Ixrael paradixo de łebertà par arabi, musulmani e creistiani

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Messaggioda Berto » dom apr 03, 2016 10:50 am

La vita dei cristiani in Israele: prosperità, posti dirigenziali e arruolamenti nell’Idf | di Shadi Khalloul
3 aprile 2016

http://www.linformale.eu/la-vita-dei-cr ... i-khalloul

Riportiamo la versione italiana dell’articolo di Shadi Khalloul che fa il punto sulla situazione dei cristiani in Israele, scritto per il Gatestone Institute. La traduzione è di Angelita La Spada. Sono sempre di più i cristiani di Israele che decidono di prestare servizio nell’Idf, ma soprattutto sono in crescita e, come tutte le minoranze in Israele, occupano anche posti dirigenziali di rilievo. Il giudice della Corte suprema Salim Jubran, di etnia araba, è di religione cristiano-maronita. Con buona pace di chi ancora parla di apartheid in Israele.

L’anno scorso, Israele ha riconosciuto l’esistenza di un gruppo di cristiani “aramei” all’interno dei suoi confini. Una decisione che nessun paese arabo o musulmano del Medio Oriente ha mai preso né avrebbe mai pensato di farlo. Israele ha riconosciuto un distinto gruppo etnico e religioso: la popolazione autoctona dell’antica Mezzaluna Fertile.

La loro lingua, l’aramaico, era la lingua parlata da Gesù secoli prima che l’Islam arrivasse nella regione.

Israele non solo sostiene e garantisce ai cristiani e alle altre minoranze – drusi, musulmani, baha’i – pieni diritti civili, libertà di culto e diritto alla convivenza pacifica, ma consente loro anche di svilupparsi come minoranze con tutte le implicazioni che comportano le differenze di cultura. Gli arabi, ad esempio, sono ben accolti nelle Forze di difesa israeliane (IDF), ma al contrario degli ebrei non sono tenuti a fare il servizio militare. David Ben Gurion, fondatore e primo premier dello Stato ebraico, non voleva che gli arabi si sentissero obbligati a combattere i loro “fratelli”.

In Israele, i membri delle minoranza cristiana e di quella musulmana occupano posti dirigenziali di ogni tipo – proprio come ogni ebreo israeliano che desidera avere una carriera di successo. Si pensi ad esempio al giudice della Corte suprema Salim Jubran, di etnia araba e religione cristiano-maronita.

Contrariamente alla propaganda, non c’è “apartheid” di alcun tipo in Israele né ci sono strade che possono essere percorse solo dagli ebrei. Cosa che invece accade in Arabia Saudita, dove ci sono vere e proprie strade dell’apartheid, dal momento che solo i musulmani possono recarsi alla Mecca.

Israele fa questo, in un contesto dove i paesi vicini – che sono spesso i nemici più brutali dell’umanità – desiderano che esso sia eliminato, facendo di frequente anche del loro meglio perché ciò accada. Purtroppo, molti europei si uniscono al coro. Tutti hanno visto i recenti tentativi malevoli da parte dell’Unione Europea di annientare economicamente Israele etichettando le merci prodotte nei territori contesi. Questa condizione, che non è stata imposta in nessun altro paese che ha un confine conteso, di fatto ostacola qualsiasi tentativo di pace.

Questi europei non ingannano nessuno. Le loro “punizioni” sornionamente sadiche e presuntuose destinate a Israele non faranno che nuocere economicamente a migliaia di palestinesi per i quali il lavoro è di vitale importanza, perché questi diktat indurranno altresì i palestinesi disoccupati a dover rivolgersi all’ufficio collocamento che rappresenta la loro ultima risorsa: l’estremismo e il terrorismo islamico. Paradossalmente, questi europei, per soddisfare il loro desiderio di danneggiare gli ebrei facendo finta di aiutare i palestinesi, in realtà seminano un nuovo raccolto di terroristi che poi andranno in Europa a mostrare cosa pensano di ipocriti del genere.

Nella regione si parla molto del fatto che gli europei aspirano segretamente a cancellare Israele dalla carta geografica, auspicando che le loro nuove leggi, unitamente alla vecchia violenza araba, servano allo scopo. In questo modo, gli europei possono far credere a se stessi di non aver “nulla a che fare con ciò”. Questi europei devono sapere che non ingannano nessuno.

Israele, dal canto suo, pur avendo a che fare con i fronti americani ed europei, e spesso con le minacce musulmane genocide, continua attivamente a rafforzare le sue minoranze attraverso una vasta gamma di programmi finanziati dallo Stato. Il 30 dicembre 2015, il governo israeliano ha adottato un piano quinquennale da 15 miliardi di shekhel (circa 4 miliardi di dollari) per lo sviluppo delle minoranze, soprattutto arabe. Gila Gamliel, ministro per l’Uguaglianza sociale, membro del Likud, ha il compito di attuare il piano. Il premier Netanyahu, che è ingiustamente demonizzato, negli ultimi anni ha creato “l’Agenzia per lo sviluppo economico dei settori arabo, druso e circasso”. Questo organismo è diretto da un arabo musulmano, Aiman Saif, che controlla un bilancio di 7 miliardi di shekhel (circa 1,8 miliardi di dollari), con stanziamenti erogati per lo più a diversi città e villaggi arabi per sviluppare infrastrutture moderne, aree industriali, opportunità di lavoro, l’istruzione e altri elementi. Il resto del bilancio è destinato ad aiutare i villaggi cristiani in Galilea.

Gli arabi hanno un loro dipartimento in seno al ministero dell’Istruzione, guidato da un arabo musulmano, Abdalla Khateeb, che è anche responsabile di un cospicuo bilancio di 900 milioni di shekhel (230 milioni di dollari).

I cristiani, così come tutte le altre minoranze, oggi si rendono conto che prestare servizio militare nell’esercito israeliano è essenziale per la loro integrazione nello Stato ebraico. In Israele, molti cristiani e altre minoranze condividono le stesse paure: sanno che in questa regione, lo Stato ebraico è l’unica isola che garantisce loro libertà e diritti democratici. La comunità araba musulmana, quella cristiana e le altre comunità arabofone vedono il tragico destino dei loro fratelli in Siria, Iraq, Libano e in altri paesi arabi. Musulmani che uccidono musulmani; fanatici gruppi musulmani che uccidono i cristiani, li sradicano, li sgozzano, li bruciano vivi, li annegano in gabbie e naturalmente li crocifiggono, anche i bambini piccoli. Le minoranze d’Israele sono consapevoli di questo. Esse, inoltre, non riescono a capire perché nessuno demonizza questi farabutti. Temono che questa rovina si diffonderà innanzitutto in Terra Santa e poi in Europa.

Questa paura è uno dei motivi per cui sempre più cristiani chiedono di servire nelle IDF: il 30 per cento di reclutamento avviene su base volontaria; mentre nella società ebraica si registra il 57 per cento delle presenze su base obbligatoria. Oggi, più di un migliaio di arabi musulmani fanno parte delle Forze di difesa israeliane.

Noi tutti conosciamo il pericolo rappresentato da quei gruppi jihadisti fanatici come Hamas e vogliamo dedicare un maggiore impegno alla difesa di questo stato pluralista e solitario.

La comunità a cui appartiene il sottoscritto, i cristiani aramei, affonda le sue radici etnico-linguistiche nella comunità aramaico-fenicia stanziatasi in origine in Siria, Libano e Iraq. Nei 1400 anni successivi alla conquista islamica, i cristiani aramei sono stati costretti ad abbandonare la loro lingua per parlare l’arabo e più di recente a lasciare le loro case in Siria e Iraq. Essi non hanno alcuno status nei paesi arabi e islamici, molti dei quali governati dalla legge islamica della sharia. I cristiani aramei non godono di alcuno status anche nell’Autorità palestinese, che ora controlla la Giudea e la Samaria.

Sappiamo che alcuni gruppi cristiani, come Sabeel, Kairos Palestine e altri che sono controllati dall’Autorità palestinese, sentono ancora il bisogno di parlare positivamente dei signori arabi musulmani che li tengono assoggettati.

Gerusalemme è aperta a tutti. Ma non è sempre stato così, soprattutto sotto la giurisdizione giordana, fino al 1967. Non solo allora non fu consentito l’accesso agli ebrei, ma 38.000 pietre tombali ebraiche furono asportate dal Monte degli Ulivi e utilizzate come materiale di costruzione e per pavimentare le latrine della Giordania.

I membri arabi musulmani della Knesset israeliana (il parlamento) non accettano il diritto dei cristiani a preservare il loro patrimonio unico. Il 5 febbraio 2014, il deputato della Knesset Haneen Zoabi della Lista araba unita ha minacciato i parlamentari cristiani israeliani che facevano pressioni perché la commissione Lavoro della Knesset si pronunciasse a favore di una legge volta ad aumentare il numero dei rappresentanti cristiani nel comitato per le pari opportunità nell’occupazione in seno al ministero dell’Economia. La Zoabi non ha accettato l’idea che noi apparteniamo a un’etnia cristiana aramea separata e ha insistito a dire che siamo arabi e palestinesi. Il che è ovviamente falso come se noi cristiani insistessimo a chiamare gli arabi musulmani “nativi americani”. La legge è stata approvata – nonostante i tentativi di evitarlo compiuti dalla Zoabi e dai suoi colleghi – grazie a una coalizione di membri della Knesset, con la stragrande maggioranza di voti a favore da parte dei parlamentari ebrei.

Questo episodio mostra come alcuni arabi musulmani di Israele, pur chiedendo ai loro vicini ebrei di aiutarli a preservare il loro patrimonio arabo-musulmano, non riconoscono questi stessi diritti alle altre minoranze etniche.

Piuttosto, essi cercano di imporre l’arabizzazione e la palestinizzazione con minacce e ricorrendo all’uso della forza. Nel settembre 2014, ad esempio, una donna cristiana aramea, il capitano delle IDF Areen Shaabi, è stata vittima di stalking da parte di alcuni attivisti arabi musulmani, a Nazareth. Ella è stata minacciata al grido di “Allahu Akbar” [“Allah è il più grande!”] e di notte le hanno tagliato le gomme dell’auto.

Il maggiore delle IDF Ehab Shlayan, un cristiano arameo di Nazareth e fondatore del Christian Recruitment Forum, si è svegliato una mattina dell’agosto 2015 e ha trovato una bandiera palestinese fuori dalla sua porta di casa. La vigilia di Natale del 24 dicembre 2014, una trentina musulmani ha lanciato pietre e bottiglie di vetro contro Majd Rawashdi, un soldato cristiano di 19 anni, e la sua abitazione.

Tutto questo è ipocrisia ai massimi livelli, misto a razzismo.

In un messaggio di auguri di Natale rivolto ai cristiani d’Israele, il 24 dicembre 2012, il premier Netanyahu ha detto:

“Le minoranze che vivono in Israele, tra cui oltre un milione di cittadini che sono arabi, godono di pieni diritti civili. Il governo di Israele non tollererà mai le discriminazioni contro le donne. La popolazione cristiana di Israele sarà sempre libera di professare la propria fede. Questo è l’unico posto in Medio Oriente dove i cristiani sono completamente liberi di praticare la loro fede. Non devono aver paura; non devono fuggire. In un momento in cui i cristiani sono sotto assedio in tanti luoghi, in molti paesi del Medio Oriente, sono orgoglioso che i cristiani d’Israele siano liberi di praticare la loro fede e che in Israele ci sia una fiorente comunità cristiana”.

In Israele, i cristiani e altre minoranze crescono e prosperano, mentre in altri paesi del Medio Oriente, tra cui l’Autorità palestinese, vengono duramente oppressi e perseguitati dall’islamismo, fino a scomparire.

L’autore di questo articolo, Shadi Khalloul, è il fondatore del Movimento aramaico israeliano. Prima della laurea conseguita presso l’University of Nevada, a Las Vegas, è stato luogotenente paracadutista nelle IDF. È anche un imprenditore, leader della sua comune
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Messaggioda Berto » gio apr 07, 2016 8:41 pm

SARAH ZOABI: ARABA,MUSULMANA,ISRAELIANA E SIONISTA
Ci sono due donne con il cognome Zoabi nella sfera pubblica israeliana.
07/04/2016

https://www.facebook.com/noicheamiamois ... 0550544341

C’è Haneen Zoabi, che è stata la prima donna araba ad essere eletta alla Knesset, nel 2009, e da allora si è messa a gran voce al servizio dei nemici di Israele. Ha sostenuto il programma nucleare iraniano, Hezbollah e i terroristi arabi che sparano ai civili israeliani e li prendono a coltellate. E’ stata rimossa più volte dalle assemblee della Knesset ed è stata condannata in tribunale per il suo pessimo comportamento verso i poliziotti arabi israeliani.

E c’è Sarah Zoabi, una parente dell’indegna parlamentare. Sarah Zoabi si definisce "araba, musulmana, israeliana e sionista," ed afferma: "Posso venire uccisa perché dico questo, ma credo veramente che noi arabi non abbiamo un posto migliore di Israele". Anche suo figlio, Mohammad Zoabi, è fiero di essere sionista, ed in passato è stato costretto a nascondersi per diversi mesi per sfuggire alle minacce di morte ricevute per il suo sostegno allo Stato ebraico.

Fonte:Padre Gabriel Nadaf
https://www.facebook.com/noicheamiamois ... 1100597286
Padre Gabriel Nadaf,il Sacerdote Cristiano impegnato nell' integrazione della comunità Cristiana in Israele nella società Israeliana,e' stato scelto per accendere una torcia a Yom Azmaut ( Giorno dell'Indipendenza).
Padre Nadaf partecipa a campagne di sensibilizzazione pro-Israele in tutto il mondo e lavora instancabilmente per il paese,incoraggiando i ragazzi cristiani ad arruolarsi nell'IDF.
Mazal tov!
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Messaggioda Berto » dom apr 17, 2016 8:16 pm

Perché stiamo con Israele
7 novembre 2015 Riccardo Ghezzi

http://www.linformale.eu/perche-stiamo-con-israele

Poco più di 8 milioni di abitanti, 200 milioni di nemici nei territori confinanti. Israele non è solo l’unica democrazia del Medio Oriente, definizione oggettiva e inattaccabile che esula dal cosiddetto tifo calcistico, ma è soprattutto un Paese isolato.
Isolato perché circondato da nemici veri, agguerriti, che ne vorrebbero la distruzione e non sono per nulla disposti ad accettarne l’esistenza. Ma soprattutto isolato perché non c’è alcun organismo imparziale in grado di tutelare il diritto all’autodeterminazione di Israele e del popolo ebraico. I vivi, per intenderci, che non possono essere usati come pretesto per attacchi politici e quindi non sono così interessanti e appettibili come gli ebrei morti durante l’olocausto.

Chi difende Israele e il popolo ebraico oggi?
Non certo l’Unesco, né Amnesty Internation, né la Croce Rossa, men che meno Emergency e Medici Senza Frontiere e tutte quelle organizzazioni umanitarie e terzomondiste che si prodigano di buone intenzioni e si arrogano il ruolo di paladini dell’uguaglianza, dei pari diritti, della tolleranza e della solidarietà. Mai solidarietà nei confronti di Israele, però, né di conseguenza del popolo ebraico di oggi che non è costituito da “povere vittime da difendere”, ma spesso viene dipinto come carnefice sanguinario.
Non l’Onu né l’UNHCR, che anzi richiamano e condannano Israele per violazioni di convenzioni spesso reinterpretate ad hoc.
Non la Comunità Europea, che anzi non manca mai di contribuire persino economicamente a sostenere i nemici di Israele, probabilmente credendo alle bugie di chi si finge più moderato rispetto agli “estremisti”, comportandosi però allo stesso modo.

Non la Nato, di cui Israele non fa parte. E neppure le due grandi e principali potenze mondiali, Usa e Russia, che hanno le loro priorità in Medio Oriente e persino discutibili alleati (Arabia Saudita, Qatar e Turchia da una parte, Siria e Iran dall’altra) che gli impediscono di far collimare i propri interessi con quelli di Israele.
Eppure, è opinioni di tanti, chiamiamola pure la “maggioranza silenziosa”, che Israele sia un baluardo dei valori occidentali e rappresenti la cultura occidentale stessa in Medio Oriente. Se cade Israele cade un pezzo di occidente. E le conseguenze sarebbero facilmente immaginabili e devastanti. Un effetto domino che significherebbe il crollo di un’intera civiltà.
Lo sanno, ma non lo dicono. Non lo dice la stampa, con i suoi titoli capziosi; non lo dicono i giornalisti, con i loro servizi tutt’altro che imparziali e sempre propensi a dipingere lo scenario “Israele carnefice, arabi vittime”.

Hanno tanto da farsi perdonare le “anime belle” che pontificano su valori e diritti, trasformandosi da aspiranti Madre Teresa di Calcutta a novelli provetti Adolf Hitler quando si tratta di commentare le vicende israeliane e tutto ciò che riguarda il popolo israeliano. Ha tanto da farsi perdonare l’Italia, governata per anni da esecutivi apertamente filo-arabi che hanno stretto patti con il terrorismo islamista ricevendo in cambio due stragi a Fiumicino e un sanguinoso attentato alla sinagoga di Roma costato la vita a un bambino ebreo di due anni, Stefano Gaj Taché , nel 1982. Così come ha tanto da farsi perdonare l’Europa e l’occidente tutto.
“L’Informale” nasce per questo. Una novità editoriale, forse solo un ennesimo sito di informazione di cui non si sentiva il bisogno, ma che in realtà ha un obiettivo: far conoscere Israele e il suo popolo. Raccontare storie, passate, presenti e future. Curiosità, aneddoti. Diffondere l’arte, la cultura, le usanze, la cucina, gli stili di vita delle comunità ebraiche, che non sono i “grandi banchieri che dominano il mondo e ne decidono le sorti”.
E soprattutto analizzare gli scenari mediorientali da un punto di vista israeliano, che non è quello main stream nonostante la vulgata popolare sostenga che “la stampa è serva dei sionisti”.
Siamo convinti che si può essere antisemiti o anche solo anti-israeliani finché non si conoscono Israele, gli israeliani e il popolo ebraico. Ecco perché abbiamo deciso di far nascere L’Informale.
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Messaggioda Berto » mar mag 10, 2016 10:12 am

YOM HAZIKARON
https://www.facebook.com/noicheamiamoisraele

23.477.
Questo è il numero di morti che Israele ha lasciato alla storia per guadagnarsi la sua libertà e la libertà di ogni ebreo nel mondo.
23. 477 persone che con il loro sacrificio hanno donato la possibilità ad ognuno di noi di poter vivere senza la paura di poter essere sterminati di nuovo, ma ancor di più la gioia di poter essere ebrei liberi.

Soldati e civili che in 70 anni e più hanno perito per guadagnarsi un fazzoletto di Terra circondato da soli stati nemici. Uomini e donne che hanno sacrificato la loro gioventù, i loro amori, la loro vita per assicurare il miglior futuro ad un Popolo che per millenni ha cercato la sua unica Casa.
Soldati che hanno combattuto battaglie e guerre miracolose, portato a termine azioni impensabili.
Civili uccisi inermi nelle strade, nei caffè. Giovani morti durante notti in discoteca o durante un viaggio in autobus. Uccisi nel silenzio totale di un mondo sordo.

Eroi come Yoni Netanyahu, ucciso ad Entebbe per riportare in salvo cittadini israeliani e non, presi in ostaggio da terroristi palestinesi.
Vittime come la famiglia Fogel, uccisi tra le mura sicure della loro casa, ad Itamar, da un commando di terroristi palestinesi, che non hanno esitato nell’assassinare anche i loro piccoli. Servitori della patria , morti totalmente soli, lontano da casa, come Max Steinberg, ucciso a Gaza, poco più 20enne, durante l’ultima ed ennesima guerra contro Hamas; arruolatosi volontario dalla California, per difendere Israele.
Una lista che ogni anno si allunga, aumenta. Lascia figli orfani, moglie vedove, famiglie segnate per sempre. Una lista che aumenta il dolore ma non diminuisce la speranza.
Attacchi terroristici che oggi continuano a mietere feriti. Con ogni mezzo. Una guerra ed un terrore che vanno oltre confine.
Uccidono nella Sinagoga di Roma, Stefano un bambino di 2 anni, Yoav, Philippe, Francoise, ebrei francesi in un Super Market di Parigi e di nuovo, Miriam ed altri bambini nella Scuola di Tolosa.
Uccide ogni ebreo. Ma non la nostra ebraicità, di qualsiasi tipo essa sia.
Non estingue la voglia di vivere da ebrei. Di ricordare chi con il sacrificio del proprio tempo, della propria forza, ma soprattutto della propria vita, ci regala e permette oggi, la tranquillità di vivere la nostra. Ci consente di essere ebrei.
A Casa ed altrove.

Grazie a E.A
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Messaggioda Berto » mer mag 11, 2016 7:30 pm

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Messaggioda Berto » lun mag 16, 2016 9:48 am

Parata di giovani Drusi per Yom ha'Atzmaut - il Giorno dell'Indipendenza dello Stato d'Israele
https://www.facebook.com/ProgettoDreyfu ... 9910611370
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Messaggioda Berto » sab mag 28, 2016 2:41 pm

Miss trans Israele è un’araba cristiana: “Altrove sarei morta”
28 maggio 2016 Riccardo Ghezzi

http://www.linformale.eu/3190-2

Un’israeliana di famiglia araba cattolica è stata incoronata vincitrice del primo concorso transgender del Paese.
Ta’alin Abu Hanna, 21 anni, di Nazareth, ha indossato un abito da sposa bianco mentre è stata dichiarata la prima “Miss Trans Israele” venerdì sera al teatro nazionale di Israele HaBima, a Tel Aviv.
Ha descritto la sua vittoria come “storica” sostenendo che promuove l’uguaglianza.
Rappresenterà Miss Trans Israele al concorso Star International in Spagna nel mese di agosto: sarà la prima volta che un israeliano parteciperà.

Israele è generalmente tollerante nei confronti dei gay e Tel Aviv risulta una delle mete più gay-friendly del mondo.
La città israeliana è in netto contrasto con molte zone del Medio Oriente, dove i gay sono spesso perseguitati.

La ballerina cristiana araba-israeliana Abu Hanna ha detto ai giornalisti che è “orgogliosa di essere un’araba israeliana” osservando che “se non fossi stata in Israele e vivessi altrove – in Palestina o in qualsiasi altro paese arabo – avrei potuto essere oppressa o addirittura essere in prigione o uccisa”.
Abu Hanna ha sconfitto altri 11 finalisti, un gruppo eterogeneo che copre geograficamente tutte le diversità di Israele, etniche e religiose: una russa, alcune musulmane e altre residenti a Beersheba, Haifa, Gerusalemme e Tel Aviv. Almeno una finalista è cresciuta nella comunità ortodossa haredi.
Diverse finaliste hanno detto ai giornalisti di aver lottato contro la disapprovazione della famiglia. Caroline Khouri, della città araba di Tamra, ha raccontato a NBC News che i suoi parenti maschi hanno cercato di ucciderla dopo aver appreso dei suoi piani di trasformazione da uomo a donna.
“I miei cugini, mio padre, mio fratellastro mi hanno picchiato e mi hanno preso con la forza e tagliato i capelli, mi hanno legato al letto e mi hanno lasciato lì per tre giorni senza cibo” ha raccontato. Salvata dalla polizia, la ventiquatrenne ha dovuto allontanarsi dalla sua famiglia.


Coki-cokeria, veła, xmoca, gay e altre stranbarie
viewtopic.php?f=44&t=264
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Messaggioda Berto » lun giu 06, 2016 11:10 am

Perché il movimento BDS distrugge il futuro Stato palestinese
di Fred Maroun
18 maggio 2016
Pezzo in lingua originale inglese: Why the BDS Movement is Destroying a Future Palestinian State
Traduzioni di Angelita La Spada

http://it.gatestoneinstitute.org/8077/b ... alestinese

Israele avrebbe potuto rispettare le regole arabe ed espellere tutti gli arabi dei territori che ha occupato, ma non lo ha fatto. Proprio perché Israele ha rispettato i diritti umani degli arabi, e nonostante fosse contro il suo stesso interesse, lo Stato ebraico ha fornito ai palestinesi una piattaforma da cui cercare di distruggere Israele.

Si può solo sperare che i palestinesi, come l'Egitto e la Giordania, decideranno presto di vivere in pace con un vicino che ha dimostrato di trattarli molto meglio di come li trattano i loro stessi "fratelli arabi" – tutto sommato, non così male. Si può solo sperare che i leader palestinesi inizieranno a promuovere una cultura di pace anziché una cultura dell'odio.

Dal quando Israele ha dichiarato la propria indipendenza, una delle principale tattiche usate dagli arabi è stata quella di sfruttare il tallone di Achille degli ebrei: la loro cultura altamente sviluppata, che rispetta e valorizza la vita e il sostegno offerto ai diritti umani.

Essendo io di origine araba, conosco bene lo stereotipo arabo sull'Occidente e Israele, secondo il quale essi sono deboli perché si preoccupano della vita della loro popolazione e desiderano rispettare i diritti umani dei loro nemici. Nelle parole di Golda Meir: "Noi possiamo perdonare agli arabi il fatto che uccidono i nostri figli, ma non perdoneremo mai il fatto che costringono a uccidere i loro figli".

Fino a oggi, il comportamento di Israele si è conformato a questo stereotipo arabo, come nel caso della tecnica detta "bussare sul tetto" utilizzata a Gaza, in base alla quale i soldati israeliani avvertono i residenti di evacuare gli edifici usati per scopi militari prima di colpirli, ma parlando con i sionisti pare che questo atteggiamento stia cambiando. Se è vero che gli ebrei daranno sempre valore alla vita, la loro determinazione a contenere le perdite dei nemici e rispettare i loro diritti umani a oltranza potrebbe venire meno e saranno i palestinesi a rischiare di farne le spese.

Durante la guerra d'Indipendenza, la parte araba assicurò che non un solo ebreo sarebbe rimasto a vivere nel lato arabo delle linee armistiziali del 1949, ma a un gran numero di arabi fu permesso dagli ebrei di restare nel lato israeliano. Oggi, questi arabi costituiscono il 20 per cento della popolazione israeliana.

Il rispetto mostrato da Israele per i diritti umani degli arabi che vivono nello Stato ebraico è stato utilizzato dagli arabi contro Israele. L'idea della presenza di ebrei nei territori arabi è demonizzata e qualsiasi tentativo di "normalizzare" i rapporti con gli ebrei viene scoraggiato in modo aggressivo.

Al contrario, gli arabi che vivono in Israele hanno sempre eletto parlamentari arabi, anche quelli antisionisti che appoggiano apertamente i terroristi palestinesi. Se Israele espellesse questi politici dalla Knesset – come una proposta di legge intende fare – sarebbe accusato dall'Occidente di essere antidemocratico, ma se non li espellesse verrebbe visto come debole dagli arabi.

Durante la guerra dei Sei giorni del giugno 1967 – una guerra difensiva condotta contro gli eserciti arabi, tra cui quelli della Giordania e dell'Egitto – Israele si estese in vaste aree di terra araba, come la penisola del Sinai, la Cisgiordania e Gaza. Ma subito dopo propose di restituire quei territori in cambio del riconoscimento e della pace. Meno di tre mesi dopo, il 1° settembre 1967, la risposta arrivò nella forma dei famosi "tre no" della Conferenza di Khartoum: no alla pace con Israele, no al riconoscimento di Israele, no ai negoziati con Israele.

Israele avrebbe potuto rispettare le regole arabe ed espellere tutti gli arabi dei territori che ha occupato, ma non lo ha fatto. Proprio perché Israele ha rispettato i diritti umani degli arabi, e nonostante fosse contro il suo stesso interesse, lo Stato ebraico ha fornito ai palestinesi una piattaforma da cui cercare di distruggere Israele.

Oggi, il movimento per il boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (BDS) continua ad applicare ipocritamente la regola dei due pesi e due misure in un tentativo evidente di eliminare Israele. I suoi leader hanno dichiarato senza mezzi termini che non sono interessati a una soluzione dei due Stati. Vogliono uno Stato arabo al posto di Israele. Essi contano sul presupposto che prima o poi Israele sarà costretto ad annettere la Cisgiordania e dare la cittadinanza israeliana a tutti i suoi abitanti. Dopo questo, la distruzione di Israele come Stato ebraico sarebbe solo una questione di tempo.

La sensazione dominante da parte sionista è che la soluzione dei due Stati accettata dalla maggior parte degli ebrei sin dagli anni Quaranta come etica oggi non funziona affatto. La stragrande maggioranza dei sionisti dà la colpa di questo all'inesorabile rifiuto arabo di accettare una soluzione del genere e al fatto che nel momento in cui sono state avviate trattative in proposito, i palestinesi non abbiano mai pensato di formulare una contro-offerta ragionevole. Anche il presidente dell'Autorità palestinese Mahmous Abbas, presumibilmente il leader più moderato dei palestinesi, non ha mai accettato una soluzione a due Stati che non includesse un "diritto al ritorno" palestinese, che porterebbe a uno Stato completamente arabo accanto a uno Stato a maggioranza araba: un altro modo per tentare di distruggere lo Stato ebraico.

Messo con le spalle al muro, Israele dovrà prima o poi scegliere se rinunciare allo Stato ebraico o abbassare i suoi standard di tutela dei diritti umani dei palestinesi. Sembra sempre più chiaro che gli israeliani non sceglieranno la prima opzione. Al loro posto, non lo farei neanche io. Un segnale in tal senso sono due proposte di legge volte rispettivamente a espellere le famiglie dei terroristi e i membri della Knesset che appoggiano apertamente i terroristi.

Alan Dershowitz, l'avvocato americano difensore dei diritti umani, ha ripetutamente avvertito che il movimento BDS sta vanificando la prospettiva di una soluzione dei due Stati, inducendo i leader palestinesi a credere che non hanno alcun bisogno di scendere a compromessi. Dershowitz non ha osato dire cosa accadrebbe se il BDS proseguisse sulla strada intrapresa. Ha però fatto una previsione generale e ovvia che si arriverebbe a "più guerre, più morti e più sofferenza".

Se questa tattica continuasse, Israele potrebbe spostarsi a destra del suo attuale primo ministro, Benjamin Netanyahu, ed eleggere un governo per il quale il rispetto dei diritti umani palestinesi è una priorità minore. Un governo del genere sarebbe molto meno riluttante di Netanyahu all'idea di espandere gli insediamenti in Cisgiordania e a rispondere brutalmente agli attacchi terroristici, rendendo così la vita dei palestinesi molto più difficile e danneggiando seriamente i sogni di uno Stato palestinese.

I sostenitori del BDS sembrano basarsi sulla convinzione che Israele non lo farebbe mai, ma si sbagliano per svariati motivi:

Gli ebrei di Israele non saranno disposti a suicidarsi. Finora, ogni volta che si sono rifiutati di adottare approcci contrari alla tutela dei diritti umani, queste decisioni non sono state fatali per Israele. La soluzione di uno Stato unico con diritti uguali per tutti sarebbe invece fatale per Israele e la maggior parte degli ebrei di Israele non l'approverà.
Israele vede che nel resto del Medio Oriente è attuata impunemente una pulizia etnica – da quella degli ebrei a quella dei cristiani e tutti gli altri gruppi – e vede anche che l'Occidente non intraprende alcuna azione concreta per impedirlo.
Gli israeliani sanno che gli arabi maltrattano i palestinesi da quasi 70 anni, pertanto i paesi arabi non rischieranno di perdere altre guerre per il bene dei palestinesi, che in ogni caso disprezzano (sempre che gli arabi divisi siano comunque in grado di formare una possibile coalizione contro Israele).
Uno dei fattori che attualmente frenano l'ala destra di Israele è il rischio di perdere il sostegno dell'Occidente. Tuttavia, con la crescita del movimento BDS, Israele potrebbe pensare di aver perso in ogni caso l'appoggio occidentale e che non ci sia più niente da perdere.

Da quasi 70 anni gli arabi conducono un gioco molto pericoloso, contando sugli scrupoli degli ebrei per trasformare ogni sconfitta in una vittoria parziale. Nel corso della storia, coloro che perdono le guerre – in particolare le guerre che essi stessi hanno iniziato – sono costretti a vivere secondo le regole del vincitore. Ma gli arabi hanno sempre rifiutato di vivere secondo le regole degli israeliani così come hanno rifiutato costantemente una soluzione intermedia come quella dei due Stati, che sarebbe stata ragionevole per entrambe le parti. Si può solo sperare che i palestinesi, come l'Egitto e la Giordania, decideranno presto di vivere in pace con un vicino che ha dimostrato di trattarli molto meglio di come li trattano i loro stessi "fratelli arabi" – tutto sommato, non così male. Si può solo sperare che i leader palestinesi inizieranno a promuovere una cultura di pace anziché una cultura dell'odio.

Fred Maroun è un giornalista canadese di origine araba orientato a sinistra, scrive tra l'altro per New Canadian Media. Maroun ha vissuto in Libano dal 1961 al 1984.




Pena di morte in Medioriente: a Gaza si usa, in Israele c'è chi la invoca - Il Fatto Quotidiano
Riccardo Noury
Portavoce di Amnesty International Italia
2016/06/06

http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/06 ... ca/2792946


La mattina del 31 maggio, nella Striscia di Gaza, sono state eseguite le prime tre di 13 condanne a morte annunciate dall’amministrazione di Hamas. Le altre 10 dovrebbero aver luogo alla fine del mese sacro di Ramadan.

Per giustificare il ritorno della pena di morte il numero due di Hamas, Ismail Haniyeh, ha fatto ricorso a un argomento la cui fondatezza non è mai stata verificata e cui non crede quasi più nessuno neanche negli Stati Uniti: che, nei confronti del crimine, il boia abbia un effetto deterrente maggiore rispetto a quello di ogni altra pena. I tre uomini messi a morte la settimana scorsa erano colpevoli di omicidio.

Chi scrive ripudia per motivi di principio la pena di morte. Ma quando, come a Gaza e in molti altri luoghi in cui vi si ricorre, le esecuzioni avvengono al termine di processi sommari e con prove acquisite mediante la tortura, l’opposizione alla pena capitale dovrebbe essere ancora più netta.

Per il Centro al-Mezan per i diritti umani di Gaza, quella di Hamas non è nient’altro che “giustizia di strada”. Secondo il Centro palestinese per i diritti umani, che ha riscontrato irregolarità procedurali anche negli ultimi tre processi capitali, dal 2007 – quando Hamas ha assunto il potere – nella Striscia di Gaza sono state emesse 88 condanne a morte, 46 delle quali eseguite. Più della metà delle condanne sono state inflitte per “collaborazionismo” con l’esercito di Israele, le altre per omicidio. Ma nel febbraio di quest’anno è stato passato per le armi anche un comandante di Hamas per non meglio precisati reati “morali”.

Teoricamente, ogni condanna a morte emessa a Gaza dovrebbe essere ratificata dal presidente palestinese Mahmoud Abbas, ma dati i rapporti tra Hamas e Fatah questa procedura non è mai stata rispettata. Ma Haniyeh non è il solo, da quelle parti, a credere che la pena di morte sia un buon deterrente. Lo pensa anche il nuovo ministro della Difesa israeliano, Avigdor Liberman.

Dal 2015 il suo partito, Yisrael Beitenu, invoca la pena di morte contro i terroristi processati dalle corti marziali (ossia, solo per i palestinesi). Nel luglio dell’anno scorso era stato il primo ministro Benjamin Netanyahu a premere perché venisse bocciata la proposta di legge presentata da Sharon Gal, all’epoca deputato di Yisrael Beitenu. I recenti negoziati per l’ingresso di Liberman al governo hanno spinto Netanyahu a cambiare idea. Se oggi Yisrael Beitenu ripresentasse la proposta di legge, il Likud non si opporrebbe.

In Israele la pena capitale è stata imposta ed eseguita una sola volta, nel 1962, quando fu messo a morte il criminale nazista Adolph Eichmann. Il paese ha abolito la pena di morte per i reati ordinari nel 1954 e, all’interno delle Nazioni Unite, vota regolarmente a favore della risoluzione sulla moratoria delle esecuzioni capitali.

La pena di morte resta in vigore nel codice militare per genocidio, omicidio di persone perseguitate commesso durante il regime nazista, atti di tradimento in base alla legge militare e alla legge penale commessi in tempo di ostilità, uso e porto illegale d’armi. Il codice militare prevede che una condanna a morte debba essere inflitta con l’unanimità dei tre giudici sia del processo di primo che di quello di secondo grado.

Nel corso dei negoziati con Netanyahu per entrare al governo, Liberman ha ottenuto l’assenso alla richiesta di modificare la procedura, in modo che la pena di morte sarebbe decisa con la maggioranza di due giudici. Difficile che alla Knesset possa passare la posizione di Liberman. All’interno della coalizione di governo c’è un partito esplicitamente contrario, Kulanu, del ministro delle Finanze Moshe Kashlon. Ma mai dire mai…

Per questo, è stato molto opportuno che contro l’idea di Liberman abbia preso la parola l’ex procuratore generale Yehuda Weinstein: “Come deterrente non servirebbe a niente, dato che verrebbe applicata nei confronti di criminali che agiscono per motivi ideologici e che non hanno certo paura di morire. E oltretutto è immorale“.
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Messaggioda Berto » ven lug 29, 2016 10:01 pm

Lavoratori palestinesi in Israele e nell’Autorità Palestinese - Da una parte diritti e tutele, dall’altra sfruttamento e caporalato

http://www.israele.net/lavoratori-pales ... alestinese

Le condizioni in cui lavorano i palestinesi in Israele e negli insediamenti sono molto migliori di quelle che devono subire nell’Autorità Palestinese. Lo affermano un avvocato del lavoro arabo-israeliano e un operaio palestinese di Hebron in due distinte interviste del programma “Questioni dei lavoratori”, trasmesso dalla tv dell’Autorità Palestinese.

L’arabo-israeliano Khaled Dukhi, avvocato del lavoro che collabora con la ong israeliana Kav LaOved-Workers’ Hotline, ha detto che il diritto del lavoro israeliano è “molto buono” perché non distingue tra uomini e donne o tra israeliani e palestinesi. Tuttavia, ha spiegato Dukhi, gli intermediari palestinesi “rubano” da metà a due terzi dello stipendio dei lavoratori, e soprattutto delle lavoratrici, palestinesi.

https://youtu.be/RxBc1GhqG-k
Avvocato Khaled Dukhi: “Il diritto del lavoro israeliano è una buona legge per quanto riguarda i diritti dei lavoratori, sia per gli uomini che per le donne. La legge israeliana non fa differenza tra un lavoratore che è entrato in Israele illegalmente o legalmente … Purtroppo, anche se è molto buona, in pratica la legge è diventata molto negativa per le lavoratrici palestinesi. Ad esempio, le lavoratrici palestinesi nel settore agricolo godono di molti diritti, come qualsiasi lavoratore israeliano nel settore agricolo. Stipendio superiore al salario minimo; 14 giorni di vacanza all’anno nei primi quattro anni; convalescenza pagata fino a 2.000 shekel [all’anno] nel primo anno e 2.200 shekel nel secondo e terzo anno per ogni lavoratore in Israele; feste pagate, islamiche o ebraiche, spetta a ognuno scegliere”.
Conduttrice: “Ma in pratica, godono di questi diritti previsti dalla legge?”
Khaled Dukhi: “In realtà i lavoratori palestinesi, e soprattutto le lavoratrici palestinesi, non ricevono queste cose. Perché? Avete detto: l’intermediario palestinese detrae [la sua parte] dallo stipendio della lavoratrice. No, non detrae: lo spartisce. In pratica si prende il 50%, il 60%, addirittura il 70% dello stipendio della lavoratrice. Se il salario giornaliero è di 180 shekel, alla fine lei riceve 60 shekel. L’intermediario ruba i due terzi del suo stipendio. Scusate la parola [“ruba”], ma è questa la parola esatta”.
Conduttrice: “Sì, riflette la realtà”.
[Da: tv dell’Autoprità Palestinese, programma “Questioni dei lavoratori”, 16.3.16)


https://youtu.be/Zp2d7e78Ad8

Qassem Abu Hadwan, manovale di Hebron: “La mancanza di controllo sui palestinesi proprietari di fabbriche e aziende e sul loro sfruttamento dei lavoratori è quello che ha costretto la gente ad andare in Israele, a lavorare e costruire in Israele. Se solo [lo stipendio] fosse almeno la metà dello stipendio [in Israele], nessuno andrebbe a lavorare in Israele. Invece i lavoratori devono andare in Israele, perché nessuno [nell’Autorità Palestinese] dà loro ciò che gli spetta per il loro lavoro, sia nelle fabbriche che nelle aziende, e anche nelle municipalità”.
Conduttrice: “Pensi che il reddito basso e lo sfruttamento da parte dei proprietari [palestinesi] di fabbriche e officine è ciò che costringe le persone ad andare [a lavorare] all’interno della Linea Verde [in Israele] o negli insediamenti?”
Qassem Abu Hadwan: “E’ quello che costringe i lavoratori ad andare in Israele. Anche se gli israeliani li sfruttano, però gli danno quello che gli spetta. Alla fine, quando un lavoratore va in Israele e guadagna 200 o 180 shekel [al giorno], a differenza di quello che guadagna qui 50, 70 o 100 shekel, allora dice: un mese di lavoro qui è uguale a una settimana di lavoro là. Non c’è confronto”. […]
Conduttrice: “Occorrono investimenti, e che siano rispettati i diritti dei lavoratori. Ciò che spinge i lavoratori, come abbiamo detto, ad andare all’interno [in Israele] o negli insediamenti è lo sfruttamento che subiscono e il basso reddito [nell’Autorità Palestinese] … Parlano di circa 12 ore al giorno nei lavori di edilizia sul mercato palestinese, contro le 8 ore all’interno di Israele”.
(Da: tv dell’Autoprità Palestinese, programma “Questioni dei lavoratori”, 4 e 16.2.16)
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Messaggioda Berto » sab ago 20, 2016 7:35 am

Pace dal basso e pace dall’alto
Per costruire la convivenza, gli sforzi sul terreno devono essere accompagnati dalla volontà politica e da una manifesta disponibilità a negoziare un compromesso
Editoriale del Jerusalem Post
(Da: Jerusalem Post, 18.8.16)

http://www.israele.net/pace-dal-basso-e-pace-dallalto

L’approccio bottom-up, dal basso verso l’alto, alla soluzione del conflitto israelo-palestinese postula che la pace inizia dalla gente comune. Solo quando israeliani e palestinesi accetteranno l’idea che le loro società sono inesorabilmente legate l’una all’altro, sarà possibile realizzare la pace. Le due società devono rassegnarsi al fatto che condividono la stessa area geografica, che le loro economie sono intrecciate fra loro in modo profondo e complicato, che l’incuria ambientale di un popolo ha conseguenze sull’altro e che israeliani e palestinesi devono imparare a comunicare tra loro per il progresso di entrambi i popoli. In breve, israeliani e palestinesi devono interiorizzare l’idea che le loro relazioni non possono essere ridotte ad un gioco a somma zero in cui una parte deve perdere se l’altro vuole vincere. Al contrario, la crescita e la prosperità di una parte, in ultima analisi, è vantaggiosa anche per l’altra.

Il nuovo centro commerciale inaugurato questa settimana a Gush Etzion (un gruppo di comunità ebraiche a sud-ovest di Gerusalemme fondate nel 1940-’47, distrutte dalla Legione Araba nel ‘48 e ricostruite dopo il ‘67), rivolto sia agli israeliani che ai palestinesi che vivono nella zona, è un ottimo esempio delle potenzialità offerte dall’approccio bottom-up per promuovere un cambiamento positivo. La struttura di 5.000 metri quadri ospita su tre piani quindici negozi, fra cui un outlet di abbigliamento Fox e una rivendita di prodotti per la casa. Dopo la breve cerimonia del taglio del nastro, si potevano vedere donne musulmane in hijab e abiti tradizionali fare shopping insieme a donne ebree religiose con gonne lunghe e foulard sui capelli: la convivenza all’opera.

Un altro centro commerciale in programma per il prossimo anno vicino a Ramallah porta il concetto di coesistenza un passo più avanti: il magnate israeliano dei supermercati Rami Levy sta costruendo il primo centro commerciale israelo-palestinese i cui spazi saranno affittati da proprietari di negozi sia israeliani che palestinesi. Un certo numero di commercianti palestinesi del settore alimentare ha già prenotato un posto nel nuovo centro commerciale, così come hanno fatto dei commercianti israeliani. L’idea di questo centro commerciale, ha spiegato Levy, è venuta dai suoi supermercati che già esistono in Cisgiordania e che sono punti di interazione amichevole tra ebrei e arabi in cerca di lavoro e di prezzi accessibili.

Le interazioni quotidiane non sono solo inevitabili: sono anche potenzialmente gratificanti e reciprocamente vantaggiose. Se palestinesi e israeliani possono fare affari insieme e interagire quotidianamente in altri modi costruttivi, forse potranno anche collaborare sul piano politico e diplomatico. In una certa misura, il fallito piano dell’ex primo ministro palestinese Salam Fayyad volto a riformare l’Autorità Palestinese – articolato in un documento intitolato “Palestina: fine dell’occupazione, costruzione dello stato” – era costruito sul presupposto che la cooperazione quotidiana con Israele fosse essenziale per la creazione di uno stato palestinese de facto.

Per arrivare alla pace con i palestinesi, tuttavia, gli sforzi “sul terreno” volti a migliorare la cooperazione nei campi del business e delle questioni ambientali devono essere accompagnati da misure diplomatiche. L’approccio bottom-up deve essere integrato da un piano top-down: i centri commerciali e le joint venture devono essere sostenute da leader politici e da accordi diplomatici. Presidenti, ministri e primi ministri israeliani e palestinesi devono attivamente sostenere la pace; devono esaltare l’importanza della riconciliazione e convincere i rispettivi popoli che la pace è un imperativo; devono essere disposti a condurre iniziative diplomatiche sostanziali per risolvere punti di conflitto di antica data. Entrambe le parti devono mostrare disponibilità al compromesso su Gerusalemme, sul problema dei profughi palestinesi, sugli insediamenti, sui confini, sulla cooperazione nella difesa, e mostrare la disponibilità a fare concessioni dolorose. Una serie di successivi governi israeliani ha dimostrato questa buona volontà. Ariel Sharon è uscito dalla striscia di Gaza, Ehud Olmert ha offerto il 98% della Cisgiordania, Benjamin Netanyahu ha congelato la costruzione negli insediamenti. Ma da parte palestinese la risposta a tutti questi sforzi è stata intransigenza e violenze.

L’apertura di nuovi centri commerciali è utile, ma la vera pace necessita di una combinazione di sforzi bottom-up e top-down. I gesti diplomatici restano privi di significato se non sono accompagnati da sostanziali rapporti sociali e di lavoro tra israeliani e palestinesi. Allo stesso tempo, però, il miglioramento dei legami economici non risolverà il conflitto fino a quando i leader politici non prepareranno i loro popoli alla pace, e non negozieranno intese diplomatiche e militari che garantiscano un quadro d’insieme e una direzione di marcia. L’una cosa non funziona senza l’altra.
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