Israele una buona democrazia e una grande civiltà

Israele una buona democrazia e una grande civiltà

Messaggioda Berto » mar gen 12, 2016 9:09 am

Israele una buona democrazia e una grande civiltà

Israele, il paese degli ebrei, è una buona democrazia e una grande civiltà
http://www.filarveneto.eu/forum/viewtop ... 197&t=2157



Un popolo libero nella propria terra - Democrazia e pluralismo in Israele
http://embassies.gov.il/rome/Documents/ ... sraele.pdf



Il 14 Maggio 1948 nasce lo Stato d’Israele
Nia Guaita

https://www.facebook.com/niaguaitaoffic ... 7313319488

Il 14 Maggio 1948 nasce lo Stato d’Israele. Nel 1947, l'Assemblea delle Nazioni Unite stabilì la creazione di uno Stato ebraico e di uno Stato arabo in Palestina, con la città di Gerusalemme sotto l'amministrazione diretta dell'ONU. La dichiarazione venne accolta con favore dagli ebrei, mentre gli Stati arabi proposero la creazione di uno Stato unico federato, con due governi. Tra il dicembre del '47 e la prima metà di maggio del '48 vi saranno cruente azioni di guerra civile da ambo le parti. Il 14 maggio del 1948, venne dichiarata dal leader David Ben Gurion, la nascita dello Stato di Israele, ufficialmente entrato in essere il 15, quando, alla mezzanotte, terminò il precedente mandato britannico. Lo stesso giorno gli eserciti di Egitto, Siria, Libano, Iraq e Transgiordania, attaccarono il neonato Stato di Israele ma l'offensiva venne bloccata dall’appena sorto esercito israeliano e le forze arabe vennero costrette ad arretrare. La guerra, che terminò con la sconfitta araba nel maggio del 1949, diede origine a quella che resterà la causa degli scontri successivi: più di 700.000 profughi arabi. In seguito all'armistizio ed al ritiro delle truppe israeliane, l'Egitto occupò la striscia di Gaza, mentre la Transgiordania occupò la Cisgiordania, assumendo il nome di Giordania. Negli anni immediatamente successivi, dopo l'approvazione nel 1950 della “Legge del Ritorno” da parte del governo israeliano, si potè assistere ad una forte immigrazione, che porterà al raddoppio della popolazione di Israele. Il sostegno emotivo e politico più importante venne per gli ebrei (dopo la nascita dello Stato nazionale) dagli Stati Uniti. Il Governo Britannico del dopoguerra, non aveva la forza necessaria per controllare la situazione o trovare una mediazione con la quale soddisfare sia ebrei che arabi. Capacità che purtroppo, non furono neppure degli Stati Uniti nè di altri. Era iniziata una delle più gravi questioni del novecento, quella degli arabi e degli ebrei della Palestina.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Ixrael na bona democrasia

Messaggioda Berto » mar gen 12, 2016 9:10 am

Democrazia e sicurezza: imparare da Israele?
Cosa l’Europa potrebbe, o dovrebbe, imparare da Tel Aviv alla luce delle ultime elezioni
Israele opinioni

http://www.lindro.it/imparare-da-israele

Alle ultime elezioni israeliane, tenutesi lo scorso 17 marzo, il partito di maggioranza, Likud, si confermava il partito più votato nel Paese con oltre il 23% delle preferenze. Il Primo Ministro Benjamin Netanyahu si conferma così l’uomo forte dello Stato ebraico, ricompattando attorno alla sua figura tutta una serie di personalità, e di posizioni, non sempre in accordo fra loro. Quello che unisce la sua coalizione di Governo, tuttavia, e che ha portato gli elettori israeliani a riconfermare la propria fiducia al leader di Likud, è una determinata visione della democrazia dello Stato. E a maggior ragione oggi, in tempi di crisi globale, e di una crisi che non è solo economica e finanziaria, ma anche identitaria ed esistenziale, il Primo Ministro è più che mai disposto a farsi promotore di questa visione.
Si sa che Israele, oltre a dover affrontare le normali condizioni avverse che tutti in questo momento devono affrontare, si deve anche misurare con l’eterno conflitto israelo–palestinese, che affonda le sue origini nei tempi della Prima guerra mondiale. Un territorio, due popoli, due religioni, e due visioni radicalmente diverse della vita e della società. E se da noi, nella nostra Europa e nella nostra Italia, ricchi pensatori possono permettersi il lusso di rimanere a lungo scollegati dal mondo reale, teorizzando utopiche forme di convivenza e di Governo fra uguali, in Israele non c’è molto spazio per l’errore, né per l’utopia. In Israele, se si sbalia non si fanno semplicemente cadere i Governi: si fanno scoppiare le guerre. In un certo qual modo, quindi, si può dire che Tel Aviv faccia di necessità virtù, non potendosi permettere troppi giochi di palazzo, o troppi teorizzatori del migliore dei mondi possibili.
E se Likud è riuscito di nuovo a conquistare il podio nella scena politica israeliana, e se il popolo ha confermato di volere Netanyahu alla guida del Governo del Paese, un motivo evidentemente ci deve essere. Likud è un partito nazionalista di centrodestra, e si fa fautore del nazionalismo in un contesto culturale in cui il nazionalismo è qualcosa che inerisce molto da vicino alle origini dello Stato di Israele.
Non si tratta semplicemente di una bandiera, non si tratta solo di un vessillo politico, ma si tratta soprattutto di una visione, di una filosofia, improntata, in ultima analisi, alla difesa della sicurezza e della stessa sopravvivenza dello Stato. La democrazia israeliana, con Likud al potere, non presuppone alcuna antitesi tra libertà e sicurezza. Si può essere liberi e democratici, e non per questo bisogna rinunciare ad essere sicuri.

Nella nostra Europa, al contrario, si va sempre più diffonendo la convinzione secondo la quale se si vuole essere pienamente democratici, se si vuole essere cultori della libertà, è necessario rinunciare alla sicurezza e alla difesa dei propri confini. Una questione eterna, ma mai attuale come al giorno d’oggi. Potrebbero sembrare considerazioni meramente filosofiche, ma le implicazioni pratiche sono chiare. Nella nostra Europa, oggi, questa concezione di democrazia porta ad una sorta di esasperato culto della debolezza, ad un cupio dissolvi le cui conseguenze, mano a mano, si fanno sempre più evidenti. Per una politica di difesa forte, per una tutela effettiva di concetti come l’identità culturale e la consapevolezza storica, concetti che in Israele sono imprescindibili dalla vita politica, da noi si prova quasi una sorta di vergogna, di repulsione. Quasi che, per difendere noi stessi, si corra il rischio di non essere abbastanza democratici.
Eppure Israele, specialmente ora, sa bene che la difesa dei confini e dell’identità culturale e religiosa è qualcosa di necessario alla sopravvivenza, e Israele è uno Stato che, per le condizioni in cui versa la sua area geografica, non può permettersi il lusso di non essere forte. Al contempo, Israele è uno Stato che si definisce pienamente democratico, che elegge le sue guide politiche, e che coinvolge la cittadinanza nel processo decisionale della Cosa pubblica; uno Stato in cui vige il princiopio del primato del Diritto e dell’uguaglianza davanti alla Legge; e uno Stato in cui, in virtù del principio democratico, la minoranza araba e islamica gode di una rappresentanza nella Knesset, il Parlamento, in cui l’Arabo è una delle lingue ufficiali dello Stato, e dove la libertà di culto è tutelata. Eppure molti, nella nostra Europa, mettono in dubbio che Israele sia una democrazia, perchè è uno Stato forte, e non ha paura di mostrarlo. Ma siamo proprio tanto sicuri, noi, che per essere democratici sia necessario essere anche deboli?
Forse è necessario ripensare radicalmente il nostro concetto di democrazia, e le ultime elezioni israeliane, con la vittoria di Likud, potrebbero fornire un interessante spunto di riflessione. Eli Hazan, un esponente di Likud, ha le idee molto chiare sulla situazione attuale del suo Paese, e su cosa l’Europa potrebbe imparare dal modello israeliano. “Io credo“, comincia Eli, “che noi siamo stati in grado vincere queste elezioni perché in definitiva la cosa più importante per molte persone in queste zone è la sicurezza, e le azioni di Netanyahu volte a preservare la sicurezza qui sono state molto più significative che quelle dell’opposizione“.
La sicurezza, quindi, lungi dall’essere qualcosa di cui addirittura non si riesce a parlare senza un fremito di vergnogna, per la paura di passare per anti-democratici, in Israele viene posta, per necessità, come metro di paragone per giudicare la bontà dell’azione di una classe dirigente. Ed è per la politica di sicurezza, secondo Eli, che Netanyahu ha ottenuto di nuovo la fiducia delle urne. E nonostante questo, molto ancora rimane da fare: “Qui in Israele”, prosegue, “ci sono due problematiche principali: la prima sono i prezzi delle case, e la seconda è il costo della vita. Attualmente dobbiamo confrontarci con queste problematiche per alcune cause, come unioni molto forti, una forte burocrazia, e il processo di legalizzazione che blocca alla radice ogni tentativo effettuato per poter cambiare le cose. Io spero che il nuovo Governo combatterà contro questo fenomeno“.
Venendo ora più strettamente alla concezione di democrazia, l’esponente di Likud sa bene quali siano i problemi della democrazia occidentale ed europea, e come al contrario il modello israeliano possa garantire il ritorno ad una concezione più genuina di democrazia, scevra dai preconcetti ideologici e dalle derive a loro modo estreme che non sembrano, qui, mostrare luce in fondo al tunnel. I difetti sono molto chiari. “Troppa libertà“, ci spiega, “e la mancanza di un vero deterrente, così come la mancanza di ogni genuina consapevolezza circa il fatto che la democrazia occidentale si è trasformata dal valore di proteggere la vita dei suoi abitanti in qualcosa di così dannoso per loro stessi. La democrazia è la cosa più importante in questo mondo, ma la democrazia così come concepita da Wiston Churchill è il tipo di democrazia che la può salvare. Io spero per il meglio per i giorni a venire, e spero che in futuro i leader dell’Occidente adotteranno un modello di democrazia ispirato a quella di Churchill. E con questa terminologia intendo una democrazia che non protegga i terroristi, ma che protegga i suoi cittadini. Questo tipo di democrazia è una democrazia che lavora per il cittadino comune, e non contro di lui. È, da ultimo, una democrazia che promuove valori democratici, e non il loro contrario”.
Non ci può essere democrazia senza sicurezza, quindi, e secondo questa visione le mancanze dell’Occidente sono chiare. La democrazia, da questo punto di vista, non deve trasformarsi né in un narcisistico sfoggio di libertà senza una pratica tutela dei diritti dei propri cittadini, a difesa dei propri confini e della propria identità, né in un sistema che finisca con il mettere a repentaglio la sicurezza della popolazione e dello Stato. Una democrazia che si perde in queste derive, in ultima analisi, finisce con l’essere la meno democratica delle forme di Governo. E forse è proprio una cultura della sicurezza che, oggi, si potrebbe imparare da Israele.
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Re: Ixrael na bona democrasia

Messaggioda Berto » mar gen 12, 2016 9:12 am

Democrasia etnega

https://it.wikipedia.org/wiki/Democrazia_etnica

La democrazia etnica è una forma di governo democratica in cui un gruppo etnico-religioso e il suo punto di vista predomina nettamente anche se sono garantiti i diritti civili e politici a tutti. In questa forma di governo sia gli appartenenti al gruppo etnico predominante, sia le minoranze sono in grado di partecipare al processo politico di formulazione delle decisioni e in questo si differenzia dalla etnocrazia, nella quale il diritto di voto può essere limitato ad un gruppo etnico solo (Herrenvolk).

Il termine "democrazia etnica" fu introdotto dal sociologo Sammy Smooha dell'Università di Haifa in un libro pubblicato nel 1989.

Smooha definisce 8 passaggi fondamentali nella formazione di una democrazia etnica:

Il nazionalismo etnico identifica i principi dello stato con i valori propri del gruppo etnico predominante (non necessariamente per numero di persone);
Lo stato identifica l'adesione al gruppo etnico con la cittadinanza;
Lo stato diventa controllato da quel gruppo etnico;
Lo stato è una delle forze principali che mobilita il gruppo etnico;
Individui non concordi con il gruppo etnico predominante non sono in grado di ottenere dritti civili o politici completi o risulta molto difficultoso.
Lo stato permette ai gruppi etnici minoritari di formare organizzazioni parlamentari ed extraparlamentari e, benché minoritarie diventano organizzazioni molto attive, complice la differenza di diritti fra i gruppi etnici;
Lo stato percepisce questi gruppi come minacce.
Lo stato impone forme di controllo su questi gruppi.

Smooha definisce anche 10 condizioni che possono portare allo stabilirsi di una democrazia etnica:

Il gruppo etnico predominante costituisce un solida maggioranza numerica.
Il gruppo etnico predominante è l'etnia numericamente più grande, anche se non è maggioritaria.
Il gruppo etnico predominante è fortemente legato alla democrazia (es. è il gruppo che l'ha instaurata).
Il gruppo etnico predominante è un gruppo indigeno.
Le minoranze etniche sono alloctone.
i gruppi etnici minoritari sono frammentati in molti gruppi.
Il gruppo etnico predominante ha subito un fenomeno di Diaspora.
Le terre d'origine dei gruppi etnici sono coinvolte.
c'è un interesse internazionale sulla vicenda.
C'è stata una transizione da un regime non democratico.




Israele
Sammy Smooha ritiene che Israele possa essere considerato come l'archetipo della democrazia etnica.

Lettonia ed Estonia
Gli studiosi si dividono sulla classificazione della Lettonia e dell'Estonia, spaziando dalla liberaldemocrazia alla democrazia etnica all'etnocrazia. Priit Järve, Senior Analyst allo European Centre for Minority Issues, ha applicato il modello di Smooha sull'Estonia e sostiene che essa sia a metà strada fra una democrazia etnica e un sistema di controllo di polizia.

Slovacchia
« La costruzione dello stato e della identità nazionale in slovacchia sono progettato per instaurare l'etnia slovacca come l'unica nazione [sul territorio] e per prevenire ogni segno di altro nazionalismo. Questo obiettivo è chiarito nel preambolo della costituzione slovacca che comincia con le seguenti parole: "Noi, la nazione slovacca, conoscendo l'eredità politica e culturale dei nostri predecessori, l'esperienza acquisita attraverso secoli di lotta per la nostra esistenza nazionale e statale..." »
(Smooha , S. The model of ethnic democracy, European Centre for Minority Issues, ECMI Working Paper # 13, 2001, pp 64-70.)

Democrazie islamiche
Alcune democrazie islamiche riconoscendo l'Islam come unica religione di Stato, sono democrazie etniche identificando l'appartenenza allo stato con i valori dell'etnia predominante.
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Re: Ixrael na bona democrasia

Messaggioda Berto » mar gen 12, 2016 5:19 pm

Lo Stato d’Israele è l’espressione democratica dell’autodeterminazione del popolo ebraico
Fronteggiando vivaci contestazioni, Netanyahu ha difeso in parlamento il disegno di legge su "Israele, stato ebraico"
Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu mercoledì alla Knesset
(Da: Times of Israel, 26.11.14)


http://www.israele.net/lo-stato-disrael ... lo-ebraico

Con un discorso più volte interrotto da vivaci contestazioni, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha difeso mercoledì alla Knesset il controverso disegno di legge su Israele come stato nazione del popolo ebraico, accusando i suoi avversari di volere uno stato d’Israele bi-nazionale (senza più nulla di ebraico e sionista) accanto a uno stato palestinese ripulito da ogni presenza ebraica.

Netanyahu ha detto che il disegno di legge è necessario per correggere uno squilibrio storico che ha visto i diritti civili acquisire supremazia sui diritti del popolo ebraico ad avere il proprio stato nazionale. Brào!

“Il disegno di legge che sottoporrò alla Knesset – ha detto – si fonda sul fatto che lo stato di Israele è uno stato ebraico e democratico. Questi principi sono intrecciati fra loro e l’uno non sostituisce l’altro. Israele garantisce uguali diritti a tutti i suoi cittadini, senza discriminazioni di religione, sesso o etnia”.
Il disegno di legge dovrebbe andare al voto della Knesset in prima lettura mercoledì prossimo e la sua sorte potrebbe influenzare il futuro della coalizione di governo dal momento che i ministri Yair Lapid (Yesh Atid) e Tzipi Livni (Hatnua) si sono schierati in vario grado contro di esso.

“Israele – ha detto Netanyahu – è lo stato nazionale del popolo ebraico e soltanto del popolo ebraico, pur nel rispetto di tutti i diritti per le minoranze non ebraiche”.

Delineando i principi generali del suo progetto di legge sullo “stato ebraico”, il primo ministro ha riecheggiato le parole della Dichiarazione d’Indipendenza d’Israele e delle sue Leggi Fondamentali:
La Terra d’Israele è la patria storica del popolo ebraico – ha ricordato – ed è il luogo dove esso ha stabilito lo stato di Israele. Lo stato d’Israele è la patria nazionale del popolo ebraico e in esso il popolo ebraico esercita il proprio diritto all’autodeterminazione. Il diritto di esercitare l’autodeterminazione dentro lo stato di Israele spetta al popolo ebraico. Lo stato d’Israele è uno stato democratico e garantisce i diritti a tutti i cittadini secondo la legge”.

Netanyahu ha ribadito d’essere determinato a portare avanti la proposta di legge per garantire la presenza e l’autodeterminazione del popolo ebraico in Terra di Israele. Quindi, rivolgendosi direttamente ai parlamentari dell’opposizione che lo contestavano rumorosamente, ha detto: “Spiegatemi cosa non condividete di questi principi. Vorrei capire”.

Netanyahu ha poi puntato il dito contro coloro, “dentro e fuori il paese, governi e organismi non governativi, che mirano a sabotare i diritti del popolo ebraico nello stato d’Israele, e che rifiutano di riconoscere il diritto del popolo ebraico ad un proprio stato. A tutto questo dobbiamo fare fronte”.

“Capisco bene come mai Hamas non vuole accettare Israele come stato nazionale del popolo ebraico – ha aggiunto – ma non capisco perché non lo vogliano anche alcuni dei miei migliori amici nella Knesset”.
Netanyahu ha anche criticato quegli oppositori che di tutta l’attività del governo vedono soltanto, ha detto, il rifiuto di ritirarsi unilateralmente dalla Cisgiordania: “Non importano le riforme economiche, i progetti di infrastrutture in Galilea e nel Negev, lo sviluppo del sistema difensivo Cupola di ferro, la ferma posizione contro il nucleare iraniano, i successi nella lotta contro il terrorismo: se non sgomberi gli insediamenti in Cisgiordania non hai fatto niente”.
Gli oppositori, ha detto Netanyahu, vorrebbero un irresponsabile ritiro territoriale nell’illusione di placare i palestinesi. “Ma sarebbe un salto nel buio, in fondo al quale ciò che aspetta Israele non è un atterraggio morbido, ma ISIS e Hamas”.
Netanyahu ha concluso ribadendo che il testo che sottoporrà alla Knesset metterà sullo stesso piano il carattere ebraico e il carattere democratico di Israele.
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Re: Ixrael na bona democrasia

Messaggioda Berto » mar gen 12, 2016 5:19 pm

Messo fuori legge, in Israele, il Ramo Nord del Movimento Islamico
Netanyahu: “E' un gruppo separatista e razzista che mira a sostituire Israele con un califfato”
Bandiera di Hamas sul Monte del Tempio, a Gerusalemme
(Da: Jerusalem Post. 17.11.15)

http://www.israele.net/messo-fuori-legg ... o-islamico

Le democrazie hanno la responsabilità di difendersi e hanno il dovere di proteggersi da coloro che cercano di scalzarle. Lo ha detto martedì il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, dopo l’annuncio della decisione del Gabinetto di sicurezza di mettere fuori legge il “ramo settentrionale” del Movimento Islamico israeliano. La Ramo Nord del Movimento Islamico, ha spiegato Netanyahu, cerca di minare Israele, istiga alla violenza contro civili innocenti in stretta collaborazione con Hamas e punta a sostituire Israele con un califfato.

“Non abbiamo nulla contro l’Islam – ha affermato Netanyahu in un comunicato – Non abbiamo nulla contro i cittadini musulmani d’Israele, che godono di piena parità di diritti e la cui stragrande maggioranza è costituita da persone che rispettano la legge. Ma continueremo ad agire contro gli istigatori e quelli che promuovono il terrorismo”.

L’annuncio della decisione di mettere fuori legge il ramo settentrionale del Movimento Islamico giunge dopo settimane di intensi dibattiti sull’argomento, iniziati poco dopo l’esordio all’inizio di ottobre dell’ondata di terrorismo tuttora in corso. Da settimane vari esponenti del governo, tra cui lo stesso Netanyahu, accusano l’organizzazione d’essere in buona parte responsabile della campagna di menzogne e di incitamento all’odio e alla violenza attorno alla questione del Monte del Tempio che alimenta questa ennesima ondata di terrorismo.

Netanyahu, che aveva sollecitato la decisione come una misura volta a ridurre il livello del terrorismo, ha rilasciato una dichiarazione in cui dice che il divieto significa che chiunque appartenga all’organizzazione, o le fornisca qualsiasi servizio, commette un reato penale punibile con la reclusione. Il Ramo Nord del Movimento Islamico, ha aggiunto Netanyahu, “è un’organizzazione separatista e razzista che non riconosce le istituzioni dello stato di Israele, nega il suo diritto di esistere e invoca l’istituzione al suo posto di un califfato islamico. Il ramo settentrionale del Movimento Islamico appartiene all’islamismo estremista e fa parte del movimento globale dei Fratelli Musulmani: i due movimenti condividono l’ideologia estremista e un obiettivo comune: la distruzione dello stato di Israele”.
Bandiere islamiste in una sede del xxx perquisita martedì dalla polizia israeliana

Bandiere islamiste in una sede del Ramo Nord del Movimento Islamico perquisita martedì dalla polizia israeliana

Sin dal giugno 2014 Netanyahu aveva dato istruzione alle autorità competenti di valutare la messa fuori legge del gruppo a seguito di una manifestazione tenuta a Umm el-Fahm (nord Israele) durante la quale erano stati lanciati appelli a favore del rapimento di soldati israeliani da usare come ostaggi.

L’Ufficio stampa del governo ha diffuso martedì delle informazioni di contesto relative alla decisione in cui si legge che la misura “non è diretta in alcun modo all’islam o alla popolazione arabo-israeliana in generale, che nella stragrande maggioranza rispetta la legge e respinge le istigazioni alla violenza e alle attività terroristiche. Essa, inoltre, non riguarda il ramo meridionale dell’organizzazione Movimento Islamico in Israele”. Osservatori e funzionari della sicurezza israeliana hanno sempre fatto una netta distinzione tra il ramo settentrionale del Movimento Islamico, considerato estremista ed eversivo, e quello meridionale che è invece moderato, e non viene toccato dal divieto.

Secondo la nota del governo, la decisione “nasce dalla minaccia che l’organizzazione Ramo Nord del Movimento Islamico rappresenta per l’ordine pubblico, e la sua continua istigazione alla violenza e all’odio razziale che mette in grave pericolo la vita e l’incolumità fisica dei cittadini”. La nota ricorda inoltre che “il Ramo Nord del Movimento, in collusione con Hamas, ha istituito due gruppi di attivisti – il Murabitun (uomini) e il Murabitat (donne) – pagati per creare provocazioni e molestare ebrei e altri non musulmani che si recano pacificamente a visitare la spianata sul Monte del Tempio. Le attività violente dei membri di questi gruppi hanno portato a un aumento delle tensioni sul Monte del Tempio”. Lo scorso settembre il governo aveva proibito le attività dei gruppi Murabitun/Murabitat.

In seguito alla decisione di mettere fuori legge il Ramo Nord del Movimento Islamico, la polizia israeliana ha perquisito martedì più di una dozzina di sedi del gruppo in tutto il paese, sequestrando computer, dossier e fondi. Le autorità hanno anche congelato i conti bancari dell’organizzazione e hanno consegnato ingiunzioni di chiusura a 17 organizzazioni affiliate al gruppo principale. I documenti sequestrati vanno ad aggiungersi a quelli già nelle mani degli investigatori della polizia e dei servizi di sicurezza che avevano raccolto gli elementi di prova a supporto della decisione del governo. Le prove raccolte hanno evidenziato, tra l’altro, la stretta connessione ideologica e operativa del ramo settentrionale del Movimento Islamico con Hamas e Fratellanza Musulmana. La connessione del Ramo Nord coi terroristi di Hamas è stato un fattore importante nella decisione del governo. I due gruppi hanno collaborato in varie compartecipazioni, attraverso le attività istituzionali del Ramo Nord, e per anni le attività del ramo settentrionale sono state finanziate da organizzazioni legate a Hamas.

Fato benon, viva Ixrael!




Netanyahu avverte arabo israeliani: «Non potete godere di diritti ed essere palestinesi»
Attentato a Tel Aviv. Il premier ha rivolto il suo ammonimento davanti al luogo dell'attacco di venerdì in cui sono rimaste uccise due persone. Nessuna traccia dello sparatore, Nashat Milhem, ricercato da ingenti forze di polizia. Ieri è stato arrestato il fratello. A Hebron migliaia ai funerali di 14 palestinesi uccisi nei mesi scorsi
Michele Giorgio GERUSALEMME
2.1.2016

http://ilmanifesto.info/netanyahu-avver ... alestinesi


Davanti all’ingresso del pub “HaSimta” di Tel Aviv, luogo venerdì pomeriggio dell’attacco con due morti e diversi feriti compiuto dal 29enne di Arara, Nashat Milhem, Benyamin Netanyahu ieri sera ha rivolto un avvertimento molto chiaro alla minoranza araba in Israele. «Non potete godere dei diritti garantiti in Israele e (allo stesso tempo, ndr) sentirvi in obbligo di essere palestinesi», ha detto il premier israeliano mentre decine di persone commemoravano le due vittime e centinaia di agenti sorvegliavano le strade del centro, effettuando perquisizioni in case ed edifici. «Apprezzo le condanne giunte dal mondo arabo – ha proseguito Netanyahu — devo però aggiungere che mi attendo adesso che i deputati arabi (alla Knesset, ndr), nessuno escluso, condannino questo omicidio disgustoso senza tentennamenti». Tutti gli arabo israeliani sono diventati responsabili dell’attentato compiuto da un solo individuo, Nashat Milhem. L’accaduto ha fornito nuove munizioni a coloro che considerano i palestinesi con passaporto israeliano (il 20% della popolazione) una “quinta colonna”, un “corpo estraneo” che minaccia il paese e da isolare.

Tel Aviv resta blindata ma dell’attentatore non c’è traccia. Riconosciuto dal padre nei filmati ripresi dalle telecamere di sorveglianza e trasmessi dalle tv locali, Milhem è sparito in pochi attimi dopo i trenta colpi che ha esploso contro il pub. È perciò possibile che abbia ricevuto aiuto immediato da uno o più complici. Ieri è stato arrestato il fratello, Jaudat, che secondo gli investigatori, è collegato all’attentato. La polizia ritiene che Nashat Milhem sia ancora a Tel Aviv ma non pochi credono che sia riuscito a lasciare la città subito dopo l’attacco. La pista privilegiata dagli investigatori resta quella di un attentato a sfondo religioso o nazionalistico, “ispirato dall’Isis”, perchè, secondo alcuni, Milhem si era «radicalizzato» negli ultimi tempi anche se alla polizia era noto solo come un criminale comune e un ex detenuto tossicodipendente. Non si esclude peraltro l’ipotesi di una vendetta e si tiene in considerazione anche il fatto che il pub “HaSimta” è frequentato dalla comunità Lgbt. Ad infittire la nebbia intorno all’attacco di venerdì c’è anche il ritrovamento, sempre a Tel Aviv, del cadavere di un tassista arabo israeliano, assassinato vicino alla propria autovettura in circostanze oscure poco dopo l’attentato al pub. Una vicenda sulla quale la magistratura ha ordinato alla stampa di non divulgare tutti i particolari in suo possesso.

Lo “sparatore sparito” ha fatto passare in secondo piano i funerali più imponenti tenuti in questi ultimi anni nei Territori palestinesi occupati. Migliaia di persone hanno partecipato ieri alla moschea al Hussein di Hebron ai riti funebri per 14 palestinesi uccisi dalle forze israeliane negli ultimi tre mesi, dall’inizio dell’Intifada di Gerusalemme. Tutti vivevano nella città della Tomba dei Patriarchi e sono parte dei 23 corpi di palestinesi — responsabili di attacchi veri e presunti — che Israele ha trattenuto per settimane, in un caso per 80 giorni (Basel Sadr, 20 anni, ucciso il 14 ottobre a Gerusalemme), nel quadro delle misure punitive volte a mettere fine all’Intifada riesplosa a inizio ottobre in Cisgiordania e nel resto dei Territori occupati. Negli ulltimi tre mesi sono stati uccisi 138 palestinesi e le autorità israeliane stanno ora consegnando i corpi degli uccisi alle famiglie per allentare la tensione. Sarebbero ancora 17 i cadaveri di palestinesi nelle mani di polizia ed esercito, 15 dei quali di abitanti di Gerusalemme Est.

Oscurata dalle crisi e dalle guerre che devastano il Medio Oriente, a cominciare da quelle in Siria e nello Yemen, la questione palestinese resta ai margini dell’interesse dei mezzi d’informazione internazionali. Ma l’occupazione militare israeliana continua e con essa la nuova Intifada. E in questo contesto non vanno dimenticati o sottovalutati i rischi che anche i giornalisti locali corrono per riferire quanto accade ogni giorno sul terreno. Venerdì a Kufr Qaddum, dove da anni gli abitanti lottano contro il Muro di separazione israeliano e per riaprire strade chiuse dall’esercito, un reporter del tv palestinese, Anal al Jaada, è stato ferito seriamente a una gamba da un proiettile rivestito di gomma sparato dai soldati durante una incursione nel villaggio. Ancora venerdì scontri violenti con i militari sono avvenuti a Bilin, un altro dei villaggi dove proseguono le proteste contro il Muro. A Bilin i manifestanti, tra i quali attivisti stranieri e israeliani, hanno issato poster di Jawaher Abu Rahmeh, morta soffocata dai gas lacrimogeni durante una protesta nel 2011, due anni dopo l’uccisione di altro membro della sua famiglia, Bassem, colpito in pieno petto da un candelotto lacrimogeno sparato ad altezza d’uomo.

Netanyahu el ga dito pì ke ben!



In Israele un gravissimo salto di qualità
Fiamma Nirenstein - Sab, 02/01/2016
http://www.ilgiornale.it/news/politica/ ... 09340.html

Se l'aggressione che ha lasciato ieri sul terreno due morti e sette feriti è davvero un attacco terroristico, se sarà confermato che fra le cose dell'uomo che ha sparato con un'arma automatica sulla folla di un pub si è trovato un Corano, l'attacco terroristico cui è sottoposto Israele da cento giorni ha subito un enorme balzo in avanti.

L'attacco dentro un locale si è avuto alle 15.30 di venerdì pomeriggio, quando i giovani si riuniscono prima della festa, durante un compleanno, nel cuore del cuore della città, al Dizengoff Center dove i ragazzi d'Israele vivono la propria voglia di essere normali.

Esso dimostra un livello di organizzazione e di pianificazione che va oltre le decine di attacchi col coltello o con auto lanciate contro cittadini per la strada. La ripresa di una telecamera mostra l'attentatore dentro un negozio, finge di comprare una merce, torna indietro dal banco, mette lo zaino sul carrello, ne trae un'arma automatica e si lancia a sparare nella strada. La borsa abbandonata conteneva, almeno così riferiscono le cronache, un Corano. Tel Aviv, città che ama i bar, i pub, i ritrovi e specialmente quelli dei giovani, ha memoria di decine di terribili attacchi terroristici in luoghi di ritrovo: fra tutti, quello del Dolphinarium che segnò con la sua strage di 21 giovani la seconda Intifada nel 2001. Quasi tutti gli altri attentati, sempre però causati da esplosioni, hanno funestato Tel Aviv. Quello di ieri è un attentato che si colloca nel mezzo della guerra religiosa che da quando è stata lanciata, nel bel mezzo dell'attacco terroristico all'Occidente che funesta le capitali d'Europa e si espande negli Stati Uniti, ha avuto ha fatto in Israele decine di morti e feriti. Dopo avere avuto l'imprimatur di guerra di religione con la falsa denuncia da parte sia di Hamas che di Abu Mazen di un supposto piano di conquista da parte di Israele, è di tre giorni fa la promessa dell'Isis, durante un discorso del califfo Al Baghdadi, di attaccare Israele, accompagnato con la promessa che essa sarà «il cimitero» degli ebrei.

L'attacco di Tel Aviv, chiunque l'abbia compiuto, ha il medesimo carattere delle ignobili aggressioni a innocenti di questi giorni, ma l'opinione pubblica internazionale si è dimostrata piuttosto indifferente preferendo collocare la serie infinita di attacchi al conflitto israelo-palestinese. Tel Aviv ha come caratteristica quella semplicemente di essere parte di Israele, una città laica ed ebraica, eppure l'attacco ne fa un terreno da strappare a una cultura e a una religione diversa. Vedremo se anche questa volta, per mancanza di materiale adatto, avremo il rovesciamento dell'informazione tipico di questi giorni
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Re: Ixrael na bona democrasia

Messaggioda Berto » mar gen 12, 2016 5:20 pm

I dementi antixraełiani e antiebraeghi ke gnanca sa cosa ca xe ła vera democrasia:



Definiamo lo Stato d'Israele
Tratto dal libro: «Storia ebraica e giudaismo: il peso di tre millenni» di Israel Shahak*

http://www.disinformazione.it/definizioneisraele.htm


Prefazione di Gore Vidal
Alla fine degli Anni Cinquanta, quel grande pettegolo e storico dilettante che era John F. Kennedy mi disse che nel 1948 Harry Truman, proprio quando si presentò candidato alle elezioni presidenziali, era stato praticamente abbandonato da tutti.. Fu allora che un sionista americano andò a trovarlo sul treno elettorale e gli consegnò una valigetta con due milioni di dollari in contanti. Ecco perché gli Stati Uniti riconobbero immediatamente lo Stato d’Israele. (…)
Purtroppo, quell’affrettato riconoscimento dello Stato d’Israele ha prodotto quarantacinque anni di confusione e di massacri oltre alla distruzione di quello che i compagni di strada sionisti credevano sarebbe diventato uno stato pluralistico, patria dei musulmani, dei cristiani e degli ebrei nati in Palestina e degli immigrati europei e americani, compreso chi era convinto che il grande agente immobiliare celeste avesse dato loro, per l’eternità, il possesso delle terre della Giudea e della Samaria.(…)

Capitolo I
Se non si mette in discussione il prevalente atteggiamento ebraico nei confronti dei non ebrei, non è dato capire neppure il concetto stesso di «stato israeliano» (Jewish State), come Israele preferisce definirsi. La generalizzata mistificazione che, senza considerare il regime apartheid dei territori occupati, definisce Israele come una vera democrazia, nasce dal rifiuto di vedere cosa significa per i non ebrei lo «stato israeliano». Sono convinto che Israele in quanto Jewish State è un pericolo non solo per se stesso e per i suoi abitanti, ma per tutti gli ebrei e per gli altri popoli e stati del Medio Oriente e anche altrove. Sono altresì convinto che altri stati o entità politiche del Medio Oriente che si proclamano «arabi» o «musulmani», definizioni analoghe a quella di «stato israeliano», rappresentano anch'essi un pericolo. Comunque mentre di quest'ultimo pericolo tutti ne parlano, quello implicito nel carattere ebraico dello Stato d'Israele è sempre taciuto e ignorato. Fin dalla sua fondazione, il concetto che il nuovo Stato d'Israele era uno «stato israeliano» fu ribadito da tutta la classe politica e inculcato nella popolazione con ogni mezzo.

Nel 1985, quando una piccola minoranza di ebrei cittadini d'Israele contestò questo concetto, il Knesset, approvò a stragrande maggioranza una legge costituzionale che annulla tutte le altre leggi che non possono esser revocate se non con procedura eccezionale. Si stabilì che i partiti che si oppongono al principio dello «stato israeliano», o propongono di modificarlo per via democratica, non possono presentare candidati da eleggere al Parlamento, il Knesset. Personalmente, io mi sono sempre opposto a questo principio costituzionale e quindi, in uno stato di cui sono cittadino, non posso appartenere a un partito di cui condivido il programma a cui è vietato eleggere i suoi, rappresentanti al Knesset.

Basterebbe questo esempio per dimostrare che Israele non è una democrazia, visto che si fonda sull'ideologia israeliana ad esclusione non solo di tutti i non ebrei ma anche di noi ebrei, cittadini d'Israele, che non siamo disposti a condividerlo.
Comunque il pericolo rappresentato da questa ideologia dominante non si limita agli affari interni, ma permea di sé tutta la politica estera d'Israele. E tale pericolo sarà sempre maggiore via via che il carattere israelitico d'Israele si accentuerà sempre più e crescerà il suo potere, particolarmente quello nucleare. Un'altra ragione per preoccuparsi è l'aumentata influenza d'Israele sulla classe politica degli Stati Uniti e per questi motivi oggi non è solo importante ma, addirittura politicamente vitale, documentare gli sviluppi del giudaismo e specialmente il modo di trattare i non ebrei da parte d'Israele.
Consideriamo la definizione ufficiale del termine «israeliano», che chiarisce la differenza di fondo tra Israele come «stato israeliano» e la maggioranza degli altri stati. Dunque, secondo la definizione ufficiale, Israele «appartiene» solo a quelle persone che le autorità israeliane definiscono appunto «israeliane», indipendentemente da dove vivono. Al contrario, Israele non «appartiene» giuridicamente ai suoi cittadini non ebrei, la cui condizione è ufficialmente considerata inferiore.

In realtà, questo vuol dire che se i membri di una tribù peruviana si convertono al giudaismo e così sono definiti e considerati, come ebrei hanno immediatamente diritto alla cittadinanza israeliana e a sistemarsi in circa il 70% delle terre occupate del West Bank, e nel 92% dell'area vera e propria d'Israele, destinate all'uso dei cittadini ebrei. A tut­ti i non ebrei, e quindi non soltanto ai palestinesi, è proibito usufruire di queste terre, e il divieto riguarda persino i cit­tadini arabi d'Israele che hanno combattuto nell'esercito israeliano e raggiunto anche gradi assai elevati.
Alcuni anni fa, scoppiò il caso dei peruviani convertiti al giudaismo. Ad essi furono assegnate terre nel West Bank vi­cino a Nablus, zona da cui sono esclusi i non ebrei. Tutti i go­verni d'Israele sono stati e sono pronti ad affrontare qualsiasi rischio politico, tra cui la guerra, perché gli insediamenti del West Bank restino sotto la giurisdizione «israeliana» come è affermato continuamente nei media, che sanno perfettamen­te di diffondere una menzogna, decisiva a coprire l'ambiguità discriminatoria dei termini «ebreo» e «israeliano».

Sono sicuro che gli ebrei americani o britannici accuse­rebbero subito di antisemitismo i governi degli Stati Uniti, o dell'Inghilterra, se questi decidessero di definirsi «stati cristiani», cioè stati che «appartengono» solo a cittadini de­finiti ufficialmente «cristiani». Conseguenza di una simile dottrina sarebbe che, solo se si convertissero al cristianesi­mo, gli ebrei diventerebbero cittadini a pieno diritto e, non dimentichiamolo mai, proprio gli ebrei, forti dell'esperien­za di tutta la loro storia, sanno quanto grandi fossero i be­nefici per chi si convertiva al cristianesimo.

In passato, quando gli stati cristiani, e islamici, discrimi­navano quelle persone, compresi gli ebrei, che non seguivano la religione dello stato, bastava convertirsi per essere accettati come tutti gli altri. La discriminazione che lo Stato d'Israele sanziona nei confronti di tutti i non ebrei cessa nel momento in cui quelle persone si convertono al giudaismo, e sono riconosciute come tali. Ciò vuol dire che lo stesso genere di esclusivismo che gli ebrei della diaspora denunciano come antisemitismo è fatto proprio dalla maggioranza di tutti gli ebrei, come principio ebraico. Chi, tra di noi, si oppone sia all'antisemitismo che allo sciovinismo ebraico è accusato di essere affetto dall'odio di sé, concetto che ritengo assolutamente privo di senso.§
Nel contesto della politica israeliana il significato del termine «ebraico» (Jewish) e dei suoi derivati ha la stessa importanza del termine «islamico» così com'è ufficialmente usato in Iran o anche del termine «comunista» com'era stato ufficializzato nell'URSS. Comunque, il significato di Jewish non è chiaro né nella lingua ebraica né nella traduzione in altre lingue, per cui il termine ha dovuto esser definito ufficialmente.

Secondo la legge dello Stato d'Israele è da considerarsi «ebreo» chi ha avuto una madre, una nonna, una bisnonna e una trisavola ebrea, di religione ebraica, oppure perché si è convertito al giudaismo da un'altra religione, secondo i criteri riconosciuti e accettati come legittimi dalle autorità d'Israele. Chi si sia convertito dal giudaismo a un'altra religione non è più considerato «ebreo». La prima di queste tre condizioni non è altro che la definizione talmudica di «chi è ebreo», fondamento di tutta la tradizione ortodossa ebraica. Anche il Talmud e la legge rabbinica post-talmudica riconoscono la conversione di un non ebreo al giudaismo, come pure l'acquisto di uno schiavo non ebreo da parte di un ebreo cui segue una forma diversa di conversione, come un modo per diventare ebreo, purché la conversione sia avallata da rabbini autorevoli e autorizzati e si svolga secondo modalità per essi accettabili. Per quanto riguarda le donne, una di queste «modalità accettabile» è il rito del «bagno di purificazione», durante il quale tre rabbini ispezionano accuratamente la donna nuda.

La cosa è ben nota ai lettori delle pubblicazioni in lingua ebraica ma i media in inglese non ne parlano, anche se sicuramente susciterebbe un certo interesse. Mi auguro che questo mio libro, le cui fonti sono tutte in lingua ebraica, possa essere utile a correggere il divario tra l'informazione che viene data in lingua ebraica e quella che è tradotta in inglese e destinata all'esterno d'Israele.
Ufficialmente, lo Stato d'Israele ha una legislazione discriminatoria nei confronti dei non ebrei, che favorisce esclusivamente gli ebrei in molti aspetti della vita come, tra i più importanti, il diritto di residenza, il diritto al lavoro e il diritto all'eguaglianza di fronte alla legge.

Per quanto riguarda la discriminazione del diritto di residenza, si fonda sul fatto che, in Israele, il 92% della terra è proprietà dello Stato ed è amministrato dalla Israel Land Authority secondo i criteri del Jewish National Fund (JNF), affiliato all'Organizzazione Sionista Mondiale (World Zionist Organization). Sono regole fondamentali del JNF la proibizione a chi non è «ebreo» di stabilire la propria residenza, di esercitare attività commerciali, di rivendicare il proprio diritto al lavoro e questo soltanto perché non è ebreo. Al contrario, agli ebrei non è in nessun caso proibito stabilire la propria residenza o aprire attività commerciali in qualsiasi località d'Israele. Se discriminazioni simili fossero imposte in altri stati agli ebrei, si parlerebbe subito, e a ragione, di antisemitismo e ci sarebbero massicce proteste.
Quando invece quelle discriminazioni sono normalmente applicate come logica conseguenza della cosiddetta «ideologia ebraica», sono volutamente ignorate o, le rare volte che se ne parla, giustificate. Secondo le regole del JNF, ai non ebrei si proibisce ufficialmente di lavorare le terre amministrate dalla Israel Land Authority. E' vero che queste regole non sono sempre applicate né globalmente imposte, però esistono e vengono tirate fuori tutte le volte che servono. Di tanto in tanto Israele ne impone l'applicazione, come quando, per esempio, il Ministero dell'Agricoltura si scaglia contro la pestilenza di permettere che negli orti che appartengono a ebrei sulla National Land, la terra dello Stato d'Israele, la raccolta sia affidata a coltivatori arabi, anche se questi sono cittadini d'Israele. E severamente proibito agli ebrei insediati sulla National Land subaffittare anche una parte delle loro terre agli arabi, persino per tempi brevissimi e chi lo fa incorre in pesantissime multe.
Al contrario, non c'è nessuna proibizione se si tratta di non ebrei che affittano le loro terre ad altri ebrei. Nel mio caso, per esempio, io che sono ebreo ho il diritto di affittare un orto per il tempo della raccolta ad un altro ebreo, ma a un non ebreo, sia esso cittadino d'Israele o residente non naturalizzato, non è consentito.
Israele è uno stato fondato sull'apartheid. Questo è il principio primo di tutto il suo sistema legale, oltre che la dimensione evidente e verificabile ad ogni livello sociale, residenziale, del viver quotidiano. Tuttavia, la maggior parte delle leggi approvate dal Knesset, il parlamento israeliano, non sembrano discriminatorie, almeno nella forma. Se si analizzano con un po' di attenzione, si vede subito che, alla base dì tutte c'è la discriminazione tra «ebrei» e «non ebrei».

La Legge dell'Ingresso del 1952 aveva apparentemente la funzione di regolare l'accesso al paese ma, senza specificare tra «ebrei» e «non ebrei», recitava che «chi non è in possesso di un visto o di un certificato d'immigrazione sarà immediatamente deportato e non potrà più chiedere il rilascio dei visto». La definizione di chi ha le qualifiche per ottenere il visto d'immigrazione si trova nella parallela Legge del Ritorno: solo «gli ebrei».
Infatti, la clausola della deportazione degli «stranieri» è applicabile solo ai «non ebrei». Il Ministero dell'Interno non ha l'autorità d'impedire a un ebreo, anche se ha precedenti penali e può costituire un pericolo per la società, di esercitare il suo diritto a stabilirsi in Israele. Solo un cittadino straniero non ebreo ha bisogno del permesso, ma agli ebrei che giungono da altre nazioni vengono subito concessi tutti i diritti e i privilegi previsti per i cittadini d'Israele: il «certificato d'immigrazione» conferisce automaticamente la cittadinanza, il diritto di votare e di essere eletti anche se non conoscono una sola parola di ebraico. Il «certificato d'immigrazione» dà diritto immediato alla «cittadinanza» in virtù del ritorno nella «terra madre d'Israele» e a molti benefici finanziari che variano a seconda della nazione da cui provengono gli «ebrei». Per esempio, quelli che provengono dall'ex URSS ricevono subito una «gratifica complessiva» di $ 20.000 per famiglia.
Agli stranieri, cioè ai «non ebrei», può essere revocata la residenza anche se hanno vissuto in Israele anni ed anni, mentre nessuno può espellere gli indesiderabili se ebrei, com'è stato in moltissimi casi di trafficanti e comuni malfattori che sono persino riusciti a farsi eleggere nel Knesset. E ciò grazie alle leggi sulla cittadinanza del 1952 che, senza mai menzionare «ebrei» e «non ebrei», sono il fondamento primo dell'apartheid, insieme alle leggi sull'istruzione pubblica, alle norme della Israel Land Authority, che garantiscono la segregazione delle terre e le leggi matrimoniali religiose che sono mantenute separate dal codice matrimoniale civile.
I «non ebrei» debbono risiedere molti anni in Israele prima di ottenere la cittadinanza, possono essere espulsi dall'oggi al domani e debbono ufficialmente rinunciare alla loro cittadinanza originaria. Per esempio, i cosiddetti «diritti dei residenti che rientrano in patria» (doganali, sussidi per le abitazioni e l'istruzione) valgono solo per gli «ebrei», gli yored. La discriminazione più plateale è quella che appare nei documenti d'identità che tutti sono tenuti a portare con sé e ad esibire in qualsiasi momento. Sotto la dicitura «nazionalità» figurano le seguenti categorie: «ebreo», «arabo», «druso», «circasso», «samarita», «caraita» o «straniero». Dal documento d'identità i funzionari dello stato sanno subito a quale categoria appartiene la persona. Malgrado innumerevoli pressioni, il Ministero dell'Interno si è sempre rifiutato di accettare la dicitura «nazionalità israeliana». A quelli che l'hanno richiesta, viene risposto su carta intestata «Stato d'Israele» che «si è deciso di non riconoscere una nazionalità israeliana», mentre si ricorda che si ha il diritto a lasciare in bianco la voce «nazionalità», previa richiesta al ministero di competenza. Nella lettera non si specifica chi ha preso tale decisione né quando.
La legge sulla coscrizione militare del 1986 non sembra discriminatoria perché usa l'espressione «giovani di leva arruolati» come termine universale e riferibile a tutti i cittadini d'Israele. In realtà contiene un semplice marchingegno che ne fa una delle leggi più discriminatorie, un vero e proprio pilastro dell'apartheid: è la figura dell'enumerator, autorizzato a chiamare i giovani ad iscriversi nelle liste di leva, a convocarli al distretto con uno specifico richiamo alle armi. Nella legge si fa uso del termine «autorizzato», il che implicitamente lascia all'enumerator la facoltà di chiamare, o di non chiamare alle armi, i giovani in età di leva. Quelli che non ricevono la chiamata sono automaticamente esentati dal servizio militare. E’ semplicissimo: quelli che dai documenti d’identità risultano appartenenti al «settore arabo» non vengono chiamati.
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Re: Ixrael na bona democrasia

Messaggioda Berto » mar gen 12, 2016 5:21 pm

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Pappé: «Israele una democrazia? Una grossa bugia»
di Paola Di Lullo
Apr 30, 2015

http://www.controinformazione.info/papp ... ossa-bugia

La Rassegna Femminile palestinese curata da Maria Rosaria Greco, ha ospitato, nella Sala dei Marmi del Palazzo di Città di Salerno, lo storico israeliano Ilan Pappé. Nato ad Haifa, da genitori sopravvissuti all’olocausto, Pappé è Ordinario del Dipartimento di Storia dell’Università di Exter, Gran Bretagna e cofondatore della Nuova storiografia israeliana, che si ripromette di riesaminare la nascita dello Stato d’Israele e del sionismo. La responsabilità della creazione di Israele è attribuita dallo storico all’Europa, in particolare alla Gran Bretagna, che aveva il protettorato sulla Palestina ai tempi, ed alla Germania nazista, che causò la morte e l’esodo di milioni di ebrei. Non esenti da colpe gli altri Stati europei, compresa l’Unione Sovietica, che, al finire della II guerra mondiale, non agevolarono il rientro degli ebrei nei loro paesi d’origine, anzi furono ben lieti di lasciarli andare in Palestina.

Agli USA, Pappé riconosce la non volontà di risolvere diplomaticamente il problema. La stessa non volontà che rimprovera a tutti i leader israeliani, dopo circa 20 anni di colloqui di pace con i Palestinesi. Gli Accordi di Oslo, firmati da Rabin in consapevole malafede, sono stati un inganno, secondo Pappé, considerando che, dal quel momento in poi, la Cisgiordania è stata divisa in tre zone, favorendo l’avanzata del sionismo: ZONA A, 17% del territorio della Cisgiordania, con il 55% di Palestinesi, sotto totale controllo dell’AP; ZONA B, 24% del territorio, con il 41% di Palestinesi, a controllo misto; ZONA C, 49% del territorio, con solo il 4% di Palestinesi, sotto totale controllo israeliano.

Ad oggi, Israele si è impadronito di circa l’80% ( rispetto al 56,4% attribuitogli dalla risoluzione 181 del 29 novembre 1947 dell’ONU ) del territorio della Palestina storica, cui sono rimaste zone, frammentate da muro e check point, in Cisgiordania, e la Striscia di Gaza. Israele conta, ad aprile 2015, una popolazione di 8.345.000 abitanti, di cui il 74,9% sono ebrei, contro i circa 4.400.000 di Palestinesi, divisi tra la Cisgiordania e Gaza. Circa 1.500.000 i Palestinesi d’Israele, più o meno il 20% della popolazione di Israele, seppur considerati cittadini di serie B, hanno passaporto israeliano e quindi meno limitazioni negli spostamenti e possono eleggere i loro rappresentanti alla Knesset.

Devastazione a Gaza

Da sottolineare, secondo lo storico, anche le connivenze del Governo di Ramallah con Israele, connivenze che portano la situazione ad un peggioramento quotidiano. Eppure, non esistendo al momento, un’alternativa all’AP, è impossibile pensare di soppiantarla. Esistono, tuttora, alcuni Palestinesi che continuano a resistere, così come molti altri hanno smesso, accettando di fatto, l’attuale status quo. La lotta è ancora lunga, purtroppo. Sebbene il sionismo, così come l’esodo degli ebrei verso la Palestina, fosse iniziato ben prima del 1947, è da quell’anno in poi che cominciò la vera pulizia etnica della Palestina, complice il genocidio subito dagli ebrei, certi che nessuno li avrebbe accusati di commettere i medesimi crimini contro i Palestinesi. Per pulizia etnica, non s’intende solo l’espulsione dei Palestinesi dal loro paese, dalle loro città, dalle loro case, ma la sistematica opera di cancellazione della memoria, favorita dalla distruzione di interi villaggi, al posto dei quali sono sorte città o insediamenti israeliani. Anche i cibi, così come le piante, molte importate dall’Europa, i vitigni, non conservano il loro nome arabo.

Israele non può definirsi una democrazia, nemmeno una democrazia militarizzata, ma uno stato che continua, incessantemente, la sua opera di colonizzazione ed apartheid.

Ha imposto un embargo totale, da ormai 8 anni, sulla Striscia di Gaza, e non consente il libero spostamento dei Palestinesi, nemmeno per motivi di salute. Ha chiuso industrie, confiscato terreni coltivabili, reso impossibile, di fatto, anche la pesca. Israele non ha confini universalmente riconosciuti, proprio allo scopo di poter continuare, indisturbato, l’annessione dei territori Palestinesi e l’espulsione degli abitanti. Perché se Israele vuole la terra, l’acqua e tutte le risorse palestinesi, di contro, non vuole Palestinesi nel suo stato ( ad eccezione di coloro che risiedono nei territori del 1948, i cosiddetti “Palestinesi d’Israele” ). Se riconoscesse i suoi confini, dovrebbe rientrare in quelli stabiliti nel 1967, come richiesto da molti governi europei ed, in ogni caso, non potrebbe continuare ad espandersi. Così come non ha una costituzione, proprio per potersi ritenere libero di violare quotidianamente i diritti civili di una popolazione calpestata da oltre 70 anni.

Quale può essere allora il ruolo degli intellettuali, degli storici, soprattutto, in questo caso? Pappé ritiene che la conoscenza delle fonti e la rivisitazione della storia della nascita di Israele e del sionismo siano di fondamentale importanza. Dopo aver studiato a lungo la documentazione (compresi gli archivi militari desecretati nel 1998) esistente sulla storia del suo paese è giunto ad una visione chiara di quanto fosse accaduto nel ’48, drammaticamente in contrasto con la versione tramandata dalla storiografia ufficiale: già negli anni Trenta, la leadership del futuro Stato d’Israele (in particolare sotto la direzione del padre del sionismo, David Ben Gurion) aveva ideato e programmato in modo sistematico un piano di pulizia etnica della Palestina.

Pappé ricorda come, qualche mese fa, il 16 febbraio, l’Università di Roma Tre gli negò l’uso del suo prestigioso Centro di Studi italo-francesi dove si doveva svolgere una sua conferenza. Gli storici hanno un ruolo importante e difficilissimo: restare, o cercare di restare, oggettivi, cosa non semplice quando si scrive di vicende ancora in corso, quando si scrive di un susseguirsi di eventi che mutano, spesso, velocemente. Fino a circa 20 anni fa, gli storici, quasi tutti, scrivevano in favore di Israele. Oggi, la situazione si è completamente ribaltata. Ed è opinione diffusa che nessun conflitto in medio Oriente potrà risolversi senza la risoluzione del conflitto arabo – israeliano.

In una serata quasi perfetta, unico “scivolone”, quello sulla Siria di Assad, definita “regime”, quindi dittatura. Nulla di nuovo sotto il sole, Pappé era uno dei firmatari di una lettera firmata da intellettuali, accademici, attivisti, artisti, cittadini interessati, e movimenti sociali in solidarietà con il popolo siriano, per sottolineare la dimensione rivoluzionaria della loro lotta e prevenire le battaglie geopolitiche e le guerre per procura in corso nel loro paese.

Fonte: Sponda Sud
Nella foto in alto: Bulldozer israeliani abbattono case palestinesi per fare posto ai coloni ebrei
Nella foto al centro: Ilan Pappè, storico israeliano
Nella foto in basso: devastazioni a Gaza attualmente rimaste come dopo il conflitto
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Re: Ixrael na bona democrasia

Messaggioda Berto » mar gen 12, 2016 5:22 pm

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http://znetitaly.altervista.org/art/3610


Smentito il mito del liberalismo della Corte Suprema di Israele
Redazione 3 marzo 2012 0
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di Jonathan Cook – 24 febbraio 2012
Poco più di un decennio fa, in un breve intermezzo di esaltante ottimismo a proposito delle prospettive della pace regionale, la Corte Suprema d’Israele emise due sentenze epocali che, si suppose diffusamente, annunciavano l’avvento di una nuova era post-sionista per Israele. Ma con due altre sentenze cruciali emesse nell’inverno 2011-2012 la stessa corte ha decisamente invertito tale corso.
I palestinesi, sia nei Territori Occupati sia all’interno di Israele, pagheranno i costi maggiori e più immediati delle nuove decisioni. In una la Corte Suprema ha creato il nuovo concetto di “occupazione prolungata” per giustificare l’ulteriore rifiuto israeliano delle tutele fondamentali alla popolazione palestinese che vive sotto un’amministrazione militare belligerante. Nell’altra, ha sostenuto il diritto dello stato d’Israele di spogliare la minoranza palestinese entro Israele di uno dei suoi fondamentali diritti di cittadinanza.
Entrambe queste due nuove pronunce minacciano di scatenare un torrente di leggi e misure amministrative ancor più aggressive contro i palestinesi, su entrambi i lati della Linea Verde che separa i Territori Occupati dall’Israele formale, mentre il centro politico di gravità in Israele si sposta costantemente a destra.
Reputazione di attivismo
L’umore giudiziario di oggi è tutt’altra cosa rispetto agli entusiasmi dei tardi anni ’90, quando la Corte Suprema era guidata da Aharon Barak, celebrato dai suoi omologhi negli Stati Uniti come un modello di liberalismo illuminato. A Barak viene diffusamente riconosciuto il merito di aver rafforzato nella giurisprudenza israeliana la filosofia dell’ “attivismo giudiziario”. In pratica l’attivismo di Barak si traduceva nel fatto che egli riservava alla Corte Suprema il diritto sia di interpretare creativamente la legge quando essa mancava di chiarezza sia di valutare criticamente e, se necessario, stroncare misure approvate dalla Knesset quando esse contrastavano con una delle 11 Leggi Fondamentali di Israele.
Israele non ha una Costituzione, ma Barak aveva cercato ispirazione per quella che lui ed altri chiamavano una “rivoluzione costituzionale” in due Leggi Fondamentali liberali approvate nel 1992, una sulla Libertà e la Dignità Umana, l’altra sulla Libertà di Occupazione. Egli trattava queste leggi come affini a una carta dei diritti.
Fu la Corte Suprema attivista di Barak che nel 1999 – tardivamente, dopo anni di petizioni dei gruppi per i diritti umani – emise una sentenza contro la pratica comune della tortura dei prigionieri palestinesi. I giudici proibirono ai servizi di sicurezza israeliani di utilizzare “moderate pressioni fisiche”, come Israele le chiamava, salvo che in caso di palestinesi che erano “bombe a orologeria”, cioè detenuti ritenuti celare informazioni necessarie rapidamente per poter salvare delle vite.
E fu un attivismo analogo ad essere ritenuto responsabile, nel maggio 2000, di una sentenza della Corte a favore dei Kadaan, una famiglia palestinese con cittadinanza israeliana che era stata bandita cinque anni prima da Katzir, una comunità rurale nel nord di Israele. Il comitato di accettazione di Katzir aveva giustifica l’esclusione della famiglia in base al fatto che la comunità – come altre 700 simili – era destinata ai soli ebrei. Descrivendola come “la decisione più difficile della mia vita”, Barak ordinò a Katzir di riconsiderare la richiesta di ammissione dei Kadaan.
Molti osservatori ritennero che queste sentenze aprissero la strada a un Israele più tollerante e democratico, con il paese che finalmente cominciava a scrollarsi di dosso il fardello dello sciovinismo etnico, delle ossessioni per la sicurezza e della fissazione demografica. Tenuta ora a rispondere a una corte più attivista, l’occupazione si sarebbe meritata l’aggettivo di “benevola” proprio mentre il processo di pace inaugurato a Oslo nel 1993 la avviava all’oblio. E la sentenza Kadaan prometteva di por fine a decenni di segregazione comunitaria tra cittadini ebrei e palestinesi; allentava il sistema oppressivo di controllo etnico sul territorio israeliano, la maggior parte del quale era stato nazionalizzato a vantaggio dell’ebraismo mondiale piuttosto della popolazione israeliana in generale ed erodeva la natura di seconda classe della cittadinanza per i non ebrei. Anche mentre una sentenza preannunciava la fine dell’occupazione, l’altra prometteva di dare forma concreta alla descrizione che Israele dava di sé stesso come di uno “stato democratico ed ebraico”, considerata da molti, e da allora, un ossimoro.
“Come se annessa”
Ma l’aura di speranza che consentì agli osservatori dell’epoca di interpretare queste sentenze come rivoluzionarie, svanì lentamente negli anni della seconda intifada, che iniziò nell’autunno del 2000. I nadir fu raggiunto a dicembre e gennaio quando la Corte Suprema formulò due importanti sentenze, di nuovo relative, separatamente, ai palestinesi dei Territori Occupati e a quelli entro Israele. In entrambe i giudici mostrarono che, lungi dal cercare di rimodellare lo stato ebraico, la Corte aveva scelto con enfasi in ruolo di apologeta di quello stesso sionismo che sembrava un tempo aver deciso di sradicare.
La prima sentenza, emessa il 26 dicembre 2011, quando ha avuto buona probabilità di passare inosservata nelle capitali occidentali, ha riguardato lo sfruttamento di antica data da parte di un pugno di società israeliane di una delle principali risorse naturali palestinesi nella West Bank: le cave. Yesh Din, un gruppo israeliano per i diritti umani, aveva rivolto appello tre anni prima alla corte sostenendo che Israele stava violando la legge internazionale appropriandosi della pietra sotterranea della cosiddetta Area C, i quasi due terzi della West Bank assegnati dagli Accordi di Oslo a controllo temporaneo israeliano. I benefici del commercio della pietra estratta – stimati dall’Autorità Palestinese (PA) del valore di 900 milioni di dollari all’anno – venivano accreditati non ai locali abitanti palestinesi ma “alle necessità dello Stato d’Israele, la potenza occupante”, segnalava lo Yesh Din. Undici società israeliane gestivano le cave, esportando in Israele il 94% del materiale.
Il caso avrebbe dovuto essere chiaro e semplice. In base all’articolo 55 della Convenzione dell’Aia del 1907, alla potenza occupante è prescritto di “salvaguardare il capitale” delle risorse naturali della parte occupata e di “amministralo secondo le regole dell’usufrutto”, i principi che regolano l’uso equo. Ma una giuria di giudici della Corte Suprema, guidata da Dorit Beinisch, succeduta a Barak ed erede del suo fare attivistico, ha deciso diversamente.
La corte ha accettato la posizione dello stato d’Israele che l’utilizzo israeliano delle cave è contenuto e non corrisponde a una distruzione del loro “capitale”. Piuttosto, ha osservato, lo sviluppo economico del territorio occupato non poteva essere congelato indefinitamente considerato che l’occupazione era “prolungata”. Era necessario “adattare la legge alla realtà sul terreno”, ha osservato la Beinisch, e aprire le cave era parte degli sforzi di sviluppo dell’esercito israeliano nella West Bank. I palestinesi ne traevano beneficio perché le società minerarie fornivano addestramento e occupazione e parte della pietra era venduto a loro. Inoltre, osservava la Beinisch, il consenso dell’Autorità Palestinese alle operazioni di estrazione era implicito nella firma degli Accordi di Oslo del 1993, e il destino delle cave sarebbe stato deciso definitivamente nei negoziati di pace.
I giudici sono stati anche apparentemente colpiti da due concessioni fatte dallo stato dopo che lo Yesh Din avevo sottoposto la sua petizione. Una consisteva nel non aprire cave nuove. L’altra era un impegno a che tutti i diritti pagati allo stato dalle società minerarie statunitensi, ammontanti a circa 7,5 milioni di dollari all’anno, sarebbero stati destinati all’Amministrazione Civile, l’amministrazione militare israeliana che governa i palestinesi della West Bank.
La sentenza ha naturalmente suscitato alcuni problemi , come numerosi osservatori sono stati rapidi nel far notare. Valutando la sentenza come un esempio del “colonialismo” israeliano, Aeyal Gross, professore di diritto all’Università di Tel Aviv, ha osservato che i giudici non potevano trovare supporto legale nel processo di Oslo per lo sfruttamento delle risorse palestinesi. Gli accordi erano intesi a portare a un accordo finale entro il 1999, più di 12 anni fa, e secondo i loro termini la responsabilità delle miniere e delle cave era prevista gradualmente da trasferire ai palestinesi.
Analogamente gli avvocati dello Yesh Din hanno fatto notare che gli Accordi di Oslo non indicavano il consenso della PA alla sfruttamento israeliano della ricchezza minerale della West Bank più di quanto segnalassero la sua accettazione della legalità degli insediamenti. In ogni caso, hanno aggiunto, la PA non aveva autorità, in termini di legge internazionale, per consentire alla violazione dei diritti della popolazione palestinese. Ovvero, nelle parole di Gross, “la legge internazionale non consente che i diritti dei residenti in un territorio occupato siano limitati da accordi firmati con lo stato occupante.” Inoltre è stata una tesi straordinaria quella della corte di ritenere che i palestinesi beneficino del saccheggio delle risorse naturali palestinesi da parte di Israele in considerazione del fatto che diritti minori – fissati a meno dell’1% del valore annuale del commercio delle pietre – sono pagati all’Amministrazione Civile. Israele ha in tal modo assegnato i diritti alla copertura dei costi dell’occupazione militare.
Ma c’è stata un’implicazione ancora più grave. In una dichiarazione lo Yesh Din ha osservato che la sentenza della corte “rivoluziona l’applicazione israeliana della legge internazionale sulla occupazione belligerante”, creando la dottrina della “occupazione prolungata” che non era possibile ritrovare in alcuna altra corte mondiale o in qualsiasi testo accademico. Gross, al riguardo, ha sostenuto che la sentenza ha rivelato che “sotto la copertura di un’occupazione temporanea, Israele sta conducendo una annessione strisciante della West Bank e delle sue risorse” e la corte ha in effetti messo il suo sigillo su ciò.
“L’occupazione prolungata”, ha aggiunto lo Yesh Din, ha creato un “pericoloso” precedente che potrebbe essere utilizzato da Israele per legittimare i suoi molti altri atti di sfruttamento, quali il suo ricorso “a pompare acqua di quei territori, a trasferire ritrovamenti archeologici fuori dal territorio occupato, a sfruttare spazi liberi per la discarica di rifiuti, a vendere proprietà pubbliche e ad altri atti irreversibili simili che danneggiano o alterano il patrimonio delle proprietà pubbliche.” In parole semplici, come ha osservato il commentatore Yossi Gurvitz, “Israele può continuare a depredare la West Bank come se fosse stata annessa.”
Contro la riunificazione delle famiglie
La ratifica, da parte della Corte, del duraturo sfruttamento israeliano delle risorse naturali palestinesi nei Territori Occupati è stata rispecchiata da una sentenza ugualmente inquietante di poco tempo dopo sui diritti della minoranza di 1,3 milioni di palestinesi detentori di cittadinanza, un quinto della popolazione.
A metà gennaio la Corte Suprema ha finalmente emesso il suo verdetto sulla legalità di una legge transitoria del 2003 sulla riunificazione familiare che nella maggior parte dei casi aveva vietato a un cittadino israeliano di crescere la sua famiglia in Israele con un coniuge palestinese proveniente dai Territori Occupati. La controversa legge era stata introdotta come emendamento alla legge del 1952 sulla cittadinanza che stabilisce la cittadinanza per i non ebrei; una diversa fonte di legge, la Legge sul Ritorno, del 1950, conferisce a tutti gli ebrei del mondo il diritto a immigrare e a ricevere automaticamente la cittadinanza israeliana.
E’ stata la seconda volta che la Corte si è pronunziata su questa materia. I gruppi per i diritti umani, guidati da Adalah, il centro legale della minoranza araba in Israele, avevano inoltrato nel 2006 una petizione alla Corte contro la legge. Lo stato affermava che l’emendamento era stato necessario per chiudere una scappatoia che comprometteva la sicurezza dello stato consentendo a terroristi palestinesi di condurre i loro attacchi in Israele dopo aver sposato un coniuge palestinese. Gli appellanti avevano controbattuto che lo stato non aveva offerto alcuna prova statistica verificabile di una simile minaccia e che altre misure, quali le esistenti verifiche di polizia circa i richiedenti la residenza, erano sufficienti e potevano essere migliorate per garantire che chiunque avesse probabilità di condurre un attacco fosse identificato in anticipo.
Il vero obiettivo della legge del 2003, ha sostenuto il gruppo per i diritti umani, era demografico, e precisamente proteggere la maggioranza ebraica in via di riduzione in Israele propriamente detto e la pure minore pluralità ebraica tra il Mar Mediterraneo e il fiume Giordano. E’ stato un’escrescenza, hanno affermato, della filosofia di Israele della “separazione unilaterale” dai palestinesi, che aveva chiuso fuori Gaza e la West Bank con mura di cemento e acciaio. L’emendamento era inteso a prevenire quello che era stato definito un “diritto di ritorno dalla porta sul retro”, con riferimento ai palestinesi dei Territori Occupati che acquistavano cittadinanza israeliana per matrimonio con un/una cittadino/a israeliano/a.
Nel 2006 Aharon Barak che stava per andare in pensione da giudice capo, si è trovato superato di poco dai suoi colleghi giudici che avevano confermato la norma. Ciò nonostante, anche se sei degli undici membri della giuria avevano appoggiato la legge, Barak ha comunque potuto caratterizzare la sconfitta semplicemente come una “perdita tecnica”. Una magra maggioranza – di nuovo sei su undici – si era anche detta d’accordo che l’emendamento violava le Leggi Fondamentali di Israele. Il giudice indeciso, Edmond Levt, è passato con quelli che appoggiavano la legge soltanto perché riteneva che essa fosse temporanea. La corte, ha affermato Levy, non doveva interferire visto che il governo stava promettendo di sostituire la legge con una politica di immigrazione formulata correttamente.
In una email a un professore di diritto di Yale, non nominato, che è stata fatta trapelare e che era chiaramente mirata a limitare i danni causati dalla sentenza alla sua reputazione e a quella di Israele, Barak è stato cristallino sul fatto che l’emendamento non sarebbe sopravvissuto molto più a lungo. Il ministro della giustizia, Haim Ramon, asseriva Barak, stava per stilare una legge sull’immigrazione che avrebbe incluso “principi universali”. La corte non se ne sarebbe rimasta oziosa se l’emendamento del 2003 fosse stato rinnovato ancora una volta: “Se il parlamento tentasse di attuare di nuovo la norma senza alcuna modifica, c’è un’elevata probabilità, in base alle idee della Corte, che la norma sarebbe anticostituzionale.”
In realtà il governo non ha prodotto una politica di immigrazione, come Barak avrebbe potuto prevedere, a motivo della natura quasi sacra della Legge sul Ritorno per la maggior parte degli israeliani. La legge temporanea del 2003 è stata invece prorogata regolarmente dalla Knesset e la sua portata è stata ampliata da un ulteriore emendamento del 2007 a comprendere nelle restrizioni non solo i palestinesi dei Territori Occupati ma anche tutti i “cittadini di uno stato nemico”. E’ stata lanciata una seconda petizione da Adalah e dall’Associazione per i Diritti Civili in Israele (ACRI) e sostenuta da molti appellanti singoli.
Le nuove udienze hanno avuto luogo in un clima di sicurezza molto diverso da quello precedente. Nel 2006 gli attacchi suicidi della seconda intifada erano ancora una ferita aperta per gli israeliani; nel 2012 erano sono un ricordo lontano. Ciò nonostante lo stato ha esercitato pressioni sostenendo che ogni attenuazione della politica di riunificazione familiare avrebbe posto una minaccia enorme alla sicurezza.
Nell’ultima udienza davanti alla Corte, nel marzo 2010, Yochi Gnessin, il procuratore capo dello stato, ha affermato che 130.000 palestinesi avevano chiesto la riunificazione familiare tra il 1994, inizio del processo di Oslo ed epoca in cui alla maggior parte dei palestinesi era prescritto di avere un permesso per entrare in Israele, e il 2008. Di questi, 54 palestinesi che avevano ricevuto il permesso di residenza mediante matrimonio erano stati coinvolti in attacchi terroristici. Dal punto di vista dello stato questa cifra provava che le organizzazioni terroristiche palestinesi sceglievano i palestinesi solo dopo che essi avevano ottenuto di diritto di stare in Israele, rendendo impossibile ai servizi di sicurezza ideare controlli nel corso della procedura per la residenza che valutassero chi poteva costituire una minaccia.
Adalah, tuttavia, ha fatto presente che le statistiche erano fuorvianti. La categoria dei palestinesi coinvolti in attacchi terroristici appariva molto meno minacciosa una volta analizzata in dettaglio. In realtà, secondo le stesse cifre dello stato, solo 7 di questi 54 casi sono finiti con una condanna e una sentenza di incarcerazione e due di tali persone sono state rilasciate poco tempo dopo, il che suggerisce che le accuse non erano serie. Adalah ha anche osservato che più di 20.000 lavoratori palestinesi della West Bank dispongono di permessi per entrare legalmente in Israele per recarsi ogni giorno al lavoro, facendo apparire ancor più speciosa la tesi della sicurezza dello stato.
La grande esibizione fatta dai dirigenti della cifra di 130.000 domande di riunificazione familiare, tuttavia, ha lasciato intendere il significato sottinteso della posizione statale riguardo alla legge. I media israeliani hanno costantemente citato questa cifra elevata, con editorialisti preoccupati delle implicazioni demografiche di un tale afflusso per lo stato ebraico.
Non sorprendentemente, questo è stato anche il senso delle tesi prodotte da quattro eminenti gruppi di destra cui è stato consentito dallo stato di partecipare come co-convenuti riguardo alla petizione. Ilan Tzion, un avvocato rappresentante ‘Fence for Life’ [Barriera per la Vita] ha chiarito il tema chiave del caso: “La nostra tesi non è demografica [sic] bensì sionista. Gli appellanti affermano che Israele non deve dare preferenza all’immigrazione israeliana rispetto a quella araba. Ciò significa che la Legge sul Ritorno è anche razzista. Stanno formulando la stessa accusa formulata dalle Nazioni Unite quando hanno deliberato che Israele era uno stato razzista.” Tzion ha sottolineato uno studio di Amon Sofer, un professore di geografia dell’Università di Haifa, che prevede che, se incontrollata, la crescita della minoranza palestinese di Israele la trasformerebbe in maggioranza in Israele nel giro di due generazioni.
In realtà anche la stessa cifra di 130.000 è fuorviante. Essa ha compreso il gran numero di riunificazioni familiari a Gerusalemme Est i cui residenti, diversamente dai palestinesi all’interno di Israele, sono sotto un’occupazione illegale. Le famiglie sono spesso separate dalle aggressive procedure burocratiche israeliane, compresi molti figli di matrimoni tra residenti di Gerusalemme Est e dei villaggi vicini della West Bank. Raggiunti i 14 anni di età devono presentare domanda, spesso senza successo, per il diritto di restare con il loro genitori. La cifra comprendeva anche richieste reiterate dalle stesse persone, il che significa che il numero vero dei richiedenti era certamente molto inferiore.
Pensare demograficamente
L’11 gennaio 2012, dopo quasi due anni di procrastinazioni, i giudici della Corte Suprema hanno emesso il loro verdetto. Come nel 2006 la Corte ha appoggiato la legge e lo ha fatto di nuovo con lo scarto minimo, sei giudici contro cinque.
Gli appellanti avevano cercato rimedio nella Legge Fondamentale del 1992 sulla Libertà e la Dignità Umana, sostenendo che l’emendamento alla Legge sulla Cittadinanza violava la Legge Fondamentale privando i cittadini del diritto a una vita di famiglia in basa all’etnia del coniuge. I giudici hanno concordato sul fatto che le famiglie godevano del diritto costituzionale a vivere unite ma erano divise se era applicabile una clausola limitativa prevista dalla Legge Fondamentale. La clausola consente al parlamento di approvare una legge che viola la Legge Fondamentale se è ritenuto “coerente con i valori dello stato d’Israele, messa in atto per uno scopo corretto e in una misura non superiore a quella richiesta.”
Dal punto di vista della minoranza, la limitazione non poteva essere invocata perché l’emendamento offendeva il principio di uguaglianza: il suo effetto sarebbe stato avvertito quasi esclusivamente dai cittadini palestinesi. Dorit Beinisch, alla quale mancavano poche settimane dal pensionamento da presidente della Corte, ha scritto nel suo parere di minoranza: “La domanda che abbiamo affrontato è stata quali rischi siamo disponibili ad assumere e quali azioni siamo disponibili a perseguire per garantire la nostra sicurezza senza compromettere i diritti umani o causare danni sproporzionati.”
La maggioranza, per contro, ha sostenuto che la limitazione era applicabile in quanto il danno causato alle famiglie con il rifiuto di riunificazione era necessario e proporzionato. I giudici hanno basato il loro ragionamento su preoccupazioni per la sicurezza dello stato. Asher Grunis, che avrebbe dovuto sostituire la Beinisch alla fine di febbraio, ha intitolato il suo parere “I diritti umani non sono una ricetta per il suicidio nazionale”. Elyakim Rubinstein ha concluso che i cittadini palestinesi “devono pagare un prezzo alto per una maggiore sicurezza per tutti gli israeliani, compresi la loro.” E Miriam Naor ha sostenuto che anche se i cittadini palestinesi di Israele avevano un diritto costituzionale a una vita familiare unita quel diritto non si estendeva al dover essere esercitato in Israele. La maggioranza ha anche cercato di trovare conforto nell’affermare che la legge aveva paralleli nelle leggi di altri paesi, compresi alcuni stati europei. Ma di nuovo Agalah ha evidenziato nelle prime udienze – e ha fornito tre pareri di esperti legali al riguardo – che tali restrizioni si applicavano, diversamente dal caso di Israele, solo quando entrambi i coniugi interessati alla procedura di riunificazione familiare erano non-cittadini. L’indifferenza dei giudici a tali distinzioni e la priorità da loro data alla sicurezza rispetto ai diritti fondamentali dei cittadini nonostante la posizione debole dello stato, hanno suggerito a molti che la decisione di confermare la legge sia stata in realtà motivata da considerazioni demografiche.
E’ stato certamente così che la sentenza è stata interpretata pubblicamente. Dan Margalit, uno dei giornalisti più popolare di Israele, teme che i matrimoni tra palestinesi di Israele e dei Territori Occupati facciano parte di una “invasione ben pianificata”. Ronen Shoval, capo del movimento giovanile di destra Im Tirtzu, ha affermato che la decisione della Corte Suprema “eviterà che centinaia di migliaia di palestinesi inondino Israele.” E Ze’ev Elkin, un parlamentare del Likud e presidente della fazione della coalizione di governo alla Knesset ha fustigato i giudici di minoranza per aver voluto aprire “gli argini” a migliaia di palestinesi consentendo loro un “diritto al ritorno” mediante matrimonio.
Molti dei giudici hanno anche alluso all’argomento demografico nei loro pareri, come Yoram Rabin, decano di una scuola di diritto a Tel Aviv, ha osservato nel numero del 15 gennaio del giornale Ha’aretz. “E’ chiarissimo che almeno alcuni dei giudici del parere di maggioranza ‘hanno parlato di sicurezza’ mentre ‘pensavano demograficamente’”. Miriam Naor aveva osservato che la legge del 2003 aveva implicazioni sia demografiche sia di sicurezza e che tali due fattori erano “indivisibili”. Un altro giudice, Eliezer Rivlin, comparando la legge israeliana a quella di altri stati, aveva osservato: “Gli stati europei stanno rendendo più severe le condizioni dell’immigrazione per motivi demografici.” E Edmond Levy, schierato con la minoranza, aveva sostenuto che gli ebrei devono essere maggioranza nello stato, aggiungendo che la sua opinione “avrebbe potuto essere diversa” se lo stato avesse basato la sua tesi sulla “composizione della popolazione israeliana o su appropriate soluzioni per l’immigrazione.”
Hassan Jabareen, direttore di Adalah, ritiene che il caso abbia toccato il tema “più sensibile” per la Corte Suprema. Israele si è ufficialmente descritto come uno stato “ebraico e democratico” fin da metà degli anni ’80, ma tale concetto è stato raramente analizzato in dettaglio. Questo caso ha rivelato che i due principi – ebraismo di Israele e sua democraticità – sono in stridente contraddizione. In effetti i giudici hanno dovuto scegliere a quale componente dell’identità statale dare maggiore priorità. La maggioranza ha preferito privilegiare l’ebraismo anche se ciò ha significato confermare una legge che violava le pretese di democraticità dello stato.
Naor, in particolare, ha esposto le conseguenze della sentenza in termini forti. Spogliando i palestinesi del paese di uno dei diritti fondamentali della cittadinanza, la decisione della maggioranza li ha costretti a scegliere tra dividere la famiglia o trasferirsi fuori da Israele con il coniuge per vivere insieme sotto l’occupazione belligerante israeliana. Dal punto di vista del giornalista di Ha’aretz Gideon Levy, anch’egli in uno scritto del 15 gennaio, la sentenza è stata un altro asse di una politica di lungo termine dello stato per attuare la pulizia etnica dei palestinesi dalle loro terre ogniqualvolta se ne presenti il pretesto. “Qui si tratta di trasferimento. Non da parte dell’esercito, dei coloni o dell’estrema destra, bensì di espulsione sotto l’egida della legge e con il sigillo di approvazione della Corte.”
Adalah, nel contempo, ha osservato che la Corte ha “approvato una legge di cui non esistono analogie in alcuno stato democratico del mondo … La sentenza dimostra quanto la situazione dei diritti civili della minoranza araba di Israele stia deteriorandosi a una situazione senza precedenti e molto pericolosa.” Jabareen e Sawsan Zaher, che hanno presentato ricorso alla Corte per conto di Adalah, hanno osservato che il pericolo si manifesterebbe in due modi. Primo: abbandonando il principio di eguaglianza per i palestinesi di Israele sulla questione della riunificazione familiare, la Corte ha sottinteso che la non-discriminazione era una questione che doveva essere soppesata caso per caso. La sospensione dello stato di diritto, hanno sostenuto i due legali, “legittima la messa in atto, da parte del governo e della Knesset, di altre leggi discriminatorie nei confronti dei cittadini palestinesi di Israele.” E, secondo: “Quando il tema dell’eguaglianza dei cittadini palestinesi di Israele viene visto con un problema politico piuttosto che costituzionale, allora si è a un passo dal considerare i gruppi per i diritti umani che lottano per ottenere i diritti alla dignità e all’uguaglianza per i cittadini palestinesi come organizzazioni politiche, e la giurisprudenza della Corte Suprema in tali casi come politica, e dunque soggetta all’intervento della Knesset. Comunque l’interferenza della Knesset nel lavoro della Corte Suprema minaccia il principio fondamentale della separazione tra poteri.”
“Semplici raccomandazioni”
Viste le cose in questa luce la Corte Suprema ha firmato una condanna a morte del ruolo attivista originariamente creato da Barak e apparentemente realizzato nella forma più concreta più di un decennio prima nel caso della tortura e in quello dei Kadaan. Zahava Gal-On, leader del minuscolo partito sionista Meretez, che aveva anch’egli aderito all’appello, ha ammonito: “La Corte si è stancata di combattere il razzismo. La decisione di respingere il mio appello è il risultato della campagna per indebolire la Corte Suprema.” Ella di riferiva ai due fronti della campagna populista avviata dalla destra israeliana negli anni recenti per indebolire la Corte suggerendo che le sue sentenze, quando andavano contro le leggi della Knesset, erano antidemocratiche. Mentre il clima politico in Israele si spostava ancora più a destra nel corso del primo decennio del 2000, la Corte era diventata sempre più isolata, con la destra deliziata nel presentare le inclinazioni ideologiche dei giudici come in contrasto con la società israeliana tradizionale.
La debolezza della Corte è stata particolarmente evidente in una quantità di casi in cui le sue sentenze attiviste – che dichiaravano illegali le leggi e le politiche israeliane – venivano semplicemente ignorate dai dirigenti. Il governo è sembrato spesso sbandierare il suo disprezzo, nel modo più spettacolare con il suo rifiuto di smantellare gli avamposti degli insediamenti non autorizzati e segmenti del muro di separazione costruito su terra privata palestinese nella West Bank; con il suo assegnare uno status prioritario, e i relativi fondi preferenziali, quasi esclusivamente a comunità ebraiche, compresi gli insediamenti, anziché alle comunità palestinesi molto più povere all’interno di Israele; col non assegnare alle scuole palestinesi in Israele bilanci equi o col non costruire centinaia di aule scolastiche per i bambini palestinesi a Gerusalemme Est e con la sua negazione di servizi essenziali ai villaggi beduini del Negev. In una seduta particolarmente contrastata del 2009 la Beinisch ha accusato lo stato di prendersi “la legge nelle proprie mani” e di trattare le sue sentenze come “semplici raccomandazioni”.
Ma questi scontri di alto profilo hanno rafforzato il messaggio della destra, espresso sinteticamente dal membro della Knesset Yariv Levin, del Likud: “La Corte Suprema è stata preda della minoranza estremista di sinistra che sta cercando di dettare i propri valori alla società intera,” uno sviluppo, ha aggiunto, che pone “in grande pericolo la nostra capacità di garantire la nostra esistenza”.
A tale accusa è stata data una forza extra dall’intensificazione della campagna governativa contro i gruppi per i diritti umani che li dipingeva come organizzazioni politiche finanziate da governi stranieri e, per implicazione, operanti come agenti di un’influenza straniera. Il sostegno della corte a tesi proposte dai gruppi per i diritti umani è stato visto come prova della sua sottomissione a un programma straniero, ovvero anti-israeliano.
Aryeh Rattner, professore di legge all’Università di Haifa, ha osservato che la Corte era popolarmente percepita come una che preferiva “un coinvolgimento eccessivo” quando posta di fronte a problemi di sicurezza, sociali e religiosi controversi. Un esame da lui condotto nel 2010 ha dimostrato che tra gli ebrei israeliani che non si identificano né con gli ultra-ortodossi né con i coloni – gruppi entrambi che tendono a rifiutare l’autorità della Corte – solo il 36% ha espresso grande fiducia nelle sentenze di quest’ultima. Tale percentuale era crollata dal 61% di un decennio prima. Tra i coloni il dato era del 20%, sceso dal 46% del 2000.
In parallelo, i partiti di destra hanno utilizzato il tema della riforma fondamentale della Corte come un modo per intimidirla. Nel decennio scorso i giudici hanno vissuto all’ombra di una proposta della destra di sostituire al Corte Suprema con una cosiddetta Corte Costituzionale, costituita da rabbini, politici ed “esperti” nominati dalla Knesset. A gennaio l’influente leader dei coloni Israel Harel, un giornalista di Ha’aretz il cui figlio sta sfidando un sentenza della Corte Suprema vivendo in un insediamento avanzato, chiamato Migron, ha spinto di nuovo l’idea di tale riforma, sostenendo che ciò eviterebbe la cooptazione della Corte da parte di “organizzazioni estremiste finanziate da governi stranieri”, un riferimento ai finanziamenti ricevuti dall’Unione Europea da gruppi quali Adalah e ACRI.
Pressioni sono venute anche dai governi di Israele. L’assalto è iniziato dapprima sotto Daniel Friedmann, ministro della giustizia dal 2007 al 2009 nel governo di centrodestra di Ehud Olmert. Egli ha tentato, senza successo, di far approvare diverse proposte di legge per frenare l’attivismo dei giudici limitando il diritto del pubblico ad appellarsi alla Corte Suprema e riducendo severamente i soggetti su cui la Corte poteva pronunciarsi.
Da capo di una coalizione ancor più di destra Binyamin Netanyahu è stato ugualmente determinato nel cercare un modo sia per ridurre la capacità della Corte di interferire con il programma legislativo della destra sia per modificare la composizione della Corte per renderla più ideologicamente più ben disposta nei confronti del governo. Ha nominato ministro della giustizia Yaacov Neeman, uomo di destra non eletto che si oppone a una corte attivista e che manifestato sostegno rendere vincolante per Israele la halakha, la legge religiosa ebraica. Neeman e la destra hanno velocemente proposto una legge per consentire a un giudice al quale mancano solo due anni al pensionamento di essere nominato presidente della Corte Suprema. Asher Grunis, un giudice conservatore noto per la sua opposizione alla filosofia attivista di Barak e della Beinisch, era il beneficiario implicito di tale modifica. La legge è stata approvata a gennaio, in tempo per garantire che Asher sostituirà la Beinisch quando si ritirerà alla fine di febbraio.
Ma il principale bersaglio di Neeman era il Comitato per la Nomina dei Giudici, che sceglie i giudici dell’intero sistema giudiziario, compresi quelli della Corte Suprema. Nel 2011 ha avviato una proposta di legge per garantire una maggioranza di destra nel Comitato che avrebbe promosso giudici che condividessero le posizioni ideologiche della destra. Neeman ha intensificato gli sforzi per far approvare la legge proprio mentre tre posti alla Corte Suprema, compreso quello della stessa Beinisch, erano prossimi a finire vacanti agli inizi del 2012. Ritardi procedurali, tuttavia, si sono tradotti nel fatto che la legge non ha potuto essere approvata prima che avessero luogo le elezioni per il comitato a fine 2011. Quando Neeman ha semplicemente riformulato la proposta di legge per renderla retroattiva, minacciando in tal modo di forzare nuove elezioni del comitato, numerosi ministri del governo e il procuratore generale hanno protestato. Un nervoso Netanyahu ha stracciato la proposta.
Un analista di Ha’aretz, Yossi Verter, ha suggerito che la sconfitta di Neeman può essere stata solo apparente. Ha sostenuto che i propositi principali dei patrocinatori della legge erano a lungo termine. Essi hanno voluto evidenziare ai giudici di livello più basso nella magistratura che la destra era in ascesa e che, se volevano sperare di essere nominati a tribunali più elevati, avrebbero dovuto adeguare le loro sentenze su temi controversi. “Un messaggio simile verrebbe interiorizzato dai giudici che gestiscono casi di violenze e infrazioni alla legge da parte di coloni,” ha osservato Verter il 6 gennaio.
Nonostante la sconfitta della legge, la selezione, da parte del comitato, di tre nuovo candidati per la Corte ha riflesso la nuova tendenza contraria ai giudici attivisti. Uno di essi, Noam Sohlberg, è stato una scelta particolarmente controversa in quanto si tratta di un colono ideologico.
Sohlberg si è ripetutamente dimostrato contrario alle tesi proposte dai gruppi per i diritti umani. Le sue controverse sentenze comprendono la negazione a due gemelli quindicenni del diritto di risiedere a Gerusalemme Est anche si i loro genitori vi hanno la residenza; l’assoluzione dall’accusa di omicidio colposo di un poliziotto che affermava di aver agito per autodifesa quando ha sparato, uccidendolo, a un palestinese in fuga; il rigetto di un’accusa di diffamazione contro tre membri del movimento illegale di estrema destra Kach che avevano interrotto il processo del membro arabo della Knesset Ahmad Tibi chiamandolo “nazista”; l’approvazione del diritto del Ministero dell’Interno di negare il passaporto a un cittadino israeliano che viveva all’estero e che non era rientrato per assolvere al servizio militare. Una delle sue sentenze è divenuta causa di particolare imbarazzo in seguito alla sua nomina alla Corte Suprema. Un giornalista televisiva, Ilana Dayan, ha fatto ricorso contro una pesante condanna per diffamazione decisa da Sohlberg per un suo servizio d’inchiesta che accusava un ufficiale dell’esercito israeliano di aver giustiziato – o “confermato l’uccisione”, nel gergo militare israeliano – di una ragazza palestinese tredicenne a Gaza nel 2004. A febbraio tre giudici della Corte Suprema, all’unanimità, hanno cassato la sentenza di Sohlberg e hanno pesantemente criticato le sue argomentazioni riguardo al caso.
Cinquantenne, Sohlberg è giovane per gli standard della Corte Suprema e quasi certamente ne diverrà un giorno presidente. Immediatamente dopo la sua nomina, Yesh Gvul, un gruppo che rifiuta il servizio militare nei Territori Occupati, ha fatto ricorso alla Corte Suprema per ottenere la radiazione di Sohlberg in base al fatto che egli, da residente nell’insediamento di Alon Shvut, violava la legge internazionale e si sarebbe trovato in conflitto d’interessi nel valutare casi contro i coloni. I giudici hanno respinto il ricorso.
L’atmosfera montante contro i magistrati attivisti ha spinto la Beinisch ha reagine nel suo discorso di commiato. Ha affermato che l’umore del pubblico stava cambiando a causa di una “campagna per danneggiare la Corte, una campagna di delegittimazione.” In precedenza i media israeliani avevano riferito dell’avvertimento di “collaboratore stretto” della Beinisch circa il fatto che “è stata attraversata una linea rossa [dai critici della Corte]. Questa è una discesa molto scivolosa che potrebbe portare alla Germania degli anni ’30, quando calpestò brutalmente i diritti delle minoranze.”
Decisioni di non decidere
Ma, certamente nel caso della Legge sulla Cittadinanza, sembra che nel proteggere i diritti della minoranza anche le mani della Beinisch sembra non siano state poi così pulite come ha preteso lei e hanno preteso i suoi sostenitori. A dire il vero la presidente della Corte Suprema è stata tra quei magistrati che hanno difeso il diritto dei cittadini palestinesi di vivere con un coniuge proveniente dai Territori Occupati. Ma fonti giudiziarie vicine al caso hanno segnalato ad Ha’aretz che, nonostante la sua posizione ufficiale, la Beinisch ha in realtà consegnato la maggioranza della corte ai sostenitori della legge.
Lo ha fatto ritardando la sentenza per due anni dopo le udienze finali, un periodo di tempo in cui la giudice Ayala Procaccia, veemente critica della legge, è andata in pensione. Ella ha poi scelto di sostituire la Procaccia con un giudice della destra religiosa, Neal Hendel, piuttosto che con un giudice più liberale. Prima del pensionamento della Procaccia nel luglio 2011 c’era stato tempo più che sufficiente perché i giudici stilassero i loro verdetti. La decisione della Beinisch di prorogare la scadenza per arrivare a sentenza e la sua decisione di nominare Hendel ne ha predeterminato l’esito, hanno osservato le fonti in un articolo su Ha’aretz del 13 gennaio. Una di tali fonti ha aggiunto: “Risulta che, con la Corte Suprema attualmente sotto attacco, la Beinisch temesse di destare un putiferio politico e pubblico con un verdetto che revocasse la Legge sulla Cittadinanza. E così, anche se appoggiava la rottamazione della legge, in realtà non ha voluto che fosse revocata … La Beinisch non vuole terminare il suo mandato sotto un temporale di contrasti con la Knesset.” Gideon Levy, nel frattempo, ha apertamente definito il ruolo della Beinisch una “mascherata”.
In verità, nel giocare questa grande partita di inganni, la Beinisch ha seguito le orme del suo mentore Aharon Barak.
Un editoriale di Ha’aretz del 27 novembre 2011 osservava che la Corte Suprema era forse “la forza più significativa per la difesa della reputazione di Israele nel mondo.” Sia Barak sia la Beinisch hanno coltivato l’immagine dell’attivismo giudiziario precisamente per incoraggiare in occidente l’idea che la Corte operava come intransigente guardiana della democrazia israeliana. Ma hanno fatto ciò di solito concedendo il minimo possibile alla protezione dei diritti di quei palestinesi i cui diritti erano in conflitto o con i principi centrali del sionismo o con il primato dell’occupazione.
Questa tendenza è stata evidente in entrambi i casi che hanno segnato lo zenit dell’attivismo della Corte Suprema alla fine degli anni ’90. Nel caso delle torture i giudici sono sembrati vietare le torture – è così che la sentenza è stata interpretata nel mondo – mentre in realtà le autorizzavano nella misura in cui i servizi di sicurezza ne giustificavano l’utilizzo affermando che un sospetto era una “bomba a orologeria”. Le organizzazioni dei prigionieri hanno osservato che le torture dei detenuti palestinesi sono proseguite con la stessa violenza nel corso della seconda intifada.
E nel caso dei Kadaan – il più difficile della lunga carriera giudiziaria di Barak – il presidente della corte non ha compiuto un passo rivoluzionario, come diffusamente pubblicizzato, per por fine alle politiche segregazioniste di Israele a proposito dell’allocazione della terra. Piuttosto egli ha sollecitato il comitato di ammissione di Katzir a riconsiderare la sua decisione relativa alla richiesta dei Kadaan. La Corte non ha fatto nulla di sostanziale per far valere i diritti dei cittadini palestinesi a un uguale accesso alla terra o all’appartenenza alla comunità negli anni a seguire. E per evitare qualsiasi danno derivante dalla sentenza Kadaan, la Knesset ha reagito nel 2011 cambiando la legge per dare un sostegno legale a tali comitati. In larga misura come aveva fatto che strascinare il passo della Corte nel sentenziare sulla Legge sulla Cittadinanza, la Beinisch è anche sembrata non avere fretta di decidere sulla legalità della legge sui Comitati di Ammissione. Quel compito sarà lasciato alla corte presieduta dall’antiattivista Grunis.
I partiti di destra nella Knesset hanno ora approvato un’infornata di leggi palesemente antidemocratiche contro cui viene fatto ricorso alla Corte Suprema. A gennaio la prima è finita davanti ai giudici. La legge sulla Nakba punisce gli organismi pubblici, scuole comprese, che ricordano l’espropriazione dei palestinesi nel 1948. Tutti e tre i giudici che si sono occupati del caso, Beinisch inclusa, hanno respinto il ricorso utilizzando una nuova via di scampo giudiziaria: non erano in grado di decidere sulla costituzionalità della legge fino a quando non fosse stato possibile constatare come essa veniva attuata, o fino a quando il “ricorso non fosse maturo per il dibattito in giudizio”, secondo la formulazione della Beinisch.
La decisione di evitare le decisioni – o la decisione di apparire attivisti mentre in realtà si è conservatori – è stata la principale eredità degli anni Barak-Beinisch alla Corte Suprema. Mentre la destra passa a attuare nuove leggi che circoscriveranno ulteriormente i diritti dei palestinesi di Israele e dei Territori Occupati, indubbiamente risulterà più futile che mai aspettarsi soccorso dalla Corte.

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo
www.znetitaly.org
Fonte: http://www.zcommunications.org/the-myth ... athan-cook
Originale: Middle East Research and Information Project
traduzione di Giuseppe Volpe
Traduzione © 2012 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Ixrael na bona democrasia

Messaggioda Berto » mar gen 12, 2016 5:24 pm

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Re: Ixrael na bona democrasia

Messaggioda Berto » mar gen 12, 2016 5:24 pm

La democrazia di Israele che i “pacifinti” non vogliono vedere

04/03/2013
Luisa Morgantini
http://www.romaebraica.it/la-democrazia ... ono-vedere


Cari Amici, è proprio vero che Israele è uno Stato di apartheid, nel quale gli ebrei si comportano con i palestinesi che facevano i nazisti con loro durante la Shoah. Non è questo l’osceno paragone che impazza su internet ? Ne volete una prova ?
Leggete il comunicato che segue, redatto dalla Signora Luisa Morgantini, che ha trascorso gli anni in cui è stata parlamentare europea (persino vice-presidente) a lavorare esclusivamente contro Israele (e continua a farlo ora che è in dorata pensione).
A sentire lei, chi non conosce la realtà di quanto avviene in Medio Oriente, pensando al paragone con i nazisti, si immagina una distesa di campi di sterminio, mentre nel programma ci sono visite e incontri ovunque, anche in Israele, libera lei e suoi dottrinandi di vedere tutto quello che vuole, persino il permesso di entrare nel Paese per poi raccontare menzogne come sua abitudine. Troveranno una Israele, dove la parola rispetto è di casa, non vedranno nessuna scritta “Arbeit Macht Frei”, ma solo un paese democratico che è costretto da sempre a difendersi da chi vuole distruggerlo. Avrei persino la curiosità di partecipare, per ascoltare in che modo sarà capace di ribaltare la verità, professione nella quale eccelle.

Convincere gli allocchi che il nero è bianco e che il bianco è nero, è sempre stata la specialità di chi vuole ingannare il prossimo, una attività che ha trovato sempre terreno fertile. Morgantini entra liberamente in Israele, va dove vuole, incontra chi vuole, vedrà anche i parlamentari arabi alla Knesset, ma che paese è mai Israele !
Una domanda che non si porrà mai, l’odio che diffonde potrebbe essere a rischio.


Angelo Pezzana

“È dal 1988 che l’Associazione per la Pace organizza viaggi di conoscenza e solidarietà in Palestina e Israele, un “andare e tornare” per ­­contribuire a tenere aperta la strada per la libertà e l’indipendenza del popolo palestinese, per una pacifica coesistenza tra i due popoli.
Anche questa volta il viaggio vuole dare voce all’altro volto della regione, alla forza e l’instancabilità di uomini e donne palestinesi, israeliani e internazionali, che resistono quotidianamente all’occupazione, rispondendo alla forza militare con la nonviolenza e battendosi per la fine dell’occupazione ed una pace equa e giusta.
Durante il nostro soggiorno, viaggeremo attraverso i Territori Palestinesi Occupati e Israele, per villaggi, città, campi profughi. Nazareth, Jaffa, Tel Aviv, Haifa, Ramallah, Hebron, Jenin, ­Betlemme, Nablus, Gerico e la Valle del Giordano, i villaggi di Bili’in, Nabi Saleh, At Tuwani, Gerusalemme: luoghi pieni di fascino e storia, ma anche pervasi dal dolore e dall’ingiustizia della illegalità dell’occupazione militare israeliana.
Incontreremo i comitati popolari, le famiglie dei prigionieri, parlamentari, rappresentati politici, associazioni per la difesa dei diritti umani, donne dei centri antiviolenza e tanti e tanti altri. Al ritorno racconteremo ciò di cui saremo stati testimoni ed agiremo per riaffermare il diritto dei palestinesi e di tutte e tutti alla libertà, alla dignità e all’autodeterminazione”.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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