 1933 la proposta inglese di edificarlo sul 75% dei territori. Gli inglesi che, quando gli convenne, tradirono le aspettative ebraiche, ma che ricevettero un sonoro "No, la Palestina la vogliamo tutta. Gli ebrei che potranno dimorarvi, se potranno, decideremo noi quali saranno".

E così è sempre stato fino ad oggi.


Gino Quarelo
Se si vuole migliorare il mondo bisogna incominciare a stare con Abele (Israele e gli ebrei) e non più con Caino il carnefice (i palestinesi nazimaomettani). Io mi sono stancato da molto tempo di stare con gli ingiusti e i carnefici; non potrei mai parteggiare per i nazisti maomettani, ma solo essere dalla parte degli uomini di buona volontà che rispettano i diritti umani come gli ebrei e che si impegnano per rendere migliore il mondo e non per sterminare il prossimo.
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Re: Ebrei e no' pì ebrei ke łi odia łi ebrei e Ixrael

Messaggioda Berto » sab gen 27, 2018 9:29 pm

Martin Buber, ovvero come risolvere il conflitto israelo-palestinese
di Giuseppe Giaccio - 20/02/2009

https://www.ariannaeditrice.it/articolo ... colo=24638

Il 2008 si è congedato con una notizia al contempo terribile e banale. Ci riferiamo, ovviamente, ai massicci bombardamenti della Striscia di Gaza da parte dell’aviazione israeliana (la cosiddetta operazione “Piombo fuso”), con il loro altrettanto massiccio corredo di lutti, in risposta al lancio di missili qassam su alcune città israeliane di confine. Questa è stata la motivazione ufficiale con cui il Tel Aviv ha giustificato il conflitto – motivazione sulla cui consistenza il quotidiano israeliano “Ha’aretz” ha sollevato qualche dubbio, scrivendo che “le scelte strategiche” di Israele “hanno esagerato la rilevanza e la minaccia rappresentata dai gruppi armati palestinesi”[1].
Il 2009 ha proseguito sulla stessa scia, con la prevedibile invasione terrestre dell’esercito recante la stella di Davide. La terribilità di questo evento è nel numero delle vittime: milletrecento morti e alcune altre migliaia di feriti. La banalità risiede invece nel suo carattere seriale. Ci si abitua a tutto, anche alle cose peggiori. Non è la prima e presumibilmente non sarà l’ultima volta che nel Medio Oriente accadono fatti del genere. Crediamo di non andare troppo lontani dal vero se diciamo, a costo di sembrare cinici e spietati, che, con ogni probabilità, l’occidentale medio è preoccupato più dei “bombardamenti” causati dalla crisi finanziaria proveniente dagli Stati Uniti che del conflitto israelo-palestinese. L’apparato politico-mediatico, del resto, non solo non fa nulla per scuotere l’opinione pubblica da questo torpore, ma contribuisce potentemente a crearlo e rafforzarlo. L’argomento più utilizzato a questo scopo dalla propaganda occidentale è quello del diritto alla difesa. Se i “terroristi” di Hamas attaccano, nessuno può ragionevolmente negare a Israele il diritto di rispondere con le armi. È una reazione fisiologica, normale. Nel migliore dei casi, si ammetterà che Tel Aviv ha alquanto ecceduto nella replica, ma sulla fondatezza delle sue ragioni non è lecito nutrire dubbi.
I canoni dell’“ebraismo virtuale” stigmatizzato da Ariel Toaff impongono di ritenere che Israele e il governo israeliano abbiano sempre e comunque ragione. Anche se è riuscita ad imporsi nel sentire comune, grazie a un sapiente uso della neolingua orwelliana che snatura e sovverte il significato delle parole, questa tesi, da qualunque angolazione la si guardi, non sta in piedi. Nello scenario mediorientale, infatti, Israele è, per ragioni culturali, storiche e politiche, l’aggressore, non l’aggredito; è colui che offende, non colui che si difende. Non partire da qui, da questo punto fermo, equivale a imboccare subito una strada sbagliata, condannandosi a non capire nulla o a falsare i termini della questione.
In Medio Oriente, la violenza originaria, quella da cui scaturiscono tutte le altre, è israeliana, non palestinese. Se fosse possibile dar vita a un vero dibattito sul conflitto israelo-palestinese – se fosse, cioè, possibile confrontarsi senza rischiare di vedersi scagliata addosso l’accusa di essere antisemiti più o meno mascherati o di auspicare la riapertura delle camere a gas – questo dato non dovrebbe costituire nemmeno oggetto di discussione, dal momento che sono gli stessi teorici sionisti a rivendicare senza infingimenti o ipocrisie il carattere aggressivo del loro progetto politico.
È sufficiente leggere il pamphlet di Herzl per capirlo, o riflettere su dichiarazioni come questa di Berl Katznelson, ideologo della sinistra sionista: “L’impresa sionista è un’impresa di conquista. Non è un caso se utilizzo termini militari quando parlo di insediamento”[2]. Dobbiamo a un grande pensatore ebreo, Martin Buber, la denuncia più forte di questo progetto. Nel novembre 1948, a distanza di pochi mesi dalla proclamazione della nascita dello Stato di Israele da parte di Ben Gurion e dall’attacco aereo sferrato dall’aviazione egiziana contro Tel Aviv, Buber, in un contesto che si prestava facilmente alle strumentalizzazioni in chiave nazionalista e bellicista, e mostrando perciò grande coraggio e lucidità, non esita ad affermare che i veri aggressori non sono gli egiziani o i palestinesi, ma gli ebrei: “Basta! Smettiamola con le parole vuote! – si legge in un articolo pubblicato sulla rivista Beayot Hazman – La verità è che noi abbiamo cominciato l’attacco ‘pacificamente’, quando abbiamo cominciato a entrare nella terra”[3]. Di fronte all’arrivo dei nuovi venuti, spinti dalla necessità di sottrarsi alle discriminazioni e alle persecuzioni, i palestinesi reagiscono come fecero gli indigeni taino con Cristoforo Colombo e gli spagnoli, vale a dire mostrando senso di accoglienza e ospitalità. Lasciamo parlare ancora Buber: “All’inizio, questo popolo accettò con tolleranza questa penetrazione, addirittura a volte con buona volontà”. Le cose cambiano quando i palestinesi, e più in generale gli arabi, comprendono qual è l’obiettivo politico dei sionisti, cioè creare una maggioranza ebraica in Palestina. Qui si consuma la rottura tra Buber e Ben Gurion. Questi agisce in piena coerenza con il programma sionista, riassumibile nella formula “Una terra senza popolo per un popolo senza terra”. Questo è lo “slogan ufficiale del sionismo”, per dirla con Benny Morris[4]. Ampliando lo sguardo, potremmo affermare che questo slogan rispecchia la mentalità di tutti i nazionalismi, costituzionalmente incapaci di riconoscere il volto dell’altro. I sionisti non fanno eccezione alla regola, ragionano secondo la tipica logica nazionalista: poiché in Palestina non vi è un popolo autoctono e l’unico popolo è quello ebreo, allora è del tutto comprensibile e lecito creare uno Stato ebraico retto da proprie leggi. E tanto peggio per chi non è d’accordo! Dal punto di vista dei sionisti, ha scritto Ilan Pappe, “la Palestina era occupata da ‘stranieri’ e si doveva riprenderne possesso. ‘Stranieri’ significava tutti i non ebrei che avevano vissuto in Palestina dal periodo romano. In effetti, per molti sionisti la Palestina non era una terra ‘occupata’ neanche quando vi arrivarono per la prima volta nel 1882, ma piuttosto una terra ‘vuota’: i palestinesi nativi che là vivevano erano per loro sostanzialmente invisibili oppure facevano parte delle avversità naturali e come tali dovevano essere conquistati e allontanati”[5]. La cacciata dei palestinesi dalla loro terra, la nakba, si trova dunque alle origini del progetto sionista, ne è la sua coerente esemplificazione, e continua tuttora ad ispirare la politica demografica di Tel Aviv, che è letteralmente terrorizzata dall’eventualità, percepita come un pericolo, che i palestinesi possano crescere troppo di numero. Ancora nel dicembre 2003, Benjamin Netanyahu riprendeva pari pari le idee espresse al riguardo da David Ben Gurion nel 1947: “Se gli arabi sono il 40 per cento della popolazione d’Israele, ciò significa la fine dello Stato ebraico. Ma anche il 20 per cento rappresenta un problema. Se il rapporto con questo 20 per cento diventa problematico, lo Stato è autorizzato a usare misure estreme”[6]. Alcune di queste misure sono di carattere normativo, come la legge, definita “razzista” da Pappe, approvata il 31 luglio 2003 dalla Knesset, la quale vieta ai palestinesi che sposano cittadini israeliani di ottenere la cittadinanza o la residenza, anche solo temporanea. Un altro espediente consiste nel favorire l’immigrazione degli ebrei in Israele – espediente rivelatosi poco efficace, dato che molti ebrei, mostrando scarso senso patriottico, preferiscono sistemarsi negli Stati Uniti o in Europa. Un terzo accorgimento, infine, è quello di creare dei bantustan in cui ammassare la popolazione palestinese per meglio controllarla e, all’occorrenza, bombardarla. Questo è lo scopo che si prefigge il famigerato muro di separazione eretto tra palestinesi e israeliani, nonché il vero significato politico del ritiro da Gaza (il luogo più affollato della Terra), spacciato dalla propaganda israeliana come segno della volontà di pace di Sharon, improvvisamente trasformatosi in colomba.

Il pensiero di Buber si colloca agli antipodi di questa concezione ed è racchiuso nel titolo della sua raccolta di scritti politici, nella quale si avverte fortemente l’impronta della sua visione dell’uomo come essere dialogante: ein Land und zwei Völker, una terra e due popoli – visione che lo porterà a battersi non per l’edificazione di uno Stato ebraico, ma di uno Stato binazionale, una Comunità di Palestina, pienamente inserita all’interno di una federazione di Stati “in cui l’iniziativa e il lavoro ebraico potrebbero avere un grande compito”. Per Buber, la presenza ebraica in Palestina poteva aspirare a un futuro degno di essere perseguito e per il quale valeva la pena affaticarsi e impegnarsi solo se gli ebrei avessero rinunciato alla “baalizzazione” del loro progetto, cioè se avessero rinunciato a considerare lo Stato sionista un idolo, un Baal, al quale offrire sacrifici e si fossero considerati parte integrante dell’area mediorientale, pronta a instaurare forti legami di cooperazione con tutte le altre popolazioni della regione, a cominciare dai palestinesi, e non una scheggia di Occidente trapiantata sulla sponda opposta del Mediterraneo per portarvi la luce della civiltà a genti incolte e rozze. “Vogliamo entrare di nuovo – scriveva Buber – a far parte del gruppo dei popoli del Medio Oriente, costruire un’economia del Medio Oriente, una politica del Medio Oriente e, a Dio piacendo, diffondere di nuovo dal Medio Oriente nel mondo l’idea vivente. E la via per tutto questo? Il lavoro e la pace, una pace costruita su un lavoro comune”. In ciò consisteva il “grande sionismo” di Buber, il quale aveva ben compreso, e i fatti gli hanno purtroppo dato ragione, che, qualora avesse prevalso l’impostazione nazionalista, quella di un “sionismo minimo”, come egli lo definiva, la conseguenza sarebbe stata la creazione di “un piccolo Stato ebraico completamente militarizzato e incapace di una vera esistenza”, di uno “staterello che corre il rischio di vivere continuamente in conflitto con il suo contesto geopolitico e di dover indirizzare le sue migliori energie all’ambito militare e non ai valori sociali e culturali”. Buber vedeva all’origine di queste differenti forme di sionismo due diverse interpretazioni del concetto di rinascita ebraica. Nel suo pensiero, il sionismo autentico non era tanto un movimento ideologico-politico sorto nell’Ottocento, quanto la più recente manifestazione di una tendenza presente già nell’Israele biblico e di chiara impronta profetica e mistica, per la quale Israele rinascerà, diventando un “vero Israele”, quando saprà far propria fino in fondo, rendendola carne della propria carne, la tensione verso la verità e la giustizia che la Torah esige sia all’interno che all’esterno della comunità israelitica, che si sarebbe così trasformata in “modello e guida per l’umanità”. Egli perciò condannava come forma di “egoismo collettivo” il sionismo di Herzl che concepiva la rinascita come riappropriazione da parte degli ebrei della sovranità su un territorio. In questo disegno, egli vedeva una “profanazione del nome di Sion; esso non è nient’altro che uno dei crassi nazionalismi dei nostri tempi, che non riconoscono nessun’altra autorità al di sopra di sé, se non l’interesse – supposto! – della nazione”. Ma rinchiudere l’anima ebraica nel nazionalismo equivaleva a tradirla, perché in questo modo gli ebrei si sarebbero “normalizzati”, perdendo la propria identità che li spinge all’apertura verso l’universale. Ed è appunto in questa chiave che Buber concepisce il ritorno degli ebrei nella terra di Sion: non per conquistare un territorio ai danni di chi già vi risiede, bensì per riaccostarsi alle fonti del proprio essere: “Noi non vogliamo tornare a una terra qualsiasi, ma al suolo dal quale abbiamo avuto origine poiché solo da esso possiamo aspettarci una rinnovata efficacia di quelle forze storiche e sovrastoriche in grado di legare lo spirito alla vita e la vita allo spirito”. Questo discorso può sembrare fumoso ed astratto e lo si può superficialmente liquidare come utopico e irrealizzabile, ma in realtà, se fosse preso sul serio, produrrebbe delle conseguenze, orientate in senso federalistico, molto concrete e positive, messe bene in chiaro dallo stesso Buber, in quanto comporterebbe la necessità di “stringere un’alleanza con la popolazione lì residente, per sviluppare insieme a loro la terra del Vicino Oriente – due popoli con uguali diritti, ognuno sovrano sulla propria società e cultura, ma entrambi uniti in un’opera comune di accesso e produzione nei confronti della patria comune e in un’amministrazione federale comune dei comuni interessi”. Si può discutere se il “grande sionismo” sia davvero sionismo e quindi se Buber fosse o no sionista. Indubbiamente, egli si considerava tale, ma è altrettanto indubbio che, all’interno dell’organizzazione sionista, cui aveva aderito fin dai primordi, si è sempre trovato nella posizione marginale della vox clamantis in deserto – una scomoda posizione di confine tra gli ebrei “oppositori leali entro il sionismo”[7] e gli ebrei critici radicali del sionismo in nome delle esigenze morali e religiose del giudaismo e della Torah[8]. Comunque sia, le potenzialità della scelta nazionalista, del “sionismo minimo”, sono state tutte ampiamente esplorate e hanno portato in un vicolo cieco, alla reiterazione senza fine di bombardamenti, invasioni e attentati. La proposta avanzata in sede internazionale di dar vita a due stati per due popoli, anche se fosse praticabile, non consentirebbe di uscire da questo circolo vizioso, ma servirebbe solo ad aggravarlo, poiché darebbe semplicemente una gracile veste legale a un odio reciproco che resterebbe intatto e pronto ad esplodere alla minima occasione. Israele non riuscirà mai a venirne a capo fintantoché si ostinerà a dare una risposta militare a un problema che è politico: la nakba, la catastrofe palestinese. Il problema palestinese nasce nel 1948 e non per il lancio di qualche sgangherato missile qassam. Questo è l’effetto non la causa. Rifiutandosi di riconoscere questa evidenza, Israele è destinato, secondo Pappe, a fare la fine del Regno latino crociato di Gerusalemme, ad essere, cioè, una fortezza assediata, incapace di instaurare rapporti con l’ambiente che lo circonda e che all’improvviso collassa, non riuscendo a reggere la tensione, senza lasciare tracce dietro di sé.
L’idea di un “grande sionismo”, cui è collegata quella di uno Stato federale-binazionale, prospettata da Buber agli ebrei, è, certo, di difficile realizzazione. Di ciò era, del resto, consapevole lo stesso Buber. Rispetto alla sua epoca, oggi le difficoltà sono addirittura cresciute, perché molto altro sangue è stato sparso su entrambi i fronti. Ilan Pappe appare decisamente più ottimista; secondo lui, la pace sarebbe addirittura “a portata di mano”, anche se poi deve ammettere che la “finestra di opportunità” che egli vede dischiudersi “non starà aperta per sempre”[9]. Vittorio Dan Segre ha, dal canto suo, usato la parola giusta che potrebbe far uscire dall’impasse il conflitto israelo-palestinese (nonché arabo-israeliano), parlando di “metamorfosi di Israele”. Solo che non ne ha tratte tutte le conseguenze. Una metamorfosi, infatti, consiste in un profondo e radicale mutamento delle proprie forme che potrà prodursi unicamente liberandosi, come fa il bruco prima di diventare farfalla e cominciare a volare, dell’involucro iniziale, quello dello Stato sionista, del “sionismo minimo”, che, per quanto rivisto e rammodernato, non può che produrre gli stessi frutti che ha prodotto finora. È perciò abbastanza vano attendersi, come scrive Segre, che la leadership israeliana si sottragga “alle tentazioni del realismo politico e della forza” e accetti “l’idea dell’autocontrollo e della moderazione”[10]. Una reale metamorfosi, foriera di sviluppi pacifici nel senso auspicato da Buber e quindi davvero risolutivi, potrebbe forse verificarsi nell’ipotesi in cui prendesse consistenza lo scenario abbozzato da David Vital ne Il futuro degli ebrei (Giuntina): quello di un lento ma continuo sfaldamento, secondo Vital già in atto, del legame tra ebraismo diasporico ed ebraismo di Israele. Ciò potrebbe indurre non tanto la leadership, quanto gli ebrei israeliani nel loro insieme, a mettere da parte l’idea belligena di costituire un avamposto occidentale in una sorta di deserto dei tartari e a considerare con maggiore attenzione la prospettiva di una immersione nel contesto mediorientale più profonda e meno segnata dalle stigmate dell’esclusivismo nazionalistico. “Solo qui, se ve ne è una, è la vera via; tutto il resto è menzogna e inganno”. Queste parole di Martin Buber, benché risalenti a poco più di sessant’anni fa, restano più che mai attuali.

NOTE

[1] Cfr. Zvi Bar’el, “Fino al prossimo scontro”, articolo ripreso in Italia dal settimanale “Internazionale”, n. 779, 23/29 gennaio 2009, pag. 17.

[2] Citato in Zeev Sternhell, Nascita di Israele, Baldini&Castoldi, Milano 1999, pag. 210.

[3] M. Buber, Una terra e due popoli, Giuntina, Firenze 2008, pagg. 263-264. Da questo testo sono tratte anche le altre citazioni di Buber.

[4] Cfr. B. Morris, Vittime, Rizzoli, Milano 2001, pag. 60.

[5] I. Pappe, La pulizia etnica della Palestina, Fazi, Roma 2008, pag. 23.

[6] Citato da I. Pappe, in op. cit., pag. 297.

[7] Cfr. l’introduzione di Paul Mendes-Flohr a M. Buber, op. cit., pag. 20.

[8] Per una descrizione delle tesi di questi ultimi, cfr. Yakov M. Rabkin, Una minaccia interna. Storia dell’opposizione ebraica al sionismo, Ombre Corte, Verona 2005.
[9] I. Pappe, op. cit., pag. 303.

[10] Vittorio D. Segre, Le metamorfosi di Israele, Utet, Torino 2006, pag. 204.
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Re: Ebrei e no' pì ebrei ke łi odia łi ebrei e Ixrael

Messaggioda Berto » gio apr 05, 2018 4:30 am

Commissione d’inchiesta per il Nif Netanyahu si scaglia contro Soros “ È un nemico d’Israele”
3 aprile 2018
Adir Amon

http://www.italiaisraeletoday.it/commis ... o-disraele

Il primo ministro Binyamin Netanyahu ha annunciato la costituzione di una commissione d’inchiesta contro il New Israel Fund (NIF). Netanyahu ha scritto sulla sua pagina Facebook un vero e proprio atto di accusa.

“Il principale fattore che ha innescato la pressione europea sul governo ruandese – ha scritto il primo ministro – di ritirarsi dall’accordo per rimuovere gli infiltrati da Israele è il New Israel Fund, un’organizzazione straniera che riceve finanziamenti da governi stranieri e elementi ostili ad Israele, come dal fondo di George Soros. L’obiettivo ultimo del fondo è quello di cancellare il carattere ebraico di Israele e trasformarlo in uno stato-nazione palestinese che, libero dagli ebrei sulle linee del 1967 con Gerusalemme come capitale.”

“Per decenni il fondo – ha continuato Netanyahu- ha finanziato organizzazioni anti-sioniste e pro-palestinesi, compresi quelli che diffamano soldati dell’IDF come Breaking the Silence e B’Tselem e quelli che combattono per terroristi palestinesi come Adalah. Non conosco nessuna democrazia occidentale, in particolare gli Stati Uniti, che nel corso del tempo erano disposti a tollerare attività ostili finanziate da paesi stranieri, come accade da decenni in Israele con il fondo. Pertanto, ho chiesto al presidente della coalizione Dudi Amsalem di guidare il processo di istituzione di una commissione parlamentare di inchiesta sulle attività del Nuovo Fondo israeliano, che mette a repentaglio la sicurezza e il futuro dello Stato di Israele come stato-nazione del popolo ebraico. ”
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Re: Ebrei e no' pì ebrei ke łi odia łi ebrei e Ixrael

Messaggioda Berto » ven apr 20, 2018 7:03 pm

Festa nella "fortezza-Israele", forte dell'alleato Trump, ma con lo spettro Iran
2018/04/19

https://www.huffingtonpost.it/2018/04/1 ... a_23415335

Una Indipendenza blindata. Un Paese in trincea che guarda al futuro con la consapevolezza che una nuova guerra è alle porte. È Israele nel settantesimo anniversario della sua indipendenza. Una fortezza, non ancora una casa. Lo rimarca, toccando le corde più intime di una persona, di un padre che ha perso in guerra il figlio ventenne, David Grossman, il grande scrittore israeliano, nel discorso pronunciato martedì scorso alla cerimonia organizzata da Parents Circle-Families Forum, che riunisce i parenti israeliani e palestinesi di vittime delle guerre e degli attentati. "Io spero che potremo celebrare ancora questa ricorrenza per molti anni a venire, con le future generazioni di figli, nipoti e pronipoti che vivranno qui, a fianco di uno stato palestinese indipendente, in pace, sicurezza e creatività, ma soprattutto nel tranquillo trascorrere dei giorni, in buoni rapporti di vicinato".

È l'idea di un Paese normale, quella evocata da Grossman. Un'idea ancora irrealizzata. È la "fortezza-Israele" oggi a ricordare un cammino lungo settant'anni, irto di ostacoli, di tragedie, di guerre, di dolori e di speranze. E si scopre più forte militarmente, ma al tempo stesso più vulnerabile in quella che è la psicologia di una nazione. Israele, oggi, è un Paese che, sospinto dal vivacissimo settore dell'alta tecnologia, ha un Pil pro capite di circa 40mila dollari, che lo colloca a pieno titolo tra i paesi più avanzati economicamente, alla pari di Italia e Corea del Sud e non lontano da potenze economiche come Francia e Gran Bretagna. Ma soffre anche di uno dei più alti livelli di disuguaglianza nel mondo sviluppato La povertà è particolarmente diffusa tra i cittadini arabi-israeliani (1.050.000, oltre il 20% della popolazione residente) e gli ebrei ultra-ortodossi. Questi due gruppi rappresentano quasi un terzo della popolazione e sono quelli in crescita dal punto di vista demografico e dunque rischiano, in prospettiva, se le diseguaglianze non verranno affrontate, di rallentare l'economia.

Settant'anni dopo, Israele fa ancora i conti con la propria identità nazionale, con il suo senso nella storia e nel mondo. E più che risposte, questa ricerca genera interrogativi a cui, da sola, la politica non può offrire soluzioni. Quale sia lo stato d'animo prevalente, lo testimonia un curioso incidente. L'esercito israeliano ha inviato per errore un messaggio automatico telefonico di richiamo d'emergenza per i riservisti. Dopo alcuni minuti di tensione, anche perché l'attuale fase di tensione con Siria e Palestina poteva rendere credibile l'allarme, un secondo messaggio ha chiarito che il richiamo era partito accidentalmente. "È stato un malfunzionamento sul quale indagheremo", ha spiegato un portavoce di Tsahal, le Forze di difesa dello Stato ebraico.

Uno Stato che celebra se stesso e che, nell'agire dei suoi governanti, cancella gli spazi per edificarne uno ad esso vicino: lo Stato di Palestina. Nei circoli intellettuali progressisti è da tempo aperto un dibattito sullo Stato bi-nazionale. Così si era espresso, in una recente intervista a HuffPost, Zeev Sternhell, il più autorevole storico israeliano: "Integrazione o apartheid: tertium non datur. A Gerusalemme come nella West Bank, non devono esistere due leggi e due misure, una per i cittadini ebrei e l'altra, penalizzante, per i palestinesi. Ritengo peraltro che la prospettiva di uno Stato binazionale democratico possa essere un terreno d'incontro, di iniziativa comune, tra quanti, nei due campi, credono ancora nel dialogo e nella convivenza".

Israele è un sogno realizzato, anche se nel suo divenire si è scoperto meno idilliaco di quanto immaginato. Lo dice con orgoglio e amore , speranza e inquietudine, Amos Oz ad Elena Lowenthal per La Stampa, in un suggestivo ed emozionante confronto a tre, con David Grossman e Abraham Bet Yehoshua. "Ho paura per il futuro. Ho paura del fanatismo e della violenza. Ma sono contento di essere cittadino di uno Stato che conta otto milioni e mezzo di profeti, otto milioni e mezzo di primi ministri, otto milioni e mezzo di messia. Non ci si annoia, qui. Ci si arrabbia, ogni tanto arrivano frustrazione e collera, ma non di rado anche fascinazione ed entusiasmo. Questo è uno dei posti più interessanti del mondo". "Per me – dice Yehoshua - la conquista più importante di questi settant'anni è la legittimità dell'esistenza dello Stato ebraico sia nel contesto mondiale, compresa una parte del mondo arabo e islamico, sia all'interno dell'ebraismo: oggi Israele esiste perché deve esistere, perché è ovvio che esista. Questa legittimità ce la siamo conquistata non solo con la forza delle armi, ma anche nella capacità che questo Paese ha dimostrato di assorbire milioni di profughi. C'è ancora tanto da fare, sono ancora in molti a negare il suo diritto all'esistenza. Ma ci siamo e ci saremo".

Israele vorrebbe sentirsi "normale", ma i venti di guerra che spirano dalla Siria proiettano ombre inquietanti su un futuro che si fa presente. E' l'incubo-Iran che si materializza sempre più. "L'espansionismo di Teheran, che può essere visto come il riempimento del vuoto lasciato dal ritiro americano dalla regione sotto l'ex presidente Barack Obama, si è tradotto in una presenza militare iraniana ai confini settentrionali di Israele" scrive nell'editoriale di apertura il Jerusalem Post. "Amir Eshel, ex comandante dell'aviazione israeliana, ha recentemente rivelato che i raid compiuti da Israele in Siria a partire dal 2012 per impedire all'Iran di contrabbandare armi micidiali a Hezbollah in Libano, o per altri obiettivi difensivi, si avvicinano ad un numero a tre cifre. Martedì scorso il primo ministro Benjamin Netanyahu ha detto che i servizi di sicurezza israeliani sono mobilitati per sventare tentativi iraniani di colpire diplomatici israeliani all'estero. Mentre il presidente americano Donald Trump manifesta l'intenzione di ritirare le sue truppe dalla Siria e quello russo Vladimir Putin non può o non vuole tenere a freno l'Iran, uno scontro tra Israele e Repubblica islamica sembra quasi inevitabile...".

L'inevitabilità di una nuova guerra emerge dalle analisi degli strateghi militari, affiora dalle parole, e dai silenzi, dei leader politici. Secondo fonti israeliane la presenza militare di Teheran in Siria ammonta ad almeno 15mila militari e pasdaran cui si aggiungono 10 mila Hezbollah libanesi e circa 50 mila miliziani sciiti iracheni, afghani e pakistani. Non è solo questione di numeri, ma della loro dislocazione. I pasdaran sono presenti massicciamente nelle zone di Damasco (distante solo poche decine di chilometri dalle alture del Golan) e di Aleppo e questo è già di per sé motivo da allarme rosso per Israele. Quella mediorientale è una polveriera pronta a esplodere. Una polveriera nucleare, che, anche su questo versante, vede Israele versus Iran.

Ai media israeliani sono state diffuse questa mattina foto di ricognizione aerea che indicano, secondo la difesa, come Teheran abbia aumentato la sua alleanza militare con il regime di Assad sotto gli auspici del comandante della forza aerea dei Guardiani generale Amir Ali Hajizadeh. Le basi aree, indicate dalle foto, che incardinano questo incremento delle attività dei Guardiani sono cinque: la già colpita base T4 nella Siria centrale, l'aeroporto di Aleppo, lo scalo di Damasco, un altro campo di aviazione a sud della capitale, e la base di Deir ez-Zor. Quest'ultima ripresa lo scorso anno all'Isis. E potrebbero essere tutti possibili obiettivi israeliani - hanno aggiunto i media - se l'Iran dovesse mettere in pratica le sue minacce. Il sistema di difesa israeliano - secondo Times of Israel - crede che l'attacco possa essere condotto dai Guardiani della Rivoluzione iraniani attraverso missili terra terra o droni armati. Un inizio - ha aggiunto il sito - per successivi scontri tra Israele ed Iran condotti questa volta da fiancheggiatori di Teheran come gli Hezbollah. Ynet, il sito on line di Yediot Ahronot, il più diffuso giornale israeliano, nei giorni scorsi ha riportato che l'esercito ha rafforzato le sue difese aeree e terrestri per fronteggiare un potenziale attacco iraniano, anche in questo caso condotto dai Guardiani di Teheran. "Non c'è indicazione di quando uno di questi attacchi possa aver luogo, ma le feste dell'Indipendenza di giovedì - ha scritto Times of Israel - sono un obiettivo invitante per l'Iran". Il giorno dell'Indipendenza è trascorso senza attacchi, ma in Israele sono in tanti, la maggioranza, a credere che ormai sia solo questione di tempo.



Natalie Portman rifiuta il “Nobel ebraico” per la pace
Un suo portavoce ha spiegato che «recenti avvenimenti in Israele sono stati estremamente dolorosi per lei»
20/04/2018

http://www.lastampa.it/2018/04/20/ester ... agina.html

L’attrice e produttrice israelo-americana Natalie Portman ha fatto sapere che non andrà in Israele a giugno a ritirare il«Premio Genesis», definito il Nobel ebraico, a «causa di recenti avvenimenti» nel paese. La cerimonia è stata cancellata.

«I recenti avvenimenti in Israele sono stati estremamente dolorosi per lei e non si sente a proprio agio nel partecipare ad alcun evento pubblico in Israele. Non può partecipare alla cerimonia con la coscienza pulita», hanno fatto sapere dall’entourage di Portman. Il ministro della cultura Miri Regev ha commentato che l’attrice «ha ceduto alle pressioni del Bds», movimento boicottaggio di Israele.

Natalie sarebbe stata la prima donna ad essere insignita del Genesis, premio da 1 milione di dollari assegnato ogni anno a chi, per i risultati professionali e per la dedizione ai valori ebraici, può essere d’ispirazione alle nuove generazioni di ebrei.

L’annuncio era stato fatto lo scorso novembre: «Portman rappresenta i tratti salienti del carattere ebraico e i valori del nostro popolo con la sua tenacia, il duro lavoro, la ricerca dell’eccellenza, la curiosità intellettuale e il desiderio sincero di contribuire a rendere il mondo un posto migliore», aveva dichiarato il co-fondatore del premio, Stan Polovets.

La Fondazione Genesis ha mostrato massimo rispetto per la sua scelta: «Portman è un’attrice completa, un’attivista sociale impegnata e un meraviglioso essere umano. Il personale della Fondazione ha goduto del suo sapere negli ultimi sei mesi (dal momento dell’annuncio del premio), ammira la sua umanità e rispetta il suo diritto di dissentire pubblicamente con le politiche del governo di Israele», ha scritto la direzione della Fondazione in una nota. Non l’ha presa bene invece il ministro della Cultura di Tel Aviv, Miri Regev, che ha accusato Portman di aver «ceduto alle pressioni del Movimento di boicottaggio di Israele».

Il movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni è un gruppo politico transnazionale mira a pressioni economiche su Israele perché concluda l’occupazione dei territori palestinesi. Natalie Portman, nata Natalie Hershlag, è Un’attrice, regista e produttrice cinematografica israeliana naturalizzata statunitense.




Giulio Meotti

https://www.facebook.com/noicheamiamois ... 7273705995

C'era già qualcosa di particolarmente penoso nell'articolo di David Grossman che ieri su tutti i giornali italiani accusava il proprio paese di "apartheid". Strana apartheid in effetti, considerando che il 20 percento della popolazione israeliana è composta da arabi, che 17 membri della Knesset sono arabi, che è arabo un giudice della Corte Suprema e che ci sono arabi nel corpo diplomatico e ai vertici dell'esercito.
Ma forse più penoso è che il giorno dopo una attrice che vive attorniata da guardie del corpo, che trascorre la vita come in un videogame, in una villa di Beverly Hills o in un attico di Central Park Avenue, di fronte al “Nobel ebraico” assegnato ogni anno in Israele, dica di no. È il caso di Natalie Portman, che cita a motivazione del boicottaggio i “recenti avvenimenti” a Gaza. In effetti è avvenuto piuttosto di recente che l'esercito israeliano dovesse difendere la vita di migliaia di propri concittadini sigillando un confine che Hamas tenta ogni venerdì di assaltare e abbattere. Ora, visto che Portman sembra piuttosto disinformata, ecco l'ultimo comunicato di Hamas.
Gli islamisti di Gaza hanno speso 75.000 dollari per rimborsare 350 palestinesi rimasti feriti. Le andrebbe ricordata anche un'altra cifra: 120 milioni di dollari spesi da Hamas in tunnel e armi dal 2014 e ogni tunnel che costa dai 3 ai 10 milioni di dollari.
L'apartheid del terrore. Adesso Natalie Portman, in tutta coscienza, deve boicottare anche la cerimonia degli Oscar a Hollywood visti i “recenti avvenimenti” in Siria, ovvero il bombardamento da parte del suo governo di un paese a 9mila chilometri di distanza. Visto che Israele, che a Natalie Portman sta così sulle palle, è l'unico paese costretto a dispiegare il proprio esercito sulla soglia di casa.
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Re: Ebrei e no' pì ebrei ke łi odia łi ebrei e Ixrael

Messaggioda Berto » lun apr 23, 2018 2:24 am

Netanyahu infuriato con Soros. Anche Israele contro il finanziere ebreo (non più ebreo)
Il finanziere ebreo George Soros riesce a far infuriare anche il governo israeliano
di Riccardo Tomesani
Sabato, 21 aprile 2018

http://www.affaritaliani.it/esteri/neta ... refresh_ce

Il finanziere George Soros, nato György Schwartz (Budapest 1930) da una famiglia di ebrei ungheresi e naturalizzato americano, viene spesso additato come il burattinaio che muove i fili dietro alle forze politiche e alle Ong che favoriscono l’immigrazione dall’Africa e dall’Asia in Europa con lo scopo di una vera e propria “sostituzione etnica” ai danni degli europei. Ora persino il premier israeliano Benyamin Netanyahu è infuriato con lui e ha attaccato l’organizzazione New Israeli Fund cui Soros versa centinaia di migliaia di dollari, colpevole a suo dire di aver influenzato il Rwanda nel ritirarsi dall’accordo per ricevere i migranti africani. Mentre il Rwanda nega di aver subito pressioni, ciò che è certo che il New Israeli Fund finanzia tutti movimenti palestinesi e israeliani che contrastano la politica del governo del Likud.

In effetti oltre che presidente del Quantum Group, la sua società d’investimento, Soros è presidente della Open Society Foundations, una rete di fondazioni che finanziano tutte le cause liberali e progressiste negli Usa e nel mondo, fra i beneficiati anche Human Righs Watch e Amnesty International, che non sono mai tenere con Israele. A partire dagli anni ’80 dello scorso secolo i suoi dollari avrebbero aiutato le organizzazioni anticomuniste del blocco sovietico, come Solidarnosc in Polonia e Charta 77 in Cecoslovacchia. I finanziamenti son poi continuati per favorire la democratizzazione post-sovietica nell’Europa dell’Est e in Russia. Oggi è considerato persona non grata dal governo di Putin che nel 2015 proibì la presenza sul suolo russo della Open Society Foundations. Negli ultimi anni però il suo sostegno è andato soprattutto a chi promuove una globalizzazione senza confini di cittadinanza favorendo di fatto l’immigrazione che tanti problemi sta creando in Europa.

È naturale che sia diventato un avversario anzi un nemico da combattere per le forze politiche che cercano di arginare l’invasione dei nostri paesi. In particolare, Viktor Orbàn premier dell’Ungheria, paese natale di Soros, lo ha sempre indicato come il nemico pubblico numero uno. La scorsa estate in vista delle elezioni di questo mese Fidesz (Alleanza civica ungherese) il partito del premier ha tappezzato i muri con il manifesto che ritraeva Soros e la scritta “Il 99% degli ungheresi rifiuta l’immigrazione clandestina. Non lasciate che Soros rida per ultimo”.

La comunità ebraica ungherese e l’ambasciatore israeliano criticarono la campagna vedendoci una sfumatura antisemita, ma Netanyahu che è anche ministro degli Esteri diramò una nota in cui chiariva e di fatto correggeva le parole dell’ambasciatore: “in nessun modo l’affermazione (della nostra ambasciata n.d.r.) voleva delegittimare le critiche a George Soros, che continuamente indebolisce i governi d’Israele democraticamente eletti, elargendo fondi a organizzazioni che diffamano lo Stato ebraico e tentano di negare il suo diritto all’autodifesa.” Pochi giorni dopo Netanyahu visitò il collega ungherese nella prima visita ufficiale di un premier israeliano confermando l’amicizia fra i due governi. La destra israeliana è nazionalista e il suo leader si allinea ai movimenti politici europei che difendono la sovranità e i propri confini, agli antipodi quindi dell’universalismo di Soros e della sua società senza confini. Il miliardario americano salì all’onore delle cronache nel famoso “Black Wednesday” del 1992 come l’uomo che sbancò la Bank of England quando speculò sulla valuta britannica guadagnandoci 1 miliardo di sterline e obbligando il Regno unito a uscire dallo Sme (Sistema monetario europeo). Analoga operazione condusse quell’anno contro la lira italiana, il governo acquistò 48 miliardi di dollari per sostenere il cambio ma fu inutile e uscimmo dallo Sme.

Ricco (secondo Forbes al 22° posto degli uomini più ricchi del pianeta), speculatore che mette in ginocchio le economie nazionali ed ebreo più che un personaggio reale sembra un cartoon creato dalla penna di un disegnatore antisemita, era scontato che diventasse la conferma vivente dei complottisti, cioè di quei psicolabili che vedono cospirazioni ebraiche ad ogni stormir di foglie. Niente di più errato, Soros si muove da solo per i suoi interessi e per i suoi ideali ispirati dalla Open Society di Karl Popper di cui fu studente alla London School of Economics e non ha l’appoggio delle comunità ebraiche. Anzi. Negli Usa è avversato dall’altro multimiliardario ebreo Sheldon Adelson e dalla lobby filoisraeliana che finanzia la destra israeliana favorevole al mantenimento della Cisgiordania sotto il controllo israeliano e che vede come fumo negli occhi i fiumi di dollari versati da Soros all’organizzazione palestinese BDS che svolge attività di lobbying per boicottare le aziende israeliane. La Open Society Foundations ha sempre evitato di finanziare enti collegabili a Israele, ma negli ultimi anni ha aiutato il Meretz, partito di estrema sinistra e i movimenti che si battono contro l’occupazione quali B’Tselem ("A immagine di", come in Genesi 1:27) e Shovrim Shikà (“Rompere il silenzio”) e appunto il New Israeli Fund che è ora nel mirino di Netanyahu.
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Re: Ebrei e no' pì ebrei ke łi odia łi ebrei e Ixrael

Messaggioda Berto » ven mag 04, 2018 7:26 pm

I firmatari ebrei della lettera appello contro Israele
04/05/2018

http://www.linformale.eu/8199

“Nel prossimo maggio lo Stato d’Israele compirà 70 anni. Se per molti ebrei la memoria del maggio ‘48 sarà quella di una rinascita portentosa dopo la Shoà e un’oppressione subita per molti secoli, i palestinesi vivranno lo stesso passaggio storico ricordando con ira e umiliazione la Nakba, la “catastrofe”: famiglie disperse, esistenze spezzate, proprietà perdute, il tragico inizio dell’esodo di una popolazione civile di oltre settecentomila persone”.

Così inizia la lettera appello pubblicata su Micromega e sottoscritta da oltre una trentina di firmatari ebrei, in occasione del prossimo Giro di Italia che partirà da Gerusalemme oggi per onorare la memoria di Gino Bartali, riconosciuto da Yad Vashem come un giusto tra le nazioni per la sua opera di soccorso nei confronti di cittadini ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale. Opera sulla quale i firmatari, tuttavia sollevano dei dubbi affermando che essa non sia “ben documentata”. Insinuazione riprovevole la quale ha un unico scopo, quello di delegittimare il presupposto stesso dell’iniziativa di Israele. Ma è tutta la lettera appello ad essere costruita, con forzature, omissioni, e menzogne, come una delegittimazione dello Stato ebraico, sulla base della “coscienza illuminata” immancabilmente di sinistra, di un gruppo di ebrei della diaspora italiana.

L’incipit della lettera è devastante. Trovare associate nella stessa frase una tragedia colossale e unica per modalità, finalità, implicazioni storiche, politiche, filosofiche e teologiche, con l’esodo di 700,000 arabi dalla Palestina a causa della guerra del 1948, e eretto nel corso dei decenni in monumento della vittimologia palestinese unicamente a scopo politico, è insopportabile. Nulla viene detto della tragedia parallela, e più ampia per estensione, di tutti gli ebrei, 820,00 circa, espulsi dagli arabi dall’Egitto, dall’Iraq, dalla Libia, dalla Siria, dallo Yemen, dall’Algeria, tra il 1948 e il 1972 di cui non esiste ad oggi un solo rifugiato. Questa catastrofe non è, ovviamente, rilevante. Ci sono la Shoah, di cui i vorrebbe fare credere che sia stata strumentale alla nascita di Israele (tesi araba e complottista) e la Nakba. Può bastare.

Altri sono i punti degni di considerazione, per così dire.

“Molto problematica è in particolare oggi la situazione di Gerusalemme, città che Israele, dopo averne annesso la parte orientale, celebra come “capitale unita, eterna e indivisibile”. Tale statuto, oltre a non essere riconosciuto dalla stragrande maggioranza dei governi mondiali, secondo i dettami dell’accordo di Oslo del 1993 doveva essere oggetto di negoziati fra le parti in causa. Gerusalemme Est resta quindi, secondo le norme internazionali, una città occupata con i suoi 230.000 ebrei che vi abitano in aperta violazione delle suddette norme. A rafforzare la pretesa del governo israeliano su Gerusalemme e a infliggere l’ennesima pugnalata al già moribondo processo di pace è calata nel dicembre 2017, come un colpo di maglio, l’iniziativa di Donald Trump di riconoscere ufficialmente la città quale capitale dello Stato d’Israele: una decisione che ne trascura completamente la complessità simbolica, ne ignora la natura molteplice e la condizione giuridica, obliterando l’esistenza dei suoi residenti arabi palestinesi (quasi 350.000, tre quarti dei quali vivono al di sotto della soglia della povertà, privi del diritto di acquistare terreni, costruire o ingrandire le proprie abitazioni – da cui spesso, anzi, vengono scacciati – e di prendere parte alle elezioni in Israele)”

Occorrerebbe spiegate a chi ha scritto la lettera e ai firmatari che la sottoscrivono zelanti, che la definizione di “occupata” relativa a Gerusalemme Est, dove, va ricordato per inciso, si trova il Muro Occidentale, o Kotel, il luogo più santo per l’ebraismo, e applicata anche alla Cisgiordania, è altamente problematica e contestata da autorevoli giuristi, tra cui vale la pena ricordare Julius Stone, Howard Grief, Eyal Benevisti. Il termine “occupazione” fatto proprio dall’ONU e presente nelle sue risoluzioni avverse a Israele, le quali sono prive di valenza impositiva sotto il profilo del diritto internazionale, suggerisce che Israele si troverebbe su un territorio sul quale non ha legittimità, ma perché questo possa essere affermato sarebbe necessario che ci fosse un detentore sovrano spodestato. Si tratta forse della Giordania che occupò abusivamente Gerusalemme dal 1948 al 1967, escludendovi ogni presenza ebraica? Si tratta forse del popolo palestinese emerso come soggetto politico dopo la Guerra dei Sei Giorni? Singolare definire “occupante” il popolo che liberò da una presenza del tutto illegale, quella giordana, dopo una guerra di aggressione, una porzione della città a cui è legato indissolubilmente storicamente e culturalmente da millenni.

Per quanto invece riguarda la decisione di Donald Trump del 6 dicembre 2017, di riconoscere Gerusalemme capitale di Israele, il presidente americano si è limitato a porre in essere una legge bipartisan ferma al Congresso dal 1996, la quale non fa altro che certificare una realtà empirica in essere dal 1948, che Gerusalemme, essendo la sede del governo, della Corte Costituzionale, della residenza del presidente dello Stato ebraico è, a tutti gli effetti, come ogni altra città del mondo in cui si trovano accorpati questi fattori, oggettivamente la capitale dello Stato. Trump ha esplicitato chiaramente che la sua decisione non determina in alcun modo lo statuto finale della città relativamente ai suoi confini.

“La pugnalata al già moribondo processo di pace“ assestata da Trump è una pura fantasia, semmai è il contrario. E’ solo sulla base di un contatto diretto con la realtà, sottraendola all’ideologia, che si può fare avanzare la pace. Ma una cosa, l’unica in questa lettera appello, è vera, il processo di pace è effettivamente moribondo. lo è dal 1948 e molto prima, fin dagli anni ’30, e consiste nel persistente rigetto arabo e islamico nei confronti del diritto all’esistenza di Israele, mai accettato da nessun leader arabo. L’Autorità Palestinese si è limitata, bontà sua, a riconoscerne che Israele esiste come realtà geografica. Straordinario.

Quanto ai 350,000 arabi palestinesi residenti a Gerusalemme Est e presentati come umiliati e offesi, non viene certo spiegato che essi vivono a Gerusalemme in condizioni infinitamente migliori rispetto a qualsiasi altro paese mediorientale, e che la loro impossibilità di votare, in quanto per la legge israeliano si tratta di “residenti permanenti” e non cittadini a tutti gli effetti, consente loro tuttavia di beneficiare di vari diritti civili, del welfare, della sanità e dei servizi municipali. Viene naturalmente omesso che tutti hanno un passaporto giordano e che per diventare cittadini israeliani devono rinunciare a questo passaporto cosa che la maggioranza di essi non vuole fare. Viene altresì omesso che sempre la maggioranza dei palestinesi residenti a Gerusalemme Est, malgrado le oggettive difficoltà poste in essere da Israele per la loro naturalizzazione, rifiuta questa possibilità di normalizzazione in ragione di motivi puramente ideologici.

Tuttavia il culmine della lettera appello è contenuto in questo paragrafo:

“Infine, ciliegina sulla torta, è del 16 marzo la notizia che la Commissione giustizia della Knesset sottoporrà, nelle prossime settimane, al parlamento un pacchetto di leggi che trasformano definitivamente Israele in uno “stato ebraico”, abolendo così una volta per tutte la tanto fastidiosa parola “democratico” dal suo statuto e facendo in tal modo, finalmente, “chiarezza” sulla propria natura: sempre, è ovvio, per festeggiare il 70° anniversario. Tale passaggio sancirà, ancora definitivamente, l’esclusione dai diritti dei non ebrei residenti in Israele e faciliterà alle istituzioni preposte il compito di sbarazzarsi innanzitutto dei palestinesi ma anche degli immigrati non graditi”.

Sì ipotizza che la legge in esame alla Knesset sia una legge di stampo etnonazionalisa e di impostazione antidemocratica. Legge che, secondo i firmatari della lettera, renderà i non ebrei, privi di diritti, si “sbarazzerà” dei palestinesi e, ovviamente, degli immigrati “non graditi”. Della sorte che verrà riservata agli omosessuali e ai disabili non viene fatta menzione. Ci auguriamo che questo nuovo stato, una versione del Terzo Reich in versione ebraica, (finalmente è fatta “chiarezza” sulla sua natura), non proceda immediatamente con leggi come quelle di Norimberga del 1935 a cui seguiranno inevitabilmente la pulizia etnica dei palestinesi residenti permanenti a Gerusalemme Est e di quelli che dimorano in Cisgiordania.

Al di là della propaganda, il principio fondamentale della legge che verrà votata, è semplicemente l’affermazione della specificità ebraica di Israele fondata sull’autodeterminazione del popolo ebraico in quanto tale, nel rispetto pieno di tutti le altre minoranze. L’Articolo D del testo di legge afferma esplicitamente che “Lo Stato di Israele è uno stato democratico, stabilito sulle fondamenta della libertà, della giustizia e della pace alla luce della visione dei profeti di Israele e realizza i diritti individuali di tutti i suoi cittadini sotto la legge.”

Ma per la “illuminate” coscienze ebraiche della diaspora italiana che hanno firmato la lettera appello di Micromega, uno stato che si definisce fondamentalmente ebraico, in perfetta continuità con le prerogative del sionismo, è una minaccia alla loro visione di una società basata su di un meticciato multietnico e priva di una connotazione identitaria e nazionale forte. Lo si può capire. Israele, come gli Stati Uniti, rappresenta per la visione europea attuale imbevuta di ideologismo progressista un relitto del passato, una realtà da superare. Come ha lucidamente spiegato in una intervista di qualche tempo fa Georges Bensoussan:

“In Occidente il sionismo è sempre più delegittimato e in particolare per gli Europei. Io credo per una ragione in particolare e cioè che il sionismo, nella sua ambizione di costruire il proprio Stato nazionale, va contro l’attuale tendenza europea che consiste invece nel superamento dello Stato nazionale come è stato inteso sino a poco tempo fa. Queste due opposte tendenze fanno sì che per gli europei il sionismo sia attualmente incomprensibile, appunto perché viene considerato anacronistico. Da una parte c’è l’Europa che va verso una federazione di stati, verso un’integrazione, e dall’altra c’è il sionismo che invece va esattamente all’opposto, collocandosi quindi a controcorrente di un’evoluzione, per apparire agli occhi degli europei come un movimento retrogrado, simbolo di un modello arcaico di apartheid e di conseguenza come una forma di razzismo. Questa è una delle ragioni di fondo che secondo me tendono a delegittimare il sionismo”.

La lettera appello di Micromega, ci offre, se ce ne fosse ancora bisogno, lo spaccato di un ebraismo europeo sclerotizzato e ideologizzato che non sa capire e difendere Israele perché, contrariamente allo Stato ebraico, da troppo tempo ha smarrito irrimediabilmente la propria identità.

http://temi.repubblica.it/micromega-onl ... i-italiani
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Re: Ebrei e no' pì ebrei ke łi odia łi ebrei e Ixrael

Messaggioda Berto » mer mag 30, 2018 6:58 pm

Lo Strano Caso del Dottor Shlomo e di Mr. Sand
Niram Ferretti
30 maggio 2018

http://www.linformale.eu/3126-2

La guerra civile in Siria, che fino ad oggi ha causato la perdita di centinaia di migliaia di vite e reso profuga quasi la metà della popolazione, non è vicina alla fine. La tragedia siriana, che ha coinvolto altri attori del Medio Oriente, milizie mercenarie e eserciti stranieri, non sembra stabilizzarsi. Si è creato un nuovo contesto geopolitico. Allo stesso tempo, tuttavia, nell’agosto del 2017, l’Agenzia per le migrazioni delle Nazioni Unite (IOM) ha annunciato che oltre 600.000 sfollati, circa il 10% del totale dei rifugiati, erano già tornati alle loro case in Siria, molti nella città di Aleppo, che, fino a diversi mesi prima, era stata il simbolo dei violenti combattimenti tra l’indebolito campo ribelle e le forze del regime. Il 2017 si è concluso anche con la conquista, attraverso l’aiuto di Hezbollah, del villaggio di Beit Jann, una delle sacche di resistenza dei gruppi dell’opposizione supportati da Israele. Questi nuovi sviluppi, incluso il radicamento delle forze armate russe e iraniane in Siria, sono importanti anche per Israele e la sua visione strategica, soprattutto per quanto concerne la Siria meridionale. La strategia di Israele potrebbe dover essere modificata significativamente, data la grandezza dei cambiamenti sull’altro lato del confine.

La linea politica israeliana, inizialmente basata sull’idea dello Stato ebraico come “spettatore passivo”, evolvendosi in un intervento molto più attivo vicino al confine siriano, richiede un’analisi particolare. Il suo principio organizzativo combina l’attività umanitaria e militare: costruire ponti da un lato, e massimizzare gli interessi israeliani dall’altro. Inoltre, la “diplomazia umanitaria” – l’assistenza civile e governativa fornita nell’area delle Alture del Golan siriano- sarà oggetto di un esame approfondito, così come il suo ruolo negli sforzi per costruire una base di interessi comuni tra Israele e i gruppi dell’opposizione siriana. Infine, dobbiamo comprendere le sfide e le opportunità che Israele deve affrontare, alla luce della rapida evoluzione della situazione oltre confine.

Gli interessi di Israele in Siria e nella crisi siriana sono molteplici: Israele è interessato prima di tutto alla pace e alla stabilità del suo confine settentrionale, alla prevenzione dell’utilizzo delle armi di distruzione di massa consegnate o cadute nelle mani di Hezbollah o di altre organizzazioni e ad impedire che elementi jihadisti si stabiliscano a nord della Alture del Golan in modo paragonabile a quello che è successo nel Sinai. Lo Stato ebraico è anche interessato ad eliminare l’influenza dell’Iran in Siria, impedendogli di usare il Paese per sviare l’attenzione internazionale dal suo programma nucleare, e all’indebolimento di Hezbollah nel Libano. Il presente saggio analizza il punto di vista di Israele sulla crisi siriana, sulle sue relazioni bilaterali, regionali e sul contesto internazionale ed esamina le modalità attraverso le quali gli interessi dello Stato ebraico potrebbero essere influenzati dai risvolti della crisi attuale.

Storicamente, dal 1948 al 1991 e sotto i successivi regimi, la Siria è stata considerata da Israele come il suo nemico arabo più mortale. Mentre l’Egitto era il nemico più formidabile, la posizione della Siria quale “cuore pulsante del nazionalismo arabo”, la sua particolare vicinanza alla Palestina e alla questione palestinese, e il complesso delle problematiche connesse ai confini tra Israele e Siria giustificavano l’intensità del conflitto bilaterale tra i due Paesi.

Nel corso degli anni sono avvenuti diversi cambiamenti nella natura del conflitto e delle sue dinamiche; nel 1967 la conquista da parte di Israele delle Alture del Golan e la determinazione della Siria per la loro riconquista divennero una componente- tra le più importanti- del conflitto. Il tentativo siriano di riconquistare le Alture nella guerra del 1973 fallì, infatti, nel dopoguerra un accordo di disimpegno, mediato da Henry Kissinger, ha determinato le relazioni bilaterali lungo la linea del cessate il fuoco. Il Presidente della Siria, Hafiz al-Assad, ha mantenuto l’accordo e di conseguenza un fronte tranquillo, ma ha continuato a condurre la lotta contro Israele indirettamente attraverso il Libano e sostenendo i gruppi palestinesi, e promuovendo le organizzazioni terroristiche.

La capacità di Assad di condurre questa duplice politica è stata facilitata dal suo successo nella costruzione dello Stato siriano e dalla trasformazione della Siria in un potente attore della politica regionale del Medio Oriente. Assad è rimasto vicino all’alleato sovietico, ma ha aperto numerosi canali verso l’Occidente, impressionando molti Presidenti statunitensi e Segretari di Stato, sembrando di poter essere conquistato dalla linea di Washington.

Quando Anwar Sadat decise di negoziare un accordo di pace con Israele nel 1977, Assad ha guidato una campagna contro di lui, accusandolo di stupidità e tradimento. Quattordici anni dopo, dopo il collasso dell’Unione Sovietica e all’indomani della prima Guerra del Golfo, Assad si unì alla Conferenza di Madrid guidata dagli Stati Uniti, dando inizio ad un sforzo decennale per risolvere il conflitto siro-israeliano.

Durante questo decennio, quattro Primi Ministri israeliani- Yitzhak Rabin, Shimon Peres, Benjamin Netanyahu and ehud Barak—conveyed to assadtanyahu e Ehud Barak- hanno mostrato la loro volontà di ritirarsi dalle Alture del Golan in cambio di un insieme accettabile di proposte di pace e sicurezza. Questa politica rifletteva il pensiero che la Siria fosse un partner migliore rispetto ai palestinesi per il processo di pace. Assad concordava in linea di principio sulla firma di un trattato di pace con Israele e sulla normalizzazione delle relazioni, ma per ragioni che non saranno spiegate in dettaglio in questa sede, l’accordo di pace che era- o almeno appariva essere- vicino alla concretizzazione non fu raggiunto e i negoziati naufragarono nel marzo del 2000. Hafiz al-Assad morì tre mesi dopo, dando inizio ad un nuovo capitolo della storia della Siria e dei suoi rapporti con Israele.

La morte del costruttore dello Stato siriano e la sua sostituzione in stile dinastico da parte del figlio furono soltanto due degli eventi convergenti nel 2000 che cambiarono il corso della storia della Siria (e nel nostro contesto, la sua relazione con Israele). Le elezioni presidenziali negli Stati Uniti determinarono che Bill Clinton, un aperto sostenitore della pace siro-israeliana e del riavvicinamento siro-americano, fosse sostituito da George W. Bush, che entrò in carica in un momento in cui il processo di pace arabo-israeliano non dava segni di progresso, inoltre, fu presto in rotta di collisione con la Siria di Bashar al-Assad. In Israele, la leadership di Ehud Barak collassò a causa del fallimento della conferenza di Camp David e del sorgere della seconda intifada. La fine del Governo di Barak lasciò campo libero al leader del Likud Ariel Sharon. Finì così un decennio di ricerca di un accordo di pace siro-israeliano, e fu segnata la fine anche della prassi politica che considerava tale accordo la migliore soluzione al “problema libanese”.

Nei successivi sei anni le relazioni israelo-siriane non hanno subito sostanziali modifiche. La politica di Bashar al-Assad era triplice: ha affermato più volte che voleva rinnovare i negoziati con Israele, ha rinforzato la sua capacità militare nel caso che l’opzione diplomatica fallisse, ha intensificato la collaborazione strategica con l’Iran e gli Hezbollah. Mentre Hafiz al-Assad era un alleato dell’Iran e trattava gli Hezbollah e il loro leader, Hassan Nasrallah, come subordinati, nel tempo Bashar è divenuto un subalterno più che un pari grado del principale partner iraniano e ha considerato Nasrallah come un alleato da ammirare. Durante i primi anni Duemila, l’arsenale missilistico di Hezbollah si è ampliato in modo preponderante come deterrente contro i potenziali attacchi di Israele e degli Stati Uniti contro l’Iran o la Siria.

Ariel Sharon era assolutamente disinteressato ad un’opzione diplomatica o a trattare con la minaccia dell’arsenale di Hezbollah. Sharon era completamente focalizzato sulla questione palestinese- in primo luogo nello sconfiggere la seconda intifada e poi nel ritiro da Gaza- e rifiutò di essere deviato da questi obiettivi dall’opzione siriana. Quando Bashar al-Assad, nel tentativo di alleviare le pressioni di George W. Bush, cercò di stabilire un contatto, questo fu respinto da Sharon, che fu, tuttavia, molto attento a non essere coinvolto in un grave conflitto militare con l’alleato di Assad, Hezbollah.

Quando Hezbollah divenne più audace, gli attacchi militari di Israele si focalizzarono su obiettivi militari minori in Siria. Il messaggio era chiaro: Sharon riteneva la Siria responsabile per le azioni di Hezbollah e aveva promesso che, se fossero continuati o si fossero intensificati, avrebbe valutato delle azioni più risolute contro la Siria (è importante notare che Sharon scelse di non agire contro l’arsenale di missili accumulato da Hezbollah, dall’Iran e dalla Siria).

Significativamente, quando il Presidente statunitense, irritato dalla doppia partita giocata da Assad in Iraq, ha parlato con Sharon circa la possibilità di rimuoverlo, il premier israeliano ha risposto che preferiva il “diavolo che conosceva”. In altre parole, anche Sharon non era un ammiratore di Assad e delle sue politiche, ma preferiva un Presidente siriano che mantenesse la linea del cessate il fuoco, soprattutto in considerazione dell’alternativa al regime del partito Baath, cioè i Fratelli Musulmani.

Ehud Olmert, che successe a Sharon quando questi si ammalò all’inizio del 2006, inizialmente continuò la politica del suo predecessore, o meglio la mancanza di una politica sulla Siria. Il suo stretto rapporto con George W. Bush ne rinforzò la riluttanza a considerare Bashar al-Assad come un potenziale partner per la pace. Ma nel corso del 2006 e del 2007, questa visione politica così semplicistica è stata trasformata da due eventi fondamentali: la guerra in Libano nel 2006 e gli sforzi congiunti della Siria e della Corea del Nord per sviluppare un’arma nucleare.

La guerra del Libano del 2006 ha rivelato tutta la portata della minaccia alla sicurezza di Israele rappresentata dalla cooperazione trilaterale tra Iran, Siria e Hezbollah. La guerra ha moderato gli attacchi condotti da Hezbollah, ma il suo arsenale di missili e bombe era aumentato e la minaccia futura era esacerbata. Nel corso della guerra, il Presidente Bush non fece mistero della sua speranza che Olmert si sarebbe occupato anche della Siria, ma il premier israeliano rifiutò. Alla fine del conflitto, Olmert accettò il punto di vista dominante nell’establishment della sicurezza nazionale israeliana secondo il quale l’opzione migliore per scongiurare nuove minacce sarebbe stato un nuovo negoziato e un eventuale accordo con la Siria, il modo più efficace per iniziare a smantellare l’asse guidato dall’Iran e indebolire Hezbollah e la sua presa sul Libano. Il premier israeliano chiarì la questione con il Presidente Bush, che non era soddisfatto dell’idea, ma non pose alcun veto. Olmert scelse di iniziare i negoziati attraverso la Turchia e acconsentì all’insistenza di Assad che fossero condotti, almeno inizialmente, per mezzo della mediazione turca. La mediazione fu svolta ad Ankara e culminò nella sfortunata visita di Olmert nella capitale turca nel dicembre del 2008, alla vigilia dell’operazione piombo fuso a Gaza.

Quando l’intelligence israeliana scoprì il reattore nucleare costruito dalla Nord Corea nella Siria nord-orientale, e lo stesso Olmert scoprì che il Presidente Bush non era disposto a distruggerlo, si impegnò lui stesso a farlo nel settembre del 2007. Una volta che i militari ebbero completato l’operazione con successo, la preoccupazione principale di Israele era gestire la ricaduta politica e mediatica in modo da minimizzare la pressione su Assad affinché non rispondesse militarmente. Assad si astenne da qualsiasi ritorsione. L’intero episodio evidenziava per Israele alcuni punti interrogativi relativi alla figura di Bashar al-Assad: era disposto a giocare d’azzardo attraverso una collaborazione nucleare pericolosa e di vasta portata con la Corea del Nord, ma aveva dimostrato responsabilità e controllo una volta scoperto e umiliato. Dopo un certo tempo, la mediazione turca tra Israele e Siria fu ripresa, ma senza successo, come abbiamo visto in precedenza.

La fine del mandato di Ehud Olmert ha segnato la fine anche del quinto inutile sforzo, dal 1991, per risolvere il conflitto israelo-siriano. Il successore, la leader di Kadima Tzipi Livni, non riuscì a formare un nuovo Governo e nelle successive elezioni generali l’elettorato si spostò a destra, conferendo la vittoria elettorale aBenjamin netanyahu and a right-wing coalition. Benjamin Netanyahu e ad una coalizione di destra. Netanyahu si era espresso pubblicamente, durante la campagna elettorale e in seguito durante il suo mandato, contro il ritiro dalle Alture del Golan. Il nuovo Presidente americano, Barack Obama, sosteneva l’impegno negoziale con la Siria, ma in pratica, durante la maggior parte del suo primo mandato, si impegnò nel rianimare il processo di pace arabo-israeliano, focalizzato sulla questione palestinese.

L’amministrazione Obama nominò Fred Holf, un noto esperto di Siria che aveva scritto sul processo di pace israelo-siriano, come vice di George Mitchell con responsabilità speciali per la questione israelo-siriano. Dato l’impegno profuso da Barack Obama e dalla sua amministrazione per riavviare il processo di pace arabo-israeliano, l’opzione siriana fu relegata in secondo piano. Invece, Hof e i suoi superiori provarono ad aprire un dialogo tra gli Stati Uniti e la Siria, concentrandosi sul miglioramento delle relazioni bilaterali. Funzionari del Dipartimento di Stato del New Jersey si recarono a Damasco e il senatore John Kerry ricevette la responsabilità di coltivare una relazione speciale con la Siria e il suo Presidente, trovando l’accoglienza positiva di Netanyahu. Il tentativo di costruire una nuova relazione tra Washington e Damasco non ebbe un esito positivo, tuttavia, nel 2010 l’amministrazione Obama tentò un nuovo sforzo per riavviare i negoziati israelo-siriani. Questo era uno schema familiare: quando le difficoltà si accumulano su un processo di pace, l’enfasi era spostata su un altro. Alla fine del 2011, la stampa israeliana rivelò che la mediazione segreta tra Netanyahu e il regime di Assad era piuttosto seria e sarebbe durata fino all’esplodere della crisi siriana. Non è noto quale fossero le intenzioni del premier israeliano quando impegnò l’amministrazione Obama in questo sforzo di mediazione. Netanyahu avrebbe fatto un accordo con Bashar al-Assad basato sul completo ritiro dal Golan? O era principalmente interessato a creare un’alternativa al processo di pace con i palestinesi? La fuga di notizie della stampa israeliana era probabilmente finalizzata a mettere in imbarazzo il premier mostrando la discrepanza esistente tra la sua retorica e le sue azioni pratiche, ma chiunque si aspettasse che la rivelazione avesse un impatto sull’elettorato israeliano fu deluso.

Fu in questo contesto che la ribellione contro il regime di Bashar al-Assad esplose nel marzo del 2011. Settimane più tardi, quando divenne chiaro che questo non era un episodio passeggero ma una radicata ribellione popolare che ha continuato a guadagnare supporto e forza, i politici e gli analisti israeliani elaborarono le prime serie risposte alla crisi siriana. In quel momento, intorno al maggio del 2011, non era ancora certo che il regime sarebbe collassato. L’atteggiamento di Israele in questo periodo può essere delineato attraverso i seguenti punti: 1.) Contrariamente alle voci correnti nel Medio Oriente e altrove, Israele non cercò di aiutare Assad a mantenere il potere e non tentò di persuadere gli Stati Uniti a seguire la stessa politica. La risposta di Ariel Sharon a George W. Bush nel 2005, il preferire “il diavolo che già conosciamo”, non era più rilevante nel 2011. Il cercare un accordo con la Siria, durante il mandato di Ehud Olmert nel 2006, non aveva portato da nessuna parte. Da quel momento, non c’era una sola visione israeliana della Siria e di Bashar al-Assad, ma la percezione di Israele della Siria e del suo Presidente poteva essere definita ambivalente. L’esperienza del 2006 nel Libano e l’affaire del reattore nucleare avevano avuto un effetto negativo, anche se non era svanita l’idea che il modo più efficace per far cadere il “muro iraniano” fosse tirare fuori il “mattone siriano”. Questa ambivalenza fu evidente nella primavera del 2011 quando la politica israeliana dovette decidere se preferiva che Assad restasse o fosse deposto. La leadership politica israeliana considerò che Assad fosse più dannoso che benefico. Era chiaro che un’opzione diplomatica era impraticabile nel breve termine. La leadership israeliana era preoccupata soprattutto dall’identità del successore di Assad, ma considerava anche il danno che sarebbe stato causato all’Iran dalla caduta del regime, e nel complesso preferiva la sua deposizione. 2.) Gli israeliani si sono resi conto che gli eventi in Siria, anche se non avessero coinvolto lo Stato ebraico direttamente, non erano una mera questione accademica. Israele non aveva un’influenza all’interno della Siria, quindi qualsiasi supporto esteso all’opposizione siriana sarebbe stato controproducente. La risposta iniziale del regime di Assad alla ribellione fu che questa non era una rivolta vera e propria, ma un complotto organizzato dall’esterno, in particolare da Stati Uniti e Israele. Se Israele avesse esteso il suo supporto ai ribelli (o eventualmente offerto un aiuto umanitario) avrebbe dato al regime di Assad una formidabile arma di propaganda. Le previsioni di alcuni osservatori secondo le quali Israele avrebbe potuto usare la sua potenza militare per influenzare il corso degli eventi in Siria, come concentrare delle forze sulla frontiera, non è mai stata considerata seriamente dalla leadership israeliana. 3.) Israele ha notato con soddisfazione che non tutti gli eventi della primavera araba erano necessariamente benefici per l’Iran e “l’asse della resistenza”. La caduta di Ben Ali e di Mubarak e la pressione sulle monarchie conservatrici erano considerate un guadagno per l’Iran, ma la ribellione siriana era una significativa battura d’arresto per Teheran. La Siria era il principale alleato dell’Iran nella regione, terra di ponte per il Libano, e suo partner nel supportare Hamas a Gaza. La prospettiva di un cambio di regime, e l’emergere di un successore filo-americano a Bashar al-Assad, era aberrante per Teheran. Le ripercussioni della crisi siriana furono presto chiare tra i partner dell’Iran: gli Hezbollah acquisirono una modalità difensiva e Hamas spostò il suo quartier generale esterno lontano da Damasco. In una prospettiva di gioco a somma zero, la perdita dell’Iran era un guadagno per lo Stato ebraico. 4.) Le ripercussioni per l’Iran erano chiaramente parte di un contesto regionale e internazionale più ampio. Mentre la ribellione continuava e si intensificava, la Siria divenne l’arena di un conflitto regionale tra l’Iran e i suoi rivali così come tra la Russia (e in misura minore, la Cina) e gli Stati Uniti e i suoi alleati occidentali. Gli eventi in Siria avevano degli effetti particolari su vicini come la Turchia e l’Iraq. 5.) Israele ha fatto una chiara distinzione tra le conseguenze immediate e quelle a lungo termine della crisi siriana. La ribellione, la guerra civile e la prospettiva di un cambio di regime in un Paese vicino nemico richiedono sempre vigilanza e molta attenzione. Le conseguenze a lungo termine della crisi siriana per Israele dipendono naturalmente dal corso degli eventi.

Alla metà di maggio del 2011, quasi due mesi dopo l’esplosione della ribellione, Rami Makhlouf, cugino di al-Assad, concesse un’intervista al “New York Times”. Makhlouf è un uomo d’affari, incaricato di costruire e gestire la fortuna illecita della famiglia e membro del cerchio più interno del regime. Non è noto se la sua dichiarazione fosse stata autorizzata o coordinata in anticipo con il cugino, ma era chiaramente significativa e preveggente. La principale importanza dell’intervista consisteva nel messaggio per cui il regime era determinato a detenere il potere ed era disposto a combattere fino alla fine. Ma Makhlouf scelse anche di includere uno specifico avvertimento diretto sia a Gerusalemme che a Washington: “se non c’è stabilità qui, non c’è modo che ci sia stabilità in Israele […] e nessuno può garantire ciò che accadrà dopo, Dio non voglia, qualsiasi cosa succederà a questo regime […] non spingerà la Siria a fare ciò che non è felice di fare”. Dopo breve tempo, nel giorno della Nakba, (parola araba che significa catastrofe, utilizzata fin dal 1948 per descrivere la fondazione dello Stato d’Israele e le sue conseguenze, tra cui la prima guerra arabo-israeliana, la sconfitta degli eserciti arabi e l’esodo massiccio dei palestinesi) migliaia di palestinesi si riunirono lungo il reticolato che separa le Alture del Golan dalla Siria vicino al villaggio druso di Majdal Shams. Rispetto alle recinzioni di sicurezza lungo gli altri confini di Israele, quella recinzione non era una vera e propria barriera e diverse centinaia di palestinesi riuscirono a spezzarlo e ad attraversare il villaggio druso. Quattro di loro furono uccisi e diverse dozzine feriti da una piccola forza militare israeliana.

Gli israeliani si erano abituati allo status quo, in base al quale il regime Baath infliggeva dei danni allo Stato ebraico su altri fronti, tuttavia, attuava scrupolosamente i termini degli accordi di disimpegno del 1974 e manteneva tranquillo il fronte del Golan. L’incidente di maggio a Majdal Shams era solo uno dei tanti in cui i palestinesi celebravano il giorno della Nakba lungo le frontiere israeliane. Tuttavia, l’incidente ha rappresentato un avvertimento per Israele sul fatto che il fronte del Golan non sarebbe rimasto calmo per sempre e che i disordini avrebbero potuto infiammare il fronte siriano, anche in mancanza di una politica deliberata (come minacciato da Makhlouf) e come sottoprodottoof the syrian rebellion. della ribellione siriana.

Israele prese le precauzioni necessarie, rinforzando il recinto e aumentando la sua presenza militare nel Golan. a second Palestinian attempt to cross the fence was Un secondo tentativo palestinese di attraversare la recinzione funipped in the bud. stroncato sul nascere.The Golan front remained quiet Il fronte del Golan rimase calmobut there was a reinforced sense in Israel that the syr- ma in Israele vi era la sensazione che laian civil war could spill into Israel or draw it in from guerra civile avrebbe potuto diffondersi nel Paese o coinvolgerlo daone day to the next. un giorno all’altro. Nel novembre del 2012, avvenne un certo numero di incidenti lungo la linea del cessate il fuoco siro-israeliano e sulle Alture del Golan. Probabilmente erano una conseguenza non intenzionale dei combattimenti tra l’esercito siriano e l’opposizione e non riflettevano una decisione di entrambe le parti di estendere i combattimenti sulle Alture del Golan o cercare di attirare Israele nel conflitto. Durante i successivi tredici mesi, all’evolversi della crisi siriana in una vera e propria guerra civile, il fronte siro-israeliano rimase calmo. Vi è stata un’agitazione alla fine dell’estate del 2012 dovuta a due questioni. La prima era l’arsenale di armi di distruzione di massa della Siria. Le previsioni di un crollo repentino del regime rese il tema più rilevante, infatti, venne alla ribalta il possesso da parte del regime di missili balistici con testate chimiche e biologiche. Gli Stati Uniti e gli alleati occidentali erano allarmati da una confluenza di materiale di intelligence e dichiarazioni pubbliche del regime. Assad e i suoi alleati, messi con le spalle al muro, avrebbero usato le armi di distruzione di massa contro la popolazione? Il regime avrebbe trasferito parte delle scorte a organizzazioni terroristiche come Hezbollah? Avrebbe deciso di uscire di scena usando quelle armi contro nemici come Israele e altri vicini? Alle prime due domande oggi possiamo rispondere positivamente, alla terza soltanto il procedere degli eventi potrà dare una risposta.

Israele ha risposto minacciando di intercettare qualsiasi trasferimento di armi di distruzione di massa. Il Ministro della Difesa Barak, il Ministro degli Esteri Avigdor Lieberman e il Capo di Stato Maggiore dell’Esercito Benny Gantz hanno avvertito che questa era in realtà una “linea rossa”, e secondo il Ministro degli Esteri, un “casus belli”. Gli esperti militari e diplomatici ebbero delle posizioni più sfumate rispetto ai politici. Il generale della riserva Amos Gilad, Capo della divisione politico-militare del Ministero della Difesa, spiegò nel luglio del 2012 che fino ad allora il regime aveva mantenuto il controllo del proprio arsenale di armi di distruzione di massa. Il Capo di Stato Maggiore Gantz avvertì che sarebbe stato difficile individuare la più opportuna delle azioni da intraprendere, infatti, “se agisci a grandi linee potresti ritrovarti abbastanza presto in una campagna più ampia di quella che avevi pianificato. Noi dovremmo prendere in considerazione ciò che rimarrebbe dopo l’azione e in quali mani cadrebbe”. È probabile che il Capo di Stato Maggiore intendesse affermare che se Israele avesse intercettato il trasferimento di armi di distruzione di massa del regime di Assad a Hezbollah, o lanciato un raid contro Hezbollah, questo avrebbe potuto facilmente trasformarsi in un conflitto a pieno titolo tra Israele e Hezbollah.

L’amministrazione Obama lanciò un severo monito al regime di Assad se avesse usato le armi chimiche contro la sua popolazione, avvertendo che ci sarebbero state delle conseguenze.

Il secondo problema riguardava la diretta partecipazione dell’Iran alla guerra civile siriana. Nelle precedenti fase della crisi siriana, l’Iran aveva apertamente sostenuto la Siria, cercando, tuttavia, di nascondere la parte attiva giocata dalle truppe iraniane nei combattimenti. Questo è cambiato nell’estate del 2012 come parte di un più ampio sforzo iraniano di fare dell’Iran una forza proattiva, un potente attore regionale, invece che l’obiettivo passivo di un raid americano o israeliano. Per questa ragione, Mohammad Ali Aziz Ja’fari, Comandante dei Guardiani della Rivoluzione, ammise che membri della forza militare Quds erano presenti in Siria. Fu su questo sfondo che Israele annunciò all’inizio del settembre del 2012 che l’esercito israeliano aveva condotto delle esercitazioni militari sulle Alture del Golan, esercitazione notificata al Governo siriano attraverso “canali appropriati”, in anticipo, in modo da evitare un allarme e un travisamento. Potrebbero esserci stati altri motivi per tenere questa esercitazione in un periodo così particolare, ma era evidentemente un messaggio sia per l’Iran sia per la Siria.

È interessante soffermarsi anche sulla percezione dell’opinione pubblica israeliana della crisi siriana. Per un Paese noto per il vivace dibattito pubblico delle élite politiche, la crisi siriana è passata inizialmente invece in secondo piano. La comunità politica e i media israeliani hanno seguito lo svolgersi della crisi in Siria da vicino e l’hanno coperta ampiamente, ma non nel contesto di un evento così importante da avere profonde ripercussioni in Israele; i politici hanno fatto, nel complesso, poche e non attente dichiarazioni sulla crisi. Il senso comune per cui Israele aveva poca influenza sugli eventi in corso, che il corso degli eventi stesso era incerto, e in ultimo che l’impatto finale su Israele non era chiaro spiegano la reticenza riscontrata nei media e tra i politici israeliani.

Due tematiche significative emergono in modo evidente dal discorso israeliano sulla Siria durante questo periodo. Il primo riguardava il problema dell’accordo di pace e il ritiro dalle Alture del Golan. Chiaramente, i due problemi furono sospesi per il momento; la guerra civile in Siria doveva avere termine e doveva essere formato un nuovo Governo prima che le due questioni fossero messe di nuovo all’ordine del giorno. Ma gli oppositori di questa posizione, e i critici della volontà dei quattro primi ministri di ritirarsi dal Golan come parte di un accordo di pace con la Siria non persero tempo, enfatizzando la giustezza della loro posizione data la guerra civile in Siria.

Non è stato sorprendente leggere e ascoltare l’articolazione di questa posizione nell’ala destra dello spettro politico israeliano, ma la più eloquente denuncia retrospettiva dell’accordo non raggiunto con la Siria è stata scritta da un influente giornalista di centro, Ari Shavit. È interessante leggere un lungo brano del suo articolo1: “A nessuno piace ammettere di aver sbagliato. Neanche a me, ma a volte non hai scelta.

Di recente sono salito a nord per lo Shabbat. Ho passato ore a guardare le montagne delle Alture del Golan mentre si arrossavano verso la sera. Ma lentamente il puro piacere è stato sostituito da un profondo disagio. Non potevo fare a meno di pensare a cosa sarebbe successo oggi se la posizione ideologica che io ho tenuto per lungo tempo- pace in cambio del Golan- fosse stata accettata. Pensare a cosa sarebbe successo oggi se Ehud Barak non avesse lasciato la carica prima di Hafez Assad nel 2000, o se Ehud Olmert non fosse stato interrotto prima di affrontare Bashar Assad nel 2008. […]

Ho scritto incessantemente sul giornale e parlato in televisione sulla necessità di raggiungere un accordo di pace per il Golan. Ho spinto per la pace con la Siria con tutte le mie forze. La visione opposta sembrava irragionevole e immorale. Gli oppositori sembravano uomini pericolosi. Mi sono arrabbiato con Yitzhak Shamir e Ariel Sharon per aver bloccato il dialogo con la Siria e bloccato Israele. Ero convinto che un giorno la storia gli avrebbe condannati per il loro rifiuto e trattati come tratta Golda Meir, Moshe Dayan e Yisrael Galili.

E ora, tutto è stato capovolto. È stato tutto invertito.

Se avessimo avuto la pace negli anni Duemila, allora oggi avremmo già avuto un bagno di sangue. Se fossimo andati a letto con Assad una decina di anni fa, oggi ci saremmo svegliati con la jihad. Se avessimo rinunciato a Katzrin e a Snir, avremmo il terrore a Dan e a Dafna. Una strana sostanza sarebbe corsa negli affluenti del fiume Giordano. Frequenti scontri a fuoco sarebbero esplosi a Tel Katzir e Ha’on.

Il Golan siriano si sarebbe trasformato in un buco nero molto più pericoloso del buco nero del deserto del Sinai. L’idea della pace, che potrebbe essere stata corretta a suo tempo, si sarebbe trasformata in una realtà da incubo difficile da tollerare. Prima o poi, Israele sarà costretto ancora una volta a risalire a Tel Faher e a Nafah e a continuare per Quneitra. Ma questa volta tale operazione porterebbe a sbarramenti di missili su Tel Aviv. La pace in cui io ho creduto e per cui ho combattuto si sarebbe trasformata in un enorme guerra in cui migliaia di persone sarebbero state uccise”.

La percezione dell’opinione pubblica israeliana riflessa nell’articolo di Shavit non era modellata dalla sola crisi siriana. L’impatto della guerra civile siriana sull’atteggiamento del pubblico israeliano riguardo al tema “terra per pace” era amplificata dalla svolta simultanea degli eventi in Egitto. Il nuovo regime in Egitto non aveva abrogato il trattato di pace con Israele, come richiesto da alcuni dei suoi predecessori, ma aveva introdotto una serie di ambiguità che riguardavano il suo futuro. Inoltre, la penisola del Sinai, originariamente una efficace barriera di sicurezza tra Israele e Egitto, ora ospitava una popolazione beduina fuori dal controllo del Cairo e elementi jihadisti che effettuavano attacchi terroristici contro Israele. Nell’ambito delle più grandi tendenze generate dalla primavera araba questi sviluppi rinforzavano la preferenza del Governo e dell’opinione pubblica di Israele per mantenere uno status quo territoriale.

Ai margini del discorso pubblico israeliano, la guerra civile siriana ha ravvivato un interesse tradizionale nella “politica delle minoranze” che risale alla politica sionista pre-statale. Disperando di trovare un accordo con l’establishment arabo-sunnita della regione, i sionisti e i successivi leader politici israeliani hanno cercato di costruire delle partnership con minoranze etniche e religiose come curdi, drusi e maroniti. Questi sforzi avevano prodotto dei risultati insoddisfacenti e il complesso di presupposti che ne erano alla base sembravano essere stati eliminati dal trattato di pace con l’Egitto e dal processo di pace degli anni Novanta. Se Israele stava diventando una realtà accettabile per gli Stati arabi della regione, vi era ancora la necessità di raggiungere i gruppi minoritari?

Tali opinioni erano strettamente correlate all’idea che la Siria fosse solo uno degli Stati della Mezzaluna Fertile che avrebbe potuto disintegrarsi sotto il peso dell’etnia, dei conflitti religiosi e settari. Per questo, un esperto commentatore israeliano aveva descritto, dopo un briefing con un ufficiale delle Forze di difesa di Israele, un contesto nel quale “la Siria sarebbe stata divisa in poche aree sotto differenti controlli”: “Ciò che è significativo è il fatto che la Siria stia diventando l’esempio più estremo del nuovo mondo che circonda Israele. Gli Stati nazionali, alcuni dei quali (il Libano, ad esempio) erano creazioni coloniali artificiali mentre altri avevano una lunga storia, si stanno indebolendo e alcuni si stanno disintegrando. Il pericolo di una guerra su larga scala, che implica la conquista di territorio israeliano, scompare insieme allo smantellamento di questi Paesi. Ma si creano invece nuovi pericoli: pericoli che sono, per natura, oscuri, decentralizzati, molto più difficili da decifrare. Eppure l’intensità di questi nuovi pericoli è tanto grande quanto quella dei pericoli che siamo abituati a considerare come minacce esistenziali da molti decenni”2.

Lo stallo del processo di pace e l’impatto della primavera araba così come l’apparente frammentazione di Stati quali l’Iraq e il Libano hanno suggerito la prospettiva di un nuovo rimpasto del contesto geopolitico della Mezzaluna Fertile. Tuttavia, il tema degli alauiti e del separatismo curdo portava gli analisti israeliani a ponderare la prospettiva di un nuovo ordine regionale.

Con l’evoluzione della guerra civile in Siria nel 2011 e nel 2012, Israele ha dovuto confrontarsi con due pericoli: la vittoria e la sconfitta del regime siriano. Una vittoria, soprattutto con il sostegno dell’Iran, avrebbe ancorato il regime ancora più saldamente nell’orbita di Teheran. Una sconfitta sarebbe stata un duro colpo a quello che è stato definito “l’asse della resistenza” – ma la vittoria di Israele sarebbe stata una vittoria di Pirro, se i gruppi islamici radicali, inclusi i jihadisti, si fossero impadroniti della Siria. Questa minaccia sembrava particolarmente grande in un momento in cui la Fratellanza Musulmana governava l’Egitto e “la primavera araba” era ancora conosciuta come tale, una sfida a governanti di altri Stati come la Giordania, vicino e partner di Israele.

Senza una sola buona opzione strategica, il comando nord dell’esercito israeliano ha modellato la risposta iniziale del Paese, cercando di prevenire, per quanto possibile, l’erosione della sua posizione. Israele ha annunciato una serie di “linee rosse” progettate per garantirne la sicurezza del fronte interno e rafforzare la stabilità degli Stati adiacenti. Anche se le sue “linee rosse” a volte si sono sovrapposte agli interessi di un altro stakeholder, Israele considerava neutrale la sua posizione; attori esterni, tuttavia, consideravano Israele come già schierato.

All’inizio vi erano tre “linee rosse”, con una quarta aggiunta poco dopo. Le prime due riguardavano Hezbollah. Israele ha chiarito che avrebbe impedito alle milizie sciite di portare in Libano delle armi che avrebbero cambiato lo status quo, la cui definizione è cambiata nel tempo, e la costruzione e l’acquisizione del controllo di infrastrutture offensive attraverso la linea di armistizio nel sud-ovest della Siria, compresi i bunker dell’esercito siriano e le basi direttamente sotto il controllo dell’opposizione. La terza linea riguardava i consiglieri della guardie rivoluzionarie iraniane, le milizie sostenute dall’Iran o da chiunque altro.

Dopo la guerra tra Israele e Libano del 2006, lo Stato ebraico e Hezbollah si prepararono per il prossimo round, raggiungendo un equilibrio relativamente stabile basato sulla reciproca deterrenza. Hezbollah ha introdotto delle armi iraniane in Libano attraverso la Siria; lo Stato ebraico ha interrotto il trasporto a intermittenza per timore di provocare un’escalation. Israele tendeva a colpire quando le armi erano considerate significative (missili a lungo raggio e di alta precisione) e in condizioni strategiche ideali. Quando gli Hezbollah sono divenuti parte attiva nella guerra in Siria, tuttavia, Israele ha iniziato a colpire in modo più aggressivo per impedire alla milizia sciita di utilizzare la guerra per mascherare l’acquisizione di armi capaci di modificare lo status quo.

In secondo luogo, Israele aveva dichiarato la sua intenzione di bloccare la creazione di un’infrastruttura offensiva a est del Golan occupato, da parte sia dei combattenti Hezbollah che degli alleati iraniani o di forze collegate ad al-Qaeda o allo Stato islamico (ISIS). Israele temeva che l’Iran e i suoi partner si trincerassero in adiacenza alla linea di armistizio, consentendo l’apertura di un nuovo fronte- in cui i civili libanesi (in particolare i sodali di Hezbollah) sarebbero stati fuori dalla linea del fuoco; Israele avrebbe avuto giustificazioni insufficienti, dal punto di vista del diritto internazionale, per attaccarli, per questo gli ufficiali dell’esercito temevano di rispondere prontamente in Libano. Un ufficiale israeliano ha indicato negli attacchi del gennaio del 2015 (durante i quali un importante personaggio di Hezbollah, Jihad Mughniyeh insieme a molti altri membri dell’organizzazione e un ufficiale iraniano furono uccisi) e in quelli del dicembre del 2015 (quando fu ucciso Samir Quntar, ex detenuto rilasciato nel 2008, divenuto una figura di spicco nell’organizzazione) i casi più salienti per far rispettare la linea rossa. Questi attacchi erano solamente due delle venti azioni di risposta di Israele agli attacchi di Hezbollah dopo lo spiegamento di questa organizzazione in Siria. Dopo l’intervento militare della Russia nel settembre del 2015, gli ufficiali israeliani credevano importante la creazione di una zona cuscinetto- libera da qualsiasi nemico, compreso l’esercito di Assad, che hanno considerato come un’estensione di Teheran- di circa 20 km: dopo il dispiegamento della Russia, e quando l’Iran e i suoi alleati hanno preso in mano la conduzione del conflitto, gli ufficiali israeliani hanno iniziato a chiedere una zona cuscinetto di 60 km, e anche se a malincuore, venivano a patti con una presenza militare siriana all’interno di quella zona.

La terza linea rossa di Israele era il fuoco nemico verso il territorio nazionale: Israele, se minacciato, avrebbe risposto, indipendentemente dal responsabile o dall’intenzione. Fino al settembre del 2016, la politica di Israele era quella di reagire contro il regime nel caso che vi fossero stati degli attacchi diretti contro la sua sovranità nazionale. Ma quando i ribelli, sotto pressione, hanno iniziato a sparare contro Israele per provocare una risposta, Israele ha iniziato a rispondere con le armi.

La quarta line rossa non fu mai annunciata come tale. A metà del 2015, quando una coalizione di ribelli siriani si mosse verso Sweida e Jabal Druze sul confine sud-occidentale con la Giordania, e Jabhat al-Nusra, poi affiliata siriana di al-Qaeda, si spostò verso nord da Quneitra, Israele ha messo in guardia i ribelli siriani dall’attaccare la popolazione drusa della zona, in particolare nel villaggio di Hader, vicino alla linea di armistizio. Il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu annunciò di aver incaricato l’esercito di prendere tutte le misure necessarie per proteggere i residenti del villaggio. Questa linea rossa di fatto non ha mai raggiunto lo stesso grado di prominenza delle altre perché il rischio di ritorsioni sulla popolazione drusa del villaggio svanì rapidamente, emergendo nuovamente soltanto nel novembre del 2017. La leadership politica di Israele si è sentita costretta ad impegnarsi in questa azione data la forte pressione della propria popolazione drusa, che presta servizio nell’esercito israeliano ed è legata alla popolazione ebraica di Israele da quello che chiamano un “patto di sangue”; per questo, molti drusi israeliani ne rivendicano l’estensione anche alla difesa dei loro parenti in Siria.

Israele ha usato anche il soft power per proteggere il suo confine. Dal 2013 ha fornito aiuti- cibo, vestiti, coperte, assistenza medica per adulti e bambini- per i residenti della stretta fascia di territorio all’interno della Siria, a est del Golan occupato da Israele. Il territorio siriano che confina con la linea di armistizio è controllata da diversi gruppi e alleanze:Jaysh Khalid bin al-Walid (formerly Katibat Shuhada al-Yarmouk, the Yarmouk Jaysh Khalid bin al-Walid (precedentemente Katibat Shuhada al-Yarmouk,Martyrs’ Brigade), an ISIS affiliate, in the southern part of Quneitra governorate; Brigata dei martiri), un’affiliata dell’ISIS, nella parte meridionale del governatorato di Quneitra;Jabhat al-Nusra (now part of Hei’at Tahrir al-Sham and formerly al-Qaeda’s Syrian Jabhat al-Nusra (ora parte di Hei’at Tahrir al-Sham e precedentemente affiliato siriano di al-Qaeda)affiliate) and other opposition forces, along the central stretch of the armistice line e altre forze di opposizione, lungo il tratto centrale della linea di armistizio(including the town of Quneitra); (compresa la città di Quneitra); il regime e gli Hezbollah.

Israele ha focalizzato la fornitura di aiuti nelle vicinanze di Quneitra per minimizzare i benefici per Jaysh Khalid e Hezbollah. Alcuni nativi rimangono in questa zona centrale, oltre a centinaia di migliaia di sfollati interni, in particolare da Daraa e Damasco, arrivati in numero particolarmente elevato nel 2014 (e più recentemente a fine giugno del 2017) quando i combattimenti si intensificarono a Daraa. Migliaia di sfollati si sono trasferiti nei campi adiacenti alla linea del cessate il fuoco siro-israeliana, per lo più all’interno della zona cuscinetto, ritenendo che l’ONU e la vicinanza di Israele avrebbero garantito un minimo di protezione.

Israele ha inviato aiuti umanitari, compreso un ospedale da campo, ai profughi. Alcuni aiuti (ad esempio farina per i panifici e materiale scolastico) hanno sostenuto delle comunità, dissuadendo i combattenti dallo sparare contro lo Stato ebraico e migliorando l’opinione pubblica locale nei confronti di Israele. Gli ufficiali israeliano hanno sempre negato con veemenza che lo Stato ebraico avesse fornito aiuto a gruppi jihadisti come l’ISIS e al-Qaeda.

Israele ha adottato una posizione più assertiva alla fine del 2012, quando gli Hezbollah si sono schierati in Siria, e in particolare dal maggio del 2013, dopo che il gruppo sciita aveva vinto una battaglia chiave a al-Qusayr, un villaggio vicino al confine libanese che è strategicamente posizionato accanto all’autostrada che unisce Damasco a Homs e alla costa siriana. L’entrata di Hezbollah nel conflitto ha esteso la decennale battaglia di Israele contro il gruppo nel territorio siriano ed ha comportato l’interconnessione di tre conflitti finora separati: tra Israele e Siria, tra Israele e Hezbollah, e tra le varie parti coinvolte nella guerra civile siriana.

In Siria, combattendo per l’esistenza del regime, Hezbollah ha avuto un accesso più facile alle armi, compresi missili di maggior portata, potenza e precisione. Di conseguenza, è migliorato il suo arsenale al punto che il concetto di Israele su ciò che costituisce “un cambio di gioco”, le armi- del tipo che Israele ha tentato di bloccare- è cambiato. Israele ha rinunciato, in gran parte, a interdire i missili a lungo raggio, detenuti in gran numero da Hezbollah, e si è impegnato a impedire l’acquisizione di armi di precisione da parte del gruppo, che consentirebbero a Hezbollah di attaccare i siti più sensibili di Israele, come il centro di Tel Aviv, l’aeroporto Ben Gurion e gli impianti di estrazione e produzione del gas. Gli ufficiali israeliani sono convinti che la prossima guerra con Hezbollah esigerà un pesante tributo sul fronte interno, per questa ragione Israele difende con vigore la sua nuova “linea rossa”. Dall’incursione del 30 gennaio del 2013, la prima volta in cinque anni che l’aviazione israeliana ha effettuato un attacco in Siria, lo Stato ebraico ha lanciato quasi 100 attacchi aerei.

Lo spiegamento di Hezbollah in Siria ha anche creato la possibilità che ad un certo punto le sue forze si spostassero a sud. Quando queste forze hanno fatto proprio questo in coordinamento con il regime nel febbraio-marzo del 2015, sei mesi prima dell’intervento militare della Russia, Israele ha deciso di impedire ad Hezbollah e alle altre milizie filo-siriane di conquistare del territorio nelle vicinanze della linea di armistizio Israele-Siria, per il timore che scavassero dei bunker o erigessero delle batterie missilistiche. Il piano dello Stato ebraico, nel caso che la campagna del regime siriano avesse avuto successo, era quello di creare una no-fly zone o una zona cuscinetto di 20 km all’interno della Siria. Un ufficiale israeliano ha spiegato che il non attuare una simile operazione avrebbe danneggiato gravemente la posizione strategica di Israele, conducendolo in una guerra non voluta. Ma quando i ribelli hanno contrattaccato e spinto verso nord nell’aprile del 2015, i piani che Israele aveva progettato non erano più necessari.

I ribelli siriani hanno conquistato quasi tutto il governatorato di Idlib nella prima metà del 2015 e minacciavano di avanzare verso Lattakia e verso sud attraverso la pianura di Ghab per collegarsi con le aree dei ribelli della campagna di Hama e Homs. Giudicata la situazione critica, il regime siriano e il suo alleato iraniano hanno cercato e ricevuto aiuti militari da Mosca a luglio. Per facilitare il suo dispiegamento, la Russia ha costruito una base aerea a Hmeimin, a sud-est di Lattakia, sul Mediterraneo. Le forze russe includevano carri armati T-90, artiglieria, navi da guerra, consiglieri militari e forze speciali. Il mese successivo, Mosca ha iniziato a spostare le forze verso Lattakia ed ha istituito una sala operativa congiunta con Iran, Iraq e Siria, a cui si sarebbe presto unito Hezbollah, con l’obiettivo apparente di combattere l’ISIS. Il 30 settembre, la Camera Alta della Duma, il parlamento russo, ha autorizzato le operazioni militari in Siria; i primi attacchi aerei si sono verificati poche ore dopo il voto.

Il Primo Ministro Benjamin Netanyahu è volato a Mosca il 21 settembre, alcuni giorni prima dell’intervento russo, per stabilire un coordinamento israelo-russo e, successivamente, un meccanismo di accordo per prevenire gli incidenti. Questo meccanismo comprendeva una hot line tra il quartiere generale delle Forze di Difesa di Israele a Tel Aviv e la base aerea russa di Hmeimim, una diretta comunicazione tra i vice capi dello staff russo e israeliano e consultazioni regolari ai più alti livelli dei rispettivi apparati di difesa. La hot line ha dimostrato la sua importanza quasi immediatamente, infatti, a fine novembre del 2015, Israele ha evitato di sparare ad un aereo russo che sorvolava il Golan.

L’intervento della Russia ha spostato presto la guerra a favore di Assad, fermando il movimento dei ribelli. Alla fine del 2016, divenne sempre più chiaro che il regime siriano non sarebbe stato sconfitto e che, al contrario, avrebbe continuato a cercare di riprendersi il controllo di tutta la Siria. Il successo dell’intervento russo ha deluso le aspettative degli ufficiali israeliani (aspettative già deboli durante il mandato dell’amministrazione Obama) che gli Stati Uniti avrebbero appoggiato maggiormente i ribelli per controbilanciare il sostegno russo al regime.

Oltre che cambiare il corso della guerra, l’intervento russo ha introdotto quattro dilemmi strategici per Israele e ne ha limitato le opzioni per affrontarli: 1). Ha permesso ad Hezbollah e all’Iran, i nemici più potenti di Israele, di espandere le loro aree di operazione e avanzare fino alla linea di armistizio. Era stata la Russia a permettere la riconquista del sud della Siria da parte del regime di Assad, ma il risultato era il medesimo: Hezbollah e le forze iraniane avrebbero raggiunto le Alture del Golan e vi avrebbero costruito delle infrastrutture offensive. 2). Ha limitato la libertà di manovra militare di Israele. Dopo che la Turchia, nel novembre del 2015, aveva abbattuto un aereo militare russo accusato di aver violato il suo spazio aereo, la Russia ha schierato i sistemi di difesa aerea S-300 e S-400 in Siria. Israele può contrastare il primo; il secondo, gestito solo da personale russo, rappresenta una sfida maggiore. La Russia ha aumentato le sue capacità di operare nel Paese, suggerendo l’esistenza di piani per una presenza più estesa che la farebbe divenire parte dello scenario militare regionale anche nel futuro, non adempiendo alle occasionali professioni di ritiro immediato. 3). Ha sollevato la possibilità che anche la campagna del regime per riconquistare la parte est del Paese sostenuta dalla Russia aprirebbe un ponte terrestre dall’Iran al Mediterraneo. Sebbene non tutti gli analisti siano concordi, Israele ne vede l’importanza strategica; un simile corridoio potrebbe facilitare il trasferimento delle armi e delle milizie sciite e permetterebbe all’Iran di stabilire una presenza attraverso una vasta area, con le potenzialità per minacciare direttamente Israele. Tale corridoio fornirebbe a Teheran un’alternativa economica alla costosa spedizione via aerea, inoltre, renderebbe difficile per Israele rilevare e intercettare i convogli di armi. La Russia non è sembrata particolarmente preoccupata per questo aspetto e non ha offerto ad Israele alcun aiuto per prevenirlo.

Con forti probabilità che il regime e i suoi alleati riprendessero il controllo del territorio a sud, Israele ha cercato di rafforzare le milizie anti-regime e di estendere la sua influenza sulla popolazione oltre la linea di armistizio. Come affermava un importante analista israeliano, lo Stato ebraico desiderava avere un certo sostegno tra i residenti della Siria meridionale per evitare un’aggressione da parte dei ribelli e legittimava, allo stesso tempo, il ruolo dei ribelli siriani come garanti del confine con Israele. Nel maggio del 2016, Israele ha ufficialmente aggiornato i suoi piani e l’esercito ha stabilito un’unità di collegamento con la Siria per migliorare l’erogazione di aiuti umanitari nel quadro più generale della sua politica di “buon vicinato”. Nel 2017, l’esercito ha costruito una nuova clinica, ad ovest della zona cuscinetto delle Nazioni Unite, che ha consentito a migliaia di persone di ricevere cure mediche ogni settimana senza attraversare la barriera israeliana all’estremità occidentale della zona demilitarizzata.

Nonostante questi investimenti, il soft power non è stato in grado di compensare l’indebolimento della posizione strategica di Israele. I più grandi nemici di Israele erano meglio armati e addestrati rispetto a prima, e in teoria godevano della protezione degli aerei russi. L’Iran stava operando in prossimità di Israele. Un ufficiale del Ministero degli Esteri israeliano aveva affermato preoccupato che la Siria stava per diventare un protettorato russo-iraniano.

fine prima parte
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Re: Ebrei e no' pì ebrei ke łi odia łi ebrei e Ixrael

Messaggioda Berto » mer mag 30, 2018 6:59 pm

Seconda parte

Questi sviluppi hanno costretto Israele ad aggiornare la sua politica delle “linee rosse”. Ha continuato a bloccare il trasferimento di armi tecnologicamente avanzate ad Hezbollah, finora con la tacita approvazione della Russia. Gli ufficiali israeliani credono che nel complesso Israele sia riuscito a frustrare i tentativi di Hezbollah di contrabbandare armi di precisione in Libano, il che potrebbe spiegare perché il movimento ha cercato di creare una propria produzione di armi nel suo Paese d’origine. Secondo i militari israeliani, gli Hezbollah hanno fermato momentaneamente questi tentativi alla luce delle minacce di Israele. Israele non è più disposto a tollerare l’avanzata di Hezbollah e l’installazione di razzi avanzati a lungo raggio sulle montagne di Qalamoun, a circa 50 km da Damasco. Le installazioni su queste montagne consentirebbero a Hezbollah di minacciare Israele, avendo meno preoccupazioni per le rappresaglie dirette dello Stato ebraico.

Gerusalemme ha espresso il suo disappunto per la posizione della Russia nei confronti della presenza dell’Iran in Siria. La vittoria del regime nella zona est di Aleppo ha reso chiaro che Assad sarebbe rimasto al potere, inoltre, i negoziati di Astana nel maggio del 2017 hanno prodotto un memorandum iraniano-russo-turco sulle zone di de-escalation, incluso il sud-ovest. Dal punto di vista di Netanyahu, l’accordo presentava gravi carenze, in particolare per il fatto che legittimava il coinvolgimento militare dell’Iran e della Turchia in Siria (formalmente rendendoli garanti della de-escalation e, potenzialmente, dandogli un ruolo nel conflitto contro i gruppi jihadisti), e restava in silenzio su Hezbollah e le forze collegate all’Iran, consentendogli effettivamente di mantenere una certa presenza nel sud-ovest.

Israele ha quindi aggiornato le sue “linee rosse”, segnalando che avrebbe agito tempestivamente per impedire all’Iran di stabilire una presenza militare permanente in Siria. Queste “linee rosse” riguardanti l’Iran, che non sono mai cambiate ma sono divenute più dettagliate nel corso del tempo, includono:1). Nessun porto marittimo iraniano – termine usato in Israele per riferirsi alla necessità che non vi siano basi iraniane per le attività marittime nel Mediterraneo, il che consentirebbe ai sottomarini iraniani di minacciare la costa israeliana e gli impianti di perforazione del gas, considerati di importanza strategica. 2). Nessuna base militare iraniana permanente e nessuna presenza permanente di milizie sciite addestrate e comandate dall’Iran. Guardando oltre la fase attuale del conflitto, Israele non vuole che la Siria diventi una sorta di esercito iraniano stanziale, un “nodo” della strategia di “difesa avanzata” dell’Iran. Le migliaia di miliziani sciiti siriani stanziati stabilmente in Siria sotto il comando dei Guardiani della Rivoluzione iraniani potrebbero emergere come una potente forza combattente simile a Hezbollah. L’establishment militare israeliano riconosce che i combattenti rimasti sotto il controllo e la protezione iraniani potrebbero complicare le operazioni di Israele in caso di conflitto. Israele ha effettuato almeno due attacchi aerei in Siria su una base militare iraniana in costruzione per dimostrare la sua risolutezza. 3). Nessun aeroporto iraniano, per garantire il monitoraggio delle forniture aeree di armi, milizie e truppe in Siria. L’Iran già sbarca aeroplani commerciali nella base aerea di Mezzeh vicino a Damasco; l’intelligence israeliana ha già evidenziato la facilità con cui sarebbe possibile colpire il territorio dello Stato ebraico da quella base. Israele vuole evitare la costruzione di un aeroporto iraniano, o l’accesso dell’Iran a qualsiasi aeroporto da cui avrebbe mano libera, particolarmente nelle zone più lontane della Siria, dove sarebbe più difficile per l’intelligence capire i movimenti del nemico e da cui sarebbero possibili bombardamenti più lunghi. 4). Nessuna fabbrica di missili ad alta precisione. Questa restrizione vale sia per il Libano sia per la Siria. Israele crede che dopo che Hezbollah ha congelato il suo tentativo di costruire tali armamenti in Libano, abbia continuato a perseguire la costruzione di tali armi in Siria.

Mosca ritiene che queste “linee rosse” si estendano oltre le legittime esigenze di sicurezza di Israele, e ha respinto le istanze che coinvolgono l’Iran. La Russia tende a considerare gli Hezbollah in una luce positiva, generalmente ritiene gli interessi politici ed economici iraniani in Siria legittimi, così come rispetta i processi decisionali della Siria in quanto Stato sovrano.

Anche se Mosca fosse maggiormente ben disposta verso le posizioni di Israele, potrebbe non avere la capacità di costringere il partner iraniano ad accondiscendere a tutte le richieste dello Stato ebraico. Anche quando i suoi interessi divergono da quelli di Damasco e Teheran, sembra difficile per Mosca ottenere da loro delle concessioni. In particolare, la Russia potrebbe beneficiare della presenza di alcune milizie supportate dall’Iran; un loro precipitoso ritiro, dato l’indebolimento delle forze siriane, potrebbe rendere il regime ancora più precario, aggiungendo nuovi oneri alla Russia.

Il sud-ovest della Siria presenta una sfida unica, data la vicinanza del territorio al Golan occupato da Israele. Nel luglio del 2017, gli Stati Uniti, la Russia e la Giordania, dopo lunghi colloqui, hanno negoziato il cessate il fuoco nel sud-ovest della Siria tra l’esercito iraniano e le forze di opposizione, che prevede anche la gestione congiunta di un centro di monitoraggio ad Amman. Nel novembre del 2017, gli stessi Paesi hanno deciso di delineare con precisione i territori in questione, stabilendo una zona di de-escalation controllata dall’opposizione e circondata da una striscia di terra di 5 km controllata dall’esercito e con il libero accesso della polizia militare russa, in cui l’ingresso di “forze straniere o combattenti stranieri” fosse proibito. L’accordo tripartitico ha consentito di continuare i combattimenti contro l’ISIS.

Mentre il Primo Ministro Netanyahu ha stroncato in pubblico l’accordo, principalmente perché era stabilita una zona di cuscinetto troppo limitata a sud-ovest ed erano ignorati gli sforzi dell’Iran per stabilire una presenza militare permanente in Siria, gli Stati Uniti e la Russia avevano una posizione diversa: la posizione di Israele era stata considerata nell’accordo, nonché la sua sicurezza, e l’opposizione del Primo Ministro era solo a favore dell’opinione pubblica, probabilmente per richiedere un trattamento ancora migliore e mantenere la libertà d’azione contro una presenza iraniana nel sud-ovest oltre la zona di cessate il fuoco.

Non è sempre chiaro a cosa si riferisce il testo dell’accordo, perché si menzionano genericamente le forze “straniere” invece che specificare l’Iran, Hezbollah o le milizie sciite. Il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov ha dichiarato che l’accordo si riferiva a tutte le milizie straniere, quindi includendo anche Hezbollah, ma non l’Iran, Stato che opera legalmente in Siria su richiesta del Governo legittimo siriano secondo la Russia. Lavrov ha anche accusato gli Stati Uniti di sostenere le forze straniere più pericolose- un’allusione ai jihadisti che combattono dalla parte dei ribelli siriani appoggiati dagli Stati uniti- e ha suggerito che la partenza delle forze non siriane dovrebbe avvenire in contemporanea.

Non è chiaro cosa accadrà nella valle di Yarmouk e nell’enclave di Beit Jinn. All’inizio di gennaio del 2018, dopo mesi di intensi combattimenti, l’opposizione nell’enclave di Beit Jinn si è arresa al regime, che adesso controlla una zona triangolare all’intersezione dei confini siriani, libanesi e israeliani. Questa evoluzione significa che combattenti stranieri (incluso l’Iran), secondo i termini dell’accordo di luglio, possono ora essere stanziati a 5 km dalla recinzione di Israele. Lo Stato ebraico teme che Hezbollah capitalizzerà questo passaggio per installare un’infrastruttura offensiva sulle Alture del Golan. Più a sud, secondo alcuni resoconti, gli Stati Uniti e la Giordania hanno concordato di spingere i ribelli ad attaccare i jihadisti nella regione di Yarmouk in cambio dell’accordo con la Russia per escludere Hezbollah dalla zona; non è chiaro se gli Stati Uniti intendano farlo anche nella prospettiva di interrompere il loro supporto ai ribelli. Come per le altre “linee rosse” di Israele, la questione pratica riguarda meno ciò che Israele pensa dell’accordo e più la capacità e la volontà della Russia di attuarlo. L’ambiguità dell’accordo e la fine delle ostilità in altre parti del Paese lasciano libero il regime siriano e i suoi alleati di focalizzarsi nuovamente, prima o poi, sull’area sud-ovest.

I vertici politici di Israele si sono dimostrati soddisfatti da ciò che hanno sentito sull’Iran da parte dell’amministrazione del Presidente Donald Trump. L’aspra retorica dell’amministrazione suggeriva che gli Stati Uniti pianificavano di frenare quella che consideravano l’aggressiva espansione regionale dell’Iran. Israele, che da tempo chiedeva una linea più dura da parte di Washington verso Teheran e i suoi alleati in Medio Oriente, ha applaudito questi toni più duri. Lo Stato ebraico ha incoraggiato già nell’aprile del 2017 un bombardamento aereo americano in Siria dopo l’attacco chimico del regime a Khan Sheikhoun; l’offensiva degli Stati Uniti contro le forze del regime vicino a al-Tanf il 18 maggio del 2017; il rifiuto di avallare l’accordo sul nucleare iraniano; nuove sanzioni contro Hezbollah; la denuncia dei ribelli Huthi nello Yemen; la determinazione, in coordinamento con l’Arabia Saudita, a ripristinare una deterrenza nei confronti dell’Iran. Dalla visita di Trump nel maggio del 2017 a Riyadh, la prospettiva di un’alleanza israeliana, sostenuta dagli Stati Uniti, con gli Stati arabi nemici dell’Iran è apparsa più realistica.

Israele, tuttavia, ha rapidamente temperato le sue grandi aspettative nei confronti dell’intervento della Casa Bianca in Siria. Quando Trump proclamò, nel suo annuncio al popolo iraniano, che la sua amministrazione avrebbe lavorato con gli alleati per contrastare l’azione destabilizzante del regime iraniano e il supporto ai gruppi terroristici nella regione, Israele sperava che la Siria fosse tra i primi posti in cui la nuova amministrazione americana avrebbe agito con forza. Non era così. Durante il primo anno dell’amministrazione Trump, gli Stati Uniti hanno ponderato attentamente i propri interessi prima di affrontare l’Iran in Siria. Washinton ha mostrato una scarsa inclinazione a sfidare le forze allineate all’Iran ad ovest dell’Eufrate, deludendo profondamente Israele. Anche i recenti attacchi aerei, dopo i presunti attacchi chimici del regime a Douma, non stravolgono la linea politica statunitense che non presuppone un impegno diretto contro l’Iran, e meno ancora contro la Russia, avvertita in anticipo delle operazioni militari occidentali; è importante notare che Mosca non ha risposto agli attacchi anglo-franco-statunitensi, infatti, la Russia non prevede l’uscita di scena di Bashar al-Assad ma nemmeno la sua centralità, per questo i rapporti tra il Presidente siriano e Vladimir Putin sono meno idilliaci di quanto la propaganda siriana faccia credere.

Israele si trova in una situazione difficile dato che la Russia sembra destinata a rimanere in Siria per un tempo abbastanza lungo, un partner abbastanza fedele, anche se provvisorio, del regime, di Hezbollah e dell’Iran. Mosca ha cercato di bilanciare le sue preoccupazioni con quelle dello Stato ebraico e trovare un modus vivendi tra le due parti. La Russia ha chiuso un occhio praticamente su tutti i 100 attacchi aerei israeliani degli ultimi cinque anni. Ma Israele nutre poche speranze che la Russia possa essere spinta ad andare oltre nei confronti dell’Iran.

Il calcolo politico di Israele si basa sulla corretta calibrazione dei bersagli, sulla deterrenza dei suoi nemici e sull’accurata lettura delle azioni di Hezbollah e dei suoi sostenitori, anche se questo potrebbe rivelarsi rischioso: il conflitto siriano è divenuto così complesso che qualsiasi scontro potrebbe intensificarsi rapidamente, negando ad Israele la possibilità di una guerra limitata.

Ulteriori complicazioni di questi calcoli strategici sono rappresentate dai rapidi sviluppi regionali e globali, che hanno ribaltato le regole convenzionali del gioco che avevano mantenuto più o meno la pace fino al 2006.

Recentemente, lo Stato ebraico ha ammesso il bombardamento della base T-4 nella Siria centrale, ad est di Homs, aprendo così una nuova fase nel complesso conflitto siriano.

Un alto funzionario militare israeliano ha confermato il raid aereo al quotidiano statunitense “The New York Times”. Secondo quanto riferito da questa fonte al giornalista del “New York Times”, Thomas Friedman, “era la prima volta che attaccavamo obiettivi iraniani, comprese strutture militari e soldati”. Ha anche evidenziato come il raid sulla base aerea T-4 vicino a Palmira, nel centro della Siria, fosse avvenuto dopo che l’Iran aveva lanciato a febbraio un drone carico di esplosivi nello spazio aereo israeliano. L’attacco ha preso di mira l’intero programma di droni iraniano presente nella base. I media di Teheran avevano riferito di almeno 7 vittime tra i soldati iraniani, su un totale di 14 morti provocati dal raid. L’incidente del drone è stato “la prima volta che abbiamo visto l’Iran fare qualcosa contro Israele e non per delega”, ha detto il funzionario, secondo cui quell’attacco ha aperto una nuova fase nell’opposizione tra Israele e Iran.

In via ufficiale il Governo israeliano non ha commentato la rivelazione del quotidiano americano ma fuori dall’ufficialità, e con la garanzia dell’anonimato, fonti di Gerusalemme vicine al primo ministro Benjamin Netanyahu hanno ribadito che “Israele ha fatto più volte presente, sia in vertici istituzionali che nelle relazioni fra servizi di intelligence – che i Guardiani della Rivoluzione iraniani erano stati incorporati nella catena di comando militare siriana ai livelli più alti, e che l’Iran stava rafforzando la propria presenza militare in Siria. Questa è per Israele una minaccia diretta alla propria sicurezza, e quando questa è la posta in gioco, nessuno può impedire di esercitare il nostro diritto di difesa”. Amos Yadlin, in precedenza capo dell’intelligence militare e attualmente direttore dell’Institute for National Security Studies all’Università di Tel Aviv, ha sollecitato un intervento “ufficiale”, soprattutto dopo l’attacco chimico a Douma. Yadlin non usa solo argomentazioni militari, ma tocca argomenti molto sensibili per l’opinione pubblica ebraica: “è importante che Israele espliciti la sua posizione morale, a pochi giorni dal momento in cui commemoriamo la Shoah, e colpisca un assassino che non esita a usare armi di distruzione di massa contro la sua gente. In questo caso gli interessi strategici coincidono con un obbligo etico”.

La rapida evoluzione degli eventi, che ha provocato una risposta immediata da parte israeliana, potrebbe condurre Israele verso un maggiore coinvolgimento nella crisi siriana e allo stesso tempo ampliare lo scenario di crisi, con conseguenze ad oggi imprevedibili per i futuri assetti geopolitici del Medio Oriente.
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Re: Ebrei e no' pì ebrei ke łi odia łi ebrei e Ixrael

Messaggioda Berto » dom lug 08, 2018 8:47 pm

Gad c’è. Amen
8 luglio 2018
Gerardo Verolino

http://www.italiaisraeletoday.it/gad-ce-amen

Se si tratta di indossare la casacca rossa, incurante del Rolex d’oro al polso, “per contrastare l’emorragia di umanità”, Gad c’è. Se si tratta di firmare l’appello per imporre lo stop all’acquisto degli F35, Gad c’è. Se si tratta di firmare l’appello contro “la svolta autoritaria di Berlusconi” Gad c’è. Se si tratta di firmare l’appello di “Micromega” per chiedere la “revoca dei servizi sociali utilizzati da Berlusconi” e spedirlo direttamente in galera, Gad c’è. Se si tratta di firmare un appello per la liberazione dal carcere di Adriano Sofri, con annesso “digiuno contro l’oblio”, Gad c’è.

Se si tratta di firmare una lettera-appello ai parlamentari per chiedere l’approvazione del ddl Cirinnà sulle unioni civili, Gad c’è. Se si tratta di firmare l’appello per un “Patto Generazionale” per cui ognuno dei firmatari assicura che dopo i 60 anni si dimetterà da ogni eventuale incarico istituzionale, Gad c’è. Se si tratta di firmare un appello per avere una maggiore presenza di Bibbia nella scuola italiana, Gad c’è.

Se si tratta di firmare un appello per richiedere le primarie di colazione ai partiti del centrosinistra, Gad c’è. Se si tratta di firmare un appello per dire “Ora basta! La rivolta delle donne contro il Cavaliere”, Gad c’è. Se si tratta di salvare la foca monaca, il cavalluccio a dondolo, le mezze stagioni, l’Amaro Ramazzotti, il Subbuteo, la fedeltà coniugale, l’Anticiclone delle Azzorre, l’ovetto Kinder, le gambe delle Kessler, la polvere d’Idrolitina, gli spaghetti alla carbonara e la penna d’alpino, Gad c’è.

È lui il “polso d’oro”, non soltanto per il Rolex che tiene in bella mostra, della firma italiana, a prova di slogature. Se avete un appello valido, Gad Lerner, statene certi, lo firmerà.

Quante firme per un Gad solo. Ci sarebbe da riempire un libro intero su “Tutti gli appelli che Gad Lerner ha firmato in vita sua”. Da distribuire in comode dispense settimanali magari col “Fatto Quotidiano”.

Ma nelle uscite periodiche un capitolo a parte lo meriterebbe la smania firmaiola di Gad contro il suo Paese d’origine, Israele. Se si tratta di sottoscrivere il recente appello promosso dal settimanale Espresso sul “Massacro di Gaza”, a dire dei firmatari, causato da Israele, perché “non possiamo tacere di fronte all’uso sproporzionato della forza da parte di Israele”, Gad c’è.

E sempre, preoccupato, in un altro appello pubblico, perché “lo Stato d’Israele” possa diventare da Paese democratico in “una società governata da un principio di apartheid (una minoranza che detta legge alla maggioranza)”, Gad, insieme ad altri cinquemila, c’è. Oppure se si tratta di firmare un appello per “la protezione internazionale del popolo palestinese” perché “noi cittadini di Israele”consideriamo “gli insediamenti ebraici nei territori occupati da Israele nel 1967 un atto continuato di aggressione nei confronti dei cittadini palestinesi”, Gad c’è. Se si tratta di firmare, e siamo nel 2016, per il “Salva Israele, ferma l’occupazione”, lui c’è.

“Se amate Israele-dice Gad-il silenzio non è più un’opzione possibile”. (Sic). Aggiungendo che “la situazione è disastrosa” perché “il protrarsi dell’occupazione israeliana opprime i palestinesi e alimenta un ciclo interrotto di spargimento di sangue” inoltre “corrompe le fondamenta morali e democratiche dello Stato d’Israele”. Diamine, ogni volta che si tratta di criticare il suo Paese la mano firmatrice di Gad parte, di scatto, in automatico e comincia a muoversi per un moto irrefrenabile . A questo punto è necessario un nuovo appello pubblico sullo strano “vizio” di Lerner: firma anche tu perché delle firme di Gad non ne puoi più.
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