Iran, ebrei, persecuzione, guerra a Israele

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Messaggioda Berto » mar mar 01, 2016 11:01 pm

Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Iran, ebrei en Iran, persecusion, goera a Ixrael

Messaggioda Berto » mar mar 01, 2016 11:02 pm

???

Nella Teheran degli ebrei patrioti: “Qui siamo a casa”
Monica Perosino
2014/09/10

http://www.lastampa.it/2014/09/10/cultu ... agina.html

Youseph cammina ogni sera accanto alla moschea di piazza Fatemi, nel centro di Teheran. Prima di svoltare verso casa, alza lo sguardo e getta una fugace occhiata ai ritratti di Khomeini e dell’attuale Guida suprema Khamenei appesi al muro di un palazzo. Poi infila la strada in discesa dove abita. Alla fine della lunga giornata, prima di andare a letto, recita una preghiera, che suona un po’ diversa da quelle della moschea. Dice: «Shema Yisrael…», ascolta Israele, la professione di fede degli ebrei nel loro Dio unico.

La cronaca proietta la sua luce vivida all’indietro, verso il passato, falsandone talvolta la percezione. Con l’attuale mortale inimicizia tra l’Iran e Israele, ci si dimentica che gli ebrei stanno qui da migliaia di anni. Certo, gli ebrei e Israele non sono la stessa cosa, ci sono persino sparuti gruppi di ebrei contrari allo Stato ebraico, però per la maggioranza degli ebrei Israele è l’idea di casa. Un legame religioso e affettivo che qui, nonostante tutti lo neghino, crea un forte elemento di tensione, per lo più dissimulato. L’Islam lungo la storia ha di solito trattato gli ebrei meglio dei cristiani ma poi è venuto lo stato di Israele sulle terre dei palestinesi: è nata una lunga stagione di conflitti e odi che dura ancora.

La costituzione rivoluzionaria dell’Iran s’impegna a proteggere l’ebraismo ma dove c’è Israele lo stato iraniano vede soltanto la Palestina. Nella preghiera del venerdì a Teheran sovente i sermoni terminano con il coro: «Margh bar Israel», morte a Israele. Lo stato ebraico contraccambia: a periodi alterni i giornali israeliani dedicano lunghe analisi che cercano di indovinare quando l’aviazione bombarderà le centrali atomiche iraniane. Alcune inchieste giornalistiche americane hanno concluso che dietro gli assassinii degli scienziati nucleari iraniani ci sarebbe la regia del Mossad, che addestra i Mujaheddin del popolo, un gruppo dissidente iraniano, recentemente tolto dalla lista dei terroristi da Europa e Usa.

In questo clima politico esacerbato, la vita felice degli ebrei iraniani appare nei fatti un’immagine un po’ troppo ufficiale. I falchi di un campo e dell’altro condividono la stessa visione dualista e iper-semplificata che divide il mondo in bene e male e non lascia spazio a mediazioni. L’unico recente segnale positivo è che il nuovo presidente iraniano Rohani sembra aver sepolto la negazione dell’Olocausto con cui Ahmadinejad incendiava i suoi discorsi.

Nella parte più popolare di Teheran sud, non lontano dal bazar, c’è una delle più celebre istituzioni ebraiche, l’ospedale Sapir. È una vecchia casa dai muri bianchi su Mostafa Kohmeini Street, la strada dedicata al figlio deceduto dell’imam, che tutti chiamano ancora col vecchio nome pre-rivoluzionario: Cyrus Street. l’ospedale è intitolato al medico ebreo che a metà degli Anni Trenta morì combattendo l’epidemia di tifo che decimò Teheran. Il Sapir è finanziato dall’associazione ebraica della capitale e dallo Stato islamico, i pazienti sono per il 97 per cento musulmani, più o meno la stessa percentuale del personale. Il direttore sanitario è Ciamak Morsadegh, chirurgo col fisico da lottatore di sumo, deputato al parlamento iraniano in rappresentanza della comunità ebraica. È appena uscito dalla sala operatoria, sotto la manica rivoltata della casacca turchese c’è ancora una macchia di sangue. Spiega che gli ebrei in Iran sono circa 30 mila, la più grande comunità del Medio Oriente dopo quella israeliana, metà vivono nella capitale.

«Ogni comunità ha i suoi problemi - dice - ma noi qui viviamo bene. Nel Paese ci sono più di 50 sinagoghe e non è mai esistito un ghetto come in Europa, siamo liberi di seguire la nostra religione come ci pare. Davanti alle sinagoghe non servono misure di sicurezza. come capita in altre parti del mondo. Esistono poche limitazioni: un ebreo non può arrivare ai gradi più alti dell’esercito o della burocrazia statale, fare il ministro o il Presidente, per il resto non c’è problema». Il servizio militare è obbligatorio, come per tutti, e sono previsti permessi speciali in occasione dello festività ebraiche. Tra i caduti della guerra Iran-Iraq degli Anni 80 c’erano anche quindici ebrei. «Le nostre vere ansie - spiega Morsadegh - sono quelle di tutti gli altri iraniani: il lavoro, l’inflazione, il costo della vita».

Per un’ironia della topografia, il Tapo26, uno dei due ristoranti «kosher» di Teheran (dove cioè si cucina secondo le norme religiose ebraiche), è in Felestin Street, via Palestina. Il proprietario David Shumer è alla cassa. «Qui stiamo benissimo - dice - siamo completamente inseriti nella società. Visitare Israele? Non è difficile, io ci sono stato una volta». La situazione tuttavia non è così semplice e specialmente i permessi multipli (cioè per intere famiglie) sono quasi impossibili a ottenere. La verità è che le autorità islamiche temono forme di spionaggio a favore di Israele e la cosa complica irrimediabilmente i rapporti.

Dal lato opposto di Cyrus Street rispetto all’ospedale c’è la piccola sinagoga di Molla Hanina. Nell’atrio dell’ingresso borbottano sul fuoco due enormi pentoloni. La gente arriva a piccoli gruppi per la festa di Rabbi Shamuune. Sul tavolo nell’atrio c’è un vassoio di dolci al burro ripieni di crema che chiamano «danesi». La sinagoga è piccola, dietro il pulpito, tra due menorà stilizzate (i candelabri ebraici), c’è l’«aròn», l’armadio che contiene i rotoli della Torah, la sacra scrittura. Marjan, poco più di vent’anni, spiega con orgoglio: «In sinagoga a differenza che in moschea uomini e donne possono pregare insieme». Tutti apparentemente assicurano di non avere problemi con le autorità. Il tempio ha anche una sua pagina di Facebook, peccato che in Iran Facebook sia quasi impossibile da vedere.

L’unico tenue filo che lega Israele e l’Iran sono i pistacchi. Israele è uno dei più grandi consumatori e l’Iran uno dei più grandi produttori. Qualche anno fa gli israeliani quasi litigarono con gli americani per continuare a importare i pistacchi iraniani. Che un giorno lontano possa nascere una diplomazia dei pistacchi? Oggi appare l’unica surreale speranza.



???

SIAMO EBREI IRANIANI E SIAMO CONTENTI DI NON ESSERE A GAZA O IN CISGIORDANIA!
(a cura di Claudio Prandini)

http://www.parrocchie.it/correggio/asce ... aniani.htm

Gli ebrei sono in Iran da molto prima che nella sua storia si affacciassero i musulmani. Amano ricordare che l’Iran è casa loro da 2.500 anni e che fu uno scià persiano, Ciro il Grande, a liberarli dalla cattività babilonese. (...) La comunità è riconosciuta come minoranza dalla Costituzione della Repubblica islamica. Come i cristiani e gli armeni, gli ebrei sono cittadini iraniani. A patto di rinunciare al proselitismo, possono praticare la religione dei padri, eleggere un loro deputato al Parlamento, avere scuole, asili, sinagoghe e godere di alcune deroghe alla legge islamica.

Ebrei ortodossi non sionisti incontrano Ahmadinejad

PERCHÈ GLI EBREI IRANIANI STANNO MEGLIO DEI PALESTINESI DI GAZA
Fonte web
Vivere nella dignità con i benefici della cittadinanza
25 000 Ebrei vivono in Iran. È la più grande popolazione ebraica nel Medio Oriente fuori da Israele. Gli Ebrei iraniani non sono perseguitati, né subiscono abusi da parte dello stato, anzi, sono protetti dalla Costituzione iraniana. Sono liberi di praticare la loro religione e di votare alle elezioni. Non vengono fermati e perquisiti ai posti di blocco, non vengono brutalizzati da un esercito di occupazione, e non vengono ammassati in una colonia penale densamente popolata (Gaza) dove vengono privati dei loro mezzi di sussistenza di base. Gli Ebrei iraniani vivono nella dignità e godono dei diritti della cittadinanza.
Il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad è stato demonizzato dai media occidentali. Viene definito un antisemita e il “nuovo Hitler”. Ma se queste teorie sono vere, perché la maggioranza degli Ebrei iraniani ha votato per Ahmadinejad alle recenti elezioni presidenziali? Potrebbe essere che la gran parte di quello che sappiamo su Ahmadinejad altro non sia che voci senza fondamento e propaganda?

Questo estratto è stato pubblicato in un articolo della BBC:
“l’ufficio di (Ahmadinejad) ha fatto una recente donazione di denaro all’ospedale ebraico di Tehran. È solo uno dei quattro ospedali di carità ebraici in tutto il mondo ed è finanziato con le sovvenzioni della diaspora ebraica – una cosa straordinaria in Iran, dove persino le organizzazioni di aiuto locali hanno difficoltà a ricevere sovvenzioni dall’estero per timore di essere accusati di essere agenti stranieri”.

Quando mai Hitler ha donato denaro agli ospedali ebraici? L’analogia con Hitler è un tentativo disperato di fare il lavaggio del cervello agli Americani. Non ci dice niente di come sia realmente Ahmadinejad.
Le menzogne su Ahmadinejad non sono diverse da quelle su Saddam Hussein o su Hugo Chavez. Gli Stati Uniti e Israele stanno cercando di creare la giustificazione per un’altra guerra. È per questo che i media attribuiscono ad Ahmadinejad di aver detto cose che non ha mai detto. Non ha mai detto di “volere cancellare Israele dalla carta geografica”. Questa è un’altra finzione.

L’autore Jonathan Cook spiega quello che il presidente iraniano ha realmente detto:
“Questo mito è stato riciclato a non finire dal momento in cui fu commesso un errore di traduzione di un discorso di Ahmadinejad fatto quasi due anni fa. Gli esperti della lingua persiana hanno verificato che il presidente iraniano, lungi dal minacciare di distruggere Israele, stava citando un discorso precedente del defunto Ayatollah Khomeini, in cui rassicurava i sostenitori dei Palestinesi che “il regime Sionista a Gerusalemme” sarebbe “svanito dalla pagina del tempo”.
Non minacciava di sterminare gli Ebrei e neppure Israele. Stava paragonando l’occupazione da parte di Israele dei [territori] Palestinesi ad altri sistemi illegittimi di governo il cui tempo è ormai finito, compresi gli Shah che un tempo governavano l’Iran, l’apartheid in Sud Africa e l’impero sovietico. Ciononostante, questa traduzione errata è persistita e ha prosperato perché Israele e i suoi sostenitori l’hanno sfruttata per i propri crudi scopi di propaganda”. (“Israel Jewish problem in Tehran, Jonathan Cook, The Electronic Intifada)
Ahmadinejad non rappresenta una minaccia né per Israele né per gli Stati Uniti. Come chiunque altro in Medio Oriente, vuole una tregua dall’aggressione degli USA e di Israele.
Questo [estratto] proviene da Wikipedia:
“Il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti ha mosso accuse di discriminazione in Iran contro gli Ebrei. Secondo tale studio, gli Ebrei non potrebbero occupare alte posizioni nel governo e non potrebbero prestare servizio nei servizi giudiziari e di sicurezza, né diventare presidi di scuole pubbliche. Lo studio dice che ai cittadini ebrei è consentito ottenere il passaporto e viaggiare fuori dal paese, ma che spesso gli vengono loro negati i permessi di uscite multiple normalmente rilasciati agli altri cittadini. Le accuse mosse dal Dipartimento di Stato americano sono state condannate dagli Ebrei iraniani. La Association of Tehrani Jews ha detto in una dichiarazione, “noi Ebrei iraniani condanniamo le accuse del Dipartimento di Stato americano sulle minoranze religiose iraniane, annunciato che siamo pienamente liberi di praticare i nostri doveri religiosi e non sentiamo alcuna restrizione in merito alla pratica dei nostri rituali religiosi”.
A chi dovremmo credere: agli Ebrei che a tutti gli effetti vivono in Iran, o alle provocazioni del Dipartimento di Stato americano?
Ci sono 6 macellerie kosher, 11 sinagoghe e numerose scuole ebraiche a Tehran. Né Ahmadinejad, né nessun altro funzionario del governo iraniano ha mai fatto alcun tentativo di far chiudere queste strutture. Mai. Gli Ebrei iraniani sono liberi di viaggiare (o di spostarsi) ad Israele a loro piacimento. Non sono imprigionati da un esercito di occupazione. Non gli vengono negati né cibo, né medicine. I loro figli non crescono con disturbi mentali provocati dal trauma della violenza sporadica. Le loro famiglie non vengono fatte saltare in aria dagli elicotteri d’assalto che girano intorno alle spiagge. I loro sostenitori non vanno a finire sotto ai bulldozer, né gli vengono sparati nel cranio delle pallottole di gomma. Quando fanno manifestazioni pacifiche per le loro libertà civili non vengono picchiati né vengono usati gas lacrimogeni. I loro leader non vengono perseguitati ed uccisi con assassini premeditati.
Roger Cohen ha scritto un articolo molto attento sull’argomento per il New York Times. Ha detto:
“Sarà che io prediligo i fatti alle parole, ma dico che la realtà della civiltà iraniana nei confronti degli Ebrei ci dice più sull’Iran – sulla sua sofisticazione e sulla sua cultura – di quanto lo faccia tutta la retorica incendiaria. Potrà essere perché sono ebreo, e raramente sono stato trattato con un tale e costante calore come in Iran. O forse mi ha colpito che l’ira per Gaza, sbandierata sui poster e sulla TV iraniana, non si è mai riversata sotto forma di insulti o di violenze contro gli Ebrei. O forse è perché sono convinto che la caricatura di “Mullah Pazzo” dell’Iran e che l’assimilarne qualunque compromesso al Monaco del 1938 – una posizione popolare in alcuni circoli ebraici americani – sia fuorviante e pericoloso”. (“What Iran’s Jews Say”, Roger Cohen, New York Times).

La situazione non è perfetta per gli Ebrei che vivono in Iran, ma è meglio di quella dei Palestinesi che vivono a Gaza. Molto meglio.
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Re: I fiołi de Ixrael en Iran: persecusion

Messaggioda Berto » mar mar 01, 2016 11:03 pm

La straordinaria storia degli ebrei di Mashad

Renzi la smetta di far finta che la guerra non esiste: dissimulare la realtà non ci salverà
Cittadinanza attiva
di Vittorio Zedda 14/12/2015

http://www.magdicristianoallam.it/blogs ... lvera.html


Quand’ero bambino a Parma, negli anni quaranta e cinquanta, c’erano solo alunni italiani nelle scuole, anzi quasi unicamente parmensi. Se a scuola c’era qualcuno in qualche misura “diverso”, ebbene quello ero io per il mio cognome sardo, inconsueto da quelle parti, e regolarmente frainteso. “Diverso”, poi, poteva essere in classe il ragazzo appena giunto dal sud, col suo accento per noi strano. Oppure quello esonerato dalle lezioni di religione, perché non cattolico.
Io, alle medie, dividevo il banco con il figlio del pastore della chiesa protestante metodista. Cominciai con lui, a undici anni, a parlare delle differenze che c’erano fra noi, sulla religione. Da lui imparai in merito cose che nessuno mi avrebbe mai detto, men che meno gli insegnanti. Timidissimo, lui ne parlava solo con me, anche perché io volevo sapere. In quella classe con tanti ragazzi vivaci ed estrosi, quel mio compagno era quasi invisibile. Pareva occultare la sua diversità, o quanto meno io percepivo in lui una sorta di nascondimento: un atteggiamento che fondeva l’orgoglio di una appartenenza da difendere col disagio di una diversità che lo isolava, più subita che gradita.
Non ricordo, come e quando, entrò a far parte della classe un altro ragazzo più grande di noi, dall’aria seria e matura. Pareva già un uomo. Fu il primo, e rimase l’unico, con un cognome straniero, perché era di origine armena. Com’era successo che un armeno fosse arrivato a Parma? Allora non potevo sapere di un genocidio avvenuto nel 1915, ma che ancora per decenni sarebbe rimasto noto solo a pochi. A distanza d’anni, conobbi altri armeni. Citai loro il nome di quel non dimenticato compagno di scuola, poi perso di vista, e questa fu la chiave per l’apertura di un dialogo con persone non comuni. Cominciai così a conoscere la storia degli armeni e ad apprezzare, in quei rari incontri, quel loro orgoglio identitario e l’elevata cultura interiore, non esibita, che li distingueva.
Senza capirne del tutto il perché, già da ragazzo associavo qualcosa di quel che percepivo nella storia di queste presenze “diverse”, con quel che mi avevano detto delle persecuzioni degli ebrei durante la guerra, da poco conclusa. Alla scuola media ancora di olocausto non si parlava, ma dagli adulti di casa qualcosa avevo sentito. Mia madre rievocava al riguardo le parole dette dal mio nonno materno, proprietario terriero presso Parma, e in quanto “padrone” tutt’altro che politicamente “rosso”. Quando vennero promulgate le leggi razziali disse: “Se ora se la prendono con gli ebrei, allora siamo finiti nel baratro”. Ero troppo piccolo per poter capire la correlazione tra quelle persecuzioni e il “baratro”, ma il solo fatto che lo avesse detto il nonno, sintesi vivente di esperienza e cultura, mi pareva una verità che prima o poi avrei compreso.
Avevo comunque cominciato ad imparare a scuola qualcosa che la vita avrebbe poi reiteratamente confermato. Seppi così delle persecuzioni dei primi cristiani, nella storia della Roma imperiale, e della vita nelle catacombe. A noi ragazzi, con l’esperienza ancora recente dei rifugi antiaerei sotterranei, in cui la gente si stipava durante i bombardamenti, sentir parlare di catacombe richiamava impressioni note di pericolo, di paura, di necessità di nascondersi. Era una lezione di storia che ci coinvolgeva. E che forse avremmo rivissuto. Rifacendomi alla mia esperienza di vita, mi pare che la gente non abbia mai finito di nascondersi. E fu così quando alla guerra fra nazioni nemiche, si aggiunse la guerra civile.
Anche il periodo della Resistenza costituì per tanti un periodo di nuovi pericoli e nuove paure, in uno scenario di disorientamento e confusione. I valori civili e politici che mutavano e venivano sostituiti ai precedenti, prendevano il sopravvento più rapidamente di quanto tanta gente comune potesse comprendere, per scegliere coscientemente. Churchill osservò: “Bizzarro popolo gli italiani. Un giorno 45 milioni di fascisti. Il giorno successivo 45 milioni tra antifascisti e partigiani. Eppure questi 90 milioni di italiani non risultano dai censimenti.” Qualcuno dissimulava o si nascondeva, quindi. Non era e non è una novità.
Penso al dramma delle foibe, per tanto tempo nascosto, e alle migliaia e migliaia di profughi istriani e dalmati, trascurati o quasi disconosciuti dallo stato italiano. Sopravvissuti alle foibe carsiche, quanti sono stati sospinti nelle” foibe” della memoria. Il solo parlarne è disdicevole, e nemmeno sappiamo quanta parte di quella storia sia ormai definitivamente persa e occultata, per una rimozione pervicacemente imposta. E così continuiamo a nasconderci, a nascondere cose agli altri o peggio a noi stessi. Ancora oggi se non sei di una certa parte politica, quasi non hai diritto ad esprimere un’opinione o un dissenso. Mimetismo e conformismo ci perseguitano, ci sommergono.
Ora i nuovi venti di guerra che soffiano dal califfato islamico verso l’Europa e, ahimè, verso l’Italia sempre più vicina al pericolo, suscitano nuove dissimulazioni e nuovi nascondimenti. C’è, persino al governo, chi nega l’esistenza della guerra. C’è chi si nasconde dietro le parole e vuole imporre una percezione della realtà che con la realtà non ha niente a che fare. E’ il nascondimento del “politicamente corretto”, la dissimulazione del “far finta che” le cose non stiano come stanno. Potrebbe finire che le cose stiano prima o poi così male, da indurci a fingere che stiano esattamente come prima, quando fingevamo che tutto andasse bene. Come si vede anch’io ci scherzo su e assolutamente non dovrei.
Una recente lettura mi ha fatto pensare a possibili scenari di un’Europa prossima ventura, già immaginati dal romanzo di Michel Houellebecq , “Sottomissione”, in cui si immagina una Francia futura islamizzata, quasi attraverso un processo di progressiva sottomissione “dolce”, percepita e comunque volutamente ignorata, dissimulata, subita come ineluttabile, facendo finta che nulla stia accadendo.

Ma il libro cui voglio accennare è un altro: scritto da Daniel Fishman è intitolato “Il grande nascondimento”. Sottotitolo : “La straordinaria storia degli ebrei di Mashad”. Vi si narra la storia, vera e documentata, di una comunità minoritaria di religione ebraica, in terra islamica, appunto a Mashad nell’Iran orientale. Una comunità che prospera per oltre novant’anni in quella città, pur nei limiti e con gli umilianti condizionamenti che l’islam impone ai non musulmani, e agli ebrei in particolare. Ma a Mashad degli ebrei tutti hanno bisogno, perché si tratta di gente abile tanto nei commerci quanto nelle professioni che richiedono una competenza scientifica, come ad esempio nella medicina. Per quanto tassati e tartassati gli ebrei prosperano ed esercitano un loro specifico dissimulato e sommesso potere nella società. Vivono quindi in equilibrio fra una rispettabilità conquistata e l’altrui invidia, legata anche al pregiudizio religioso islamico che sfocia alla fine nell’odio manifesto. Nel 1839, utilizzando un pretesto incredibilmente banale, i detentori del potere, islamici sciiti, dovendo fronteggiare una serie di problemi politici ed economici aggrovigliati e ingestibili, non trovano di meglio che scatenare un pogrom antiebraico per procurarsi risorse e per dirottare le tensioni sociali su quelli che l’islam, dai tempi di Maometto, vede come i peggiori e più spregevoli fra i nemici. Era già successo e succederà anche dopo, come sappiamo. Il pogrom di Mashad viene per così dire “nobilitato” da esigenze di difesa dell’islam, per cui agli ebrei viene imposto di convertirsi all’islam o morire. E qui, per farla breve, nasce una storia che ha dell’incredibile. C’è come sempre, chi si rifiuta di convertirsi e muore e chi si salva con la fuga, ma il nucleo più consistente di quella comunità ebraica trova e pone in atto una soluzione salvifica.
Coniugando dissimulazione e nascondimento, gli ebrei si accordano fra loro per convertirsi in massa all’islam, rimanendo però segretamente ebrei nella religione e nei costumi. Si comportano quindi come musulmani in pubblico ed ebrei in famiglia, mettendo in atto una serie incredibile di accorgimenti atti a non far scoprire ai musulmani e alle autorità locali questo loro doppia esistenza. Minacciati per la loro vita, ne vivono due. Ovviamente, devono partecipare in pubblico ai riti e alle preghiere islamiche, devono sapere a menadito il Corano e rispettare tutta la complicata ortoprassia islamica per non farsi scoprire. In privato tramandano oralmente ai figli la Torà e i riti ebraici, perché i libri e gli oggetti della tradizione non possono più essere custoditi nelle case e quindi vanno occultati o distrutti. I bambini imparano a gestire un doppio comportamento religioso, sapendo qual è quello che per loro deve valere e interiorizzando convintamente i motivi per cui devono comportarsi in un modo coi musulmani e in altro modo in famiglia, al riparo da occhi e orecchie nemiche.
In questa storia ovviamente non tutto andrà sempre liscio come si vorrebbe , ma la comunità vive, sopravvive e recupera prosperità nel secolo e mezzo successivo all’anno del pogrom, fino a quando le vicende politiche del paese portano una svolta positiva sotto il regno della Shah Reza Pahlavi. Si viene così gradualmente a conoscere la vicenda degli ebrei di Mashad, una “comunità di memoria”, capace di conservare, con la memoria, la fede.
Oggi la presenza e le minacce dell’Isis contro Roma, pronunciate a breve distanza da noi, sulla costa libica, risvegliano preoccupate reminiscenze storiche e vicende che sembrano reiterarsi, diverse e pur simili. Purtroppo c’è ancora chi crede di poter fronteggiare il problema dissimulando, nascondendo e facendo finta che il problema “sia un altro”. Ma la storia di Mashad, al pari delle più fantasiose favole d’Oriente, rimane una straordinaria eccezione, unica e irripetibile. Oggi, invece, dovremmo finalmente aver maturato la coscienza della realtà in cui viviamo e il coraggio morale e civile per smettere di nasconderci.

http://www.kolot.it/2015/06/30/la-strao ... -di-mashad




La doppia vita di una comunità ebraica dell’Iran
di Simone Zoppellaro
09 dicembre 2015

http://www.treccani.it/magazine/cultura ... _Iran.html

Un recente volume, edito da Giuntina, ci permette di fare luce su una pagina di storia affascinante quanto poco nota: quella degli ebrei in Iran. Una vicenda che, per diverse ragioni – ben illustrate dall’autore nell’introduzione – è rimasta per lungo tempo ai margini della stessa cultura ebraica . E questo nonostante un patrimonio ricchissimo, frutto di una storia millenaria che ha visto gli ebrei distinguersi in vari campi, con una presenza che giunge ininterrotta fino ad oggi, all’epoca della Repubblica islamica dell’Iran.

Certo – fra luci ed ombre – non sono mancate e non mancano tuttora le difficoltà, anche gravi. E proprio da uno dei momenti più drammatici di questa storia ha origine la vicenda narrata da Daniel Fishman nel libro Il grande nascondimento. La straordinaria storia degli ebrei di Mashad. In pagine agili e scorrevoli, l’autore ripercorre la storia di questa comunità iraniana a partire dal pogrom del 1839 avvenuto nella città di Mashhad, nel nord est del paese. Meta ancor oggi di pellegrinaggio per i musulmani sciiti di tutto il mondo, questa fu teatro di un episodio determinato – come spesso accadeva in questi casi (si ricordi ad esempio il massacro degli ebrei a Trento del 1475) – da un oscuro fatto di cronaca, che fece da scintilla a una miscela esplosiva di invidie, pregiudizi ed ignoranza.

Ne ebbe origine un assalto al quartiere ebraico cittadino, dove una folla inferocita abbatté le mura e scardinò le porte delle case, uccidendo una trentina di persone e saccheggiando le proprietà dei suoi abitanti. Per sottrarsi a morte certa, i membri della comunità decisero di convertirsi all’islam. Una scelta immediata e collettiva, che non venne meno anche in seguito, quando il clima in città tornò ad essere improntato alla calma e a una relativa tolleranza.

Eppure – anche a causa del timore generato da una possibile accusa di apostasia – gli ebrei di Mashhad decisero di non tornare più indietro da quella scelta, almeno pubblicamente. Ne nacquero così una doppia identità e una doppia vita che segnarono l’esistenza di questa comunità per oltre un secolo: musulmani osservanti in pubblico ed ebrei devoti fra le mura di casa e del quartiere. Una scissione pressoché totale, che finiva per investire ogni aspetto della vita quotidiana di queste famiglie. Doppia osservanza rituale – del venerdì e del sabato oltre che delle feste – e pellegrinaggi multipli (gli ebrei di Mashhad, si racconta nel libro, compivano il viaggio alla Mecca facendo tappa anche a Gerusalemme, per pregare presso il Muro del Pianto). Doppi erano persino i loro nomi: il primo riferibile alla cultura iraniana, il secondo a quella ebraica.

Una condotta, a tratti schizofrenica, che permise però ai membri di questa comunità di mantenere intatte le proprie tradizioni e la cultura per oltre un secolo. Poche furono infatti le conversioni effettive, e così gli ebrei di Mashhad tramandarono di generazione in generazione – soprattutto per via orale – la loro storia. E proprio alla memoria orale e ai racconti di alcuni dei discendenti di quella comunità, oggi residenti a Milano, fa ricorso Daniel Fishman per riportare alla luce questa vicenda. Un tassello importante in una storia – come dicevamo – assai poco conosciuta, ma straordinaria.

Esclusa Israele, quella iraniana rappresenta oggi la comunità ebraica più numerosa dell’intero Medio Oriente. Nei suoi 2.700 anni di storia, questa ha conosciuto periodi di grande splendore, come durante l’epoca sasanide, l’ultima prima dell’avvento dell’islam, quando essa rappresentava numericamente la prima comunità ebraica al mondo, sopravanzando persino la Palestina. A quell’epoca – raccontano gli storici – si attesta la presenza in Iran di città a maggioranza ebraica.

Dopo la conquista islamica, gli ebrei continuarono per molti secoli ad essere una comunità numericamente importante. In questo periodo, e fino ancora al XIX secolo, si segnala lo sviluppo di una letteratura giudaico-persiana, scritta in caratteri ebraici e modellata, nelle forme, sui classici della poesia persiana medievale. Non mancarono inoltre figure capaci di distinguersi ai massimi livelli di potere, come Saad al Dawla, gran vizir fra il 1289 e il 1291, all’epoca del sovrano ilkhanide Arghun.
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Re: I fiołi de Ixrael en Iran: persecusion

Messaggioda Berto » mar mar 01, 2016 11:03 pm

«Noi ebrei in Iran ora ci sentiamo più soli»
Gian Micalessin - Ven, 21/04/2006
Gian Micalessin da Teheran

http://www.ilgiornale.it/news/noi-ebrei ... -soli.html

La casa è vasta, spaziosa, di un'eleganza un po' retrò un po' spartana. Arash ti accoglie con sorrisi attenti e scrupolosi. Sua sorella Elham è già alla porta, s'avvolge la chioma bionda nel foulard multicolore, allunga la mano, scappa via. La madre ti studia un attimo, porge il palmo, riaffonda nel divano. Gli chiedi come va e Arash ti risponde «tutto bene» con un sorriso in cui leggi «e che ti posso dire». La prende alla lontana Arash. Incomincia da 2.700 anni fa, dagli antenati arrivati in catene dopo la vittoria di re Nabucodonosor, distruttore del primo tempio di Salomone. Da allora a oggi Arash e gli altri ebrei d'Iran sono rimasti in 20/25mila. Diecimila a Teheran, il resto sparso tra Isfahan, Shiraz e Kherramshar.
Cinquantamila sono svaniti nell'ultimo quarto di secolo e per un attimo anche dire dove siano finiti sembra un arcano. Un mistero sospeso nella penombra del salotto, tra lo sbircio della madre e il gracchiare della tv. Poi in un fiato la parola impronunciabile salta fuori, Israele ricomincia a esistere e l'ingegnere Arash Abaie, lettore della Sinagoga e insegnante di Religione alla Scuole ebraiche di Teheran incomincia a rivivere, a uscire dal bozzo. «Non c'è paura, non c'è mai stata, ma c'è preoccupazione, dopo quel discorso molte certezze sono svanite... per la prima volta da 25 anni anche questa famiglia si chiede se sia ora d'andare».
Il discorso, così lo chiama Arash, è la prima esternazione del presidente Mahmoud Ahmadinejad, quella con cui a ottobre promise di cancellare Israele dalla faccia della Terra e mise in discussione l'entità del genocidio. Quel giorno i diecimila sopravvissuti di Teheran e quelli dispersi nel resto del Paese sentirono un brivido freddo risalirgli la schiena. Solo Harush Yashayaei, capo del Consiglio ebraico di Teheran, ha preso carta e penna e ha chiesto spiegazioni. «Caro presidente, la nostra piccola comunità guarda con profondo orrore alla quotidiana negazione dell'Olocausto... L'Olocausto non è una leggenda, è una vera vergogna che qualcuno si chieda se gli ebrei uccisi furono sei milioni o un milione...».
Horush, abituato a protestare con il ministero della Guidanza islamica e a ricevere risposta per ogni trasmissione tv sulla causa palestinese, quella volta non ebbe soddisfazione. Qualcuno al posto del «caro presidente» gli rifilò quattro righe formali promettendo di esaminare le sue lagnanze. Da allora Arash e i suoi pensano un po' di più ai parenti lontani e al modo per raggiungerli. «Alla solitudine siamo abituati, da un decennio qui a Teheran o in Iran non vive più uno solo dei nostri parenti o dei vecchi amici, ma con Ahmadinejad ci sentiamo ancora più soli. Non abbiamo più certezze, non sappiamo cosa aspettarci dal governo. La situazione è ogni giorno meno chiara e il futuro un'incognita».
Un'angoscia raramente provata prima. «Qui in Iran non ci siamo mai sentiti né perseguitati, né in pericolo. La chiave dorata ce la offrì l'imam Khomeini quando ricordò a tutti di distinguere tra ebrei e sionisti. Da allora malgrado i bambini crescano imparando a scuola gli slogan contro Israele nessuno ha mai alzato un dito contro di noi». Oltre a riconoscere l'esistenza della comunità religiosa, a permetterne il culto e l'insegnamento religioso nelle scuole private, la Costituzione iraniana prevede l'elezione di almeno un deputato ebreo al Parlamento. Questo non ha impedito l'esecuzione di 13 ebrei accusati d'attività filo-israeliane tra il 1980 e il '98 e l'arresto, nel '99, di tredici esponenti della comunità di Isfahan e Shiraz accusati di spionaggio.
Dal 2002 - quando gli ultimi otto dei tredici sospetti tornarono liberi - gli appelli dell'allora presidente Khatami al dialogo tra le civiltà sembrarono esorcizzare le antiche paure. «L'arrivo di Ahmadinejad è stato un salto nel passato, ascoltandolo molti di noi hanno incominciato veramente a guardare a Israele», racconta un commerciante che scruta il nostro taccuino di appunti e si guarda bene dal dare il nome. «Certo qui a Teheran abbiamo le scuole della Comunità per i nostri figli, venti sinagoghe che si riempiono ogni Shabbat e due ristoranti kosher, ma quanto durerà? E se le cose peggioreranno riusciremo a fuggire?». Andarsene oggi non è troppo difficile. «Gli anni bui - ricorda il mercante - erano quelli della guerra con l'Irak, allora per noi ebrei ottenere il passaporto era un'impresa, ma dopo la fine della guerra siamo ridiventati viaggiatori come gli altri. Solo chiedere di andare in Israele resta vietatissimo, ma basta arrivare in Turchia e tutto si risolve. L'ambasciata israeliana può farti depositare il passaporto e tu voli a Tel Aviv con un permesso speciale. Qui lo sanno e chiudono un occhio... Neppure le comunicazioni sono più un’impresa. Per vent'anni chiamare l'estero era fuori discussione, ma oggi con alcune carte telefoniche puoi raggiungere il prefisso cancellato da tutti gli elenchi del Paese. Il problema è questo presidente. Da quando c'è lui né noi, né i nostri amici iraniani, sappiamo più cosa ci riserverà il domani».


Ebrei iraniani
https://it.wikipedia.org/wiki/Ebrei_iraniani

La comunità ebraica in Iran è riconosciuta ufficialmente come gruppo di minoranza religiosa da parte del governo, e, come per i Zoroastri, a loro è stato assegnato un seggio nel Parlamento iraniano. Ciamak Moresadegh è il membro ebreo del parlamento, in sostituzione di Maurice Motamed dopo le elezioni del 2008. Nel 2000, l'ex deputato ebreo Manuchehr Eliasi stimò che a quel tempo vi erano circa 30.000-35.000 ebrei in Iran, adesso ve ne sarebbero all'incirca 25.000. Dopo Israele è la seconda comunità ebraica più grande in Medio Oriente.


Iran, gli ebrei al voto in Sinagoga: 'Siamo iraniani'
Sono in 20mila, 'stiamo bene qui e non ce ne andremo'
http://www.ansa.it/sito/notizie/mondo/2 ... caba3.html
Nella sala della preghiera della sinagoga di Yusifad a Teheran, davanti al grande candelabro azzurro a sette braccia dipinto sulla parete di fondo, è stato allestito un seggio elettorale. Gli scrutatori sono musulmani, ma i votanti sono solo ed esclusivamente ebrei. La comunità ebraica iraniana, la più numerosa di tutto il Medio Oriente (ovviamente dopo Israele) con circa 20mila persone, ha diritto ad un proprio rappresentante nel nuovo Parlamento iraniano, o Majlis, così come gli armeni, i cattolici siriaci e gli zoroastriani, tutte minoranze 'protette' dalla costituzione islamica. A Teheran oggi si è votato anche nelle chiese e nei templi del fuoco.

Nella Sinagoga, il dovere elettorale è preso molto sul serio. Dati i numeri relativamente piccoli, stupisce il continuo via–vai di votanti, molti uomini con la kippah, donne velate, famiglie con bambini. All'ora di pranzo qualcuno porta grandi ceste di frutta e le appoggia sugli stessi tavoli dove si compilano le schede, prima di metterle nell'urna e di sigillare il voto timbrando l'indice della mano destra nell'inchiostro. I candidati in corsa sono due, Homayoun Samiha e Siamak Morsedes. "Noi ci sentiamo iraniani a tutti gli effetti. Stiamo bene qui. Non abbiamo problemi", spiega all'ANSA Elyas Abbian, proprietario di una gioielleria nel grande bazar di Teheran.

Abbian dice di ricevere continue pressioni da Israele, specie dai suoi parenti, perché anche lui compia la sua alya, ovvero il ritorno alla Terra Promessa. "L'emigrazione non è però un obbligo", sottolinea. Anche se non esistono rapporti diplomatici tra Israele e l'Iran - e anzi i due Paesi vengono spesso considerati nemici giurati - gli ebrei iraniani possono recarsi in preghiera a Gerusalemme. Nella sinagoga di Teheran, molti ammettono di essere stati in Israele, ma di essere poi tornati.

Chi doveva partire, ormai è partito. Ai tempi dello Scià vivevano in Iran circa 100mila ebrei. Poi la Rivoluzione del 1979 creò una situazione di paura. L'ayatollah Khomeini inquadrò gli ebrei come minoranza protetta ma i più non si fidarono. Gli ebrei hanno vissuto in Iran da 2500 anni, da quando giunsero in Persia liberati da Ciro il Grande, dopo la schiavitù di Babilonia. La storia della minoranza ebraica in Persia e poi in Iran è stata caratterizzata da alti e bassi, periodi di convivenza pacifica si sono alternati a periodi di persecuzioni e conversioni forzate. Dopo le tensioni vissute durante la presidenza di Ahmadinejad e il suo furore anti-sionista, per gli ebrei iraniani è cominciata una fase più positiva con Rohani. "Il sabato è rispettato come nostro giorno di festa, nelle nostre scuole si studia in ebraico, i nostri ragazzi possono fare il servizio militare vicino alle loro comunità, i nostri riti sono tutelati", afferma Abbian. "Anzi, il 99,9% dei miei amici sono musulmani e non vi sono problemi di religione. Io partecipo alle loro feste e loro vengono al Tempio". Abbian si ferma a parlare all'ingresso della Sinagoga, dove l'atmosfera sembra rilassata, tranquilla. Solo un soldato è di guardia, così come negli altri seggi. Gli ebrei iraniani sperano che il nuovo corso avviato da Rohani possa portare anche ad un dialogo con Israele? "Noi speriamo ovviamente di sì, però prima deve essere risolta la questione palestinese. Solo a questa condizione, Israele e Iran potranno diventare buoni amici", risponde senza esitazione il negoziante del bazar.




“Noi ebrei iraniani fiduciosi dopo anni bui”
francesca paci
2015/08/09

http://www.lastampa.it/2015/08/09/ester ... emium.html

Gli ebrei di Teheran pregano il Talmud nella sinagoga di Yusef Abad, la stessa in cui anni fa si recò in visita il riformista Khatami, primo presidente iraniano a incontrare la comunità che sogna il Muro Occidentale di Gerusalemme. Farzin Farnooshi insegna ai bimbi l’idioma reinventato da Ben Yehuda alla nascita d’Israele. Chiede i documenti per scongiurare provocazioni poi, affabile, fa strada nella sala decorata di Menorah: «Ho sempre vissuto a Teheran, un tempo pensavo di andar via ma poi sono nati i miei 3 figli. Ci sono stati momenti duri, per questo fu importante la visita di Khatami, segno di considerazione per le altre religioni in un Paese in cui non tutti sono d’accordo su questo. Oggi va un po’ meglio. Non sono un politico ma credo che l’accordo sul nucleare apra delle prospettive, anche se secondo me l’amicizia è più difficile da instaurare dell’inimicizia».

Uomini e donne entrano e escono, «Shalom». Un gruppo di ragazzi si dondola avanti e indietro tenendo fissato sulla fronte e sul braccio il tefillin alla maniera degli ultraortodossi.

Farzin racconta la sua comunità, la sua vita: «Siamo 10 mila in Iran, tremila a Teheran, l’unica città dove oltre alle sinagoghe ci sono delle scuole ebraiche per i bambini». Per chi dovesse credere che sia un paradiso spiega che non lo è: «Ricordo il ’79 perché prima potevamo costruire sinagoghe e dopo non più. Sotto Ahmadinejad poi, abbiamo subito molta propaganda negativa e atti vandalici, i luoghi sacri sono stati danneggiati. Ma in ogni Paese c’è chi la pensa diversamente e nella storia noi ebrei siamo sempre stati minoranza. Avremo sempre paura: so che quando i miei figli finiranno le scuole ebraiche incontreranno le reazioni negative che ho incontrato io all’università dove ho avuto amici musulmani ma anche tanti nemici. Eppure bisogna vivere». Non vuol neppure menzionare i Neturei Karta, i rabbini ultraortodossi Usa convinti dell’illegittimità dello Stato d’Israele al punto da abbracciare Ahmadinejiad. Lui è stato una volta a Gerusalemme, la sogna ancora.

Ammette il peso dell’antisemitismo, ma qui dove gli ebrei hanno un seggio in parlamento lo sente meno che nel resto del Medio Oriente: «Non vivrei mai al Cairo, sebbene l’Egitto sia in pace con Israele. Nella sua storia l’Iran ha sempre mostrato una cultura maggiore degli arabi verso le altre fedi».
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Re: I fiołi de Ixrael en Iran: persecusion

Messaggioda Berto » mar mar 01, 2016 11:04 pm

L'Iran giustiziò mio nonno, ed ora sta cercando di nascondere il modo in cui ha (mal-)trattato gli altri ebrei.

https://www.washingtonpost.com/postever ... other-jews


La nipote del presidente della comunità ebraica iraniana scrive al Washington Post al fine di confutare una delle menzogne più strombazzate dalla propaganda ufficiale del regime degli ayatollah: ossia la 'tolleranza' verso la minoranza ebraica interna.

Gli ebrei vivono nella regione persiana da circa 2600 anni, ma dopo l'affermazione dello sciismo duodecimano come religione ufficiale, nel corso del Cinquecento, al tempo della monarchia safavide, sino alla Rivoluzione Costituzionale del 1906, che riconobbe finalmente la piena eguaglianza giuridica a tutti i persiani, quale che ne fosse la (eventuale) appartenenza etnica o confessionale, gli ebrei furono legalmente discriminati e separati dal resto della società: solo tra 1906 e 1979 la vita ebraica in Iran conobbe una reale e diffusa fioritura, al punto che all'inizio del 1979 erano circa centomila, appartenenti perlopiù alla classe media delle libere professioni (medici, avvocati, giornalisti, insegnanti, artisti...), ma con un 10% di imprenditori dinamici nei settori economici più avanzati.

Khomeini ritornò trionfalmente a Teheran il 1° febbraio del 1979, e solo 3 mesi più tardi il nonno della scrivente, presidente della comunità ebraica iraniana e lui stesso facoltoso imprenditore, venne 'giustiziato' al termine di un processo-farsa di appena 20 minuti e senza neppure la facoltà di essere assistito da un avvocato, con l'accusa di essere ovviamente una 'spia sionista'.

Se nel 1979 gli ebrei iraniani erano circa centomila, su un totale di 37 milioni di cittadini, oggi sono meno di 9.000 su oltre 77 milioni di iraniani: come si può ragionevolmente parlare di 'tolleranza' e non invece di una autentica oppressione legalizzata (sebbene in genere non violenta)?

Esiste reale tolleranza laddove un sito web legato ad un noto esponente parlamentare ha in questi giorni rilanciato la solita, famigerata accusa del sangue?

p.s. Di mio aggiungo solo questo: poiché l'Iran è governato dalla Shariah, la (famigerata) legge coranica, è tollerante un regime come quello degli ayatollah, che punisce con la esecuzione capitale l'iraniano ebreo che uccida l'iraniano musulmano, mentre in caso inverso riconosce all'eventuale assassino musulmano la facoltà di indennizzare economicamente la famiglia dell'ucciso (ebreo)?
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Re: I fiołi de Ixrael en Iran: persecusion

Messaggioda Berto » mer mar 02, 2016 8:37 am

How Iran’s Jews Survive in Mullahs’ World
Larry Cohler-EssesAugust 18, 2015
http://forward.com/news/319269/irans-je ... s-attached

Roberta, ecco di cosa parlavamo io e Stefano: la questione è molto più complessa del quadretto idilliaco che il signor Ragazzoni pretendeva di spacciarci per realtà.
Gli ebrei iraniani certamente vivono più sicuri in Iran che nei paesi arabi, ma sono anche legalmente discriminati perché soggetti alla (famigerata) Sharia, ad esempio nel giudizio assai diverso che un tribunale iraniano dà quando un ebreo uccide un musulmano oppure viceversa.
Ed ancora non ci è stato spiegato: come mai, se gli ebrei iraniani vivono così bene sotto il tallone degli ayatollah, erano tra gli 80.000 ed i 100.000 nel 1979 ma oggi sono ridotti a soli 9.000 (=secondo almeno i dati ufficiali, sebbene i leader comunitari li valutino in circa 18.000)?
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Re: I fiołi de Ixrael en Iran: persecusion

Messaggioda Berto » ven mar 04, 2016 2:38 pm

Se dovese sciopar na goera tra Ixrael e Iran 'sa farisełi łi ebrei iraniani?



Hezbollah
https://it.wikipedia.org/wiki/Hezbollah
Hezbollah o Ḥizb Allāh (in arabo: حزب اﷲ‎), ossia Partito di Dio, è un partito politico sciita del Libano fondato nel giugno 1982, dotato di un'ala militare, con sede in Libano.
Hezbollah nacque nel 1982 come milizia durante il conflitto del Libano meridionale (1982-2000). I suoi leader si ispirano all'Ayatollah Khomeini, e le sue forze militari sono state addestrate e organizzate da un contingente del Corpo delle Guardie della rivoluzione islamica. Hezbollah dal 1985 manifesta i suoi tre obiettivi principali: "la fine di ogni potenza imperialista in Libano", "sottoporre le Falangi Libanesi ad una giusta legge e portarli a processo per i loro crimini", e dare al popolo la possibilità di scegliere "con piena libertà il sistema di governo che vogliono".
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Re: I fiołi de Ixrael en Iran: persecusion

Messaggioda Berto » sab mar 05, 2016 7:45 am

Iran's Make-Believe Moderates
Looking in vain for glasnost in Tehran.
Mar 2016

http://www.weeklystandard.com/irans-mak ... le/2001407

Barack Obama and his tireless secretary of state sold the Joint Comprehensive Plan of Action in part as a means to reinforce Iranian “reformers," "moderates," and "pragmatists." They were always quick to add that the atomic accord stood on its own technical merits. Yet the non-nuclear dimension of the deal was no small part of the sugar that made the JCPOA more appealing. A more temperate Islamic regime, which gave first priority to the well-being of its people, would be less likely to abuse the JCPOA's weaknesses. And the accord has serious limitations: Within 8 years, the Islamic Republic can start producing advanced centrifuges; within 15 years, clerics will be free to construct as many centrifuges and enrich as much uranium as they wish. The unorthodox inspection regime that the White House agreed to, which at the suspect Parchin facility restricted the International Atomic Energy Agency to remote, robotic sampling, also suggests that the administration really hopes to see the Islamic Republic moderate over the next decade.

The 2016 Iranian parliamentary elections ought to be viewed as one more sign that the overarching political premise of the deal made no sense. The new parliament voted in at February's end is composed of—and again the Western nomenclature is far from ideal—radical hardliners, hardliners, conservatives, and a few tepid, nervous reformers. Real reformers, Iranian politicians and intellectuals who want to change radically the governing structure of the Islamic Republic and convert a theocracy into a democracy, were silenced, imprisoned, exiled, murdered, and banned from politics when the pro-democracy Green Movement was stamped out after the fraudulent presidential election in 2009.

What we have left in the Islamic Republic's theocratically managed democracy, in which parliament has no real power, are regime-loyal laymen and mullahs who are all Islamic revolutionaries but differ, at times strongly, on who should lead the cause and how the country's economic system should be structured. Anyone who isn't a member of the third-world-loving-please-don't-let-America-bomb-Iran-stop-the-warmongering-neoconservatives movement and has studied the Islamic Republic knows that when parliament chairman Ali Larijani, a highly intelligent, dissent-crushing, women's-rights-loathing, supreme-leader-loving, former commander of the Revolutionary Guards, allies himself with President Hassan Rouhani and his followers, the latter aren't seeking to change fundamentally the Islamic Republic. Many Westerners want to believe that Rouhani's economic preferences, which would reduce the state's heavy hand in commerce and the Islamic Revolutionary Guard Corps's monopolizing role in industry, will sooner or later lead to greater political and cultural freedom. The power of Adam Smith will triumph over Islam, so to speak.

It's a bad bet. We have seen this play before.

Hassan Rouhani and his former mentor, the clerical major-domo Ali Akbar Hashemi-Rafsanjani, liberalized Iran's economy in the 1990s when Rafsanjani was president and the de facto co-equal of Ali Khamenei, whom he had elevated to supreme leader in 1989 upon Ayatollah Ruhollah Khomeini's death. Rafsanjani eased up a bit on cultural expression and didn't blow a gasket when middle-class and affluent Iranian women started to add a bit of color to their clothing and push back the scarves covering their hair. Rafsanjani made a personal pitch to successful Iranian expatriates to come home and invest. Rafsanjani and his aide-de-camp Rouhani especially tried to attract European money to Iran. As Rouhani put it in 1994, "Because of the fierce competition between Europe and the United States, we must expand our relations with Europe and counter America's conspiracy." The two clerics tried—and failed—to check the growing economic and political power of the Revolutionary Guards.

However, Rafsanjani, with Khamenei, could come down brutally on those who politically or culturally pushed the envelope too far. Many intellectuals, at home and abroad, were assassinated during Rafsanjani's presidency by officers and agents of the ministry of intelligence. Rafsanjani and Rouhani, who'd been the driving forces behind that ministry's creation and had men closely aligned with them serving in its highest ranks, were unquestionably culpable for this terrorism, as they were also undoubtedly "in" on the attack at Khobar Towers in Saudi Arabia in 1996, which left 19 Americans dead and 372 wounded. Some Iranian students believed that Mohammad Khatami, a complicated cleric who sincerely wrestled with the collision of Western and Islamic ideas, would usher in an age of reform after he succeeded Rafsanjani in 1997; Rouhani's deeply felt antipathy toward them exploded during the 1999 student protests. Rouhani, then secretary of the supreme national security council, gave a firebreathing speech threatening the students with death.

Clerics do change. There are many Iranian mullahs who were once die-hard believers in theocracy and the Islamic Revolution who have grown disenchanted. Most of them have been harassed, some even tortured and exiled for their growing doubts. There is, however, no evidence to suggest that Hassan Rouhani or the vast majority of his supporters who won parliamentary seats in Tehran are what we might call discreet evolutionary mullahs and laymen. There is no reason to believe that the Iranian president has even a smidgen of the reflection and self-doubt that Mikhail Gorbachev did when he attempted to save communism through glasnost.

Foreign policy analysts and grand strategists don't have to be slaves to history and read meticulously every speech and book of foreign VIPs, but they can't ignore them and gainsay the obvious. Mutatis mutandis, Rouhani is the same man he was in 1999. That he might look better than he did then is only because the Iranian political system has moved so far "right" since the halcyon days of the "Islamic Left" in the 1990s, when reformist clerics and laymen tried peacefully and democratically to introduce change into Iranian society and politics. The only ones who've really changed are the fallen heroes of Kha-tami's brief period of reform. They've become forlorn, desperate to see hope even in men who once literally gave the orders to jail and beat them. It is an Orwellian irony.

Regardless of what happens inside Iran, President Obama and his supporters will continue to embrace the Joint Comprehensive Plan of Action. They will never accept the argument that a nuclear agreement that enhances the power of Islamic revolutionaries is so politically counterproductive as to negate the logic of the deal itself. The truth: Since the second Iraq war became politically unpalatable, the vast majority of American progressives haven't cared that much about what happens inside the Islamic Republic, whether hardliners rise and moderates fall. Liberals may cite with the greatest of reverence Iranian dissidents who are praying that Rouhani 2.0 won't be as nasty as Rouhani 1.0, that his enmity towards the Revolutionary Guards will spill over into civil society and at least create buffers between their demurrals and the guards' rapacity. But for the American left, what really matters is that the United States isn't going to war over the Iranian nuclear issue. As long as that is true, Rouhani is a moderate. The Iranian people just need to be patient. The arc of history is on their side. Crony capitalism will eventually set them free.
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Re: I fiołi de Ixrael en Iran: persecusion

Messaggioda Berto » sab mar 05, 2016 3:31 pm

Hezbollah porterà la guerra in Israele
Mar 5, 2016
Scritto da Maurizia De Groot Vos

http://www.rightsreporter.org/hezbollah ... in-israele

Hezbollah non è più una forza difensiva ma offensiva e sarà il pericolo più immediato e letale per Israele. Ad affermarlo è un rapporto pubblicato giovedì dalla giornalista libanese Nour Samaha su Foreign Policy.

Secondo quanto riferisce Nour Samaha che cita una fonte anonima, i combattimenti in Siria hanno portato Hezbollah a sviluppare una sofisticata struttura di comando e controllo, compresi l’uso di moderne reti di comunicazione, l’uso di droni per la ricognizione e la capacità di mantenere per lungo tempo una linea di alimentazione e supporto ai combattenti in prima linea. Questo fa di Hezbollah una forza offensiva e non più solo una forza difensiva, una forza quindi in grado di attaccare Israele. A questo va aggiunto un arsenale di tutto rispetto che tra le altre cose annovera missili tattici balistici, missili Scud, gli iraniani Fateh-110 e i missili M-600 missili, una versione modificata del siriano Fateh-110. Fonti vicine ai terroristi libanesi hanno detto di ritenere che Hezbollah sia in grado di portare la guerra in territorio israeliano.

La tesi viene confermata da Jeffrey White, analista senior del Washington Institute for Near East Policy, il quale afferma che Hezbollah ha la capacità di utilizzare armi guidate in grado di colpire con precisione qualsiasi area in Israele compresi i centri di comando, gli aeroporti e i maggiori obiettivi commerciali. E torna in mente la minaccia lanciata solo pochi giorni fa dal leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, di provocare una ecatombe in Israele.

«Nella prossima guerra Hezbollah non rimarrà sul confine, gli insediamenti israeliani del nord non saranno protetti (da Hezbollah n.d.r.)» ha detto una fonte di Hezbollah a Nour Samaha. «Hezbollah porterà la guerra da loro (in Israele n.d.r.)» continua la fonte aggiungendo che la più grande preoccupazione di Israele è che una volta finito l’impegno di Hezbollah in Siria i terroristi libanesi si trasformino in una forza offensiva.


Israele non sottovaluta il rischio

I comandi militari israeliani sono mesi che dicono che per Israele il pericolo maggiore non è rappresentato né dall’ISIS né da Hamas ma che è rappresentato dai terroristi di Hezbollah, cioè il braccio armato di Teheran. L’intelligence israeliana è impegnata da mesi a studiare l’evoluzione della guerra in Siria e in particolare il pesante rafforzamento dei terroristi libanesi. Israele ha colpito più volte convogli di armi diretti proprio agli Hezbollah ma evidentemente molte armi sono riuscite a passare. La volontà di Hezbollah, dichiarata apertamente, di attaccare Israele non sembra però preoccupare la comunità internazionale distratta dallo Stato Islamico, per questo proprio in queste ore Israele sta compiendo uno sforzo diplomatico impressionante per portare la vicenda all’attenzione degli alleati americani e occidentali. La minaccia rappresentata dagli Hezbollah libanesi è seria e concreta ma sembra che il mondo non se ne accorga (o fa finta di nulla) per questo i comandi del IDF stanno preparando alcune azioni preventive volte a scongiurare un attacco a Israele. Per farlo Israele si muove su più direttive oltre a quella diplomatica, in particolare con la intelligence e con lo scambio di informazioni con i Paesi arabi che proprio pochi gironi fa hanno dichiarato Hezbollah un gruppo terroristico.

Una cosa è certa, la faccenda sta prendendo seriamente una brutta piega, il tutto nella totale indifferenza del mondo. Israele è minacciato concretamente da Hezbollah e dall’Iran che lo comanda. Altro che faccenda palestinese o Stato Islamico.



Israele, Hezbollah e la guerra che verrà
Feb 28, 2016
http://www.rightsreporter.org/israele-h ... -che-verra

Nella più che probabile terza guerra tra Israele ed Hezbollah non ci sarà nulla di paragonabile alla guerra del 2006. Hezbollah dispone di oltre 100.000 missili e razzi in grado di colpire tutto il territorio israeliano, un arsenale che nel 2006 non aveva e che cambia completamente i piani della difesa israeliana.

Parlando con i comandanti militari israeliani la prima cosa che si nota e che lascia in qualche modo basiti è la quasi totale certezza che una terza guerra tra Israele ed Hezbollah è praticamente inevitabile. Non è una minaccia impellente perché per adesso Hezbollah è pesantemente impegnato con gli alleati iraniani in Siria e in Yemen, quindi per ora non ha alcun interesse a impegnarsi in una guerra con Israele, ma la granitica certezza dei vertici militari israeliani è che Hezbollah si stia preparando per un attacco a Israele non appena le condizioni lo consentiranno.

Gli analisti militari e della intelligence israeliana sanno però che questa volta sarà una guerra completamente diversa da quella del 2006. Questa volta gli Hezbollah hanno un arsenale spaventoso costruito praticamente sotto il naso di UNIFIL che invece lo doveva impedire in base alla risoluzione 1701. Si valuta che i missili e i razzi in mano a Hezbollah siano circa 100.000, una potenza di fuoco spaventosa in grado di lanciare 1.200 missili al giorno su tutto il territorio israeliano e di essere operativa in pochissimo tempo.

Le strategie difensive di Israele

Dato per scontato che la guerra che verrà tra Israele ed Hezbollah non avrà nulla di paragonabile a quella durata 33 giorni nell’estate del 2006, la questione principale per i vertici militari israeliani è stabilire come difendere la popolazione israeliana dalla enorme minaccia rappresentata dai missili in mano ad Hezbollah. Per questo il sistema antimissile israeliano è stato ulteriormente potenziato e aggiornato. Il sistema antimissile israeliano può contare su tre sistemi di intercettazione:

Il sistema a corto raggio Iron Dom
Il sistema a corto/medio raggio David’s Sling che sta per entrare in funzione
Il sistema a lungo raggio Arrow

Oltre a questi c’è un quarto sistema in corso di allestimento da parte dei tecnici israeliani in collaborazione con gli Stati Uniti, sistema di cui si conosce pochissimo ma che secondo indiscrezione sarebbe estremamente efficace nella intercettazione di bersagli multipli.

Sempre nella strategia difensiva di Israele rientra anche l’enorme mole di lavoro che sta svolgendo l’intelligence nell’individuare i bersagli da colpire, cioè le batterie di lancio dei missili, i comandi militari di Hezbollah, i nascondigli dei terroristi ecc. ecc. Per dare una idea di quello di cui si sta parlando diciamo solo che nel 2006 i bersagli acquisiti poco prima della guerra erano appena 200 mentre oggi sono già oltre 2.000 in crescita.

Infine parliamo della barriera difensiva che Israele sta costruendo lungo tutto il confine con il Libano. Chiunque viaggi nel nord di Israele non può fare a meno di notare gli scavi in mezzo alle colline e le barriere difensive, l’ultima appena terminata nei pressi del villaggio di Matat, lunga 1.700 metri e alta 10. Il loro scopo è quello di evitare l’infiltrazione dei terroristi di Hezbollah in territorio israeliano (l’unità di Hezbollah deputata a infiltrarsi si chiama Radwan) e dare il tempo all’IDF di preparare un contrattacco.

Come detto in precedenza, nella intelligence e nei vertici militari israeliani c’è una fortissima consapevolezza che un terza guerra con Hezbollah sia inevitabile e non certo per volontà israeliana, si tratta solo di stabile quando e non se ci sarà. L’unica cosa che Israele può fare e studiare il sistema per difendere la propria popolazione visto che UNIFIL, che sarebbe deputata a impedire il riarmo di Hezbollah, non lo fa. Oltre a questo si sta studiando una strategia offensiva di cui però non parliamo ma che dovrebbe in teoria mettere fine definitivamente al pericolo rappresentato da Hezbollah, il maggiore per Israele.

Scritto da Maurizia De Groot Vos
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Re: I fiołi de Ixrael en Iran: persecusion

Messaggioda Berto » sab mar 05, 2016 3:49 pm

Libano, il leader cristiano-maronita: “Noi baluardo contro l’ISIS”
Dallo Stato islamico a Hezbollah: parla Samir Geagea, candidato alla presidenza della Repubblica del Paese dei cedri
25 giugno 2015
di Bernard Selwan El Khoury per Lookout news

http://www.panorama.it/news/oltrefronti ... ntro-lisis

Le stesse montagne che centinaia di anni fa hanno protetto i cristiano-maroniti del Libano, portandoli a costruire lo Stato libanese moderno, oggi proteggono uno dei principali leader della comunità cristiana libanese, il Dr. Samir Geagea, capo del partito politico “Le Forze Libanesi” e candidato alla Presidenza della Repubblica. Il nostro appuntamento con il Dr. Geagea, soprannominato “Hakim” (“Saggio” o “Medico”), per la sua laurea in Medicina, è alle ore 15:30 nella sua residenza e sede del partito, a Maarab. “Pronto, tutto bene?”, ci chiede al telefono un membro dell’ufficio stampa di Hakim. “Siamo in anticipo di 45 minuti, abbiamo voluto aspettare per non disturbare”, gli diciamo, ma lui insiste: “Siete i benvenuti, accomodatevi, vi stiamo aspettando”, ci dice l’addetto stampa, non tradendo la storica e rinomata ospitalità libanese.

Maarab è una cittadina situata nel cuore del Monte Libano, e domina il Golfo di Jounieh, a nord di Beirut. Giunti a Maarab non c’è bisogno di chiedere indicazioni: ad accoglierci vi è una grande immagine che ritrae un sorridente Hakim vicino a sua moglie On. Setrida Geagea, deputato del Parlamento libanese. È il segnale che siamo nel quartier generale delle Forze Libanesi. È qui che nel 2012 il Dr. Geagea scampò a un attentato.

Ad accoglierci nella sua residenza non troviamo l’immagine distorta del Dr. Geagea che ci presenta la versione italiana di Wikipedia: di fronte a noi vi è un uomo dagli occhi vivaci e fieri, che all’esilio scelse, nel 1994, di rimanere nel suo paese, consapevole che sarebbe stato arrestato dopo l’emanazione di una condanna costruita ad hoc e voluta dal regime siriano al quale si opponeva e continua ad opporsi. Hakim fu imprigionato il 21 aprile 1994, e trascorse in una minuscola cella del Ministero della Difesa 4114 giorni. Come ricorda lui stesso, quei giorni anziché piegarlo fisicamente e psicologicamente, lo hanno rafforzato, rendendolo un’icona di resistenza, fede e libertà agli occhi dei suoi sostenitori. E per non dimenticare quei giorni, il Dr. Geagea ha fatto ricreare nella sua residenza la stessa cella in cui era prigioniero. Tornato in libertà il 26 luglio 2005, Hakim trascorse tre mesi all’estero per cure mediche, e tornò nel Paese dei Cedri il 25 ottobre, giorno del suo compleanno. Conscio del fatto che la guerra è una tragedia in cui si commettono errori, e a differenza di altri protagonisti della guerra libanese, Hakim dichiarò nel settembre 2008: “Mi scuso profondamente per tutti gli errori che abbiamo commesso negli anni della guerra civile, mentre stavamo assolvendo ai nostri doveri nazionali. Chiedo a Dio e al popolo di perdonarci”.

Il giorno in cui il Dr. Geagea ha deciso di accoglierci – il 2 giugno – è un giorno storico per l’Italia, e lo diventerà anche per il Libano, andando così a cementare un rapporto storico – quello tra Italia e Libano – iniziato diversi secoli fa. Un’ora dopo il nostro incontro, Hakim sarebbe andato a fare visita al “General”, come è noto in Libano il Generale Michel Aoun, leader del partito “Corrente Patriottica Libera”, storico antagonista di Geagea e secondo candidato alla Presidenza della Repubblica, una carica che secondo il “Patto Nazionale” libanese spetta a un cristiano maronita. Una visita storica, attesa da oltre 20 anni, che potrebbe dare un nuovo impulso al ruolo della comunità cristiana libanese.

Negli stessi giorni, il Dr. Geagea ha ricevuto una visita eccellente, che dimostra l’attenzione dell’Italia, e in particolare della Santa Sede, a quanto sta accadendo nel Paese dei Cedri. Il Cardinale Dominique François Joseph Mamberti, Prefetto del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica della Santa Sede, a capo della delegazione, durante la sua visita al Dr. Geagea, ha esortato i responsabili libanesi ad eleggere nel più breve tempo possibile un Presidente della Repubblica, facendosi portavoce della preoccupazione di Papa Francesco per l’attuale fragilità della comunità cristiana libanese e, assieme ad essa, di quella mediorientale. Una preoccupazione condivisa con l’amministrazione americana, il cui ambasciatore in Libano, David Hale, ha recentemente incontrato, tra gli altri, proprio Samir Geagea.

L’intervista che il Dr. Geagea ci ha rilasciato in esclusiva giunge in un momento delicato e particolare non soltanto per il Libano ma per l’intera regione mediorientale. Il Paese dei Cedri è senza un Presidente della Repubblica dal 25 maggio 2014, e ciò rispecchia la spaccatura creatasi in seno alla comunità cristiana libanese tra sostenitori di Geagea e sostenitori di Aoun. Questo ingombrante vuoto di potere si sta ripercuotendo in modo negativo non soltanto sulla vita istituzionale del paese, ma anche su quella socio-economica. Inoltre, incombe sul Libano la minaccia dell’ISIS, nonostante l’esercito libanese e gli apparati di sicurezza nazionali stiano monitorando con assiduità la linea di confine per evitare infiltrazioni. “L’Occidente ha paura dell’ISIS, noi in Libano diciamo all’organizzazione: tfaddalou (accomodatevi), vi stiamo aspettando”, ci hanno detto diversi cittadini libanesi (cristiani) che hanno preso parte alla guerra civile del 1975-1990. Si tratta di dichiarazioni rese da uomini che durante la guerra civile si sono trovati a combattere contro guerriglieri palestinesi e mercenari arabi a volte più spietati dei jihadisti dell’ISIS, per difendere i villaggi cristiani che altrimenti oggi non esisterebbero. Tuttavia, quella dell’ISIS è una minaccia che le istituzioni libanesi non stanno sottovalutando, come ci ha confermato il Dr. Geagea, mentre ci invitava a sederci nel suo ufficio personale.

Come valuta l’assenza di un Presidente della Repubblica, e quali sono le conseguenze di questa assenza?
«L’assenza di un Presidente della Repubblica causa un vuoto non soltanto nella Presidenza ma anche nella vita politica del paese. Le attività dello Stato sono tutte paralizzate, e questa paralisi istituzionale ha diverse ripercussioni, sia sulla situazione generale nel Paese che su quella economica. In questo senso, il vuoto presidenziale è molto grave e dannoso, e il nostro obiettivo è quello di colmarlo nel più breve tempo possibile».

Oltre a lei, quali sono gli altri candidati alla Presidenza della Repubblica e di quale sostegno godono?
«Il Generale Aoun, nonostante non abbia ufficialmente annunciato la propria candidatura, è tra i candidati di spicco. Ci sono altri nomi sul tavolo, ma non si sono ancora candidati ufficialmente. Per quanto riguarda i sostegni nazionali, il generale Aoun gode del sostegno più o meno ampio della Coalizione 8 Marzo [guidata da Hezbollah, ndr] ed io sono sostenuto dalla Coalizione 14 Marzo».

A che punto è il dialogo avviato tra le Forze Libanesi e la Corrente Patriottica Libera?
«Questo dialogo doveva cominciare tanto tempo fa, ma, come dicono i francesi, mieux vaut tard que jamais, meglio tardi che mai! Stiamo cercando di andare oltre le divisioni politiche esistenti, ma non è una cosa semplice, perché i programmi politici delle due coalizioni in alcuni casi sono diametralmente opposti. Nonostante ciò stiamo lavorando attivamente per trovare dei punti in comune. Io ritengo che finora abbiamo ottenuto dei successi, almeno nella prima fase, nella speranza che in futuro possiamo trovare accordi su altri punti».

Come è a suo avviso la situazione generale in Libano, se confrontata a quella dei Paesi vicini? E che ruolo sta giocando l’esercito libanese?
«Se consideriamo ciò che sta accadendo nell’intera regione, soprattutto in Iraq e Siria, possiamo affermare che la situazione in Libano è ancora a livelli sostenibili, nonostante le tensioni derivate dall’assenza di un Presidente della Repubblica. Ciò che dobbiamo fare noi come libanesi è tenere lontano dal Libano il fuoco delle tensioni e degli scontri in atto nei paesi vicini. Per quanto riguarda l’esercito libanese, questo sta svolgendo un ruolo fondamentale nel garantire la sicurezza nazionale, in un contesto – quello mediorientale – generalmente instabile».

Quali sono gli effetti sulla situazione socio-economica del Libano?
«È ovvio che quando non c’è uno Stato attivo e dinamico, non può esserci, di conseguenza, neanche un’economia attiva e dinamica. La nostra economia, anziché registrare un tasso di crescita del 7-9%, necessario per un paese come il nostro che ha un debito pubblico di 65 miliardi di dollari, sta oggi crescendo dell’1,5-2%. Se ci fossero un Presidente della Repubblica, un Governo attivo e un Parlamento dinamico, questo tasso di crescita si attesterebbe all’8-9 %. Non sto fornendo cifre casuali: nel triennio 2007-2009, nonostante tutte le crisi che il nostro paese stava attraversando, e fino al 2010, il Libano ha registrato un tasso di crescita tra il 7 e il 9%. Oggi la situazione è radicalmente cambiata, e ciò sta avendo gravi ripercussioni sul piano sociale e sulla vita delle persone. Il paese risulta così paralizzato, ed è per questo che l’elezione del Presidente della Repubblica si deve tenere il prima possibile».

La crisi siriana ha avuto conseguenze negative anche sul Libano, soprattutto se consideriamo il massiccio afflusso di profughi siriani. Come state gestendo questa crisi?
«La presenza dei rifugiati siriani in Libano è un fardello molto, molto pesante per il nostro Paese. Il problema è che questa emergenza non poteva essere evitata considerando la lunghezza della linea di confine tra Libano e Siria e la crisi siriana. Le misure adottate dal governo libanese negli ultimi cinque mesi hanno contribuito, seppur in minima parte, a ridurre il peso di questo fardello. Un fatto importante che ha contribuito ad alleggerire il flusso di profughi siriani verso il Libano è stata l’assenza di campi profughi creati ad-hoc, e dunque i rifugiati siriani si sono sparpagliati in Libano come semplici cittadini stranieri. Ciò, oltre ad aver diminuito l’afflusso di profughi siriani verso il Libano, ha evitato che si venisse a ricreare lo stesso problema che c’era stato con i campi profughi palestinesi molti anni fa. Nonostante la presenza di profughi siriani in Libano sia contenuta, ciò non significa che questa presenza debba persistere, soprattutto oggi che intere aree in cui si trovano i profughi siriani si stanno trasformando in aree a favore dell’opposizione siriana, mentre altre sono dalla parte del regime di Al-Asad. Sarebbe auspicabile che il governo cominci a chiedere a questi profughi di tornare nelle proprie città, soprattutto in quelle città che sono state liberate dall’opposizione siriana, come ad esempio Idlib. Non c’è timore che possa ripetersi quanto accaduto nel 1975 con i profughi palestinesi [anno d’inizio della guerra civile libanese tra i guerriglieri palestinesi e la resistenza cristiana, ndr]: all’epoca, i palestinesi avevano formato grandi gruppi all’interno dei campi profughi, e li avevano trasformati in campi d’addestramento. Per quanto riguarda i profughi siriani, non ci sono campi profughi e dunque non vi sono campi d’addestramento. Non dimentichiamo poi che all’epoca tutta la leadership dell’OLP palestinese si trovava in Libano, e dopo il settembre nero del 1970 tutti i leader della guerriglia palestinese si erano rifugiati in Libano, e ciò contribuì a far scoppiare la crisi e in seguito la guerra. Invece, la leadership della rivoluzione siriana non si trova in Libano e neanche potrebbe venire in Libano, in quanto nessuno lo accetterebbe. Tutti questi fattori fanno sì che non possa ripetersi l’errore che era stato commesso con i profughi palestinesi».

Quali sono le ripercussioni della partecipazione di Hezbollah alla guerra siriana?
«Le ripercussioni della partecipazione di Hezbollah alle battaglie in Siria sono molto gravi: le esplosioni e gli attentati che ci sono stati in Libano e il tentativo da parte dei ribelli siriani di attaccare alcuni villaggi libanesi sul confine sono soltanto alcuni esempi. Se, al posto di Hezbollah, l’esercito libanese fosse stato dispiegato lungo la linea di confine, questi incidenti non sarebbero accaduti. Bisogna poi considerare le ripercussioni del coinvolgimento di Hezbollah nel lungo periodo. Le principali ripercussioni ricadranno sulla comunità sciita libanese, in quanto la maggioranza del popolo siriano la vedrà come una comunità che, nel momento della crisi, l’ha pugnalata. In questo modo, Hezbollah ha trascinato gli sciiti libanesi e tutta la popolazione del Libano in un problema molto grave, e per cosa? Per difendere un regime feroce e spietato».

Vi è in Libano una reale minaccia dell’ISIS? Quali sono i timori della comunità cristiana?
«Va innanzitutto detto che l’ISIS è la peggiore organizzazione terroristica che la storia abbia mai conosciuto. Ma è proprio in questa ferocia e brutalità che si trova il loro punto debole, e proprio perché agiscono in questo modo non possono crescere e diffondersi come organizzazione. Oggi il Medio Oriente è in uno stato di caos e tensione, e ciò ha permesso a questa organizzazione di diffondersi, seppur in modo limitato. L’ISIS è un problema in Iraq, e lo è ancor di più in Siria. Ad oggi però non possiamo dire che l’ISIS si trova in Libano, e la cosa più importante a cui dobbiamo prestare attenzione oggi in Libano è evitare che singoli individui sposino l’ideologia dell’ISIS. Purtroppo, le azioni di Hezbollah stanno amplificando questo rischio anziché ridurlo. Per quanto riguarda la comunità cristiana, non ritengo vi sia una minaccia diretta proveniente dall’ISIS, anche perché a difendere la comunità cristiana in Libano vi sono l’esercito libanese e gli apparati di sicurezza nazionali, ed è ciò che sta accadendo nel nord-est del Libano, dove è stanziato l’esercito libanese, a ridosso del confine con la Siria. Non bisogna strumentalizzare la minaccia dell’ISIS per terrorizzare la popolazione e ottenerne un vantaggio politico».

Per concludere, quanto ritiene sia importante la presenza cristiana in Libano? E quale ruolo potrebbero svolgere i Paesi occidentali per tutelare questa presenza?
«La presenza dei cristiani libanesi è estremamente importante per l’intera regione, e questo lo sanno anche le comunità musulmane. La comunità cristiana libanese rappresenta per la regione un fattore di distinzione e di multi-culturalismo, che arricchisce il bagaglio culturale dell’intera regione. Il Libano è diverso da tutti i paesi arabi perché al suo interno vi è una comunità cristiana attiva ed efficace. In altri paesi arabi ci sono cristiani, ma non sono attivi come quelli libanesi. Per questo, gli altri paesi arabi guardano con ammirazione e orgoglio al Libano e alla sua vita culturale, sociale e politica. Cosa devono fare i governi occidentali per difendere questa comunità? Questi governi non hanno la reale intenzione di fare ciò, non esiste una volontà politica, altrimenti saprebbero come fare. I governi occidentali fanno calcoli freddi, basati su precisi interessi, e si muovono laddove hanno interessi diretti. Quando l’Iraq invase il Kuwait, tutti i governi accorsero in difesa del Kuwait, non perché amassero il Kuwait più di quanto amassero il Libano quando fu attaccato dalla Siria e da Israele, ma perché in Kuwait avevano più interessi. Purtroppo, i calcoli dei governi occidentali sono calcoli basati sugli interessi e non sui princìpi».


???

Hezbollah: per i cristiani riconoscenza nei secoli dei secoli
Intervista con Nawaf al-Mousawi di Davide Malacaria e Lorenzo Biondi

http://www.30giorni.it/articoli_id_22799_l1.htm

Nawaf al-Mousawi è stato responsabile per gli affari esteri di Hezbollah. Ci riceve nel suo studio presso il Parlamento libanese, dove siede in qualità di deputato.

Come nasce Hezbollah?

Nawaf Al-Mousawi: Nel 1982, come resistenza contro l’occupazione israeliana. Tutti i popoli che hanno subito un’occupazione hanno opposto resistenza: è un fatto legale. Allo stesso tempo siamo un partito politico libanese che ha fatto una scelta irreversibile per uno Stato pluralista. Per due ragioni. La prima è perché vogliamo che il nostro Paese sia un esempio di coabitazione tra popoli e religioni: se Dio avesse voluto, avrebbe dato a tutti la stessa fede. Ha deciso per il pluralismo. La verità sarà affermata al tempo della Risurrezione e del Giudizio. La seconda ragione è che rifiutiamo il regime razziale: governi separati per ogni popolo e religione. Respingiamo il sionismo come movimento razzista, secondo la risoluzione Onu 3379.

Come nasce la vostra alleanza con il partito del generale Aoun?
Al-Mousawi: Un primo dialogo è iniziato nel 1989, quando fu imposto l’embargo ai quartieri cristiani controllati dal generale Aoun. Noi rifiutammo e lasciammo passare viveri e combustibile dalle nostre zone, favorendo la fine del blocco. Crediamo nella necessità di buone relazioni con i nostri partner cristiani nel Paese. Il loro ruolo – anche politico – è fondamentale, ma la politica degli americani li sacrifica ai propri interessi petroliferi e a quelli di Israele. Il sangue cristiano sparso nel Medio Oriente è loro responsabilità: in Iraq, in Palestina e, in parte, in Libano. In Iraq gli sciiti aspirano a vivere in pace con i cristiani, la Siria è il primo rifugio per i profughi cristiani iracheni... Facciamo appello all’Europa per salvare i cristiani dai pericoli causati loro dalla politica americana.

Durante l’ultima guerra la comunità cristiana ha aiutato i musulmani. Quanto ne sono stati influenzati i rapporti tra le due comunità?
Al-Mousawi: Moltissimo, la nostra riconoscenza durerà nei secoli dei secoli. Un esempio: molte famiglie sciite hanno trovato rifugio a Jazine, città cristiana. Quando ringraziammo per l’aiuto, la gente del posto rispose: «Vi abbiamo solo restituito il favore che nel XIX secolo ricevemmo dai vostri antenati nel momento del bisogno…». Due secoli dopo la memoria era rimasta... Confido che gli sciiti conserveranno questo ricordo per ben più di due secoli. Sayyid Hassan Nasrallah è un uomo religioso. Ogni giorno nelle sue preghiere ricorda il generale Aoun, Sleiman Franjieh e Émile Lahoud, tre leader cristiani. Nasrallah dice sempre che il giorno del Giudizio pregherà il Signore per loro. Sembra un miracolo, ma in Libano è normale pregare per uomini di fede diversa.

L’alleanza con un partito cristiano ha influenzato i vostri rapporti con i cristiani libanesi?
Al-Mousawi: La cristianità dovrà ringraziare il generale Aoun per secoli, per il credito che ha acquistato ai cristiani aiutando i musulmani nell’ultima guerra. Al contrario il movimento cristiano delle Forze libanesi, fin dagli anni Ottanta, è stato dalla parte di Israele: una posizione che ha deformato l’immagine di tutta la cristianità in Medio Oriente. Nel 1997 Giovanni Paolo II ha chiesto ai cristiani di essere parte integrante del mondo arabo: non c’è integrazione più bella che la solidarietà nel momento del pericolo.

In un quadro di distensione del Medio Oriente Hezbollah può rinunciare alle armi?
Al-Mousawi: La tensione in Medio Oriente è frutto dell’aggressione israeliana. Se avrà termine non ci sarà più motivo di portare armi. La resistenza è una reazione contro l’occupazione dei territori libanesi, del Golan e della Palestina. La Palestina deve essere uno Stato democratico e pluralista, nel territorio della Palestina storica.
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