Il maquillage di Moni Ovadia, l’ebreo che si crede migliore di Israeledi Giulio Meotti
2013/11/11
https://www.ilfoglio.it/articoli/2013/1 ... aele-56324Salomone Ovadia, detto “Moni”, è un grande dell’eloquio yiddish. Sbeffeggia e deride, con la tipica vena ebraica del rimpianto, e lo fa in modo fluido, ricco, affascinante, con gusto della parola incisiva che incanta. Ovadia trascina le platee. Bulgaro sefardita, Ovadia ha frequentato il tempio di Porta Romana (Sheerit Hapletat), ebrei non tutti ortodossi ma tradizionalisti, del quale Rav Rodal era l’animatore, e con la sua voce squillante e l’intonazione un po’ infantile è stato da esempio per Ovadia. Per questo un invito al festival organizzato dalla comunità ebraica di Milano a settembre avrebbe avuto un senso. Ovadia ha poi diritto alle proprie idee su Israele. Ma aveva diritto anche la comunità ebraica milanese a porre un veto sul suo nome. A boicottare le idee del saltimbanco di successo.
Ovadia è un caso di “emiplegia intellettuale”, come lo definì Jorge Semprún, qualcosa di più della malafede. Ovadia si è fatto portavoce e bandiera di un umore anti israeliano profondo. Un sentimento mascherato bene: nella kippà che indossa, nella capacità magnetica sul pubblico, nella dimensione affabulatoria, nel maquillage antifascista e umanitarista. E’ un uomo di pace, Ovadia, che crede che l’uomo sia un progetto etico (per questo la sua rubrica sull’Unità si chiamava “Mala Tempora”, per questo si accompagna ai corifei del dottor Gino Strada). La vocazione dell’avventura sionista non è mai stata unanime all’interno dell’ebraismo. Ma i modelli che Ovadia offre servono solo a esaltare la campagna di delegittimazione contro Israele. Due anni fa, quando terroristi palestinesi sgozzarono tre bambini e i loro genitori in un insediamento a Itamar, Ovadia fu accusato di non considerare le vittime come suoi “fratelli”, perché vivevano oltre i confini del 1967. Vecchie logiche intra ebraiche. In piena Intifada, il professor Ze’ev Sternhell, fratello questo sì intellettuale di Ovadia, scriveva su Haaretz: “Se i palestinesi avessero più buon senso punterebbero la loro lotta contro gli insediamenti, così potrebbero evitare di collocare cariche esplosive ad ovest della linea verde”. In altre parole, Sternhell, guru pacifista e di sinistra, si augurava che delle bombe esplodessero contro gli ebrei. Contro “quegli” ebrei. In una lettera sull’Unità nel 2006, mentre Haifa era sotto attacco di Hezbollah, Ovadia sostiene che Israele non deve pensare di “rappresentare la tragica eredità dello sterminio” mentre “rade al suolo intere città” libanesi. Lo scorso luglio, sempre sull’Unità, Ovadia celebra la decisione “salutare” dell’Unione europea di boicottare i prodotti israeliani che arrivano da oltre la linea verde. “A Milano c’è un pluralismo assoluto, tutti hanno diritto a dire ciò che pensano anche su Israele”, dice al Foglio Fiona Diwan, direttrice del Bollettino della comunità ebraica di Milano. “Ma Moni Ovadia ha accusato la comunità di essere l’ufficio di propaganda di Israele. E’ un fatto gravissimo e pericoloso, ci ricordiamo di Tolosa? In questo modo si fa degli ebrei un obiettivo”. Poi c’è l’aspetto culturale: “L’ebreo di Ovadia ha fatto la storia, è piatto, senza complessità, una caricatura”, conclude Diwan.
Come Gad Lerner, anche lui “uscito” dalla comunità di Milano, Ovadia non rinnega l’ebraismo, lo celebra come qualcosa che ha a che fare esclusivamente con la tolleranza, con l’esilio. Sono gli “ebrei migliori”, distinti dalla massa di israeliani, possessori di una saggezza cosmopolita, liberale, umanistica, quindi davvero ebraica. Più loro attaccano altri ebrei, più dimostrano di non esserlo più. Nulla dalle parole di Ovadia lascia trapelare orgoglio per come la costruzione del monoteismo giudaico abbia partorito democrazia e diritti umani in occidente. Non c’è mai allarme sulla volontà dell’Iran di liquidare Israele, “quel bastardo illegittimo”, come lo ha appena definito l’ayatollah Khamenei. Nell’eloquio di Ovadia non c’è alcuna traccia di generosità verso un paese che respira fra la vita e la morte restando una grandissima democrazia.
Diceva Amedeo Nazzari: “E chi non beve con me peste lo colga”. Ovadia la pensa così. Il cantore della miseria dello shtetl ha diritto alle proprie idee, ma anche gli ebrei a respingerle.
Salvini il sionistaMoni Ovadia
9 dicembre 2018
https://ilmanifesto.it/salvini-il-sionistaIl gentile sionista che non è un sionista gentile, bensì un non ebreo che potremmo definire, un sostenitore acritico delle ragioni dello Stato di Israele quali esse siano, ha compiuto una impressionante e stupefacente parabola.
Il primo di essi, dal venire all’esistenza dello stato ebraico, è stato il piccolo padre sovietico Jossip Vissarionovic Djugasvili, detto Stalin, che primo fra i potenti volle quello stato, lo armò e lo sostenne nelle istanze internazionali.
L’ultimo dei gentili sionisti, buon ultimo, è il nostro gagliardo ministro degli Interni, Matteo Salvini, il quale ancora prima di essere arrivato in terra santa ha già spiegato che la colpa è tutta dei palestinesi e nella fattispecie dei «nazisti» di Hamas che tengono in scacco milioni di uomini. Implicitamente egli riconosce che gli israeliani sono le vittime.
È il perfetto portavoce di Bibi Netanyahu.
Bibi sarà felice perché la futura composizione del parlamento europeo vedrà un rafforzamento dei partiti populisti, reazionari e fascistoidi che renderanno la già pavida Europa ancor più appiattita sui desiderata israeliani e non contrasteranno occupazione, colonizzazione ed estensione degli insediamenti.
Il sionismo ai suoi esordi fu sostenuto dalle forze progressiste fra cui socialisti, comunisti, anarchici e progressisti di ogni sorta, il sionismo era considerato un movimento decisamente di sinistra e questa nomea aveva portato al sionismo stesso non pochi problemi come quelli col maccartismo che equiparava un sionista a un comunista e con qualche ragione. Nell’esistenza dei primi due anni dello Stato ebraico nei cinema delle sue città, alla fine della proiezione dei film veniva diffuso l’inno israeliano Hatikvà (la speranza) e immediatamente dopo la sala si riempiva delle note dell’Internazionale seguite da quelle dall’Inno sovietico. La rossa epopea ebbe un brusco arresto quando Stalin nel 1949 scatenò una micidiale campagna antisemita che terminò solo nel marzo del 1953 con la sua morte. Il filo sionista per realpolitik si trasformò di colpo in un brutale antisemita per paranoia.
Eppure sotto Stalin gli ebrei avevano occupato posti importantissimi nell’industria culturale, nel partito e persino nell’esercito. Alcuni dei più stretti collaboratori del dittatore georgiano furono ebrei, fra essi il commissario ai gulag Kaganòvic. Ma si sa, l’antisemitismo aveva una sua corrente di sinistra che Lenin definiva «socialismo degli imbecilli». Ma malgrado la campagna staliniana Israele rimase ancora per anni il paese dei Kibbutz, ingenuamente visti come strutture di un progetto socialista. Questa fama cominciò a perdere colpi con la guerra dei sei giorni e con l’ascesa al governo delle destre dopo il conflitto del Kippur, Israele, con qualche interludio, ha cominciato a essere governato da destre ultra sioniste reazionarie alleate con il fanatismo religioso che lo ha progressivamente portato a diventare la nazione segregazionista, colonialista e razzista che è ora. Israele facendosi campione di violenza e rappresaglia ha trovato sempre più amici fra gli ex fascisti, i neo fascisti, i populisti della peggior specie.
Poteva non approfittare dell’occasione Matteo Salvini?
Demagogo di razza, politico con un istintivo senso del timing, opportunista di talento. Ha annusato lo zeitgeist, ha facilmente constatato la necrosi della sinistra e si è messo a cavalcare l’onda. Del resto è un ammiratore di Trump, considera Orban e i paesi di Visegrad i migliori alleati dunque è naturale che consideri Bibi un grande. Il nostro crociato verde si trova in perfetta sintonia con l’ibrido politico ossimorico della nuova ideologia, il filo sionismo antisemita. Pensate che goduria per tutta la feccia nazistoide, per la congrega suprematista e per l’internazionale razzista potere essere ferocemente antisemiti con la patente di amico di Israele. È il capolavoro della partnership the Donald & the Bibi.
A noi che siamo incorruttibilmente democratici non resta che porci una terribile domanda. Ma se gli ebrei del tempo di Hitler fossero stati come gli israeliani alla Nethanyahu, i nazisti avrebbero progettato la Endlösung? La mia risposta è: non credo. I nazisti odiavano l’ebreo ubiquo, apatrida, cosmopolita, dall’intelletto critico, attivatore di rivoluzioni, distruttore di idolatrie.
Alberto Pento
Il sionismo non è invasione degli ebrei e nemmeno colonialismo ebraico ma un recupero per gli ebrei rimasti in Israele e un ritorno per gli ebrei perseguitati della diaspora. http://www.filarveneto.eu/forum/viewtop ... 197&t=2124 I fondatori del sionismo non erano socialisti o comunisti.
Gaza, Moni Ovadia: "Io, ebreo, sostengo i diritti palestinesi. Ecco perché" 29 agosto 2014
https://www.ilfattoquotidiano.it/2014/0 ... he/1102601 "Oltre alle ragioni che lo definiscono, il conflitto israelo-palestinese è importante perché evoca ripetutamente, nella dimensione fantasmatica, lo spettro dell’antisemitismo, quello del suo esito catastrofico, la Shoah, ma anche quello del suo doppio negativo, la vittima che diventa carnefice. I processi di permanente vittimizzazione che si sinergizzano con i complessi di colpa occidentali, legittimano un’'industria dell’Olocausto'. Questa, a mio parere, è una delle derive più allarmanti e ciniche della memoria"
Il conflitto israelo-palestinese è uno dei problemi centrali del nostro tempo sul piano reale ma ancor di più sul piano della percezione simbolica, anche se tutto sommato riguarda un numero limitato di persone rispetto alle moltitudini dei grandi scacchieri incandescenti. Perché è tanto importante? A mio parere perché, oltre alle ragioni fattuali che lo definiscono, evoca ripetutamente nella dimensione fantasmatica, lo spettro dell’antisemitismo, quello del suo esito catastrofico, la Shoah, ma anche quello del suo doppio negativo, la vittima che diventa carnefice. La Shoah non solo ha espresso in sé il male assoluto, ma ha cambiato definitivamente la nostra visione antropologica del mondo e ha sconvolto le categorie del pensiero e del linguaggio. Oggi, la memoria della Shoah entra nel conflitto sul piano dell’immaginario producendo rebound psicopatologici che mettono in scacco non solo il dialogo fra posizioni diverse, ma la possibilità stessa di elaborare un approccio critico senza provocare reazioni isteriche o furiose.
Molti ebrei in Israele e nella diaspora, reagiscono psicologicamente a ogni riflessione severa come se, invece di vivere a Tel Aviv o a Parigi nel 2014, vivessero a Berlino nel 1935. Ora, essendo ebreo anch’io, per dovere di onestà intellettuale è giusto che dichiari la mia posizione perché essa è tutt’altro che neutrale. Sostengo con piena adesione i diritti del popolo Palestinese, non contro Israele, ma perché il loro riconoscimento è, a mio parere, precondizione per ogni trattativa che porti alla pace. Ritengo che la responsabilità principale (non unica) dell’attuale disastro, abbia origine nella cinquantennale occupazione da parte dell’esercito e dell’Autorità israeliana e la relativa illegittima colonizzazione delle terre che appartengono ai palestinesi secondo i decreti della legalità internazionale. Su Gaza, l’“occupazione” è esercitata sempre da parte dell’autorità civile e militare di Israele con un ininterrotto assedio e comporta il totale controllo dell’entrata e uscita delle merci e delle persone, dello spazio aereo, marittimo, delle risorse idriche, energetiche e persino dell’anagrafe. I tunnel, in qualche misura, sono una risposta a questo stato di cose. I missili lanciati contro la popolazione civile di Israele sono atto di guerra illegale secondo le convenzioni internazionali, ma non si può far finta di dimenticare che un assedio è esso stesso atto di guerra.
È stata pratica sistematica degli ultimi governi israeliani il mantenimento dello status quo attraverso la politica dei fatti compiuti e il mantenimento dello status quo impedisce, de facto, ogni altro sbocco come quello della trattativa. Lo dimostra il reiterato nulla di fatto con Abu Mazen che, in cambio della sua super disponibilità a trattare, ha ricevuto solo umiliazioni anche dal finto mediatore statunitense. Ora, la politica dello status quo significa contestualmente il suo peggioramento e l’ineludibile scoppio dei ciclici conflitti con Hamas che terminano con la devastazione di Gaza, una micidiale conta di vittime civili palestinesi e, fortunatamente sul piano umanitario, un esiguo numero di vittime israeliane, soprattutto militari. Ciò non significa che non siano vittime e che la loro morte non sia un lutto.
Gli zeloti pro israeliani quando ascoltano o leggono queste mie opinioni critiche, reagiscono immancabilmente con insulti, maledizioni e invettive. Il genere è: “Sei un rinnegato, nemico del popolo ebraico, ebreo antisemita o ebreo che odia se stesso”. La critica da parte di un ebreo della diaspora alla politica di governi israeliani può essere considerata tradimento, antisemitismo od odio verso se stessi solo se collocata nel quadro di un’identificazione nazionalista di ebreo, israeliano, popolo ebraico, popolo d’Israele, Stato d’Israele, suo governo e “terra promessa”. Ma se qualcuno osa fare notare, da posizioni critiche, tale pericolosa identificazione, ecco arrivare addosso all’incauto le accuse infamanti di antisemita o antisionista, che, per molti “amici di Israele” – anche persone di indiscutibile livello culturale –, sono la stessa cosa. Il carattere fantasmatico della percezione della critica come minaccia innesca irrazionali reazioni furiose che producono alluvioni di tweet, di email rivolte agli organi di stampa e di esternazioni su Facebook dove il diritto all’incontinenza mentale è garantita dell’indipendenza della Rete.
L’ossessione della nuova Shoah dietro la porta scatena processi di permanente vittimizzazione che si sinergizzano con i complessi di colpa occidentali, legittimando un’“industria dell’Olocausto” che fa un uso strumentale e ricattatorio della memoria dell’immane catastrofe per fini di propaganda, come bene spiega un saggio fondamentale di Norman Finkielstein, uno scrittore ebreo statunitense. Questa, a mio parere, è una delle derive più allarmanti e ciniche della memoria stessa a cui si prestano non pochi politici europei reazionari o ex-post fascisti, magari facendosi intervistare all’uscita da una visita al memoriale di un lager nazista per dichiarare: “Mi sento israeliano!”. Questo è un modo per trarre “profitto” dall’orrore a vantaggio degli eredi delle classi politiche europee che non si opposero allora al nazismo e all’antisemitismo e oggi lasciano sguazzare indisturbati, nell’Europa comunitaria, neonazisti di ogni risma. L’infame Europa del mainstream delle sue classi dirigenti conservatrici allora stette a guardare lo sporco lavoro dei nazisti collaborando o, nel migliore dei casi, rimanendo indifferenti. Dopo la guerra questi signori hanno progressivamente trattato “il problema ebraico” “esportandolo” con piglio colonialista in medioriente. Oggi cercano credibilità e verginità israelianizzando tout court l’ebreo con una mortificante omologazione.
A questa operazione si prestano purtroppo le dirigenze della gran parte delle istituzioni ebraiche, come ha dimostrato il caso della cantante Noa. L’artista israeliana doveva tenere un concerto a Milano organizzato dall’Adei Wizo, un’organizzazione femminile ebraica. Ma Noa, per il solo fatto di avere espresso l’opinione che la colpa dell’ultimo conflitto di Gaza era degli estremisti delle due parti, si è vista cancellare il concerto. Questo episodio dimostra che neppure una dichiarazione equilibrata, neanche se fatta da una cittadina israeliana, sia accettabile per chi vuole omologare l’ebreo all’israeliano, salvo poi infuriarsi indignato con chi smaschera l’intento. Dall’altra parte, ultras “filopalestinesi” si esercitano nella gratificante impresa di fare di Auschwitz, del nazismo e della svastica, oggetti contundenti da scagliare contro l’ebreo in Israele e spesso contro l’ebreo tout court, ma soprattutto contro il vagheggiato ebreo onnipotente della mitica lobby ebraica. L’intento è quello di dimostrare che Israele è come la Germania di Hitler e che ebrei si comportano come SS. Sotto sotto c’è la vocazione impossibile e sconcia di pareggiare i conti per neutralizzare il deterrente della Memoria. Ma questa sottocultura pseudopolitica, prima di scandalizzare, colpisce per la sua deprimente rozzezza. Sarebbe facile dimostrare l’assurdità di simili farneticazioni, inoltre finisce sempre per rivelarsi una sorta di boomerang che danneggia la causa palestinese. Tutto ciò poco interessa a chi deve placare il proprio narcisismo militante, inoltre, questo tipo di militanza che si esprime con slogan di “estrema sinistra” e di roghi di bandiere ha inquietanti punti di contatto con quella dei neonazisti che, pur di soddisfare la loro inestinguibile sete di antisemitismo, si iscrivono fra gli ultras filopalestinesi. Per denunciare l’oppressione del popolo palestinese ci sono un linguaggio puntuale e concetti giuridici elaborati dal diritto internazionale. È dissennato proiettare l’immaginario della memoria della Shoah in paragoni inaccettabili. Anche i proclami di antisionismo sono poco sensati, poco centrati e non tengono conto delle articolazioni del fenomeno.
A mio parere, il sionismo in quanto tale si è estinto da un pezzo. Anche di esso sono rimaste proiezioni fantasmatiche mentre nella realtà l’ideologia della destra reazionaria dominante in Israele è un ultranazionalismo del “grande Israele” compromesso con il fanatismo religioso. Del sionismo è rimasto lo spirito dell’equivoco slogan delle origini: “Un popolo senza terra per una terra senza popolo”. Ancora oggi, a distanza di più di un secolo, la destra reazionaria di Netanyahu ha re-imbracciato quella miopia militante che vorrebbe cancellare nei palestinesi lo status di nazione e di popolo. Ma in questi ultimi giorni perfino il falco Bibi, mettendo la mordacchia ai più falchi di lui nel suo governo, ha intuito che nella sanguinosa polveriera mediorientale una tregua “duratura e permanente” con Hamas è più auspicabile che far scempio di civili innocenti. Secondo me, ciò di cui c’è vitale bisogno in Israele è che la sua classe dirigente si armi di coscienza critica e di lungimirante pragmatismo per dismettere vittimizzazione e propaganda e ascoltare anche le critiche più dure come un contributo e non come un pericolo. Certo, una tregua non fa primavera né la fa una manifestazione della fragile opposizione che in giorni recenti è coraggiosamente tornata a mostrarsi in piazza Rabin per fare ascoltare una lingua diversa da quella dello sciovinismo militare. Ma sono barlumi di una possibile alternativa all’asfissia della guerra.
"MONI OVADIA, LE SPIEGO COSA SUCCEDE QUANDO CRITICA ISRAELE"di Gheula Canarutto Nemni
5 novembre 2013
https://www.facebook.com/progettodreyfu ... 2672637765Caro Moni Ovadia,
mi perdoni per questa mia interferenza nei suoi piani di disiscrizione alla Comunità Ebraica di Milano. Dettati, secondo lei, dalla mancata accettazione da parte della comunità delle sue opinioni circa Israele. Gad Lerner ricorda ai suoi lettori di avere compiuto lo stesso passo a suo tempo.
Vede, che lei sia iscritto o meno alla Comunità riguarda solo lei e le sue scelte di vita. La presenza del suo nome nelle liste, nella mailing del Bollettino, negli inviti ad eventi e feste, impattano solo sulla sua casella postale di casa ed elettronica. Nessun altro subirà delle conseguenze da questa sua scelta.
Che lei invece faccia sentire la sua voce da artista seguito e ascoltato da molti, criticando la politica di Israele e dando vita a una vera e propria campagna negativa nei confronti dello stato dei suoi correligionari, non riguarda solo lei e le sue scelte di vita.
Purtroppo no.
Riguarda anche i miei bambini che girano per la città con la kippà in testa.
Riguarda anche i ragazzi che andando a scuola devono superare quattro volanti della polizia prima di entrare a studiare ogni mattina.
Riguarda anche le persone che frequentano una sinagoga in qualsiasi parte d’Italia e devono sottomettersi a perquisizioni per poter porgere il proprio cuore a D-o.
Riguarda tutti gli ebrei d’Italia e del mondo.
Perché quando lei si mette su un palco con la sua grande kippà colorata e da lì critica in maniera pesante lo stato d’Israele, lei non rappresenta un artista qualunque a cui sia saltato in mente di analizzare la situazione geo politica mediorientale. Lei rappresenta l’artista ebreo.
E se un ebreo critica in maniera così feroce i propri fratelli, se un ebreo racconta a gran voce cose che, a suo parere, sono errori della propria nazione, se un ebreo si schiera in maniera così decisa contro l’unico posto del pianeta che dà asilo all’ebreo in qualsiasi momento lo chieda, allora tutto il mondo si sentirà in diritto di farlo.
E, partendo dalle sue posizioni, le userà per giustificare tutti gli atti di antisemitismo a cui vorrà dare vita. Il mondo partirà dalle sue parole per rendere leciti gli attacchi agli ebrei, ovunque si trovino.
Lei è libero di esprimere le sue opinioni a tavola, circondato dai suoi cari amici. Ma non è libero di farlo davanti a un microfono. Perché lì, la sua libertà si scontra con la mia.
E si ricordi caro Ovadia, se un ebreo sputa sul proprio popolo, apre la porta perché l’intero mondo si senta legittimato a farlo.