Palestina: Le ragioni di Israele

Palestina: Le ragioni di Israele

Messaggioda Berto » mar lug 03, 2018 5:53 pm

L’Occidente cederà le alture del Golan a uno psicopatico?
Moshe Ya’alon e Yair Lapid
2 luglio 2018
Traduzione in italiano di Angelita La Spada
http://www.linformale.eu/loccidente-ced ... yair-lapid

Viviamo in un mondo pieno di complicati dilemma diplomatici, ma per una volta eccone uno semplice: prendereste una regione che sta prosperando in uno stato democratico, dove vivono in armonia cinquantamila persone di etnie e religioni diverse, e la cedereste a una violenta dittatura retta dal peggiore genocida del nostro tempo in modo che possa distruggere questa regione e uccidere la maggior parte degli abitanti?
Se la vostra risposta è “no”, ciò denoterebbe un riconoscimento della sovranità israeliana sulle alture del Golan.
Nel 1981, Israele applicò formalmente le sue leggi alle alture del Golan. I siriani ne pretendevano la restituzione. La maggior parte dei paesi, tra cui gli Stati Uniti, evitarono di assumere una posizione chiara. Riteniamo che sia giunto il momento di prendere una decisione.
Le alture del Golan sono una vicenda singolare nel conflitto arabo-israeliano. Sono una regione montuosa dell’estensione di 695 miglia quadrate [1800 kmq] (circa quanto un ranch texano di dimensioni medie), nel nord di Israele. C’è da dire che ovviamente tale vicenda non è collegata al conflitto di Israele con i palestinesi. Nessun palestinese vive in questa regione.
Storicamente, il Golan è conosciuto come la terra biblica di Bashan, come si legge nel libro del Deuteronomio. Di recente sono stati ultimati importanti lavori di restauro di una sinagoga ebraica del IV secolo e nel corso di una campagna di scavi archeologici è stata rinvenuta una moneta del 67 d.C. recante l’iscrizione: “Per la redenzione di Gerusalemme la Santa”. È una regione con uno storico e profondo legame ebraico.
I siriani, invece, governarono sulle alture del Golan per solo 21 anni, tra il 1946 e il 1967. E in questo arco di tempo trasformarono l’area in una base militare, fecero piovere razzi sulle comunità israeliane presenti nella regione e cercarono di deviare le cruciali fonti idriche di Israele per prosciugarlo.
Nel 1967, durante la guerra dei Sei Giorni, le alture del Golan furono liberate da Israele. Nei cinquantuno anni trascorsi da allora, Israele ha sviluppato la regione trasformandola in uno straordinario luogo di riserve naturali, meta di turismo, applicando metodi di agricoltura hi-tech, producendo vini di eccellenza, sviluppando una fiorente industria tecno-alimentare e costruendo strutture alberghiere di lusso molto richieste. Ai drusi delle alture del Golan, che costituiscono quasi la metà della popolazione, sono stati garantiti gli stessi diritti di qualsiasi altro cittadino residente in Israele, come si farebbe in una vera democrazia.
Dall’altra parte del confine, la vita è andata nella direzione opposta. Negli ultimi sette anni, il presidente Assad ha massacrato più di mezzo milione di suoi cittadini e le sue azioni hanno provocato la fuga di altri undici milioni di persone. Assad ha lasciato entrare in Siria le Guardie rivoluzionarie iraniane e Hezbollah, le maggiori organizzazioni terroristiche mondiali. Ha incoraggiato le milizie sciite irachene e non solo a riversarsi in Siria. È un regime oscuro guidato da uno psicopatico sostenuto dalle forze più malvagie esistenti oggi sulla terra.
L’uomo che non ha esitato a usare armi chimiche contro donne e bambini ha continuato a chiedere la restituzione delle alture del Golan in nome del “diritto internazionale”. Il fatto che qualcuno in Occidente prenda ancora sul serio questa pretesa è pura follia, e non ingenuità. Il suo comportamento mostruoso è irrefrenabile? Stiamo al mondo senza pensare a come ci si comporta? Il fatto che le alture del Golan siano sotto la sovranità israeliana è l’unica cosa che le ha salvate dalla valle della morte siriana, che sta crollando sotto il peso della violenza e della distruzione.
La comunità internazionale, con gli Stati Uniti in testa, deve fare una cosa semplice: dire di vedere il mondo per com’è. Esortiamo dunque l’amministrazione americana, i repubblicani e i democratici, a guidare un processo internazionale volto a riconoscere la sovranità israeliana sulle alture del Golan.
È storicamente giusto, è strategicamente intelligente e permetterà agli Stati Uniti d porre un freno al suo comportamento spregevole senza dover mettere piede in Siria.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Pałestina: Le raxon de Ixrael

Messaggioda Berto » gio lug 05, 2018 12:50 am

La vittoria di Israele si rafforza
Daniel Pipes
4 luglio 2018

http://www.linformale.eu/la-vittoria-di ... niel-pipes

Cosa pensano gli israeliani dell’idea che Israele vinca e i palestinesi perdano?

Si tratta di una idea radicale, molto differente dal vantaggioso assunto cinquantenario di “terra in cambio di pace” che ha paralizzato i governi e monopolizzato la loro attenzione. Secondo questa vecchia idea, mettere insieme in una stanza palestinesi e israeliani li spingerebbe a risolvere le loro controversie. Nell’approssimarsi del 25° anniversario degli accordi di Oslo, sappiamo esattamente com’è andata: gli israeliani hanno concesso concretamente delle terre e i palestinesi li hanno ricompensati con delle false promesse di pace.

In effetti, secondo un sondaggio commissionato dal Middle East Forum e realizzato da Rafi Smith dello Smith Consulting, solo il 33 per cento degli ebrei israeliani ( e circa la metà di coloro che hanno votato per l’attuale governo) crede ancora nella formula “terra in cambio di pace” e circa la stessa percentuale esigua crede ancora nel processo di Oslo. Pertanto, i vecchi metodi non solo hanno fallito, ma sono profondamente impopolari. Da cosa sono stati rimpiazzati?

Un’alternativa potrebbe essere l’iniziativa “Vittoria di Israele” promossa dal Middle East Forum e ciò è ben evidente nel sondaggio condotto. Alla domanda: “Sei d’accordo o meno con l’affermazione secondo la quale sarà possibile raggiungere un accordo di pace con i palestinesi, quando questi ultimi riconosceranno di aver perso la loro guerra contro Israele?” Il 58 per cento si è detto d’accordo. Ciò ha tutta l’aria di una rivoluzione.

Scavando più a fondo, un’identica percentuale del 58 per cento concorda anche sul fatto che “nonostante le numerose vittorie di Israele sui palestinesi, la maggior parte di questi ultimi continua a pensare di poter eliminare lo Stato ebraico di Israele”. Un buon 65 per cento ritiene che “Nessuno dei conflitti militari con i palestinesi ha provocato una vittoria israeliana o un risultato decisivo, e quindi il conflitto israelo-palestinese persiste”. Un numero ancora maggiore, il 70 per cento, sostiene che “è necessario per l’Autorità palestinese riconoscere Israele come Stato ebraico, prima che Israele accetti di proseguire i negoziati con essa”.

E il 77 per cento è pronto, la prossima volta che Hamas attacca da Gaza o Hezbollah dal Libano, a “lasciare che l’Idf vinca”, il che significa approvare il prosieguo delle operazioni militari israeliane finché l’altra parte non riconosca di aver perso. (Questa è una politica non molto attuale dell’Idf che consiste nell’interrompere le operazioni militari non appena l’altra parte accetta il cessate il fuoco.)

Dopo un quarto di secolo di negoziati asimmetrici in cui gli israeliani hanno rinunciato a vantaggi tangibili (la “terra”) in cambio di false promesse (la “pace”), questi risultati dei sondaggi confermano la fame dei cittadini israeliani di verità e coraggio. Circa due terzi della popolazione ritiene che si possa porre la parola fine al conflitto solo abbandonando i negoziati e mostrando invece ai palestinesi che il loro caso è senza speranza.

Ma i leader israeliani hanno paura di rivendicare questa pretesa perché ogni presidente americano da Carter a Obama li ha scoraggiati dall’intraprendere misure coraggiose, insistendo sulla formula “terra in cambio di pace”, screditata ma piacevolmente neutrale. E qui entra in scena Donald Trump. Il sondaggio del Middle East Forum ha posto una domanda su di lui e il 59 per cento del campione di ebrei israeliani ha risposto che “sicuramente è il presidente americano più filo-israeliano di tutti i tempi”.

Come i lettori ben sanno, ho i miei dubbi a riguardo, ritenendo che Trump sia spinto da un progetto anti-Teheran, di cui Israele è solo una piccola parte. Ma l’iniziativa “Vittoria di Israele” offre al presidente un’opportunità ineguagliabile per dimostrare la sua credibilità sionista; se lui consentirà a Israele di conseguire la vittoria, perché lo Stato ebraico e i palestinesi devono andare avanti lasciandosi alle spalle un conflitto noioso e dannoso, avrà realizzato un cambiamento enorme e costruttivo, di cui tutte le parti finiranno per ringraziarlo profusamente.
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Re: Pałestina: Le raxon de Ixrael

Messaggioda Berto » gio lug 05, 2018 1:56 pm

Israele ammonisce la Siria sul Golan: chi entra nella zona cuscinetto sarà attaccato
05/07/2018

https://www.rightsreporter.org/israele- ... -attaccato

Quando si tratta di garantire la propria sicurezza Israele non scherza, soprattutto quando si parla del complicatissimo fronte nord. Ieri un alto funzionario della difesa israeliana attraverso la TV israeliana Channel 10 ha fatto avere ad Assad un messaggio inequivocabile: «se militari siriani o di altre formazioni armate riconducibili alla Siria o, peggio, all’Iran entreranno nella zona cuscinetto saranno considerati legittimi target».

Israele oltre ad aver fortemente potenziato il proprio schieramento con artiglieria pesante e mezzi corazzati ha schierato sul fronte nord diverse unità del Combat Intelligence Corps con il compito di monitorare e prevenire infiltrazioni nemiche nella buffer zone stabilita dagli accordi di cessate il fuoco del 1974.

«L’accordo di cessate il fuoco del 1974 con la Siria è la base per qualsiasi nostra futura azione volta a garantire la sicurezza di Israele, soprattutto dopo che le truppe siriane e i loro alleati sono tornate al confine» ha detto l’alto funzionario a Channel 10 «qualsiasi elemento armato entri nella zona cuscinetto sarà quindi attaccato» ha poi concluso il funzionario.

Proprio in queste ore funzionari e personale delle Nazioni Unite stanno riprendendo il loro posto nella zona cuscinetto dopo che nei mesi scorsi erano stati costretti ad abbandonare le loro postazioni di controllo a causa di “casuali” attacchi da parte delle diverse forze in conflitto. Il loro compito sarà anche quello di garantire assistenza alle migliaia di siriani in fuga dai combattimenti che ritengono la zona di confine tra Siria e Israele come la più sicura.



Accordo tra Israele e Siria del 74 sul punto di saltare. Tensioni sul Golan

https://breaking.rightsreporter.org/acc ... -sul-golan

L’accordo di cessate il fuoco del 1974 tra Israele e Siria rischia seriamente di saltare se è vero che i siriani hanno intenzione di entrare con loro militari e con le milizie sciite nella città di Quneitra, a soli tre Km dal confine con Israele.

La città si trova infatti nella zona cuscinetto e proprio oggi Israele ha ammonito la Siria a non trasferire uomini armati all’interno di tale zona. Se l’esercito siriano entrasse quindi a Quneitra non solo sarebbe una violazione dell’accordo di cessate il fuoco ma provocherebbe una immediata reazione israeliana.

La tensione sul Golan sta salendo alle stelle. Gli israeliani hanno potenziato notevolmente l’intero apparato difensivo in tutto il fronte nord nella eventualità, purtroppo per nulla remota, che l’accordo del 1974 salti e che truppe siriane o iraniane entrino nella buffer zone.
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Re: Pałestina: Le raxon de Ixrael

Messaggioda Berto » dom lug 08, 2018 9:43 am

Ridefinire la realtà: Un nuovo paradigma
Le parole sono spade, possono uccidere.
Georg Wilhelm Friedrich Hegel

Niram Ferretti
8 luglio 2018

http://www.linformale.eu/la-risoluzione ... -la-stampa


La Risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite n. 3379 del 10 novembre 1975, che definiva il “sionismo […] una forma di razzismo e di discriminazione razziale”, rappresenta uno dei punti nodali nell’articolata storia delle relazioni internazionali dello Stato d’Israele durante gli anni Settanta. La genesi della Risoluzione mostra chiaramente il complesso gioco diplomatico svoltosi durante le discussioni alle Nazioni Unite, che coinvolse attori importanti della scena internazionale, quali gli Stati Uniti, l’URSS e i Paesi arabi.

Molti osservatori argomentano che la definizione del sionismo come razzismo abbia avuto origine nel 1975, tuttavia, nel marzo del 1964, la stessa analogia apparve nelle discussioni tenute alla Sotto-Commissione per la prevenzione della discriminazione e la protezione delle minoranze, facente parte della Terza Commissione che si occupava di questioni umanitarie, sociali e culturali1.

Nel marzo del 1964, gli Stati Uniti proposero alla Terza Commissione e alle Nazioni Unite il riconoscimento dell’antisemitismo come forma di razzismo, insieme all’apartheid e al nazismo, provocando la ferma opposizione dell’Unione Sovietica. A questo proposito è opportuno focalizzare l’attenzione sulle difficili relazioni esistenti tra l’URSS e Israele, determinate dall’atteggiamento del Governo sovietico verso la minoranza ebraica presente in Russia; tale linea era condizionata dalla politica delle nazionalità di stampo staliniano e da un palese antisemitismo, accentuatosi dopo il 1967 ma riscontrabile già dal 1949, allorquando il Ministro degli Esteri aveva avviato il processo di revisione delle relazione diplomatiche, esprimendo il suo disappunto per il permanere dei contatti tra ebrei e israeliani, contatti considerati da Mosca un problema per la sua stabilità interna. Dato che per la dirigenza sovietica non esisteva una Nazione ebraica, l’opposizione verso il sionismo era di principio. La questione del trattamento degli ebrei fu, quindi, inserita all’interno della politica delle nazionalità.

Un altro fattore di tensione era rappresentato dal Partito di maggioranza relativa in Israele, il Mapai (il Partito Socialdemocratico Israeliano), ritenuto eccessivamente orientato verso il blocco occidentale, perciò meno influenzabile.

La fase che si era aperta nel 1953, con la rottura delle relazioni diplomatiche, comprendeva anche una radicalizzazione delle misure contro la popolazione ebraica. L’anno precedente si era tenuto in Cecoslovacchia il processo Slansky, basato sulla prova che tutti gli imputati fossero sionisti, contro un gruppo di dirigenti comunisti di origine ebraica, accusati di ordire un complotto internazionale contro il regime socialista. Risale al gennaio del 1953 il cosiddetto “complotto dei medici”, con cui si intendono tutte le false e deliranti accuse che Stalin, nell’ultimo periodo della sua vita, aveva rivolto agli ebrei sovietici.

Dopo la morte di Stalin, si aprì un breve periodo di normalizzazione dei rapporti tra l’URSS e Israele, periodo che conobbe una brusca cesura dopo la Guerra del Sinai e dei Sei Giorni. L’Unione Sovietica aveva iniziato ad intrattenere delle forti relazioni diplomatiche con i Paesi non allineati, con il fine di gestire a proprio favore i complessi processi di decolonizzazione. Il socialismo sovietico doveva divenire un modello per quelle Nazioni che raggiungevano allora l’indipendenza, riuscendo sia a contrastare gli americani sia ad aumentare la propria egemonia politica.

L’adesione alle tesi antisemite era funzionale al progetto sovietico di acquisire la benevolenza dei Paesi arabi e dell’OLP, soprattutto dopo l’espulsione dei consiglieri russi dall’Egitto nel 1972.

Successivamente alla Guerra dei Sei Giorni, si ebbe l’ennesima rottura dei rapporti diplomatici, che coinvolse tutti i Paesi dell’Europa orientale esclusa la Romania, adducendo come motivazione ufficiale “l’aggressione” di Israele verso i Paesi arabi.

È importante soffermarsi anche sulla problematica condizione di tutti quegli ebrei sovietici desiderosi di emigrare in Israele, sottoposti a snervanti e infruttuose procedure burocratiche che, nella maggioranza dei casi, si vedevano negato il permesso di espatrio ed esposti, di conseguenza, al rischio di subire processi e detenzioni in ospedali psichiatrici in quanto considerati dissidenti e oppositori.

L’astio preconcetto contro Israele era divenuto uno dei principi basilari della politica estera sovietica. Dichiarandosi immune dall’antisemitismo, l’URSS adoperò un pensiero politico rigidamente antisionista, in cui il termine “sionismo” corrispondeva a “giudaismo cosmopolita”.

L’associazione di idee tra Israele ed ebrei sovietici era immediata laddove questi ultimi avessero cercato di preservare qualche elemento identitario, incompatibile con la volontà di omologazione del Regime comunista. Inoltre, gli ebrei erano considerati una entità nazionale potenzialmente ostile all’URSS.

Gli ebrei sovietici furono sottoposti a svariate misure vessatorie, volte a limitarne la libertà culturale e di studio.

Contrariamente a quanto sperato dalle autorità sovietiche, vi fu un rinnovato rilancio dell’ebraismo come tratto distintivo e identitario, soprattutto da parte delle nuove generazioni che vedevano nell’emigrazione verso Israele e i Paesi occidentali l’unica possibilità per vivere liberamente questo rinnovato ebraismo.

Grazie alle pressioni internazionali, vi fu una prima ondata migratoria di circa duecentomila persone tra il 1971 e il 1972. Israele accolse, tra il 1972 e il 1979, 137.000 ebrei russi. Tuttavia, solo con l’insediamento di Michail Gorbaciov si ebbe una progressiva liberalizzazione delle politiche di emigrazione.

L’antisemitismo non fu mai riconosciuto come dottrina politica ufficiale dell’Unione Sovietica, in ogni modo, ricomparve, con i medesimi tratti distintivi dell’antisemitismo zarista, nella formazione del pregiudizio dell’opinione pubblica russa.

Alla proposta statunitense di condannare l’antisemitismo, l’Unione Sovietica rispose, quindi, chiedendo la condanna dell’antisemitismo, del sionismo, del nazismo e di ogni forma ideologica e politica di colonialismo. Nel tentativo di sbloccare l’impasse creatasi, i delegati della Grecia e dell’Ungheria proposero un emendamento che non citasse delle specifiche forme di discriminazione.

La discussione sul tema rimase, comunque, dormiente fino alla metà degli anni Settanta, quando una serie di concause, tra le quali le conseguenze economiche della Guerra del Kippur, l’alleanza tra i Paesi arabi, le Nazioni in via di sviluppo e l’URSS, portarono all’approvazione della Risoluzione.

Vi era un altro fattore che aveva condotto, anche se indirettamente rispetto al nuovo contesto geopolitico, alla Risoluzione: la nuova immagine dello Stato ebraico nell’immaginario collettivo. Essa aveva iniziato a cambiare dalla fine degli anni Sessanta, specificatamente dopo la vittoria israeliana nella Guerra dei Sei giorni, quando vi era stato un crescente utilizzo di stereotipi propri dell’antiebraismo e dell’antisemitismo per definire Israele e la sua politica nei confronti dei palestinesi, venendosi così a creare “un’area di incontro tra antisemitismo e antisionismo”.

Per il contesto italiano è interessante citare il saggio del sociologo Alfonso M. Di Nola, Antisemitismo in Italia 1962-1972, in cui si riteneva possibile “lo slittamento” di una parte dell’opinione pubblica di sinistra, cui veniva presentata una costante critica del sionismo, verso l’antisemitismo. Di Nola evidenziava, inoltre, per quanto concerneva l’estremismo neofascista, che era già possibile “parlare di uno slittamento o di una devianza delle scelte politiche antisioniste in posizioni chiaramente antisemitiche, con la conseguente confusione di un piano ideologico, quello antisionistico, e di un piano irrazionale di aggressività contro la minoranza ebraica”.

A partire dalla fine degli anni Sessanta, tuttavia, non furono soltanto settori estremi della destra e della sinistra ad utilizzare pregiudizi e stereotipi prettamente antisemiti, come la teoria del complotto, in manifestazioni di antisionismo.

Si riscontrava, inoltre, la formazione in una parte dell’opinione pubblica italiana di un fronte compatto, costituito da partiti politici, sindacati, studenti e alcuni settori della Chiesa cattolica, che non considerava più lo Stato ebraico come un alleato nella comune lotta antifascista e alla luce della memoria della persecuzione razziale, bensì come la longa manus dell’imperialismo americano in Medio Oriente.

La Risoluzione ebbe un clamore notevole anche in Italia, non solo a livello politico, ma anche giornalistico, risultando, quindi, di particolare interesse gli articoli ad essa dedicati da parte de “L’Unità” e de “La Stampa”, testate giornalistiche differenti per impostazione e storia, ma entrambe importanti nella formazione dell’opinione pubblica italiana.

Per quanto riguardava l’atteggiamento del Governo italiano, è possibile notare come esso non si discostò dalla consueta linea di equidistanza, nella pratica più vicina alle ragioni dei palestinesi, votando contro la Risoluzione. Tale scelta testimoniava “i limiti che il governo Moro imponeva al suo filo-arabismo: la sicurezza e la sopravvivenza dello Stato d’Israele”. Tuttavia, al di là di queste generiche affermazioni, l’Italia avrebbe sostenuto le rivendicazioni nazionali palestinesi, come avvenne il 3 dicembre dello stesso anno quando Pietro Vinci, rappresentante italiano a New York, indicò, a nome dell’Europa dei nove, nel “riconoscimento al popolo palestinese del diritto a esprimere una sua identità nazionale” un principio basilare per il raggiungimento della pace in Medio Oriente.

Israele rappresentò un “problema” per il Partito Comunista Italiano che passò dall’iniziale entusiasmo, con cui ne accolse la nascita, a una progressiva freddezza determinata dagli sviluppi della politica mediorientale dell’URSS. Dalla Guerra dei Sei Giorni del 1967, Israele fu identificato con chiarezza come un avversario in quanto ritenuto parte integrante del disegno imperialista degli Stati Uniti nel Mediterraneo. È interessante osservare l’esistenza di singolari punti di contatto tra le posizioni del Governo italiano e il PCI, infatti, entrambi, pur riconoscendo il diritto di Israele ad esistere in quanto Stato, manifestarono, con obiettivi politici dissimili, una netta preferenza per una rafforzamento delle relazioni con gli arabi.

Il riconoscimento del diritto ad esistere di Israele risultava prettamente formale, poiché, come si può dedurre dalle affermazioni, pubblicate in un saggio del 1970, di Giancarlo Pajetta, responsabile esteri per il Partito e direttore de “L’Unità” nel biennio 1969-70, lo Stato ebraico era “un fatto coloniale”2, di cui doveva esserne ammessa la realtà fattuale, riconoscendo, nel contempo, “l’esistenza della Palestina come nazione”3. Non identificando nello Stato d’Israele il punto di arrivo di un cammino di emancipazione “che porta una parte degli ebrei a pensarsi in termini di collettività a sé, quindi sovraordinata rispetto alle società nazionali d’origine”4, il riconoscimento di un generico diritto ad esistere rappresentava, da parte del PCI, solo un’approvazione convenzionale. Inoltre, il conflitto israelo-palestinese era interpretato attraverso la categoria delle guerre di liberazione nazionale, in cui lo Stato ebraico era, ovviamente, l’oppressore.

Il PCI sostenne la decisione del Governo italiano di votare contro la Risoluzione, alleandosi, in questo caso, con la maggioranza.

Di particolare interesse risultano i commenti, non firmati ma attribuibili al direttore Luca Pavolini, che “L’Unità” dedicò alla Risoluzione prima e dopo l’approvazione.

Il primo contributo fu pubblicato sul giornale pochi giorni prima dell’approvazione definitiva della Risoluzione5. L’articolo iniziava argomentando che non era possibile condividere la Risoluzione né da un punto di vista ideologico né politico. Ciò nonostante, il sionismo era da considerarsi una “ideologia conservatrice e fondamentalmente reazionaria, dannosa agli ebrei in quanto tendente a isolarli nei paesi nei quali vivono e tale da alimentare correnti sciovinistiche nelle comunità israelitiche”. Il giornalista continuava affermando che il sionismo era storicamente fallito, ignorando volutamente come proprio lo Stato d’Israele fosse il compimento del movimento sionista.

Il movimento sionista era giudicato uno strumento dell’imperialismo e la causa delle spinte aggressive e espansionistiche dei Governi israeliani, “quelle su cui l’ONU ha più volte espresso la propria condanna, condanna che andrebbe ora fatta rispettare”.

Sebbene, almeno formalmente, l’esistenza dello Stato ebraico non fosse messa in discussione da parte dell’articolista, era fortemente criticata la sua organizzazione interna, accusata di essere discriminante e non laica. È opportuno ricordare che la Dichiarazione di Indipendenza del 1948, sebbene riconosca Israele come Stato ebraico, garantisce la libertà religiosa a tutti i suoi abitanti, assicurando la completa uguaglianza e il possesso dei diritti sociali e politici senza distinzione di religione, razza o sesso; assicura la libertà di religione, di coscienza, di linguaggio, educazione e cultura; salvaguardia, infine, i Luoghi Sacri di tutte le religioni.

A parere del giornalista, era illegittimo “trasferire il dibattito, e perfino il voto, sul terreno delle definizioni ideologiche, introducendo il concetto di razzismo”, infatti, era più doveroso che l’ONU e il mondo occidentale mettessero in atto tutte le azioni e pressioni possibili affinché i territori occupati con la forza da Israele fossero restituiti e i diritti nazionali dei palestinesi fossero rispettati.

Nella parte conclusiva dell’editoriale, l’articolista si rivolgeva a “chi non spende una sola parola sulle aggressioni israeliane, pur esplicitamente e ripetutamente condannate dalle risoluzioni dell’ONU, da chi è del tutto indifferente e ostile al diritto di autodeterminazione del popolo palestinese, da chi si ostina a chiudere gli occhi sulle effettive condizioni di discriminazione che colpiscono gli arabi i quali vivono nello Stato di Israele o nei territori da esso occupati.”.

Rivolgendosi provocatoriamente a costoro, il giornalista li invitava a considerare quanto fossero drammatiche sia la mancata applicazioni delle Risoluzioni dell’ONU riguardanti il ritiro di Israele dalle zone “invase” sia il passo indietro dei nove Paesi della Comunità Europea rispetto alle loro precedenti prese di posizione sui diritti nazionali dei Palestinesi.

Nella parte finale del contributo, l’articolista esortava i dirigenti di Israele, insieme ai loro amici, a riflettere su una Risoluzione che rappresentava una condanna della loro politica, Risoluzione votata dalle più disparate Nazioni, tra le quali tutte quelle “che si battono contro l’imperialismo”.

Il Partito Comunista Italiano aveva sempre sostenuto le Risoluzioni dell’ONU che riguardavano Israele, considerando la loro applicazione immediata un atto basilare per il ristabilimento della Pace in Medio Oriente. L’appoggio incondizionato alla lotta nazionale dei palestinesi era divenuto un tema cardine della politica estera del Partito, una linea politica che indentificava l’aggressore sempre in Israele, responsabile di un’indebita occupazione territoriale. Da questo derivava anche per l’organo di stampa ufficiale del Partito, e per tutte le pubblicazioni che si rifacevano ad esso, una linea editoriale faziosa nei riguardi di Israele, come si può evincere dagli articoli relativi alla Guerra del Kippur, che indicavano quali cause del conflitto le conseguenze della Guerra dei Sei Giorni del 1967 e la mancata applicazione della Risoluzione 242 da parte dello Stato ebraico6.

Degna di nota la citazione, in un editoriale del 13 novembre7 de “L’Unità”, di un articolo del vicedirettore de “La Stampa” Carlo Casalegno, significatamene intitolato Un verdetto antisemita.

Secondo l’articolista de “L’Unità”, l’editoriale di Casalegno si basava su tesi infondate e insostenibili, “come quella secondo cui la risoluzione sarebbe addirittura un verdetto antisemita. Secondo questa tesi assurda e pericolosa, antisionismo e antisemitismo sarebbero in pratica la stessa cosa”.

Tacciare di antisemitismo il voto dell’ONU era, a parere del giornalista, un voluto stravolgimento, ancora meno accettabile se si usavano paralleli “con gli esiti mostruosi del nazismo e del fascismo in Europa, non potendosi certamente attribuire agli arabi la responsabilità dell’infame genocidio hitleriano”.

Nella seconda parte del contributo, si citava un altro giornale, “La Voce Repubblicana”, organo di stampa ufficiale del Partito Repubblicano Italiano, che avrebbe usato il presunto antisemitismo del voto dell’ONU per chiedere una modifica della politica estera italiana verso il Medio Oriente. Ciò avrebbe comportato, secondo l’articolista, dei pericolosi passi indietro, come lo schierarsi contro il Mondo arabo, rispetto al cammino diplomatico che l’Italia aveva intrapreso. Questo avrebbe aggiunto un impedimento ulteriore al conseguimento della pace in Medio Oriente.

Il giornalista concludeva esortando a comprendere i reali ostacoli per la realizzazione della pace, “il mancato rispetto delle risoluzioni dell’ONU per il ritiro delle truppe di Israele dai territori arabi occupati; i diritti calpestati del popolo palestinese; la politica espansionistica e discriminatrice dello Stato di Israele”.

In chiusura, l’articolista scriveva che “purtroppo, a questo proposito, “La Stampa” e “La Voce Repubblicana” non s’indignano mai”.

La linea editoriale del giornale comunista non trovò la medesima accoglienza tra i suoi lettori, infatti, nella rubrica Lettere all’Unità, curata dal direttore Luca Pavolini, si possono leggere commenti molto diversificati sulla Risoluzione8.

“La Stampa” si schierò apertamente contro la Risoluzione, attraverso gli importanti contributi di Carlo Casalegno, Giovanni Spadolini e Furio Colombo. È interessante rilevare che il quotidiano torinese dedicò al voto dell’ONU anche altri articoli, solitamente pubblicati nelle prime pagine, per informare puntualmente i lettori9.

L’articolo del vicedirettore Carlo Casalegno, Un verdetto antisemita10, fu pubblicato in prima pagina sul numero del 12 novembre.

Casalegno scriveva che il giorno precedente l’Assemblea Generale dell’ONU aveva votato tre Risoluzioni su Israele e la Palestina. La prima raccomandava che fossero applicati “i diritti umani, civili e nazionali” ai palestinesi; la seconda chiedeva che L’OLP fosse presente nelle trattative di pace e partecipasse alla Conferenza di Ginevra; la terza condannava il sionismo come “forma di razzismo e discriminazione razziale, ideologia razzista e imperialista, minaccia alla sicurezza e alla pace internazionale”. Per il giornalista, il terzo documento doveva essere respinto come “un’offesa alla verità e alla coscienza civile”. All’Assemblea Generale dell’ONU si era ripetuto “l’indecente spettacolo di tiranni che condannano la tirannia”, secondo il giudizio del “Times”, prendendo una posizione antisionista, quindi, antisemita.

Per mezzo del fanatismo, del ricatto, dell’opportunismo e della demagogia si era costruita un’alleanza ibrida per votare un documento che, accusando Israele di razzismo, falsificava la realtà e la storia.

Casalegno continuava analizzando le Nazioni che facevano parte di questa alleanza ibrida; tutti i Paesi arabi; i Paesi comunisti legati a Mosca; una parte delle Nazioni del terzo mondo, appena usciti dalla colonizzazione. Il giornalista faceva notare come nessuno degli Stati che avevano votato la Risoluzione fossero autenticamente democratici, bensì, erano spesso retti da tiranni sanguinari, come l’Uganda di Amin, oppure erano Stati in cui vi era intolleranza religiosa e etnica, oppressione delle minoranze. Essi avevano deciso che “gli israeliani sono colpevoli di razzismo e imperialismo: e non c’è appello contro una sentenza che Hitler avrebbe sottoscritto con entusiasmo”11.

La Risoluzione non era un documento prettamente formale, senza ricadute pratiche, ma rappresentava una manovra araba per togliere legittimità internazionale ad Israele ed espellere lo Stato ebraico dall’ONU, conferendo copertura legale al programma dei nazionalisti palestinesi.

Le Nazioni Unite avevano riconosciuto, attraverso una serie di voti nel 1947 e nel 1948, il sionismo come movimento di liberazione nazionale, decidendo, inoltre, la spartizione della Palestina e avallando la nascita di Israele, cioè “la realizzazione dell’idea sionista di uno Stato nazionale indipendente e sovrano”. La messa fuorilegge del sionismo equivaleva a ritirare, dopo trent’anni, il riconoscimento di Israele.

Una simile condanna poteva produrre delle gravi conseguenze, bloccando le trattative di pace e incoraggiando l’estremismo palestinese. La Risoluzione dimostrava che gli Stati arabi potevano accettare l’esistenza dello Stato ebraico di fatto, ma non intendevano riconoscere allo Stato d’Israele il diritto di esistere.

Molto interessante la parte conclusiva dell’editoriale di Casalegno, in cui si analizzavano le ripercussioni diplomatiche della Risoluzione; l’antisionismo non era altro che “il nome in codice dell’antisemitismo nei Paesi comunisti e terzomondisti; è la maschera di cui si coprono, dopo Hitler, gli antisemiti”.

La Risoluzione dell’ONU non intendeva difendere i diritti dei palestinesi, bensì, negava agli ebrei il diritto ad avere uno Stato nazionale, quindi, era razzista e antisemita.

In conclusione, Casalegno affermava che L’ONU aveva tradito la sua missione, che si basava sulle idee di eguaglianza, tolleranza e solidarietà.

Secondo il giornalista, il “Parlamento del mondo” non sarebbe durato a lungo sotto l’egemonia di un’alleanza tra Stati comunisti, islamici e del terzo mondo, un’alleanza prettamente antioccidentale. Il voto del giorno precedente era il segno di una crisi che poteva essere insanabile.

Il vicedirettore espose tali temi anche in un articolo successivo, pubblicato sempre in prima pagina12.

“La Stampa” ospitò anche l’intervento di Giovanni Spadolini, esponente di spicco del Partito Repubblicano Italiano.

Nell’articolo13, pubblicato nella terza pagina dedicata solitamente alle tematiche culturali, si faceva riferimento ad un contributo del senatore Francesco Ruffini, apparso sul “Corriere della Sera” nel 1920, intitolato Sionismo14. Nella prima parte, Spadolini si soffermava sull’introduzione che Ruffini aveva scritto per il saggio di Baruch Hagani, Vita di Teodoro Herzl, “un primo significativo contributo alla conoscenza di un problema- la lotta per la creazione dello Stato nazionale ebraico- che non era stato ancora approfondito dalla cultura italiana, nonostante la recente e pronta adesione dell’Italia alla dichiarazione Balfour”.

L’autore del saggio per Ruffini era “troppo prudente e diffidente biografo”, richiamandolo alla forza di un ideale nazionale innestato su un tronco religioso, qual era l’emancipazione del popolo ebraico sottratto alla fatalità della diaspora, ricondotto nei confini di un focolare domestico predestinato. Secondo Giovanni Spadolini, il paragone spontaneo era con Mazzini, “l’uomo che è vissuto sempre nelle nuvole agli occhi di tutti i fautori del particolare, di tutti i seguaci della più ristretta ragion di Stato, di tutti coloro che non sanno sollevarsi di un palmo sopra la loro miserabile accortezza”.

È interessante notare come la correlazione fra il nostro Risorgimento e il futuro Risorgimento ebraico fosse un tema molto caro ai leader sionisti, come Max Nordau15 che aveva concluso un’intervista16, concessa al corrispondente del “Corriere della Sera” Guglielmo Emanuel, ricordando “l’esempio luminoso” del Risorgimento italiano, che gli aveva dato la fede di vedere, un giorno, ricostituita la nazione ebrea.

Tale tema era riscontrabile anche nell’articolo sulla dichiarazione Balfour del senatore Francesco Ruffini.

Proprio il parallelo tra il nostro Risorgimento e quello ebraico era tornato alla mente di Spadolini quando l’ONU aveva votato la Risoluzione che definiva il sionismo “una forma di razzismo e di discriminazione razziale”, sullo stesso piano dell’apartheid sudafricano. Per l’autore, il sionismo stava “al Risorgimento nazionale ebraico così come il mazzinianesimo sta al Risorgimento nazionale italiano”.

Herzl si era formato sul pensiero di Mazzini, e tutto il sionismo operante nell’ultimo ventennio dell’Ottocento si era ispirato ai principi dell’autonomia nazionale nel solco di una visione religiosa della democrazia; Spadolini si domandava, retoricamente, perché la condanna dell’ONU non fosse estesa anche al Dio e popolo di Mazzini.

Roma e Gerusalemme era l’indicativo titolo di un saggio di Moses Hess, che si basava sul parallelo e sull’analogia fra la ricostituzione del popolo italiano in unità e il ritorno del popolo ebraico nella terra promessa.

Niente di più vergognoso che bollare come razzista il messaggio di liberazione nazional-popolare di Theodor Herzl, che aveva conosciuto, come ebreo ungherese e successivamente come corrispondente e redattore della “Neue Freie Presse”, l’antisemitismo dell’Europa orientale e della Francia dell’Affaire Dreyfus.

Il movimento sionista aveva dovuto combattere contro molti detrattori, così come era accaduto per Mazzini.

“E poi il mito che diventa storia”, la realtà di uno Stato ebraico indipendente e sovrano, fondato sulla tolleranza.

I Paesi che accusavano lo Stato ebraico di essere razzista, scambiando vittima e carnefice, erano gli stessi che si “ispiravano a una visione clericale e teocratica del potere, incompatibile con qualunque logica della ragione, della tolleranza e dell’eguaglianza. In termini italiani, sarebbe come opporre i principi di Gregorio XVI a quelli di Mazzini”.

In un contributo pubblicato sulla prima pagina17 del quotidiano torinese, Furio Colombo argomentava che il voto all’ONU aveva creato delle divisioni nel Mondo, ma non secondo un riferimento di destra e di sinistra. Per esempio, i comunisti italiani avevano dichiarato il loro disaccordo, pur ritenendo il sionismo una ideologia conservatrice e reazionaria.

Il sionismo era un vocabolo che aveva sempre avuto come significato quello della creazione di un rifugio e poi di una Patria per porre fine a secoli di persecuzione, solo nella letteratura nazista poteva acquisire una accezione diversa.

La storia aveva fatto in modo che due popoli, gli ebrei e i palestinesi, che avevano sofferto moltissimo, si trovassero a stretto contatto, così come era accaduto in altre parti del Mondo.

Il mondo civile aveva giustamente decretato che l’Islam, una grande matrice culturale, non era una teoria razzista, anche quando era stato animato dal furore della conquista, poiché “incidenti tragici e spaventosi non mutano una delle grandi culture del mondo”.

La deformazione storica cui si era assistito durante il voto all’ONU rappresentava “un’odiosa falsificazione che di solito è tipica di odiosi regimi”, capace di “colpire al cuore la credibilità morale e politica delle Nazioni Unite, creando un grave pericolo”.

Per l’autore, la decisione adottata era “assurda com’è nel suo squallore, nella sua insensatezza propagandistica, nel suo essere una pura e penosa bugia lontana dalla razionalità della storia e della politica”, capace di spezzare “l’assemblea dei Paesi del Mondo come un pezzo di marmo che si rompe lungo una venatura sbagliata”.

Nella parte conclusiva del suo contributo, Colombo citava l’esempio della “limpida dichiarazione di Pietro Nenni”, che dimostrava come “il dovere urgente del rifiuto pesasse sulle culture del rinnovamento e più in generale sulle sinistre democratiche”.

In conclusione, Colombo esortava tutti a respingere “questo misfatto (…), altrimenti una brutta nebbia di falsificazione e di distorsione comincerà a salire, il nauseante sapore del ‘39”.

È interessante rilevare che nel suo commento, pubblicato dal “Corriere della Sera” il 12 novembre, il leader socialista Pietro Nenni aveva sì stigmatizzato con durezza il voto dell’ONU, ma aveva citato con chiarezza anche l’importanza della causa palestinese. Tale affermazione era il segnale evidente del cambiamento dell’atteggiamento del PSI verso Israele, evidenziatosi già a partire dalla Guerra del Kippur del 1973, quando la linea politica del Partito era divenuta progressivamente più simile a quella della Democrazia Cristiana. Furono soprattutto gli anni della Segreteria di Bettino Craxi a segnare un deciso impegno del PSI per il diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese.

Concludiamo questa analisi riportando integralmente le ragguardevoli parole del giornalista de “La Stampa” Guido Ceronetti sullo Stato d’Israele che “divide e inquieta, tutti farebbero a meno della sua esistenza se la sua esistenza non fosse la condizione della sopravvivenza di tutti. È uno Stato di grandezza insignificante che pone troppi problemi politici e morali e che fa alle Nazioni questo straordinario ricatto metafisico: “se io sarò distrutto, anche voi, presi nello stesso vortice, lo sarete”. Perciò nessuno Stato è più di questo povero di amici”18.

L’analisi delle modalità con cui “L’Unità” e “La Stampa” trattarono il tema della Risoluzione getta una luce sull’influenza che la politica estera italiana del Secondo dopoguerra ebbe sugli orientamenti dell’opinione pubblica.

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Re: Pałestina: Le raxon de Ixrael

Messaggioda Berto » dom lug 15, 2018 9:07 am

Il cadavere di Oslo e la sua necessaria sepoltura
15 luglio 2018

http://www.linformale.eu/il-cadavere-di ... -sepoltura


Le anime più forti sono quelle temprate dalla sofferenza.
I caratteri più solidi sono cosparsi di cicatrici.

Khalil Gibran

L’Europa dell’immediato secondo dopoguerra può essere paragonata ad una lunghissima e tortuosa strada percorsa da un flusso costante e massiccio di profughi; milioni di uomini, donne e bambini si muovono da un territorio ad un altro cercando di ricostruire le loro vite dopo le catastrofi umane e materiali del conflitto. Tra queste persone vi sono anche gli ebrei sopravvissuti all’Olocausto.

Tra la Shoah e la nascita di Israele, migliaia di ebrei sopravvissuti al genocidio rimasero come sospesi, sia fisicamente sia psicologicamente, tra la memoria dell’Olocausto e la speranza di una rinascita in un’altra terra, l’allora Palestina mandataria o gli Stati Uniti.

Lo studio della condizione degli ebrei superstiti nei campi profughi non colma soltanto il vuoto che solitamente sussiste in una narrazione superficiale della storia contemporanea del secondo dopoguerra, che istituisce una continuità temporale strettissima tra l’Olocausto e la nascita d’Israele omettendo questa tematica, ma ricostruisce anche le relazioni che intercorsero tra i sopravvissuti, gli occupanti americani e i cittadini tedeschi nell’immediatezza della fine del conflitto. L’analisi si è focalizzata sulla Baviera, la zona occupata dagli americani, perché fu in questa area che i profughi ebrei si stabilirono prevalentemente.

Alla fine della guerra la maggioranza dei soldati, nonché la maggior parte delle persone nell’Europa Occidentale, riteneva che la liberazione dei campi di concentramento e di lavoro avrebbe rivelato che i nazisti erano riusciti nei loro sforzi per distruggere l’ebraismo europeo. Tuttavia, trovarono circa 200.000 sopravvissuti; tra questi, 90.000 erano ebrei vissuti in clandestinità in Germania, sposati con coniugi tedeschi o sopravvissuti dei campi di concentramento e delle marce della morte dall’Est. Questo numero decrebbe rapidamente nelle prime settimane dopo la liberazione quando decine di migliaia di ebrei morirono a causa della lunga sotto nutrizione e di malattie come la tubercolosi, il colera, e il tifo. Nonostante i migliori sforzi dei medici alleati, si ritiene che tra i 20.000 e i 30.000 sopravvissuti in Germania siano morti entro poche settimane dalla fine della guerra. Secondo le statistiche, 4 ebrei liberati su 10 sono morti nelle immediate settimane dopo la fine del conflitto. Si stima che dopo l’8 maggio del 1945 vi fossero in Germania tra i 60.000 e i 70.000 profughi ebrei, Jewish Displaced Persons (DPs) come indicano le fonti ufficiali americane. Essi hanno dovuto affrontare la questione se restare in Germania in attesa di un reinsediamento o cercare di tornare alle loro case in cerca di notizie dei loro cari e dei loro amici dai quali erano stati separati dalla Shoah; coloro che fecero il viaggio di ritorno verso i loro Paesi d’origine, soprattutto gli ebrei sopravvissuti dell’Europa Orientale, riscontrarono il riemergere di un forte antisemitismo come dimostrano i pogrom di Cracovia e Kielce in Polonia e la perdita di tutta la propria famiglia, contesti che li motivarono a intraprendere un secondo viaggio di ritorno verso la Germania. Per questi sopravvissuti, ogni posto era meglio del “cimitero” che avevano visto nell’Europa Orientale

Anche se la guerra fu dichiarata ufficialmente finita nel maggio del 1945, la resa totale della Germania non portò ad una cessazione della sofferenza in Europa, specialmente nella stessa Germania. Al contrario, la pace Alleata condusse a nuove e spaventose incertezze sia per gli ebrei sia per i non ebrei sopravvissuti. Nel dopoguerra la Germania era in uno stato di completa devastazione e milioni di persone provenienti da diversi paesi erano morte o disperse.

Inoltre, l’improvviso afflusso di circa quattordici milioni di rifugiati, tra cui i sopravvissuti della Shoah, ex lavoratori forzati, lavoratori stranieri volontari, profughi e soldati aggravò la situazione dell’economia tedesca, condizione aggravata dall’arrivo di diversi milioni di persone di etnia tedesca, Volksdeutsche, che erano fuggiti con l’avanzata dell’Armata Rossa o erano stati espulsi dai loro Paesi d’origine dopo l’Accordo di Potsdam. Questo significava che un quarto della popolazione totale in Germania alla fine del 1945 era costituito da rifugiati. Gli Alleati occidentali si trovarono di fronte l’arduo compito di restituire i milioni di rifugiati rimpatriabili ai loro Paesi d’origine e il Supreme Headquarters Allied Expeditionary Force (SHAEF) iniziò questo compito poche settimane dopo l’armistizio. Nel giugno del 1945, 5,25 milioni di persone erano state messe su dei treni e rimpatriati al ritmo di 80.000 al giorno. Questo numero aumentò a 2,75 milioni nel mese di luglio, quando i cittadini sovietici furono rimpatriati con la forza, riducendo il numero dei rifugiati rimpatriabili a 2 milioni.

Vi era, tuttavia, anche un numero considerevole di profughi sotto la tutela degli Alleati che non poteva, o non voleva, tornare ai loro Paesi di origine. Entro l’ottobre del 1946, la Germania si trovò con 3 milioni di persone in più nelle zone occupate rispetto al periodo prebellico. Questi individui avevano cercato la tutela e la cura che non poteva essere fornita dall’inesistente Governo tedesco. Più della metà delle case nella zona di occupazione americana era stata distrutta durante la guerra; il bombardamento di città come Dresda e gli intensi combattimenti che avevano avuto luogo nelle strade di Berlino e Monaco avevano portato alla perdita di appartamenti e case. In totale, la Germania aveva perso oltre il 40% del suo patrimonio immobiliare. Il saccheggio dei terreni agricoli da parte degli eserciti alleati che avanzavano e le vittime liberate del nazismo, in combinazione con il crollo totale dell’economia tedesca, avevano posto gli Alleati di fronte all’arduo compito di ricostruire un Paese devastato dalla guerra con risorse esigue e quasi nessun aiuto da parte della Germania stessa.

I rifugiati che erano affluiti nella zona americana della Germania alla fine della guerra, e vi rimasero dopo il 1945, erano stati inizialmente ospitati in ex campi di concentramento, centri di lavoro forzato, caserme, scuole e case. I luoghi scelti come centri di raccolta alleati erano stati preservati dalle devastazioni derivanti dall’avanzare degli eserciti ed erano dotati dei servizi necessari per la sopravvivenza.

Tutti gli individui presenti in questi centri erano stati alloggiati in base alla loro nazionalità, non prevedendo dei campi separati per gli ebrei, poiché gli Alleati non erano disposti a classificarli come una etnia distinta, insistendo che fare ciò sarebbe stato uguagliare i nazisti. Nella pratica, significava che un ebreo ungherese, baltico o rumeno, solo per citare alcuni casi, era classificato come cittadino straniero, non rientrando nella categoria di “vittima del fascismo”, negandogli le razioni aggiuntive e i benefici delle persone identificate come profughi delle Nazioni Unite, United Nations displaced Persons (UNDPs).

Gli ufficiali del Governo Militare Americano sostenevano che gli Stati Uniti erano una Nazione imparziale e che, come tale, non avrebbe individuato gli ebrei come gruppo distinto. Inoltre, il Governo Militare non voleva mostrare alcun pregiudizio, accogliendo i rifugiati indipendentemente dalla loro nazionalità e religione. Questo spesso significava per gli ebrei continuare a vivere tra i loro nemici, poiché molti individui che avevano richiesto lo status di rifugiato erano in realtà nazisti che avevano abbandonato le uniformi, collaborazionisti, e persone provenienti spontaneamente dall’Europa Orientale in cerca di lavoro in Germania. È stato rilevato che uomini delle SS, della Gestapo, membri del Partito Nazista, volontari polacchi del lavoro, volontari del lavoro russi, soldati jugoslavi si erano trasformati in profughi ed erano entrati nei campi per sfuggire alla detenzione.

La mancanza di personale qualificato e di risorse, unita alla presenza di impiegati neoassunti, impedì inizialmente agli americani di riconoscere le richieste fraudolente dello status di rifugiato. Mentre il Governo americano lavorava per filtrare quegli individui il cui profilo non si adattava alla definizione di rifugiato o profugo, studi recenti hanno dimostrato che un manipolo di criminali di guerra cercò di entrare negli Stati Uniti e in Canada attraverso i centri per i profughi.

Il problema dei profughi aumentò con l’arrivo di diverse migliaia di infiltrati, come gli Alleati chiamavano i nuovi profughi ebrei fuggiti dall’Est dopo il 1946. Gli “infiltrati” si sarebbero presto uniti agli oltre sessantamila ebrei rimasti in Germania nei mesi successivi alla fine della guerra. La maggior parte di questi “infiltrati” era costituita da ebrei dell’Europa Orientale che era sopravvissuta alla guerra al di fuori dei campi di concentramento; mentre alcuni di essi avevano iniziato il loro percorso verso la Germania nei mesi immediatamente successivi alla fine del conflitto, il loro numero era cresciuto rapidamente nel 1946, quando circa 250.000 ebrei dell’Europa dell’Est arrivarono in Germania e in Austria, stabilendosi soprattutto nella zona americana. Queste persone avevano tre distinte esperienze della guerra.

Il primo gruppo era costituito da sopravvissuti ritornati nelle loro città nell’Est, che, resisi conto della perdita dell’intera famiglia e di tutti gli amici, avevano incontrato l’ostilità dei connazionali. La seconda coorte comprendeva partigiani e persone che erano state fisicamente nascoste da amici o da individui pagati per farlo. L’ultimo gruppo, per un totale di circa 140.000 unità, era stata forzatamente spostata dalla Polonia in Russia, dove avevano vissuto per tutto il periodo della guerra in condizioni estremamente difficili.

Sebbene questi gruppi avessero iniziato ad uscire dalla Polonia subito dopo il rimpatrio, il loro numero aumentò progressivamente dopo una serie di pogrom, il peggiore dei quali ebbe luogo in Polonia a Kielce il 4 luglio del 1946, con 47 ebrei morti e più di 50 feriti. La maggioranza di questi ebrei fuggì verso Ovest in Germania, in particolare nella zona americana. Essi si unirono ad un piccolo gruppo di ebrei russi che aveva sempre vissuto in URSS, nonché ebrei ungheresi e rumeni che avevano colto l’occasione creata dalla confusione dell’immediato dopoguerra per fuggire. Questo rapido aumento dell’immigrazione è ben illustrato dalla statistiche raccolte nella zona americana della Baviera, in cui si stima che 40.000 ebrei (registrati e non) si siano stabiliti nei primi mesi del 1946, per arrivare a 142.000 alla fine dell’anno. Si ritiene che circa 6.550 rifugiati ebrei siano arrivati nella zona americana ogni mese nella prima metà del 1946. Tuttavia, questo numero è aumentato di quasi tre volte, con 17.000 nuovi arrivi mensili, dopo il luglio del 1946. Queste ondate migratorie hanno modificato sensibilmente la composizione della presenza ebraica nel Paese, dato che erano in prevalenza originari di Paesi dell’Est Europa e non avevano mai sperimentato la vita nei campi di concentramento o di lavoro.

A differenza di altri gruppi di profughi, gli ebrei non potevano essere validamente rimpatriati, così il loro numero è diminuito soltanto quando sono stati reinsediati al di fuori dell’Europa o quando hanno scelto di tornare a casa.

Gli “infiltrati” erano gli elementi più sani tra i profughi ebrei in Germania. Erano pronti per il futuro sia psicologicamente sia fisicamente, meglio in grado di adattarsi alla nuova condizione integrandosi nella comunità del campo. A differenza dei partigiani e dei sopravvissuti dei campi di concentramento e di lavoro, gli “infiltrati” spaziavano come età dalla più tenera alla più vetusta.

Vi era tra loro un grande numero di intellettuali, e nuclei familiari e comunità che arrivavano nei campi integre.

L’afflusso di questi “infiltrati” portò il numero dei profughi ebrei in Germania a 300.000 unità.

La zona americana era particolarmente attraente per gli ebrei dell’Europa dell’Est poiché dopo la pubblicazione del Rapporto Harrison, di cui parleremo, era l’unica zona in cui gli ebrei avessero dei campi distinti, inoltre, gli Stati Uniti erano il solo Paese che appoggiasse la nascita dello Stato ebraico in Palestina.

I funzionari britannici avevano chiuso la loro zona ai rifugiati dopo le prime settimane dalla fine della guerra; l’emanazione di regole estremamente severe riguardanti la circolazione da e per la zona britannica, nel tentativo di frenare l’immigrazione clandestina, impedì in sostanza ai profughi ebrei di viaggiare al di fuori dell’area e tornare nei campi senza l’autorizzazione. Al contrario, i campi della zona americana in Germania non furono ufficialmente chiusi fino al 1947 ed anche dopo i nuovi “infiltrati” ebrei poterono continuare ad entrare nella zona americana. La pubblicazione del Rapporto Harrison fece temere agli Stati Uniti le veementi reazioni degli ebrei americani se avessero negato l’accesso ai loro correligionari dell’Europa Orientale. Gli inglesi non avevano queste preoccupazioni. Le differenze nella linea politica sono chiaramente illustrate dal numero di profughi ebrei che vivevano in ogni zona; all’inizio del 1946, vi erano 36.000 profughi ebrei legalmente registrati nella zona americana, mentre in quella inglese ve ne erano 16.000, numero che rimase sostanzialmente stabile per tutto il periodo dell’occupazione.

Il primo piano militare degli Stati Uniti per identificare tutti gli sfollati in base alla loro nazionalità e per determinarne l’assistenza in base a quale schieramento fosse appartenuto il loro Paese d’origine fu sottoposto ad un’attenta analisi nell’estate del 1945. Nell’agosto del 1945, il Presidente Truman aveva finalmente risposto alla richiesta degli ebrei americani affinché fosse inviato un rappresentante in Germania al fine di accertare le esigenze degli apolidi e dei non rimpatriabili, in particolare degli ebrei, tra i rifugiati e in quale misura tali esigenze fossero soddisfatte dalle autorità militari, dalle organizzazioni private, nazionali e internazionali. Alla fine, Earl G. Harrison, rappresentante del Comitato Intergovernativo per i rifugiati, fu inviato in Germania per valutare la situazione. Harrison arrivò nel Paese nel luglio del 1945, con un itinerario che avrebbe dovuto informarlo della situazione dei profughi. Questo programma consisteva principalmente in discussioni di alto livello sulla vita dei profughi in Germania, omettendo ogni contatto reale con i centri di raccolta. Tuttavia, il colonnello Richmond, membro del Dipartimento dei profughi del SHAEF, Supreme Headquarters Allied Expeditionary Force, passò queste informazioni al rabbino Abraham Klausner, in passato cappellano militare e uno dei più grandi sostenitori dei profughi nel dopoguerra, che chiese ad Harrison di visitarlo durante il suo viaggio nel Paese. Klausner incontrò Harrison nei campi vicino Dachau, considerati i peggiori centri della zona americana a causa del sovraffollamento e del degrado generale. Harrison fu così turbato da quello che vide da scrivere un messaggio a Henry Morgenthau, Ministro del Tesoro americano, in cui affermava di aver trovato completa conferma dei rapporti inquietanti riguardanti la condizione degli ebrei nella zona dello SHAEF in Germania. Egli concludeva il messaggio auspicando che l’invio del cablogramma in anticipo rispetto al suo ritorno potesse far intraprendere qualche azione affinché almeno un piccolo gruppo di sopravvissuti potesse vedere che essi erano stati veramente salvati e liberati.

La visita di Harrison e la successiva relazione furono due fattori che ebbero un impatto significativo per gli ebrei che vivevano in Germania. Non solo sottolineò la necessità di cambiamenti immediati e drastici riguardo il trattamento e la catalogazione dei profughi ebrei, ma richiese anche il reinsediamento degli ebrei europei sul suolo palestinese.

Harrison sostenne che mentre gli ebrei erano stati liberati militarmente, la loro liberazione reale non era ancora avvenuta. Egli descriveva come i profughi vivevano nei campi, “sotto scorta, dietro filo spinato… in un luogo affollato, spesso in condizioni igieniche scarse e in generale cupi, in completo ozio, senza possibilità, ad eccezione che di nascosto, di comunicare con l’esterno, in attesa, nella speranza di qualche parola di incoraggiamento e di qualche azione in loro favore”1 [trad.it.a]. Secondo Harrison il profugo ebreo poteva guardare fuori dal suo campo, lugubre, spoglio e affollato, e vedere i tedeschi vivere nelle proprie case conducendo una vita normale. Egli affermò che, allo stato attuale, sembrava che stessero trattando gli ebrei come i nazisti, tranne che non li sterminavano. Harrison continuava argomentando che i campi di raccolta avevano come guardie i militari americani, dove prima c’erano le truppe delle SS. Egli si domandava retoricamente se il popolo tedesco vedendo questo comportamento non supponesse che gli statunitensi stessero seguendo o almeno giustificando la politica nazista.

Chiaramente Harrison esagerò alcune delle sue dichiarazioni al fine di sottolineare la necessità di un cambiamento, e le sue osservazioni furono meno che ben accolte dai militari e dal Governo americano. Secondo Harrison, il primo e più importante cambiamento che doveva avvenire era il riconoscimento dello status di ebrei in quanto ebrei. Essi avevano bisogno di essere separati dai membri di altre nazionalità e ricollocati in centri esclusivamente ebraici. Harrison aveva compreso che classificare gli ebrei in quanto ebrei gli permetteva di vivere in campi protetti, facendoli oggetto di un’attenzione maggiore in base ai loro bisogni che erano certamente più grandi di quelli degli altri profughi, non significando, quindi, che essi erano individuati e perseguitati dagli americani allo stesso modo dei nazisti.

L’Ufficio del Governo Militare aveva continuamente negato risposte alle rimostranze dei profughi ebrei e una qualche forma di riconoscimento di un loro gruppo separato e distinto. Gli alleati credevano che una simile linea politica li avrebbe protetti da accuse di segregazione o di trattamento a sfondo razziale dei profughi, quando in realtà li aveva fatti apparire insensibili e inconsapevoli delle particolari esigenze dei profughi ebrei sopravvissuti alla Shoah. I commenti di Harrison erano una condanna dolorosa del fallimento dell’esercito degli Stati Uniti nell’assicurare che i profughi ebrei fossero curati e trattati in un modo adeguato alle circostanze.

Fortunatamente, il Presidente Truman prese molto seriamente i suggerimenti di Harrison, dando subito avvio a dei cambiamenti nella cura, nel controllo e nel trattamento dei profughi ebrei. Sotto la direzione di Truman, il generale Eisenhower iniziò ad attuare un piano per migliorare le condizioni degli ebrei a partire dal 10 agosto 1945.

Egli riferì al Dipartimento di Stato che ogni ebreo che non voleva essere rimpatriato sarebbe stato trasferito in campi di soli ebrei, sul modello del centro di Feldafing, che aveva originariamente agito come centro di raccolta internazionale, ma con il tempo, dopo che i residenti non ebrei erano stati trasferiti in altre strutture, attraverso gli sforzi del rabbino Abraham Klausner e senza nessuna autorizzazione, era divenuto un campo ebraico.

Questi campi sarebbero stati gestiti dall’United Nations Relief and Rehabilitation Administration, UNRRA, con la collaborazione delle organizzazioni ebraiche di aiuto, come l’americana Jewish Joint Distribution Commitee, che fu la principale organizzazione umanitaria benefica attiva nei campi profughi statunitensi. Eisenhower ordinò anche a tutti i suoi ufficiali di requisire dai tedeschi che vivevano nei pressi dei campi le forniture necessarie per portare il tenore di vita all’interno allo stesso livello di quello esterno. Richiese ai suoi ufficiali di visitare regolarmente i campi. Inoltre, su suggerimento del rabbino Stephen Wise, nominò un consulente per gli affari ebraici, un intermediario che avrebbe incontrato i profughi e riferito le loro esigenze e preoccupazioni all’Ufficio del Governo militare. Infine, Eisenhower rimosse tutte le guardie armate dai campi sostituendole con membri della sicurezza interna. Tuttavia, tutti questi cambiamenti ebbero bisogno di tempo per essere implementati e nell’inverno ’45-’46 vi erano ancora ebrei che vivevano in alloggi di basso livello con guardie armate.

Dopo l’incontro con Harrison, Truman inviò una lettera al generale Eisenhower nell’agosto del 1945, affermando che il precedente trattamento dei DP, Displaced Persons, mostrava il fallimento dell’esercito nell’assistere le vittime del nazismo, inoltre, comprovava l’incapacità di costringere i tedeschi a rendersi conto che erano responsabili, dato il loro coinvolgimento nei crimini del recente passato. Il Presidente concludeva la lettera sostenendo di essere sicuro che il generale sarebbe stato d’accordo nel ritenere l’esercito degli Stati Uniti particolarmente responsabile nel trattare con una speciale attenzione le vittime della persecuzione nazista nella zona di competenza.

I cambiamenti che erano stati già implementati avevano di molto migliorato la condizione dei profughi ebrei in Germania, anche se c’era ancora molto da fare al fine di rendere la loro vita sopportabile. Anche se all’OMGUS, Office of Military Government, United States, era stato assegnato il compito di sovrintendere alla cura e al controllo dei DP nella zona americana della Baviera, la carenza dilagante in tutta la Germania e il mancato arrivo di forniture rendeva quasi impossibile soddisfare molti dei bisogni fondamentali dei profughi. Dato che le risorse disponibili in Germania erano tristemente insufficienti per il numero di persone bisognose di aiuto e gli Alleati non erano riusciti ad importare beni sufficienti dai loro rispettivi Paesi, non potevano rifornire adeguatamente tutti i rifugiati sotto la loro tutela. Questa situazione fu aggravata dall’afflusso di milioni di tedeschi etnici espulsi dai loro ex Paesi di residenza e dalle centinaia di migliaia di profughi che non potevano o non volevano essere rimpatriati.

È opportuno soffermarsi brevemente sulla situazione economica della Germania dopo la fine del conflitto. John McCloy, capo della Commissione di controllo degli Stati Uniti in Germania, riassunse lo stato del Paese alla fine della guerra dicendo che “vi è un completo collasso economico, sociale e politico…la cui portata è senza precedenti nella storia a meno che non si vada indietro al crollo dell’impero romano”2 [trad.it.a]. Inizialmente, nell’ambito del Piano Morgenthau, la Germania sarebbe stata spogliata dell’apparato militare e industriale, mentre gli Alleati avrebbero lavorato per rieducare le masse. La politica delle tre D in inglese, smilitarizzazione, denazificazione, deindustrializzazione, era stata originariamente istituita per convincere i tedeschi della loro sconfitta. Molti funzionari americani avevano sostenuto che gli errori commessi a Versailles nel 1918, in particolare il fatto che gli Alleati non erano stati in grado di convincere i tedeschi della loro condotta sbagliata e della sconfitta, non sarebbero accaduti di nuovo. Gli americani non avevano occupato la Germania a scopo di liberazione come avevano fatto per altri Paesi come la Francia, il Belgio, e i Paesi Bassi, ma perché era stata sconfitta. Era essenziale che i tedeschi realizzassero la loro sconfitta totale, i torti che avevano commesso contro il mondo, e la punizione a causa di questi crimini. Secondo il Ministro del Tesoro, Henry Morgenthau, e molti altri, la mancanza di una punizione e della comprensione della loro sconfitta da parte dei tedeschi era stato uno dei principali fallimenti degli Alleati alla fine della Prima Guerra Mondiale e aveva permesso alla Germania di far deflagrare il Secondo conflitto.

I tedeschi dovevano essere sottoposti ad un basso tenore di vita per aiutarli a capire la loro perdita. Per questa ragione, la produzione industriale fu gravemente limitata da un Piano economico istituito nel marzo del 1946 e la Wermacht fu sciolta nell’agosto dello stesso anno. Questo Piano fu ben presto sottoposto a severe critiche poiché le riduzioni economiche e la perdita di terreni agricoli tedeschi a favore dell’URSS faceva sì che fossero gli Alleati a sopportare il costo della ricostruzione e dell’alimentazione dei tedeschi e dei profughi all’interno del Paese.

Nel 1947 l’economia europea era in uno stato di crisi in quanto i sistemi produttivi di molti Paesi stavano iniziando a soffrire la perdita del mercato tedesco, che prima della guerra era un referente importante per l’Europa Centrale e Orientale. Finché la Germania fosse rimasta inattiva dal punto di vista produttivo, la ripresa economica del resto del continente sarebbe stata impossibile.

Le Forze americane non avevano in programma un’occupazione superiore ai due anni creduti necessari dal Governo affinché il Paese funzionasse senza la loro supervisione. Mentre questa era la politica ufficiale americana, e la diminuzione costante delle forze militari rientrava in questa strategia, gli americani avrebbero continuato a controllare il Governo semi-sovrano tedesco fino al 1952. Realizzata l’impossibilità di un ritiro immediato e compreso che lasciare la Germania in una condizione di distruzione e impoverimento avrebbe potuto spingerla nuovamente verso il nazismo o peggio, verso il comunismo, spinse i funzionari americani a rimanere a lungo sul territorio tedesco. Questo portò gli americani, insieme con l’Inghilterra, a ricostruire la pubblica amministrazione, le comunicazioni, il sistema giuridico, le forze di polizia e i servizi civili così come doveva essere fisicamente ricostruito un Paese ridotto in macerie.

Mentre il rapporto Harrison trasformò le condizioni di vita dei profughi ebrei nella zona americana, la maggioranza degli ebrei del Paese continuò a vivere all’interno dei confini degli ex campi. L’80% dei profughi ebrei scelse di vivere nei campi sentendosi in questi luoghi più protetti dai tedeschi. Questo senso di sicurezza era molto importante per i sopravvissuti all’Olocausto, che soltanto in centri protetti ebraici potevano cercare di ricostruire le loro vite spezzate. Gli ebrei entravano nelle strutture per DP credendo che i loro parenti fossero morti o che si sarebbero riuniti più facilmente ai loro cari sopravvissuti se fossero stati in questi campi.

Sebbene gli americani avessero iniziato a riformare le strutture DP dopo l’agosto del 1945, gli sfollati avevano continuato a vivere nelle caserme, nelle scuole e nei campi di lavoro come prima del rapporto Harrison. Come tali, queste residenze avevano un bassissimo standard qualitativo, inoltre, avevano subito dei danni durante la guerra ed erano estremamente sovraffollate.

Anche dal punto di vista sanitario la situazione dei profughi ebrei era difficile; infatti, i rischi per la salute abbondavano in quasi tutti i principali centri del Paese poiché l’uso precedente di molti di questi siti come campi di lavoro e caserme durante la guerra, in combinazione con la fretta con cui erano stati lasciati dai precedenti occupanti, faceva sì che le condizioni di vita nei centri DP fossero spesso insalubri. I requisiti igienici di base mancavano e le strutture erano state originariamente progettate per soli uomini, non per donne e bambini. Ciò comportava che lo smaltimento dei rifiuti, i servizi igienici e i servizi per lavarsi erano insufficienti e inadeguati per il numero di persone che si trovavano in questi centri.

Soltanto l’intervento dei funzionari dell’UNRRA, lo United Nations Relief and Rehabilitation Administration, fece sì che fossero eseguite delle opere di modernizzazione di tali strutture.

Dal punto di vista nutrizionale, anche se le razioni avevano un apporto calorico sufficiente, la mancanza di cane fresca e verdure faceva sì che la dieta dei profughi ebrei fosse priva di quelle vitamine e minerali di cui avevano bisogno per rimettersi in forze dopo la gravissima denutrizione a cui erano stati sottoposti dai nazisti.

La drastica riduzione degli stanziamenti per il Governo degli Stati Uniti in Germania, che includeva un decremento del numero dei soldati della zona americana, comprendeva anche gli sforzi dell’OMGUS per diminuire le razioni per i DP. Questo comportamento era volto a limitare il numero degli “infiltrati” nei campi. Una simile situazione continuò fino al 1947, quando i profughi ebrei, ed anche i non ebrei, si rivolsero all’unico mercato funzionante e disponibile in Germania: il mercato del popolo, altrimenti conosciuto come seconda economia o mercato grigio.

Fine prima parte
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Re: Pałestina: Le raxon de Ixrael

Messaggioda Berto » dom lug 15, 2018 9:08 am

Il cadavere di Oslo e la sua necessaria sepoltura
15 luglio 2018

http://www.linformale.eu/il-cadavere-di ... -sepoltura

Seconda parte

Nel gennaio del 1946, 36.000 profughi ebrei avevano fatto della zona americana in Baviera la loro casa temporanea, numero destinato a crescere progressivamente fino a 142.084. La Germania meridionale ospitava la maggioranza dei profughi ebrei, avendo i tre più grandi campi esclusivamente ebraici, Föhrenwald, Feldafing, e Landsberg. Essi sentivano di avere guadagnato una sorta di autonomia, iniziando a formare i propri comitati del campo, le forze di polizia e i vigili del fuoco; inoltre, crearono una ricca vita culturale, con la nascita di giornali e scuole, e attività di intrattenimento.

La rinascita di una vita normale in questi campi ebraici fu merito dell’attivismo organizzativo e politico degli ebrei sopravvissuti, che non furono affatto dei soggetti passivi di fronte al Governo Militare Alleato, ma si impegnarono per essere riconosciuti come interlocutori da parte delle Autorità statunitensi. Subito dopo la fine del conflitto, fu chiaro agli ebrei superstiti che potevano superare la rabbia e la frustrazione che provavano soltanto coalizzandosi intorno a leader che sentivano propri e che potevano essere riconosciuti come rappresentanti eletti di un gruppo nazionale separato. Le maggiori discussioni vertevano sulla necessità di una rappresentanza complessiva che fosse in grado di proteggere gli interessi vitali ebraici. Per questa ragione la proposta del rabbino Klausner di indire un incontro di tutti i rappresentanti dei campi della Baviera incontrò l’approvazione generale e il consenso del Governo Militare Americano. 41 rappresentanti si riunirono a Feldafing il 1° luglio del 1945 e si accinsero a creare un corpo elettivo che avrebbe avuto la funzione di rappresentante ufficiale dei sopravvissuti. Feldafing era l’unico campo ebraico in Baviera e doveva la sua esistenza agli sforzi del suo comandante di origini ebraiche, il tenente Irving Smith. L’attenzione alla salute, le razioni adeguate di cibo e un ragionevole confort erano caratteristiche che attrassero ben presto migliaia di ebrei liberati, facendo di Feldafing il più grande campo dell’area. Per questo era il luogo più adeguato per la Conferenza.

I partecipanti concordarono che il primo obiettivo era la costituzione di un effettivo corpo rappresentativo; essi erano abbastanza divisi a causa della loro diversa appartenenza politica. Per esempio, il Dr. Rosenthal, che rappresentava il gruppo affiliato al Bund, riteneva che i suoi membri intendessero ritornare ai loro Paesi di origine e per questo non avrebbero lavorato per un’istituzione dichiaratamente sionista. Con il termine tedesco Bund, che significa associazione, si è soliti indicare in forma abbreviata il movimento socialista ebraico Algemeiner Jidisher Arbeterbund in Lite, Poilen un Russland (espressione jiddisch che significa Federazione generale dei lavoratori ebrei in Lituania, Polonia e Russia). Il Bund fu fondato a Vilna nel 1897 soprattutto come sindacato operaio, ma in seguito svolse una funzione di vero e proprio movimento politico. Tenace avversario del sionismo, si batteva per la salvaguardia della lingua jiddisch e per i diritti degli operai ebrei nell’Europa orientale. Mentre in Russia, nel 1921, confluì nel partito bolscevico, in Polonia continuò a esercitare un importante e autonomo ruolo fino all’invasione nazista.

Egli suggerì quindi la fondazione di un’organizzazione non politica che si identificasse con i bisogni immediati dei sopravvissuti. La maggioranza sionista fu d’accordo sul fatto che la nuova istituzione fosse universale nella sua composizione e nei suoi obiettivi, ma al contempo insistette sull’importanza di Eretz-Israel per la salvezza dei sopravvissuti in particolare e per il futuro del popolo ebraico in generale. L’Associazione degli ebrei sopravvissuti nella zona occupata dagli americani in Baviera avvenuta a Feldafing stabilì che il suo compito primario fosse rappresentare e proteggere i superstiti ebrei. Allo stesso tempo, una clausola prometteva una stretta collaborazione con il movimento sionista in Baviera, e per questo motivo vi fu una notevole sovrapposizione nella leadership di entrambi i gruppi allora e in seguito. A un livello più pratico fu deciso che i rappresentanti dei campi (in numero proporzionale ai loro membri) avrebbero costituito il plenum dell’Associazione e avrebbero eletto un consiglio di 21 membri per gestire la linea politica e un Comitato esecutivo di 8 membri per attuarla. L’incontro di Feldafing si chiuse con la formulazione di una risoluzione indirizzata agli Alleati in vista della Conferenza di Potsdam, in cui si esprimeva profondo apprezzamento per la vittoria alleata, sottolineando il contributo ebraico allo sforzo bellico, e chiedendo che il Libro Bianco inglese del 1939 fosse cancellato e che l’immigrazione ebraica in Palestina fosse priva di limitazioni. Pochi giorni dopo il Comitato esecutivo si trasferì in modo permanente negli Uffici del Museo Tedesco di Monaco. Furono istituiti sette dipartimenti riguardanti i più urgenti bisogni dei profughi, che si occupavano di rimpatri, cure mediche, cibo, vestiario e alloggi.

Dal punto di vista politico, due questioni interconnesse occuparono l’attenzione del Comitato: la necessità di costruire un’organizzazione veramente efficace e ottenerne il riconoscimento come rappresentante ufficiale di un gruppo nazionale ben distinto da parte dell’esercito americano. Dopo che il rabbino Klausner aveva fallito nel suo tentativo di ricevere qualche forma di riconoscimento, il Comitato cercò l’aiuto di Joseph Dunner, un ufficiale ebreo che supervisionava le pubblicazioni dei giornali a Monaco. Dunner partecipò alle prime sessioni di lavoro del Comitato e sperava di essere in grado di portare le sue richieste alla personale attenzione del generale Eisenhower. Chain Ben-Asher e Aryeh Simon, gli emissari della Brigata Ebraica che stavano visitando i campi della Germania dagli inizi di luglio, spronarono il Comitato ad aumentare le sue iniziative. Alcune proposte erano già state messe in pratica: alcuni rappresentanti si erano diretti al campo di Bergen-Belsen per prender contatto con i sopravvissuti; altri avevano viaggiato in Polonia per assistere nella ricerca dei congiunti dei superstiti; mentre un terzo gruppo si era recato nel sud Italia in cerca di un modo per raggiungere la Palestina. I rappresentanti della Brigata Ebraica sentivano che era giunto il tempo per iniziative più eclatanti, in grado di catturare l’attenzione mondiale: la Gran Bretagna era in periodo di elezioni; Earl Harrison, che aveva incontrato Simon, stava visitando i campi profughi; l’esecutivo sionista stava per riunirsi a Londra per la prima volta dopo la fine della guerra; lo stesso esecutivo dell’UNRRA aveva in programma un incontro. Era un momento propizio per una campagna sul tema dei profughi ebrei sopravvissuti e per esercitare pressione sull’Inghilterra affinché rivedesse il Libro Bianco del 1939 che limitava severamente l’immigrazione ebraica in Palestina. I rappresentanti della Brigata Ebraica propendevano per una Conferenza dalla base molto ampia, che comprendesse anche le comunità della zona britannica e delle altre zone di occupazione non ancora rappresentate nel Comitato. Questo avrebbe aiutato il Comitato nell’ottenere pubblicità e credibilità nelle comunità dei sopravvissuti della Germania. Due fatti ebbero un importante significato per i sopravvissuti: il viaggio e il conseguente rapporto di Harrison e, internamente, la decisione per una Conferenza rappresentativa molto ampia.

La Conferenza dei rappresentanti dei superstiti ebrei in Germania, che si tenne a Sant’Ottilien il 25 luglio del 1945, accolse 94 delegati che rappresentavano circa 40.000 ebrei sparsi nei 46 centri della Germania e dell’Austria. Gli organizzatori, consapevoli dell’importanza delle pubbliche relazioni, invitarono giornalisti e ufficiali americani a partecipare alla cerimonia di apertura. I rapporti dei delegati e le risoluzioni si focalizzarono su due temi: libera e immediata immigrazione in Palestina e, in vista di questa, preparativi per un più lungo soggiorno in Germania. A questo riguardo, la Conferenza raccomandava di concentrare gli ebrei in campi separati, dotati di autonomia interna. Un’ulteriore risoluzione chiedeva la riunione di tutte le testimonianze e delle prove che avrebbero potuto aiutare a porre sotto processo i criminali nazisti; questo materiale sarebbe stato trasportato successivamente in Palestina e sarebbe servito come pietra miliare per un memoriale per le distrutte comunità ebraiche europee. Inoltre, la Germania era chiamata a compensare le vittime per le disabilità fisiche e la perdita delle proprietà. La Conferenza si concluse con una cerimonia simbolica nel Bürgerbraükeller a Monaco; qui, tra rotoli sconsacrati della Torah, 20 dei delegati riuniti in assemblea lessero una dichiarazione ufficiale che chiedeva uno Stato indipendente e uguaglianza di diritti per il popolo ebraico nel mondo. La vivacità, il coraggio e la vitalità di coloro che parteciparono alla Conferenza impressionarono fortemente gli osservatori stranieri.

Il Comitato centrale, che rimase largamente fedele alla base politica determinata a Sant’Ottilien, fu riconosciuto come ufficiale rappresentante degli ebrei nella Germania occupata. Questi sviluppi, considerati insieme, resero possibile per i profughi ebrei avere un impatto sugli eventi che li riguardavano in Germania e altrove.

Nella seconda metà del 1945, il Tsentral Komitet fun di Bafreite Yidn in Daytshland– Comitato centrale degli ebrei liberati in Germania (Zentral Komitet nella traslitterazione del tempo e per questo abbreviato in ZK) – grazie alla velocità degli eventi avviatasi dopo la Conferenza di Sant’Ottilien continuò ad espandere le sue attività ed a disegnare la sua struttura organizzativa. Lo ZK si considerava il rappresentante democraticamente eletto dei superstiti ebrei, responsabile per la loro riabilitazione mentre si trovavano in Germania, impegnato per accelerare la loro partenza per la Palestina o verso qualsiasi altro luogo: lo ZK in virtù della sua composizione e dei suoi articolati obiettivi si vedeva come un’istituzione sionista che si prendeva cura di tutti. Ciò significava essere la voce dei superstiti ebrei di fronte all’Esercito americano e all’UNRRA e combattere per un riconoscimento ufficiale degli ebrei come popolo, per campi separati con autonomia interna e per un aumento dei servizi e delle forniture. I membri dello ZK erano in costante contatto con altre istituzioni internazionali, ebraiche e non, per promuovere e esplorare altre possibilità di emigrazione. Furono mantenuti contatti regolari con la Croce Rossa Internazionale e con le autorità tedesche locali.

Le funzioni svolte dallo ZK erano molte e diversificate: il lavoro di ricerca dei congiunti dei sopravvissuti; i servizi medici furono forniti a Sant’Ottilien e dall’ala ebraica dell’ospedale di Gautering, mentre i pazienti affetti da tubercolosi erano curati nel sanatorio di Babenhaunsen; l’apertura di scuole in tutti i maggiori campi e l’istituzione di numerosi corsi; una grande energia fu spesa per ottenere più cibo, un vestiario decente e posti meno affollati in cui vivere; nella sfera culturale è da segnalare che nel novembre del 1945 furono intrapresi i primi passi per istituire una Commissione storica a cui fu poi affidato il compito di raccogliere testimonianze personali, documenti, fotografie, libri e oggetti-ricordo che sarebbero potuti servire sia per gli storici sia per portare di fronte alla giustizia i criminali. Lo ZK impostò dei dipartimenti aggiuntivi che si occupavano di economia, educazione e cultura, emigrazione, salute, questioni religiose e, più tardi, si dotò di un ufficio legale e di un revisore generale dei conti.

Data l’importanza, è opportuno soffermarsi sull’attività svolta nell’ambito educativo all’interno dei campi. Le scuole all’interno dei campi ebbero una funzione fondamentale; si calcola che nel dicembre del 1945 vi fossero 26.506 bambini e ragazzi, di età compresa tra 1 anno e 17 anni, la maggior parte dei quali aveva perso inevitabilmente anni di scuola a causa delle persecuzioni e della guerra, non sapendo più né leggere né scrivere, quindi, fu intrapresa un’attenta opera di recupero che prevedeva, in vista dell’emigrazione negli Stati Uniti o in Israele, l’insegnamento dell’inglese e dell’ebraico. I problemi che queste scuole dovevano affrontare erano molto gravi: mancanza di fondi, di insegnanti qualificati e di classi spaziose. Nella seconda metà del 1946, il dipartimento dell’educazione dello ZK preparò un curriculum per i primi cinque gradi dell’istruzione primaria e istituì un ispettorato per guidare gli insegnanti nel loro lavoro e nell’implementazione del programma di studio. Nel novembre del 1946 si tenne una Conferenza regionale a Stoccarda per 44 insegnanti, seguita da un seminario per gli educatori della scuola dell’infanzia. Manuali in ebraico per lo studio della matematica, della letteratura, delle feste ebraiche, della storia e della geografia della Palestina furono distribuiti molto rapidamente nella zona di occupazione. Alla fine del 1946 il dipartimento dell’educazione e della cultura della JOINT stimava che dei 15.000 bambini di età compresa tra i 6 e i 17 anni circa 10.000 fossero registrati nelle scuole dei campi, al contempo 581 ragazzi frequentavano dei corsi nelle università tedesche.

I campi ebraici seppero dare ai loro abitanti un senso di normalità in una situazione anormale.

I centri rimasero sotto il diretto controllo dell’OMGUS fino al 15 novembre 1945, quando la gestione fu trasferita all’UNRRA.

Dopo il trasferimento della competenza sui campi al Governo bavarese e al Governo Federale Tedesco nel 1951, i campi per profughi ebrei rimasero esclusivamente centri ebraici. Le autorità tedesche garantirono anche che le feste e i rituali religiosi sarebbero stati rispettati senza alcuna interferenza da parte degli ufficiali tedeschi.

Dato lo stretto contatto intercorso tra i profughi ebrei e gli americani è opportuno soffermarsi su questa relazione.

Il Governo Militare Americano lavorò instancabilmente per combattere l’antisemitismo e il commercio illegale, in ogni modo, i soldati americani costituivano una parte significativa dei partecipanti ad entrambe queste attività alla fine degli anni Quaranta. Nel 1946, molti operatori umanitari ebrei, così come profughi e ufficiali dell’OMGUS, notarono un incremento dell’ostilità tra i soldati americani e i rifugiati ebrei.

Questo deterioramento delle relazioni tra le autorità d’occupazione e i DP non era connesso alla politica generale della zona americana, ma piuttosto derivava dall’introduzione di nuovi soldati nell’area. I nuovi militari non erano dell’esercito di combattimento, quindi non avevano visto le atrocità commesse dai tedeschi nei campi di concentramento e di sterminio in tutta Europa e non avevano partecipato alla liberazione degli ebrei sopravvissuti.

L’esperienza della liberazione aveva condotto la maggior parte dei soldati americani a prendersi cura dei superstiti ebrei con simpatia e comprensione, dati i crimini che erano stati commessi contro di loro. In aggiunta a questi sentimenti di simpatia per i sopravvissuti della Shoah, dal dopoguerra fino al 1 ottobre del 1945 vi era divieto di fraternizzazione con i tedeschi, Legge non motivata soltanto da esclusivi motivi di sicurezza ma anche dalla volontà di punire i tedeschi. Tuttavia, si deve notare come molti soldati non fossero disposti ad interagire con i tedeschi a causa delle loro esperienze della guerra.

Con la rimozione delle restrizioni alla fraternizzazione si riscontrò un aumento delle relazioni tra tedeschi e americani e contestualmente una miscela dell’antisemitismo esistente tra tedeschi e americani.

Molti funzionari americani, così come un certo numero di operatori umanitari ebrei, avevano notato che il continuo contatto con i tedeschi aveva portato ad un aumento delle espressioni ostili e antisemite da parte delle truppe americane. Già nel 1946, gli operatori dell’UNRRA e altri osservatori esterni segnalavano che alcuni soldati americani avevano adottato l’atteggiamento antisemita del popolo tedesco con cui entravano in contatto.

Entro la fine degli anni Quaranta, le forze di combattimento e liberazione che avevano combattuto i nazisti e visto le prove dell’antisemitismo tedesco erano state autorizzate a rientrare negli Stati Uniti, mentre i soldati inviati per ricostruire la Germania non erano a conoscenza dei crimini tedeschi contro l’umanità al di là delle notizie che avevano visto al cinema. L’esercito istituì nell’ottobre del 1945 un programma per informare i soldati sui gruppi di cui avrebbero dovuto prendersi cura.

Nella pratica questi giovani soldati incontravano ragazze tedesche carine e accomodanti, e vedevano dei cittadini dalle buone maniere che vivevano in case pulite, in netto contrasto con i profughi ebrei, che apparivano antigienici, destabilizzanti, e ostili; risultava difficile per questi giovani soldati ricordare chi aveva perpetrato la guerra e di chi avrebbero dovuto prendersi cura perché vittime di quel conflitto.

Alcuni osservatori del tempo hanno sostenuto diverse motivazioni alla base del deterioramento delle relazioni tra soldati americani e DP ebrei, motivazioni attribuite al modo in cui i soldati percepivano i profughi ebrei. Già dal 1946, leader ebrei come il Dottor Samuel Gringauz iniziò a dare lezioni ai nuovi soldati sui DP e sui problemi che avevano affrontato. In questi programmi di studio, i leader ebrei parlavano anche dei problemi dei soldati americani nelle relazioni con i profughi ebrei, come la resistenza ebraica agli ordini emessi da chiunque fosse in uniforme o la convinzione sviluppata dai superstiti nei campi della necessità di agire al di fuori della legge per sopravvivere.

Il rabbino Philip Bernstein scrisse un articolo, pubblicato sui giornali delle unità di occupazione, sui profughi ebrei per contribuire ad una maggiore conoscenza delle loro preoccupazioni e della loro personalità. Sebbene questi articoli e seminari avrebbero dovuto teoricamente aiutare, era sufficiente spesso un unico incontro con un profugo ebreo perché tutto ciò che era stato appreso fosse cancellato. Un abitante del campo profughi di Feldafing ricordava come “essi [i soldati americani] abbiano incontrato gente selvaggia priva di tatto, priva delle buone maniere di base e delle regole elementari di condotta…e quando si sono incontrati ebrei di questo genere tutte le spiegazioni che parlavano di loro in precedenza sono state annullate e sono scoppiate come bolle di sapone”3 [trad.it.a].

Il rabbino Bernstein aveva osservato che le politiche prescritte dagli alti apparati del Governo Militare erano eccellenti, ma i veri problemi sussistevano sul campo; infatti, la Legge e l’ordine militare erano fonte di confusione per i DP, che non erano abituati alle procedure militari. La comunicazione si ruppe quando a questa situazione si aggiunse l’estraneità del profugo ebreo nella mente del soldato. Secondo Bernstein “il giovane soldato americano ha difficoltà a capire il DP. Il suo modo di pensare e i suoi modelli di comportamento gli sono estranei. Con il passare dei tempo, i profughi divengono sempre più gravosi per coloro che sono responsabili della loro cura. C’è indubbiamente una sottile, malsana influenza tedesca, che probabilmente è in crescita.”4 [trad.it.a].

Tuttavia, questa mancanza di comprensione non è stata l’unica causa delle relazioni ostili tra ebrei e soldati americani; infatti, molti militari erano già antisemiti quando giunsero in Europa, altri erano immaturi e gioivano del potere che potevano esercitare sugli altri.

Il deterioramento delle relazioni tra soldati americani e profughi ebrei divenne così preoccupante che l’esercito decise di condurre uno studio tra i suoi soldati per esaminare le relazioni tra tedeschi e americani, nonché il razzismo e l’antisemitismo tra le truppe. Su 1.790 militari intervistati, il 22% riteneva che i tedeschi avessero partecipato alla soluzione finale mentre il 19% pensava che i tedeschi fossero la causa della Seconda Guerra mondiale. Nonostante gli sforzi americani per educare i soldati sulla condizione dei DP e sui mali dell’antisemitismo, le relazioni tra gli ebrei e i soldati americani in Germania continuarono a deteriorarsi al punto che DP ebrei furono presso assimilati ai criminali nella mente di molti militari americani. I raid condotti dalle forze americane alla ricerca dei beni del mercato nero erano divenuti eventi normali nei centri DP ebraici. Per molti profughi ebrei queste ricerche erano soltanto una prova ulteriore che l’esercito americano stava favorendo i tedeschi rispetto agli ebrei. Persino per il soldato più tollerante la situazione dei DP era vista come un fastidio, un dovere che i militari americani non erano ben attrezzati per gestire, ma soprattutto una situazione con cui non avrebbe dovuto avere niente a che fare.

La percezione di un eccessivo coinvolgimento degli ebrei negli affari illegali era comune nella mentalità bavarese ed iniziò ad avere una forte presa anche su quella dei soldati statunitensi. Ciò avvenne prevalentemente dopo il 1948, quando gli Alleati lavorarono per ristabilire il pieno funzionamento dell’economia tedesca, al fine di garantire che la Germania divenisse un alleato affidabile, capitalista e democratico contro l’URSS. La convinzione che la criminalità ebraica minacciasse i piani alleati condusse ad un’ulteriore frattura nei rapporti tra i profughi ebrei e gli ex liberatori dopo il 1948.

Da un lato, gli americani credevano che tutti coloro che vivevano sotto loro responsabilità dovessero obbedire alla Legge, ma in realtà questo era impossibile finché non furono in grado di sostenere i civili sotto la loro tutela. Ciò è dimostrato dal libro di memorie di Simon Schochet, in cui affermava che, pur rendendosi conto che la polizia militare agiva in base a degli ordini per impedire le operazioni del mercato nero, esso rappresentava, data la situazione economica della Germania, l’unico mezzo di sussistenza non solo per gli ebrei ma anche per i tedeschi.

Data la crisi economica, ebrei e tedeschi erano costretti ad interagire giornalmente. Lo scambio sul mercato grigio è stato spesso il primo contatto avuto con i tedeschi dopo il campo di concentramento per molti sopravvissuti dell’Olocausto. Nel complesso, la maggior parte degli ebrei aveva dei sentimenti di amarezza verso le persone ritenute responsabili dello sterminio di sei milioni di ebrei.

Molti profughi ebrei hanno sostenuto che c’era poca comunicazione tra loro e i vicini tedeschi, non estendendosi oltre gli scambi commerciali. In effetti, c’erano costanti e intensi contatti tra gli ebrei e i loro vicini, ma questi contatti non erano considerati scambi sociali, ma piuttosto interrelazioni necessarie per entrambe le parti. Tali scambi costringevano le due parti a cooperare su una base giornaliera durante un periodo in cui nessuna delle due era entusiasta di parlare e vivere insieme, e meno ancora lavorare. Gli ebrei e i tedeschi avevano bisogno di interagire per sopravvivere.

Dopo il gravissimo incidente nel campo ebraico di Stoccarda nel marzo del 1946, quando 200 poliziotti tedeschi con dei cani entrarono nel campo sparando sulla folla dei profughi ebrei e uccidendo un sopravvissuto alla Shoah, fu interdetto alla polizia tedesca l’accesso ai centri per profughi ebrei.

La mancata giurisdizione della polizia tedesca sui campi significava la totale separazione dei profughi ebrei dal sistema giuridico tedesco; i profughi ebrei erano soggetti alle stesse Leggi di tutti gli altri cittadini, ma non potevano essere arrestati dalla polizia tedesca, non potevano essere trattenuti in carceri tedesche, e non potevano essere giudicati da tribunali tedeschi. Questi profughi sarebbero invece dovuti essere tenuti in custodia militare o imprigionati nel carcere del campo fino al processo, che per Legge doveva svolgersi entro ventiquattro ore. L’estensione del divieto della custodia tedesca anche alle prigioni costrinse gli americani ad istituire dei centri di detenzione per DP a Berlino, a Brema, e in altri tre stati federali nella zona americana di occupazione. Gli istituti tedeschi non potevano mai essere usati per ospitare DP ebrei, nonostante il sovraffollamento delle carceri. L’Ufficio del Governo Militare fu incaricato anche di creare strutture a lungo termine per coloro che subivano una condanna superiore all’anno. Lo status extralegale dei profughi ebrei continuò fino al trasferimento del controllo di tutti i campi dagli americani alla Germania nel 1951, portando ad un aumento delle tensioni tra ebrei e tedeschi.

Tuttavia, è importante evidenziare che anche se occasionalmente vi erano rapporti amichevoli tra ebrei e tedeschi, e molti ebrei e tedeschi avrebbero potuto descrivere i loro sentimenti verso l’altro come ambivalenti, sussisteva una forte corrente sotterranea di odio tra i membri di entrambe le parti.

Con l’occupazione furono varate diverse leggi che stabilivano ciò che un tedesco poteva e non poteva dire in pubblico; la Legge bavarese quattordici all’articolo uno stabiliva che ogni espressione di odio su base razziale, religiosa o nazionale fosse illegale, tale norma fu applicata molto severamente nei primi anni di occupazione.

L’odio verso gli ebrei non era scomparso con la fine del nazismo nel 1945; per esempio il sostantivo Jude continuò ad essere utilizzato nei rapporti di polizia anche dopo la Legge del settembre del 1945 che aboliva la categorizzazione razziale. Questo termine compariva ancora nei rapporti degli ufficiali tedeschi anche dopo che la Legge dell’ottobre del 1946 ne ribadiva il divieto, infatti, occasionalmente può essere trovato anche in relazioni del 1950.

Scrivendo dell’antisemitismo in Germania nel biennio 1946-1947, Boris Sapir ha osservato che “fintanto che le truppe alleate rimangono in Germania, anche i nazisti più rabbiosi cercheranno di controllarsi”5 [trad.it.a]. Naturalmente tra i profughi ebrei vi era la consapevolezza che le truppe americane non potessero rimanere in Germania per sempre.

In pochi mesi dopo la fine del conflitto, erano apparse di nuovo delle svastiche sui muri degli edifici, le finestre di case ebree erano state distrutte e cimiteri profanati in tutta la Baviera. Studi condotti in tutto il Paese hanno dimostrato che quattro tedeschi su dieci intervistati avrebbero partecipato, o almeno tollerato, atti pubblici contro gli ebrei. Quattro tedeschi su dieci ammisero di essere razzisti o nazionalisti, facilmente suscettibili all’incitamento antisemita. Nell’opinione pubblica era diffusa la diceria che i rifugiati ebrei uccidessero le ragazze cristiane per vendere la loro carne al mercato nero. Mentre ci sono stati pochi attacchi palesi contro gli ebrei, le tensioni tra le due parti iniziarono a crescere, e gli ebrei erano di nuovo sottoposti a canzoni di scherno, minacce e abusi. La situazione era talmente preoccupante che il Governo Militare iniziò il monitoraggio di tali atti ed emise degli avvisi sull’aumentare delle tensioni nella zona americana della Baviera. Le Forze Alleate non erano certamente le uniche ad essere a conoscenza dei crescenti sentimenti antisemiti della popolazione della Baviera, infatti, quasi ogni pubblicazione e corrispondenza ebraica-americana riguardava la condizione degli ebrei in Germania, e ogni incontro di associazioni ebraiche prevedeva una discussione sulle manifestazioni di antisemitismo. Anche la stampa ebraico-tedesca discuteva del tema dell’antigiudaismo nel Paese e Der Veg pubblicò un articolo nel febbraio del 1947 in cui affermava che “la popolazione tedesca nella sua maggioranza è ancora antiebraica, e anche i funzionari di nuova nomina esitano a portare aiuto agli ebrei”6 [trad.it.a]. Mentre la popolazione della Germania non era molto soddisfatta dei suoi vicini ebrei, sono stati spesso i profughi ebrei dell’Europa dell’Est ad essere presi di mira. Molti tedeschi si lamentavano che la Germania era stata gravata da una sovrabbondanza di ebrei “cattivi”, animati da desideri immorali, criminali e pieni di odio. Un detto popolare molto conosciuto nel dopoguerra recitava: “Che pasticcio ha fatto il Führer, ha cacciato via i nostri buoni ebrei [tedeschi], ed ora abbiamo tutti questi cattivi ebrei [dell’Europa Orientale].

La popolazione capì che ogni espressione di antisemitismo sarebbe incorsa in dure punizioni da parte degli americani, al contempo, comprese che poteva scagliarsi contro i profughi ebrei stranieri invece di esprimere odio verso gli ebrei tedeschi.

Attraverso i rapporti stilati dagli ufficiali americani è possibile osservare come ancora nel dopoguerra vi fossero molti tedeschi che credevano che la soluzione della Judenfrage fosse la completa scomparsa degli ebrei dal Paese, in pratica condividevano le stesse convinzioni di Hitler.

Le Forze occidentali, e in particolare il Governo Militare americano in Baviera, lavorarono nelle rispettive zone per combattere l’antisemitismo e “rieducare” i suoi sostenitori. Tuttavia, era chiaro dalla fine degli anni Quaranta che i loro tentativi non avevano avuto successo. Questi programmi di rieducazione erano iniziati nel 1945, rivolgendosi agli individui più radicalizzati. Questi sforzi ebbero inoltre vita breve, poiché successivamente il Governo militare americano tentò di insegnare a tutti i livelli della società tedesca i valori della democrazia attraverso i centri americani, il baseball, e le scuole, abbandonando in tal modo i programmi di denazificazione.

Molti funzionari americani erano sconcertati nello scoprire i risultati delle indagini dell’esercito americano condotte nel 1946, secondo le quali il 18% della popolazione tedesca era intensamente antisemita, e che un ulteriore 21% si considerava moderatamente antisemita. Mentre questi risultati non necessariamente si traducevano in atti ostili pubblici contro gli ebrei, era chiaro che l’antisemitismo era profondamente radicato nel popolo tedesco.

Michael Berkowitz sostiene che molti tedeschi accettavano le affermazioni sulla criminalità insita in tutti gli ebrei perché avevano già interiorizzato tali paradigmi prima dell’era nazista. Sapir ha osservato che con la difficile situazione dilagante in tutto il Paese “l’eredità velenosa lasciata da Goebbels continuava a dominare le menti della popolazione”7.

Questi paradigmi hanno fatto sì che i tedeschi razionalizzassero il destino degli ebrei durante il nazismo, ritenendo che tutto ciò che gli era accaduto se lo fossero meritato. Cartelloni pubblicitari e campagne di stampa che proclamavano la natura criminale dell’ebraismo mondiale avevano infestato i media tedeschi durante il nazismo e queste campagne, benché cessate con la fine della guerra, stavano avendo i loro effetti, sebbene gli Alleati avessero stabilito quello che credevano essere il primo Governo veramente democratico della Germania.

Questo contesto era aggravato dal fatto che il numero maggiore di DP ebrei vivesse in Baviera, in campi profughi situati vicino a città infestate da nazisti irriducibili prima e durante la guerra. I nazisti che vivevano in queste aree probabilmente erano quelli che più avevano assorbito la propaganda contro gli ebrei diffusa dal Partito Nazista durante il Terzo Reich. I funzionari tedeschi in queste città citavano spesso il sovrabbondante coinvolgimento ebraico nel crimine, specialmente sulla Möhlstraße a Monaco di Baviera, come la causa principale per i recenti aumenti delle espressioni pubbliche di sentimenti antiebraici. Molti studiosi contemporanei hanno compreso che le reali cause del crimine in Germania erano da ricercarsi nella devastante sconfitta dei nazisti nel 1945, e che il mercato grigio e nero sarebbero cessati una volta ristabilita un’economia tedesca funzionante, ma il tedesco medio spesso ignorava tutto ciò.

La necessità di giustificare le azioni dei nazisti contro gli ebrei era così travolgente che ha portato molti tedeschi a impiegare delle tattiche diversive per difendere le proprie azioni. Secondo Samuel Gringauz, “l’unica possibile difesa per omicidi di vaste proporzioni è negare e calunniare le vittime-gli ebrei”. Egli continua affermando che “così come i tedeschi danno la colpa per i loro omicidi alle vittime, attribuiscono il loro presente disagio economico non ai nazisti, eroici conquistatori del mondo, ma ai profughi”. Molti tedeschi volevano negare il loro coinvolgimento nelle azioni criminali effettuate durante la Seconda Guerra mondiale e il modo più semplice per farlo era incolpare le vittime della criminalità nazista, sostenendo che in realtà queste persone erano anch’esse dei criminali.

Era chiaro nel 1947 che gli ebrei erano stati presi di mira come capro espiatorio per i problemi economici della Germania. Questo dato è particolarmente interessante se si considera che gli autori dei crimini in Germania erano tedeschi; le merci normalmente negoziate sul mercato nero e grigio erano state acquistate da agricoltori, industriali e grossisti tedeschi. È importante ricordare che i profughi ebrei dovevano necessariamente rivolgersi al mercato nero per approvvigionarsi di quegli elementi nutrizionali di cui la loro razione di cibo era povera, in particolare grassi e proteine.

I rapporti del periodo citano svariate cause per la rinascita dell’antisemitismo; il deterioramento del morale tra la popolazione tedesca, esacerbata da una prospettiva negativa sul proprio tenore di vita nell’immediato dopoguerra e dal perdurare della depressione economica nel Paese. Molti tedeschi credevano erroneamente che i profughi ebrei fossero mantenuti soltanto dalla popolazione locale. Inoltre, i tedeschi pensavano che le truppe americane non facessero molto per fermare le attività illegali dei profughi e che i criminali ebrei ricevessero un trattamento speciale. Dal punto di vista prettamente giudiziario, l’unica differenza rilevante era che un imputato tedesco spesso doveva attendere più tempo per il suo processo.

È opportuno ricordare che ad un DP arrestato per un reato era negato il permesso di ingresso negli Stati Uniti in modo permanente, inoltre, la percezione tedesca di un forte coinvolgimento degli ebrei nelle attività illegali non corrispondeva alla realtà, dato il basso numero di arresti. La discrepanza, un fatto documentato in Germania, era causata dal rifiuto da parte di molti tedeschi di ammettere che erano molti di più i loro concittadini ad essere coinvolti in attività criminali che gli ebrei.

Un aspetto centrale nella vita dei profughi ebrei era la possibilità di emigrare nell’allora Palestina mandataria o negli Stati Uniti; le quote di immigrazione verso la Palestina erano molto limitate e chi cercava di raggiungerla illegalmente era rinchiuso nei campi di prigionia inglesi a Cipro, inoltre, anche gli Stati Uniti avevano delle quote restrittive, che mantennero fino al 1949, tanto che soltanto 10.000 profughi ebrei poterono avere il visto d’ingresso.

In ogni modo, la nascita dello Stato d’Israele non permise un’emigrazione di massa dei profughi ebrei in Germania, poiché la guerra che coinvolse subito dopo la proclamazione il giovane Stato operò una selezione sui profughi, preferendo giovani in salute che potessero combattere. Si calcola che soltanto 30.000 profughi ebrei emigrarono in Israele nel corso del 1948. Questo numero crebbe sensibilmente dopo il 1952, ma fu controbilanciato anche da coloro che decisero di tornare in Germania e da coloro che decisero di rimanere, pur non avendo impedimenti formali per partire.

Israele accolse circa 142.000 profughi e gli Stati Uniti 80.000 tra il 1945 e il 1952, il Canada tra i 16.000 e i 20.000, l’Australia 5.000, il Belgio 8.000, la Francia 2.000 e i Paesi dell’America Latina e il Sud Africa altri 5.000. Rimasero circa 800 persone che non trovarono una casa all’estero, ma che furono integrate nella società tedesca.

Nel 1957 chiuse il campo di Föhrenwald, l’ultimo ancora operativo.

La natura particolare dei campi nella zona americana, abbinata agli straordinari sforzi messi in atto dalle organizzazioni di aiuto ebraiche attive nel Paese, diede ai profughi gli strumenti per ricostruire le loro vite. Il tempo che i sopravvissuti vi trascorsero fu come un ponte tra la Shoah e il loro futuro all’estero; molti incontrarono e sposarono i loro partner, ebbero dei figli e intrapresero delle carriere lavorative.

I campi ebraici nella zona americana aiutarono i superstiti a prepararsi per una nuova vita, dopo e nonostante Auschwitz.

Fine seconda parte
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Re: Pałestina: Le raxon de Ixrael

Messaggioda Berto » dom lug 15, 2018 9:08 am

Il cadavere di Oslo e la sua necessaria sepoltura
15 luglio 2018

http://www.linformale.eu/il-cadavere-di ... -sepoltura


Terza parte


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Re: Pałestina: Le raxon de Ixrael

Messaggioda Berto » dom lug 15, 2018 9:15 am

Terza parte e ultima parte

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1 Cfr. Leonard Dinnerstein, America and the Survivors of the Holocaust, Contemporary American History series

(New York: Columbia University Press, 1982): 291. Appendice B.

2 Cfr. Cfr. Judt, Tony. Postwar: A History of Europe since 1945. New York: Penguin Press, 2005, p. 21.

3 Cfr. Zeev W. Mankowitz, Life Between Memory and Hope: The Survivors of the Holocaust in Occupied Germany,

Studies in the Social and Cultural History of Modern Warfare (New York: Cambridge University Press, 2002). 257.

4 Philip S. Bernstein, “Address by Philip Bernstein,” in Jewish Displaced Persons (Jerusalem: AJJDC, 1946), p. 2.

5 Cfr. Boris Sapir, “Germany and Austria,” The American Jewish Year Book 49(1947-1948), p. 373.

6 Cfr. Sapir, “Germany and Austria,” p. 374.

7 Cfr. Sapir, “Germany and Austria,” p. 373.
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Re: Pałestina: Le raxon de Ixrael

Messaggioda Berto » ven lug 20, 2018 9:34 pm

Sbagliato e pericoloso parlare di “territori palestinesi occupati”
Ugo Volli

http://www.progettodreyfus.com/territor ... i-occupati

Uno dei luoghi comuni più diffusi e meno fondati sul Medio Oriente è che il problema della regione sarebbe dovuto all’”occupazione israeliana dei territori palestinesi”. Per fare un esempio recente, l’ha ripetuto nei giorni scorsi la più celebrata allieva di Bernie Sanders alla guida dell’estrema sinistra dei democratici americani, Alexandria Ocasio-Cortez candidata alla Camera per un collegio di New York.

In un’intervista televisiva che trovate qui la nuova star del progressismo americano ha iniziato a deplorare l'”occupazione della Palestina” e la “crescente crisi della condizione umanitaria” lì. L’intervistatrice Margaret Hoover allora le ha chiesto di approfondire ciò che intendeva con “l’occupazione della Palestina”: “Oh, uhm … Penso che quello che intendevo fosse, gli insediamenti che stanno aumentando in alcune di queste aree e luoghi in cui i palestinesi stanno incontrando difficoltà nell’accesso ai loro alloggi”.

Risposta bizzarra, bisogna ammettere: l’occupazione sarebbe innanzitutto “difficoltà nell’accesso agli alloggi”. Hoover allora ha chiesto a Ocasio-Cortez di approfondire ulteriormente, ottenendo solo un risolino: “Non sono un’esperta di geopolitica su questo argomento.”

Il fatto è che di non-esperti che pontificano sull’occupazione israeliana è pieno il mondo. Cerchiamo di capirne qualcosa. Occupazione, scrive la Treccani è “in genere, l’azione, l’operazione di occupare, cioè di prendere temporaneamente o stabilmente possesso di un luogo o di un bene, con mezzi legali o illegali, talvolta anche violenti, e il fatto di venire occupato [in diritto amministrativo] modo di acquisto della proprietà consistente nella presa di possesso di cosa che non appartiene ad alcuno, con l’intenzione di farla propria; [in diritto interazionale] l’operazione con la quale uno stato prende possesso di un territorio che non gli appartiene in sovranità, sia perché facente parte di un altro stato, sia perché non facente parte di alcuno stato” Per il Sabatini Colletti “Presa di possesso, più spesso temporanea, di un posto, con mezzi legittimi o con la forza.” L’occupazione è dunque una situazione giuridica complessa, non necessariamente illegale, che può portare a varie conseguenza, compresa la presa del possesso.

Qual è la situazione dei territori che Israele chiama secondo la storia “Giudea e Samaria”, i giordani “west bank”, cioè riva occidentale del Giordano, dato che loro stanno su quella orientale, e i palestinisti “territori palestinesi occupati”? La prima cosa da sapere è che non è mai esistito nella storia uno stato palestinese su quelle terre, l’ultimo dominio arabo risale a circa mille anni fa, con l’impero abbaside, la cui capitale era però Baghdad, a un migliaio di chilometri di distanza. Gli arabi furono cacciati dai crociati, questi dai mamelucchi (di etnia turca). Dal XVI secolo fino al 1918 quelle terre divennero una parte della provincia di Siria dell’impero turco ottomano, la cui capitale era a Istanbul.

Tutte queste annessioni avvennero naturalmente per via bellica, cioè per occupazione. La prima decisione legale fece parte dei trattati che conclusero la Prima Guerra Mondiale, in particolare le decisioni della conferenza di San Remo (aprile 1920) poi confermato dalla Società della Nazioni (1922) che istituiva il “Mandato di Palestina” sotto controllo britannico allo scopo “della costituzione in Palestina di una nazione per il popolo ebreo”, “poiché con ciò è stato dato riconoscimento alla connessione storica del popolo ebreo con la Palestina e alle basi per ricostituire la loro nazione in quel paese”. Il territorio sotto questo mandato era la somma dell’intero stato di Israele (incluse Giudea e Samaria) e dell’attuale Giordania, che fu però subito separata dagli inglesi e data agli ex sceicchi della Mecca hashemiti. Nel ‘47 la Gran Bretagna rinunciò al mandato, l’Assemblea dell’Onu approvò un piano di divisione in due stati, che fu accettato da Israele e respinto dagli arabi; seguì la proclamazione dello Stato di Israele, la guerra di aggressione di 5 stati arabi i cui Israele si difese vittoriosamente, si stabilirono degli armistizi che esplicitamente non stabilivano linee di confine ma solo divisioni armistiziali. La Giordania, senza riconoscimento internazionale né alcuna base giuridica occupò Giudea e Samaria, inclusa Gerusalemme. Nel ‘67 in seguito a una nuova aggressione araba, Israele si difese di nuovo vittoriosamente e prese possesso di Gerusalemme, Giudea e Samaria, Golan e Gaza. In seguito il Golan venne annesso, Gaza fu sgomberata dalle truppe israeliane e Giudea e Samaria sono territori contesi fra Israele e l’”Organizzazione per la Liberazione della Palestina”, che non è uno stato, anche se aspira a diventarlo. Anche i trattati di Oslo non stabilirono uno stato palestinese, ma solo un’”autonomia” definendo in particolare varie zone di “autogoverno” arabo (la cosiddetta zona “A” definita dagli accordi, che comprende il 95% della popolazione araba della zona.

Questa è ancora la situazione attuale. Forse si può parlare di “territori occupati” (ma sarebbero non illegalmente occupati, perché l’insediamento ebraico era uno degli scopi espliciti del mandato britannico, che è la base legale della situazione corrente) e forse anche di territori palestinesi (ma in quanto parte del mandato britannico, non certo in quanto proprietà di un popolo palestinese che in quel momento no era stato ancora affatto identificato in questa maniera). Ma sono termini equivoci, dato che sono utilizzati oggi per sostenere una volontà politica, senza basi legali, di attribuire quei territori a uno Stato Palestinese, che però non esiste ancora, perché ne mancano i requisiti, anche se si finge che ci sia. Se qualcuno si mettesse a parlare di uno “Stato Italiano del Ticino” e del “Ticino occupato dalla Svizzera”, questo non darebbe nessun diritto, ma esprimerebbe solo un desiderio, magari con qualche fondamento, dato che in Ticino si parla la lingua italiana. Lo stesso per i “territori palestinesi occupati.

Fin qui il discorso puramente giuridico. Naturalmente ce n’è uno storico culturale, che parte dalla Bibbia ebraica e arriva fino alla continua presenza nei secoli di ebrei in luoghi come Gerusalemme e Hebron, prima durante e dopo l’invasione araba del VII secolo. Gli ebrei, per esempio, erano in maggioranza a Gerusalemme già nel primo censimento turco a metà dell’Ottocento e lo sono rimasti fino alla brutale pulizia etnica realizzata dalle truppe giordane nel 1949. E c’è un discorso politico e militare sui pericoli di lasciar costituire sui “territori occupati” uno stato che potrebbe essere presto preda del terrorismo, come a Gaza. Ma di questo parlerò in altri articoli.
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Re: Pałestina: Le raxon de Ixrael

Messaggioda Berto » ven lug 27, 2018 7:50 am

ISRAELE, LA COSTITUZIONE E DANIEL BARENBOIM
2018/07/25

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Ma prima di parlare della Costituzione israeliana, due parole su quella italiana. La seconda parte dell’articolo 1 recita: “La sovranità appartiene al popolo”. Domanda: a quale popolo? Quello mozambicano? Delle isole Salomone? Azzardo troppo se penso che chiunque risponderebbe “al popolo italiano”? Azzardo troppo se suppongo che non sia stato specificato per il semplice fatto che è scontato che lo stato italiano è la patria del popolo italiano? Ci sono minoranze etnico-linguistiche in Italia? Sì: albanesi, catalani, croati, francesi, francoprovenzali, friulani, germanici, greci, ladini, occitani, sardi, sloveni per un totale di circa due milioni e mezzo di persone, riconosciuti e tutelati; ma la lingua ufficiale è una: l’italiano. Qualcuno lo trova scandaloso? Discriminatorio? Razzista? Fascista?
L’Italia ha deciso di stabilire la sua capitale a Torino, poi l’ha spostata a Firenze e infine a Roma, dopo averla sottratta con le armi al Vaticano che vi risiedeva da oltre un millennio e che l’aveva dotata del più grande patrimonio artistico esistente al mondo: ha chiesto il permesso a qualcuno? Qualcuno ha messo in discussione il suo diritto di farlo?
E passiamo ora a quella israeliana.

Legge Fondamentale: Israele, Stato Nazione del Popolo Ebraico

1) Principi fondamentali

A. La Terra di Israele è la patria storica del popolo ebraico, in cui lo Stato di Israele si è insediato.
B. Lo Stato di Israele è la patria nazionale del popolo ebraico, in cui esercita il suo naturale, culturale, religioso e storico diritto all’autodeterminazione.
C. Il diritto di esercitare l’autodeterminazione nazionale nello Stato di Israele è unico per il popolo ebraico.

2) Simboli dello Stato

A. Il nome dello Stato è “Israele.
B. La bandiera dello Stato è bianca con due strisce azzurre verso le estremità e una stella blu di David al centro.
C. Il simbolo dello Stato è una menorah a sette bracci con foglie d’ulivo ad entrambi i lati e la scritta “Israele” sotto esso.
D. L’inno nazionale è l'”Hatikvah”.
E. Ulteriori dettagli sui simboli di stati saranno determinati da legge ordinaria.

3) La capitale dello Stato

Gerusalemme, integra e unita, è la capitale di Israele.

4) Lingua

A. La lingua ufficiale è l’ebraico.
B. La lingua araba gode di riconoscimento speciale nello stato. La legge regolamenterà l’impiego dell’arabo nelle istituzioni di stato.
C. Questa previsione non pregiudica lo status riconosciuto alla lingua araba dalle normative preesistenti.

5) Ritorno degli esuli

Lo Stato è aperto all’immigrazione ebraica e al ritorno degli esuli

6) Collegamento con il popolo ebraico

A. Lo Stato si impegnerà affinché sia garantita la sicurezza dei membri del popolo ebraico in pericolo o in cattività a causa della loro ebraicità o cittadinanza.
B. Lo Stato agirà nell’ambito della Diaspora per rafforzare l’affinità fra esso e i membri del popolo ebraico.
C. Lo Stato agirà per preservare il patrimonio culturale, storico e religioso del popolo ebraico fra gli ebrei della Diaspora.

7) Insediamenti ebraici

A. Lo Stato considera lo sviluppo di insediamenti ebraici come valore nazionale e agirà per incoraggiare e promuoverne l’insediamento e il consolidamento

8) Calendario ufficiale

Il calendario ebraico è il calendario ufficiale dello Stato, e sarà affiancato dal calendario gregoriano come calendario ufficiale. L’utilizzo del calendario ebraico e di quello gregoriano sarà disciplinato dalla legge.

9) Giornata dell’Indipendenza e commemorazioni

A. La Giornata dell’Indipendenza è la festività nazionale ufficiale dello Stato.
B. La Giornata della Memoria per i Caduti in tutte le Guerre di Israele, per le vittime dell’Olocausto, nonché la Giornata del Ricordo dell’Eroismo, sono giorni di commemorazione dello Stato.

10) Giorni del riposo e Shabbath

Lo Shabbath e le festività di Israele sono i giorni di riposo fissati per lo Stato. I non ebrei hanno diritto a rispettare i loro giorni di riposo e le loro festività. I dettagli di questo tema saranno fissati dalla legge.

11) Immutabilità

Questa legge fondamentale non può essere emendata che da un’altra legge fondamentale, approvata dalla maggioranza dei membri della Knesset. (Traduzione a cura di Il borghesino)

Forse può essere interessante dare un’occhiata ad alcuni articoli della costituzione palestinese, tenendo presente che per “Palestina” o “terre palestinesi” non si intende Giudea-Samaria (“Cisgiordania”) e Gaza, bensì tutto il territorio di Israele.

Articolo (2) Il popolo palestinese ha un’identità indipendente. Essi sono l’unica autorità che decide il proprio destino e hanno completa sovranità su tutte le loro terre.
Articolo (3) La rivoluzione palestinese ha un ruolo guida nella liberazione della Palestina.
Articolo (4) La lotta palestinese è parte integrante della lotta mondiale contro il sionismo, colonialismo e imperialismo internazionale.
Articolo (5) La liberazione della Palestina è un obbligo nazionale che ha bisogno del supporto materiale e umano della Nazione Araba.
Articolo (6) Progetti, accordi e risoluzioni dell’Onu o di singoli soggetti che minino il diritto del popolo palestinese nella propria terra sono illegali e rifiutati.
Articolo (9) La liberazione della Palestina e la protezione dei suoi luoghi santi è un obbligo arabo religioso e umano.
Articolo (17) La rivoluzione armata pubblica è il metodo inevitabile per liberare la Palestina.
Articolo (19) La lotta armata è una strategia e non una tattica, e la rivoluzione armata del popolo arabo palestinese è un fattore decisivo nella lotta di liberazione e nello sradicamento dell’esistenza sionista, e la sua lotta non cesserà fino a quando lo stato sionista non sarà demolito e la Palestina completamente liberata. (Enfasi mia, qui, traduzione mia)

Tornando invece alle democrazie – democrazie autentiche, indiscusse, riconosciute come tali da tutti (la precisazione è d’obbligo, dato che per il signor Ovadia Salomone, in arte Moni – e non sghignazzino i veneti – “Arafat non è un terrorista e chi dice questo è un pazzo. Arafat è il democratico e legittimo rappresentante del suo popolo”), può essere il caso di dare un’occhiata qui.

E veniamo ora al nostro Cicciobello.

Barenboim: «Mi vergogno di essere israeliano»

La legge sullo Stato nazionale del popolo ebraico

«Oggi mi vergogno di essere israeliano»: lo afferma il direttore d’orchestra Daniel Barenboim con un polemico intervento su Haaretz in seguito alla approvazione alla Knesset della legge che qualifica Israele come «lo Stato nazionale del popolo ebraico». Il significato di quella legge, sostiene, è che «gli arabi in Israele diventano cittadini di seconda classe. Questa è una forma molto chiara di apartheid». Barenboim sostiene che il parlamento ha tradito gli ideali dei Padri fondatori. Loro puntavano «alla giustizia, alla pace … promettevano libertà di culto, di coscienza, di lingua, di cultura». Ma 70 anni dopo, accusa, «il governo israeliano ha approvato una legge che sostituisce il principio di giustizia ed i valori universali con nazionalismo e razzismo». Barenboim conclude: «Non mi capacito che il popolo ebraico sia sopravvissuto duemila anni, malgrado le persecuzioni ed infiniti atti di crudeltà, per trasformarsi in un oppressore che tratta crudelmente un altro popolo».
(Il Messaggero, 24 luglio 2018)

Barenboim non si capacita e si vergogna. Non si capacita che Israele sia potuto sopravvivere duemila anni (in realtà sono molti di più), e quando un artista geniale non si capacita, non cerca di capacitarsi studiando e riflettendo un po’ di più, ma dà di piglio alla sua arte ed esprime ad alta voce il suo non aver capito niente. Poi aspetta gli applausi, che spesso, soprattutto quando si parla male di Israele, non tardano a venire. Ma oltre a non capacitarsi, lui si vergogna. Non del fatto di non aver capito niente, ma di essere israeliano. Nessuno gli dica che probabilmente in Israele sono molti di più quelli che si vergognano di lui.
Marcello Cicchese

E mi viene bene di riproporre questa cosetta a quattro mani fatta un po’ di anni fa.

LETTERA APERTA A DANIEL BARENBOIM

Stimatissimo e veneratissimo Maestro,
abbiamo appreso con dolore, con mestizia e anche, dobbiamo dirlo, con un po’ di vergogna, che un deplorevolissimo attacco mediatico è stato scatenato contro di Lei da parte di vari personaggi israeliani e anche da parte di altri ebrei del mondo libero. Questo è ciò che ci ha spinti a scriverLe questa lettera aperta, che cercheremo di pubblicizzare il più possibile: esprimerLe la nostra totale, incondizionata solidarietà. E la nostra sconfinata ammirazione per tutto ciò che Lei sta facendo, per la Sua coraggiosa opera a favore del meraviglioso popolo di Gaza, non ultimo mettendo a disposizione di questo popolo generoso la Sua sublime musica – tutte qualità, queste del popolo di Gaza, che i Suoi nemici non vogliono riconoscere. Che dire, per esempio, del fatto che da cinque anni stanno ospitando quel sionista, Gilad: cinque anni, cinque anni che gli provvedono vitto e alloggio e mai, mai una volta in cinque anni hanno chiesto un centesimo di rimborso spese? E sì che ne avrebbero bisogno, di contributi: basti pensare a quel missile teleguidato che hanno tirato sullo scuolabus: duecentoottantamila dollari per eliminare un unico, giovanissimo nemico! Quanti miliardi ci vorranno prima di liberare la Palestina dal fiume al mare? Eppure quelle anime generose continuano a ospitare il sionista completamente gratis! E i compatrioti di quel loro ospite cosa fanno invece di ringraziarli? Li criticano. E criticano Lei che generosamente si esibisce, immaginiamo gratis, di fronte a loro e di fronte agli eroici combattenti di Hamas che si dedicano senza risparmio alla loro lotta di liberazione – e sembra che la Sua presenza sia stata foriera di benefici effetti, visto che subito dopo Hamas e Fatah hanno trovato la forza di mettere una pietra sopra alle loro quotidiane carneficine reciproche occasionali piccoli dissidi e decidere uno storico accordo per combattere uniti contro l’unico vero, eterno nemico comune. Abbiamo saputo che questa volta, in questa Sua magnanima spedizione di pace, non ha potuto dirigere la Sua orchestra storica, la Divan – pare che ci fosse qualche difficoltà a far entrare nella Striscia i musicisti israeliani – ma ciò che conta è il risultato, no? E il risultato indiscutibile è stato l’entusiasmo di Hamas. Lei è talmente bravo, Maestro, da occultare persino i Suoi difetti congeniti: “Non sapevo che fosse ebreo”, pare abbia infatti detto un ragazzo palestinese per giustificare la propria presenza al concerto. Ed è vero: Lei è talmente bravo, talmente buono, talmente generoso, che non sembra neppure ebreo. E tanta è la nostra ammirazione per Lei che ci permettiamo di darLe due consigli: stracci il suo passaporto israeliano, Maestro: quegli ingrati sionisti non La meritano, non meritano di avere un concittadino come Lei. E si converta il più presto possibile alla religione di pace: non vorremmo davvero che ci dovesse capitare, dopo avere pianto il povero Juliano Mer-Khamis e il povero Vittorio Arrigoni, che ai loro e Suoi comuni amici avevano dedicato tutta intera la propria vita, di ritrovarci a piangere anche Lei.

Barbara Mella
Emanuel Segre Amar

07/05/2011

Sì, direi che ci sta proprio bene.

barbara
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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