Dalla parte degli ebrei e di Israele che è la loro terra

Dalla parte degli ebrei e di Israele che è la loro terra

Messaggioda Berto » ven feb 17, 2023 10:20 pm

14)
Non è vero che siamo tutti figli di Abramo e non è vero che le tre religioni: ebraica, cristiana e islamica sono tutte e tre religioni abramitiche e del libro chiamato Bibbia.




Non è vero che siamo tutti figli di Abramo.
Solo gli ebrei sono i veri figli naturali e religiosi di Abramo e di una donna ebrea.
Gli altri, i cristiani e i mussulmani sono figli di altri padri e di altre madri naturali.
Solo i cristiani sono figli religiosi adottivi dell'ebraismo ma non sono figli di padri e madri ebree.
Solo i cristiani riconoscono Jahvè il dio degli ebrei come il loro dio integrato e incarnato nel suo figlio l'ebreo Gesù Cristo; gli islamici hanno un'altro dio che è Allah, un dio che non ha nulla a che vedere con Iahvè e non possono dichiararsi nemmeno figli religiosi di Abramo.
Gli islamici poi per lo più hanno altri padri e altre madri naturali che non sono certo ebrei e discendenti da Isacco il figlio di Abramo. Gli islamici che discendono da Ismaele il figlio di Abramo concepito con una donna non ebrea sono una minoranza minimale impossibili da identificare e che in quanto islamici hanno una religiosità che non ha alcun legame con l'ebraismo; come è impossibile identificare la minoranza cristiana dei descendenti dei primi cristiani che erano solo ebrei quantunque i cristiani siano gli unici ad avere una religiosità le cui radici sono esclusivamente ebraiche.

Non è vero che le tre religioni: ebraica, cristiana e islamica sono religioni abramitiche e del libro detto Bibbia.
Solo l'ebraismo e i cristianismo sono fondate sulla Bibbia, l'Islam è fondato sul Corano che è un altro libro che si richiama a un altro dio che non è Iahvè ma Allah il cui profeta è Maometto che è profeta di Allah e non di Jahvè.

Lo stesso dicasi della terra di Israele e della sua capitale Gerusalemme.
Solo l'ebraismo e il cristianismo hanno radici nella terra di Israele e a Gerusalemme.
L'Islam invece ha radici altrove in Arabia, a Medina e alla Mecca. In terra di Israele e a Gerusalemme l'Islam è solo una religione invasiva violenta e senza rispetto alcuno come lo furono i suoi portatori arabi ai tempi di Maometto e come lo sono oggi i suoi seguaci di origini siriache, giordane, arabe, egiziane e di altre località dei paesi a egemonia islamica.


Il Monte del Tempio, uno spazio per le religioni dei figli di Abramo?
Un saggio spiega come gli studiosi islamici, all’opposto di quelli cristiani, abbiano scelto di negare il legame storico del mondo ebraico col Monte del Tempio
Giuseppe Reguzzoni
21 dicembre 2022

https://morasha.it/il-monte-del-tempio- ... di-abramo/

Yerushalayim shel zahav … «Gerusalemme d’oro, di bronzo e di luce, / forse che io non sono un violino per tutte le tue canzoni? / Come si sono seccate le cisterne d’acqua, la piazza del mercato è vuota, / non c’è nessuno che visita il Monte del Tempio nella Città Vecchia, / nelle grotte che sono nella roccia gemono i venti, / e non c’è nessuno che scenda verso il Mar Morto sulla strada di Gerico. / Gerusalemme d’oro…».

Così recita una canzone di Naomi Shemer, di qualche anno fa, ma ormai divenuta popolarissima, e che, peraltro, riprende il filo di antiche citazioni bibliche. E certamente nelle immagini più comuni della Città – santa a ebrei, cristiani e musulmani – spicca la cupola dorata della moschea di Al-Aqsà, parte più evidente del complesso di edifici religiosi di Gerusalemme, conosciuto come come Har ha-Bayit (il monte del Tempio) dagli ebrei, come Monte Majid o al-Ḥaram al-Sharīf (il nobile santuario) dai musulmani, come Tempio di Salomone dai cristiani, come la «spianata delle moschee» per le semplificazioni giornalistiche occidentali.

La storia, pur in mezzo ai dolorosi conflitti che hanno segnato questo luogo, non ha mai lasciato dubbi circa la sua sacralità per le tre religioni monoteiste, almeno sino alla contemporaneità, che ha visti e vede un conflitto che ha anche un suo specifico versante culturale.

È una contemporaneità che ha toccato il suo vertice con la controversa decisione dell’Unesco del 13 ottobre 2016, in forza della quale il Monte del Tempio e l’area prospiciente il Muro Occidentale sono stati riconosciuti come luoghi santi esclusivamente dell’islam.

Questo provvedimento, fortemente voluto da alcuni paesi arabo-musulmani e imposto a maggioranza, ha un suo preciso retroterra culturale su cui getta ora una luce nuova il volume di Yizhak Reiter e Dvir Dimant, Il Monte del Tempio. Ebraismo, Islam e la Roccia contesa, appena pubblicato da Guerini e Associati (Milano 2022, 206 p., euro 17, 58), nella magistrale traduzione italiana di Vittorio Robiati Bendaud, con postfazione dello stesso e di Antonia Arslan.

Studiosi islamici

Si tratta di un’opera coltissima, che sorprende per la ricchezza dei documenti prodotti a illustrare il cambiamento radicale avvenuto nel punto di vista islamico sul Monte del Tempio e sul suo rapporto con la storia e la tradizione ebraica. Dopo l’Introduzione, la prima parte del volume dimostra, infatti, come le fonti islamiche tradizionali, almeno sino all’inizio del XX secolo, abbiano sempre riconosciuto la storia ebraica di quei luoghi, proprio perché, in linea con la ripresa parziale e la reinterpretazione della tradizione biblica, l’islam «santifica Gerusalemme e il complesso dell’area del Monte del tempio (la Moschea Al-Aqsà/Al-Haram al-Sharif) in primo luogo perché originariamente sacra per gli ebrei e, quindi, per i cristiani».

Le cose cambiano, radicalmente, a cominciare dall’inizio del secolo XX, quando gli studiosi islamici, con pochissime eccezioni, in un crescendo polemico, iniziano a negare il legame storico del mondo ebraico col Monte del Tempio. Ciò avviene, in molti casi con tesi e argomenti a tratti bizzarri, come quando si citano studi secondo cui «gli israeliti non hanno lasciato in Palestina vestigia alcuna» o, addirittura, che il Tempio non sarebbe stato che un modesto luogo di culto, per di più non sito in Palestina ed esistito solo per un tempo assai limitato.

«Il Tempio non fu importante per gli ebrei»

Risparmiamo al lettore l’elenco dei nomi di questi studiosi, tutti «a tesi», le cui posizioni sono ampiamente documentate nel volume di Reiter e Dimant, ma osserviamo almeno che da parte loro si pone la questione del rapporto con le fonti islamiche più antiche, che, quando riconoscono un legame ebraico, sono però considerate non attendibili dalla storiografia islamica contemporanea.

Tanto più che non mancano studiosi di questa linea che sostengono che Abramo, Davide, Salomone eressero la moschea di Al-Aqsà, e non un luogo di culto ebraico, perché figure islamiche (p. 128). Giustamente, gli autori fanno notare che la demolizione delle fonti islamiche della sacralità giudaica di Gerusalemme finisce per distruggere le fondamenta stesse della sua sacralità per lo stesso islam. Non va meglio con i testi arabo-islamici contemporanei che magari riconoscono un qualche legame storico dell’ebraismo con il Monte del Tempio, senza però comprendere il senso del Tempio ebraico come tale, pur ammettendo l’esistenza e l’entità storica dei due antichi edifici, dal momento che «il Tempio non fu importante per gli ebrei e la fede ebraica».

Si scopre così che alla radice della svolta novecentesca nell’interpretazione storica islamica del Monte del Tempio ci sono, con una certa evidenza, motivazioni legate a un certo integralismo religioso, ma anche e soprattutto ragioni politiche: l’ostilità al “sionismo” e parecchie idee confuse al riguardo.

Difesa dei cristiani d’Oriente

Prima di accostare la Conclusione del volume, vale qui la pena di indicare tale mal compreso significato del Tempio, riprendendo le parole di un antesignano del dialogo cristiano-ebraico, quale fu, appunto, il cardinale Jean Daniélou: «L’unità del santuario era il segno dell’unicità di Dio» (Il segno del tempio, Brescia 1953, p. 20). Un’idea che si trova espressa con chiarezza già nelle Antiquitates Iudaicae di Flavio Giuseppe: «Non c’è che un tempio per il Dio unico, perché sempre il simile ama il suo simile, comune a tutti, come Dio è comune a tutti». Del resto, è questo il senso che il Tempio ha anche in numerosi episodi della vita di Gesù (tutti brevemente riportati da Daniélou) ed è anche il senso del suo superamento, per i cristiani, nel nuovo tempio: la dimora dell’Eterno, «la shekinah, non è più il tempio, ma l’Umanità di Gesù» (o.c., p. 24).

Ed è forse anche questa la ragione ideale per cui, come ricordano Bendaud e Arslan nella loro Postfazione, l’edizione italiana del volume di Reiter e Dimant è stata voluta e finanziata dalla Christians in Need Foundation, impegnato nella difesa dei cristiani d’Oriente, armeni, ma anche assiri e copti: il Monte del Tempio è patrimonio comune di ebrei, cristiani e musulmani e tale dovrebbe rimanere.

La negazione dei legami ebraici

Così, nella Conclusione Reiter e Dimant spiegano che «la negazione dei legami ebraici con il Monte del Tempio per fini politici involontariamente va a minare la legittimità stessa della santificazione di Al-Aqsà e della cupola della roccia, come pure l’autorevolezza delle più rilevanti fonti arabe, che costituiscono il fondamento tradizionale dell’Islam» (p.180).

Con un’Appendice: «l’Islam ha da subito messo in discussione l’integrità dei testi sacri ebraici e cristiani», accusando gli uni e gli altri di aver manomesso il testo sacro. Ora, «questo atteggiamento è opposto rispetto a quello cristiano, che recepisce, venerandola, la Bibbia ebraica», la Tanak.

E, aggiungiamo noi: la negazione di questa «venerazione» della Bibbia ebraica – o Antico Testamento – ha il nome di una gravissima eresia dei primi secoli, il marcionismo, che a tratti torna a ripresentarsi nella storia del cristianesimo, a volte in maniera aperta, se non sguaiata, altre volte attraverso forme di silenzio o imbarazzo. Ed è anche per contrastare questi silenzi che «Il Monte del Tempio» si propone al pubblico di lingua italiana, aprendo un orizzonte storico e culturale essenziale per la nostra cultura.



Gino Quarelo

Moametto non è l'ultimo profeta di Jahvè ma il primo e ultimo profeta di Allah il dio del Corano, che nulla ha a che fare con Javhè il dio dell'Antico e del Nuovo Testamento degli ebrei e dei cristiani.

Chiamare l'ebraismo, il cristianismo e l'islamismo religioni abramitiche e del libro chiamato Bibbia è una semplificazione menzognera e fuorviante che serve a confondere, a ingannare, a giustificare l'ingiustificabile e a sostenere la menzogna, la violenza, l'abuso e il sopruso, a negare il vero e storico diritto degli uni e ad affermare come diritto il non diritto e il falso diritto degli altri che sono gli invasori senza rispetto alcuno.



Un candelabro davanti al mondo
Una lezione che possiamo trarre oggi dalla festa di Chanukka
Rav Scialom BahboutRav Scialom Bahbout
3 Dicembre 2015

https://www.progettodreyfus.com/un-cand ... -al-mondo/

La civiltà greca era già riuscita a imporsi in tutto il bacino mediterraneo: comunque si voglia intendere questa storia, è chiaro che si trattò della vittoria di una piccola truppa, pronta a ogni sacrificio pur di non svendere la propria identità culturale di fronte a un nemico molto più numeroso e agguerrito.

Questa “globalizzazione” culturale non incontrò alcuna resistenza in tutto il mondo dell’epoca, anzi fu accolta come portatrice di nuova luce: gli unici a opporsi a questa colonizzazione furono i Maccabei. Il debito che il mondo e le religioni devono ai Maccabei è enorme: scrive il grande filosofo e matematico Bertrand Russel che se non fosse stato per la resistenza opposta dai Maccabei non ci sarebbero stati né il Cristianesimo né l’Islamismo.

Ci chiediamo però se il messaggio che i Maccabei volevano trasmettere è stato davvero recepito dal mondo; i popoli hanno fatto propria l’idea che l’identità spirituale, culturale e storica di un popolo è la cosa più preziosa che detiene e che non deve essere violentata da altri? L’idea che la verità dell’altro è rispettabile quanto la propria è diventata veramente retaggio di tutti?

La risposta a queste domande purtroppo non può che essere negativa e la perdurante crisi in Medio Oriente ne è una prova.

La negazione di eventi storici rilevanti e fondanti del popolo ebraico da parte del mondo arabo e islamico è una delle affermazioni più incredibili e fantasiose cui abbiamo assistito negli ultimi anni: il Tempio costruito dal re Salomone (là dove i Musulmani molti secoli dopo costruirono la Moschea di Al Aqsa e di Omar) non sarebbe mai esistito, Gerusalemme (città che non viene mai ricordata nel Corano) non sarebbe mai stata capitale del popolo ebraico e molte altre menzogne che il mondo accetta per vere.

Si tratta non solo di una “ricostruzione fantasiosa” della Storia, ma anche un segno evidente della mancanza di riconoscenza di quanto il popolo ebraico ha dato al mondo, negando così il debito religioso e culturale che questi popoli hanno nei confronti del popolo ebraico.

Questo negazionismo (che si associa a quello della negazione della Shoah) è alla base di quanto avviene nei continui attentati terroristici scatenati dai palestinesi in Israele, dopo che Hamas continua ad aggredire con razzi lanciati da Gaza la popolazione civile israeliana.

Il rifiuto e la negazione di Israele, iniziata con i massacri del 1929 di Hevron (città in cui gli ebrei risiedono da oltre 3.000 anni), continuò con la guerra lanciata contro lo Stato d’Israele dopo la proclamazione dell’Indipendenza nel 1948: l’emigrazione forzata di quasi 1.000.000 di ebrei dai Paesi arabi ha completato il rifiuto arabo e musulmano nei confronti del popolo del Libro, cui le altre due religioni monoteiste si sono ispirate.

La lezione di Chanukkà deve essere ancora recepita da quella parte del mondo che continua ad aggredire verbalmente Israele negandone la storia, le persecuzioni e le discriminazioni subite.

Oggi come allora gli ebrei in terra d’Israele sono rimasti gli unici ad accendere la lampada della libertà e della democrazia, del riconoscimento del diritto degli altri ad esprimere la propria identità, tanto che nel suo Parlamento siede una folta rappresentanza della minoranza araba.

Ancora una volta “i pochi contro i molti” sono stati costretti a far uso delle armi per difendere il diritto ad essere se stessi.

Non è un caso che lo Stato d’Israele abbia assunto come suo simbolo la Menorà, il Candelabro affiancato da due rami d’ulivo. Il candelabro è il simbolo della luce primordiale che il Creatore stesso ha dato al mondo nel momento della Genesi (“Dio disse sia la luce e la luce fu”); l’ulivo è il simbolo della pace e della fine di ogni guerra e ricorda l’ulivo che la colomba portò a Noè alla fine del Diluvio universale.

Chanukà è quindi sempre attuale: la resistenza di Israele per circa quattromila anni è una testimonianza del fatto che l’insegnamento dei Maccabei non è stato vano e che Israele vuole preservare intatta la propria cultura, basata sulla luce e sulla pace. Quest’ultima sarà raggiunta solo quando i palestinesi capiranno che i loro veri alleati sono gli ebrei che abitano in Israele.

Nonostante gli eventi tragici di questi ultimi mesi, nonostante le aggressioni cui sono stati soggetti anche in vari paesi europei e gli attentati recenti di Parigi, anche quest’anno gli ebrei accenderanno il Candelabro nella Diaspora e in Israele. E l’accensione verrà ancora una volta fatta pubblicamente, nella speranza che i suoi detrattori e nemici riconoscano l’insegnamento che è celato nella luce che da esso emana: come gli ebrei, così ogni popolo potrà così accendere la propria Chanukkà, senza negare e spegnere quella degli altri.


Canale 5: Israele, viaggio nella grande bellezza. Finalmente un racconto equo e delicato di Israele
Vivanti Carla
https://mediasetinfinity.mediaset.it/vi ... 7101000101
Commento di Deborah Fait
"Gerusalemme, capitale unica e indivisibile dello Stato di Israele"

https://www.facebook.com/carla.vivanti/ ... 1HMFoN1Q5l

Confesso di essermi seduta davanti alla Tv per guardare quello che, dalla pubblicità, doveva essere un documentario su Israele, con molta diffidenza a causa delle spiacevoli esperienze riguardanti trasmissioni analoghe, a dire poco, imbarazzanti e apertamente filopalestinesi. “Prepariamoci alle solite incazzature”, ho pensato dubbiosa. Già dopo le prime immagini e le parole di Cesare Bocci, l’attore-conduttore della trasmissione ho dovuto ricredermi, mi sono messa più comoda e mi sono goduta lo spettacolo che è durato più di due ore. Ore di commozione e assoluta piacevolezza. La produzione (RTI) scritta da Raffaella Solieri, Silvia Ladisa con la consulenza di Marcello Fidenzio, è stata di grande livello, senza accenni alla situazione politica, solamente, come dice il titolo, un viaggio dentro la bellezza dei luoghi, delle fedi, dell’umanità. Il racconto era rivolto soprattutto ai telespettatori cristiani in prossimità del Natale ma con un rispetto assoluto per Israele, gli ebrei e le altre fedi e popoli che convivono in questa terra. Gerusalemme presentata come la “la città dorata”, Il Monte del Tempio, raccontato fin dalle sue origini millenarie, visitato fin dentro le sue viscere, è poi apparso in tutta la sua maestosità in un plastico che si trova al Museo di Israele. Cenni storici datati più di 3000 anni con la consulenza di Dan Bahat, lo storico-archeologo ben noto al pubblico italiano e ai lettori di IC. Cesare Bocci racconta la fede e la spiritualità ebraica con grande delicatezza: "Nei luoghi sacri mi aspettavo il silenzio, come quello delle nostre chiese invece il modo di intendere la spiritualità lì è diverso, il Kotel (il Muro del Pianto) è una grande sinagoga all’aperto dove tutti pregano in libertà. C'era chi piangeva, chi pregava dondolandosi, chi stava immobile attaccato a quelle antiche pietre. Ma la potenza dei luoghi è incredibile". Poi, sempre a Gerusalemme, il Santo Sepolcro, il Golgota, le due Moschee, costruite nell’VIII secolo e.v. su quelli che erano i resti del Tempio di Salomone, i quattro quartieri della Città Vecchia, ebraico , musulmano, armeno e cattolico. Poi la bellezza di Masada, il Mar Morto con delle immagini incredibili, il deserto di Giuda, un saltino nella città bianca di Tel Aviv con tutta la sua gioventù e infine lo Yad vaShem, il mausoleo della Shoah, con i suoi terribili contenuti. Il viale dei Giusti, i carri bestiame e poi: “Adesso entreremo nel Memoriale dei bambini. Qui serve soltanto il silenzio” avverte l’attore e entra avvolto dal buio in cui si riflettono milioni di luci, un milione e mezzo di luci, e poi i nomi, uno ad uno, i nomi dei bambini e l’età della loro morte, 5 anni, 13 anni, 2 anni...Bocci non si fa riprendere all’uscita, probabilmente e giustamente non ha voluto mostrare la propria emozione. Io ho visto persone uscire da quel Memoriale incantato che racconta dei bambini ebrei assassinati, sedersi, prendersi la testa fra le mani e piangere.




Gino Quarelo

Io credo che ciò che si ritiene sia "la verità dell'altro" si possa considerare come verità rispettabile solo se contiene valori universali condivisi rispettati anche dagli altri tra cui il rispetto per la diversità non offensivamente violenta e distruttiva degli altri.
Gli invasori mussulmani in quanto invasori di Israele hanno dimostrato un'assoluta mancanza di rispetto verso la terra degli ebrei. Mancanza totale di ripetto ribadita in modo grave nell'aver costruito una moschea nel sacro territorio del Tempio ebraico di Salomone distrutto dai romani

https://it.wikipedia.org/wiki/Tempio_di_Salomone
https://it.wikipedia.org/wiki/Monte_del_Tempio
Nella tradizione il Monte del Tempio è anche identificato con il monte Moriah, una montagna (o meglio serie di montagne) citate nell'Antico Testamento come luogo dove avvenne il sacrificio di Isacco, ma la effettiva collocazione di Moriah è oggetto di dibattito. Comunque, l'unico risalto attualmente visibile coincide con quella che è considerata la cima del monte Moriah.
All'epoca dell'imperatore Adriano, dopo la rivolta ebraica, sul sito sorse un tempio dedicato a Giove andato distrutto. In seguito venne costruita una basilica dedicata alla Vergine Maria. Dopo la conquista musulmana (VII secolo), invece, vi furono costruite le moschee ancora oggi esistenti. Con la Prima Crociata il luogo fu nuovamente occupato dai cristiani: nella moschea al-Aqsa, costruita sul sito della basilica bizantina, stabilirono la loro sede i Cavalieri Templari, che presero il nome proprio dal risiedere sul sito dell'antico Tempio, mentre la Cupola della Roccia fu trasformata in cappella. Con la riconquista musulmana di Gerusalemme, entrambe ritornarono alla loro destinazione d'uso religioso musulmano.
Dopo la proclamazione dello Stato di Israele nel 1948 e la guerra che ne seguì, il Monte del Tempio rimase nella parte araba di Gerusalemme (Gerusalemme Est); con la Guerra dei Sei Giorni del 1967 fu invece controllato dagli israeliani (assieme al resto della città); oggi lo status quo è garantito in base ad un accordo tra lo stato ebraico e la Giordania, la quale gestisce la spianata tramite il gruppo Waqf.[4]

Il Monte del Tempio è sacro agli ebrei in quanto sede del Tempio di HaShem. Di esso, dopo la distruzione operata dai Romani, rimangono oggi soltanto alcuni tratti del Muro Occidentale di contenimento, detto anche Muro del Pianto. Gli ebrei usano recarsi in preghiera alla base di tale muro (quindi all'esterno della spianata).
Per i musulmani, il Monte del Tempio è sacro perché, secondo una tradizione, il profeta Maometto venne assunto in cielo dalla roccia situata in cima al monte, oggi all'interno della Cupola della Roccia (che da essa appunto prende il nome).
Il luogo è sacro per i cristiani, che condividono con gli ebrei le memorie del Tempio di Israele e che ricordano le numerose visite di Gesù. Qui si svolsero le sue dispute con i sacerdoti e altri episodi della sua vita pubblica. In Israele e Palestina sono presenti altri luoghi sacri cristiani, fra i quali particolarmente importante a Gerusalemme la Basilica del Santo Sepolcro e la Basilica della Natività di Betlemme.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Dalla parte degli ebrei e di Israele che è la loro terra

Messaggioda Berto » ven feb 17, 2023 10:21 pm

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Re: Dalla parte degli ebrei e di Israele che è la loro terra

Messaggioda Berto » ven feb 17, 2023 10:22 pm

15)
Cara Giorgia Meloni, se è vero che ami gli ebrei e il loro paese Israele come hai sinceramente dichiarato più volte, perché non fai come Trump e non trasferisci l'ambasciata di Israele a Gerusalemme riconoscendo questa città come la vera capitale di Israele?



Il commovente discorso della Presidente Meloni alla cerimonia di accensione della Chanukkià
https://www.youtube.com/watch?v=xeR5BzM9ZhQ


Gerusalemme capitale storica sacra e santa di Israele, terra degli ebrei da almeno 3 mila anni.
http://www.filarveneto.eu/forum/viewtop ... 197&t=2472
https://www.facebook.com/alberto.pento/ ... 1317729634
https://www.facebook.com/permalink.php? ... 7003387674



Continua il comportamento vergognoso all’ONU contro Israele.
Emanuel Segre Amar
31 dicembre 2022
https://www.facebook.com/emanuel.segrea ... 4207084994
Se osservate con attenzione, anche i paesi musulmani “amici” di Israele, come gli Emirati o il Marocco, o come l’Azerbaigian che ha appena deciso di aprire la sua ambasciata a Tel Aviv, hanno votato a favore; la Francia si è “astenuta” che è, in questo caso, come votare contro Israele.
Siamo almeno felici che l’Italia continua a votare in favore dello Stato di Israele (da quando c’è la nuova maggioranza a guida Meloni)




L'Italia come la UE non riconoscono Gerusalemme come capitale di Israele

ISRAELE: FARNESINA, L'ITALIA NON RICONOSCE GERUSALEMME CAPITALE
24 marzo 2023
https://www.facebook.com/demunari.barba ... 7803295485

"Sulla richiesta di riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele, la posizione dell'Italia è coerente con quella comune dell'Unione europea.
Essa riconosce l'aspirazione di entrambe le parti ad avere la propria capitale a Gerusalemme, in linea con le risoluzioni del consiglio di sicurezza dell'ONU.
Le risoluzioni numero 242 e 2334 sanciscono l'inaccettabilità di qualsiasi modifica unilaterale alle linee di demarcazione dopo il 4 giugno1967.
Per questo, l'Italia non riconosce l'annessione ad Israele di Gerusalemme est, né riconosce Gerusalemme come capitale di Israele.
La posizione italiana è stata ribadita, da ultimo, dal presidente del consiglio Meloni nell'incontro a Roma con il primo ministro di Israele Netanyahu il 10 marzo scorso".
Lo ha detto il viceministro degli esteri, Edmondo Cirielli (fdi), rispondendo in commissione esteri alla camera un'interrogazione di laura Boldrini (pd).
"Il vicepresidente del Consiglio e ministro degli affari esteri Tajani ha trasmesso lo stesso messaggio nel corso degli incontri istituzionali avuti durante la sua visita in Israele dal 12 al 14 marzo scorso.
L'Italia - ha sottolineato Cirielli - vuole essere il migliore amico di Israele in Europa, ma con l'Europa vogliamo lavorare per una pace secondo la formula 'due popoli, due stati'.
E nel quadro di questa formula, andrà considerato anche il tema della capitale di Israele".
"L'Italia intende contribuire al rilancio del processo di pace. Il governo ha rivolto " e continuerà rivolgere " l'appello a entrambe le parti a evitare ogni azione che possa ulteriormente deteriorare le condizioni essenziali per la realizzazione di una soluzione a due stati. L'invito a tenere una linea di moderazione è funzionale all'obiettivo di rilanciare il dialogo politico e riportare le parti al tavolo negoziale. L'Italia ha ribadito il proprio impegno a favorire ogni processo politico tra Israele e autorità palestinese, per riprendere un sentiero di dialogo e fiducia reciproca".



LO SCANDALO DEL CONSOLATO ITALIANO A GERUSALEMME PRONO ALLA CAUSA PALESTINESE
Jonathan Pacifici

https://www.facebook.com/progettodreyfu ... 8470402828
https://www.corriereisraelitico.it/lo-s ... rusalemme/
L’Italia, cosí come il resto dei paesi dell’Unione Europea, non riconosce Gerusalemme come capitale d’Israele e notoriamente mantiene la sua Ambasciata in Israele a Tel Aviv. Ciò genera ovviamente delle situazioni paradossali. In primis, dal momento che il Presidente riceve gli accrediti dei diplomatici stranieri e risiede a Gerusalemme, per presentare le proprie credenziali, all’atto dell’assunzione del loro incarico, gli ambasciatori devono recarsi da Tel Aviv a Gerusalemme. Non solo. Le massime cariche della Repubblica sono sistematicamente venute a Gerusalemme, qui hanno avuto qui incontri con Presidenti e Premier ed hanno parlato alla Knesset. Tutto a Gerusalemme. Tutto ufficiale. Peccato che a pochi metri in linea d’aria dalla Residenza del Presidente d’Israele dove Inno di Mameli ed Hatikvà hanno più volte risuonato, il Consolato Generale d’Italia continui ad essere uno schiaffo in faccia ad ogni israeliano ed ogni ebreo.
Il Consolato – simbolo del non riconoscimento della sovranità israeliana – non dipende dall’Ambasciata e non è accreditato in Israele. Dipende direttamente dalla Farnesina. In effetti il Consolato Generale d’Italia a Gerusalemme funziona come una vera e propria Ambasciata presso l’Autorità Palestinese. Spieghiamoci meglio: l’Italia non riconosce Israele a Gerusalemme (salvo doverci venire per incontrarne le cariche), tiene la sua Ambasciata in Israele a Tel Aviv, ma vi mantiene la sua Ambasciata presso i palestinesi. Non è una supposizione, è scritto nero su bianco sul sito ufficiale del Consolato.
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Dalla parte degli ebrei e di Israele che è la loro terra

Messaggioda Berto » ven feb 17, 2023 10:22 pm

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Re: Dalla parte degli ebrei e di Israele che è la loro terra

Messaggioda Berto » ven feb 17, 2023 10:25 pm

16)
Si ricorda che Gesù Cristo era un ebreo israeliano, suddito forzato degli invasori romani e non un arabo-siriaco-egiziano nazi maomettano impropriamente detto palestinese. Si ricorda anche che sino a qualche decennio fa il nome Palestina indicava la terra degli ebrei.



GESÙ EBREO: PERCHÈ BISOGNA RIBADIRE L'OVVIO CONTRO LA MARTELLANTE PROPAGANDA PROPAL
Alberto Giannoni
25 dicembre 2022

https://www.facebook.com/progettodreyfu ... 8aFQ3wgJol

Dopo cento volte che leggo di presepi popolati di arabi vorrei sommessamente ricordare che, salvo macchine del tempo, gli arabi a Betlemme sono arrivati circa sei secoli dopo.
Gesù era ebreo. Ovviamente e inconfutabilmente ebreo. Era circonciso, celebrava la Pasqua ebraica, pregava in sinagoga.
Mi dispiace per il pugile triestino, ma anche nel catechismo della Chiesa cattolica, che cita Luca, si legge che Maria era “una figlia d’Israele, una giovane ebrea di Nazaret in Galilea, «una vergine promessa sposa di un uomo della casa di Davide, chiamato Giuseppe».
Quanto al “Gesù palestinese”, bisogna tener presente che il nome Palestina fu ufficialmente dato alla regione oltre un secolo dopo, dai Romani. E quando in seguito è stato usato, nella storia, il nome palestinese stava a indicare chiunque abitasse in Palestina, senza connotazioni etniche o religiose. Quindi “palestinesi” erano considerati e chiamati (oltre agli arabi) anche gli ebrei, e questo almeno fino alla fine degli anni Sessanta.
A questo proposito, nella sinagoga di Porta Romana, è conservato il documento d’identità rilasciato dalle autorità britanniche alla moglie di un soldato della Brigata ebraica, che dagli inglesi viene qualificata come moglie di “soldato palestinese”, e lui era chiaramente ebreo. Ancora: il “Palestine regiment” inquadrato nell’esercito di Sua Maestà britannica era composto da tre battaglioni di ebrei e uno di arabi. E il giornale sionista che il 16 maggio 1948 titolò “State of Israel is born”, si chiamava “Palestine post”. C’è bisogno di andare oltre?
Fino a 50 anni fa, insomma, non esisteva l’equazione esclusiva palestinese=arabo. Poi è subentrata la narrazione della Palestina come nazione araba distinta dagli altri Paesi arabi.
Tutto ciò per dire che Gesù quando è vissuto era ebreo, e dal 130 al 1967 sarebbe stato considerato un ebreo-palestinese.



Quello che forse non sai

23 dicembre 2022
https://www.facebook.com/progettodreyfu ... iRZeGR6Ail
Bugia n. 36 : Gesù era palestinese . SINTESI TRATTA DALLE pp. 143-144 DEL VOLUME "L'INGANNO PALESTINESE".
Il 24 dicembre 2019 Laila Ghannam, governatrice distrettuale di Ramallah, con invidiabile sprezzo del ridicolo, proclamò: “L'intero popolo palestinese celebra il Natale perché siamo orgogliosi che Gesù sia palestinese”. Come abbiamo visto e dimostrato, però, quella terra non è mai stata definita Palestina, se non un secolo dopo la morte di Gesù; senza contare che a Nazaret arrivarono arabi solo dopo l'invasione musulmana nel VII secolo d.c. Ad adiuvandum: Gesù, come altri ebrei, parlava l'aramaico che non mi sembra abbia originato propriamente la lingua araba.



Gli ebrei nella loro protostoria (età del bronzo e prima età del ferro) che è la fase documentata nella Bibbia, hanno usato la violenza come hanno fatto tutti gli altri popoli dell'area mediorientale e della terra (si pensi ai greci ai fenici, agli egiziani, agli assiro babilonesi, ai persiani, ai popoli del mare, ai romani, ecc.) ma l'hanno usata esclusivamente per difendersi e per difendere il loro stanziamento nella loro terra promessa.
Poi gli ebrei a differenza di tutti gli altri popoli elencati tra parentesi e a differenza anche degli arabi islamici, non sono mai stati imperialisti, non hanno mai fatto guerre imperialiste per imporre il loro dominio e il loro dio agli altri popoli, per depredare e per ridurre in schiavitù gli altri popoli, la guerra l'hanno fatta esclusivamente per ricavarsi un loro spazio vitale, la loro Terra Promessa, nulla più.
L'ebreo Gesù Cristo giustamente è stato accusato dagli altri ebrei di blasfemia perché un ebreo che si dichiara il Messia e il Figlio di Dio non può che essere blasfemo.

I cristiani non ebrei, specialmente i cristiani romanizzati, dopo essere divenuti la religione della maggioranza delle popolazioni dell'Impero romano senza alcuna violenza imperialista, una volta divenuti potenza politica imperiale hanno, contrariamente alla dottrina cristiana del N.T. o Vangeli e contrariamente all'esempio dell'ebreo Gesù Cristo, hanno iniziato a usare la violenza politica e a discriminare gli altro religiosi.

Gli arabi nazi maomettani hanno inizato da subito, da Maometto in poi, ad usare la violenza imperialista, la discriminazione e la persecuzione degli altro religiosi; infatti l'Islam senza violenza non si sarebbe mai espanso e anche oggi senza violenza scomparirebbe.
Gli ebrei e i cristiani per essere e restare tali non hanno bisogno di alcuna violenza imperialista e persecutoria, l'unica violenza è quella della legittoma difesa dall'aggressione islamica nazi maomettana.


NATALE OGGI A BETLEMME
Oggi Giuseppe e Maria non potrebbero entrare a Betlemme perché essendo ebrei verrebbero linciati dai palestinesi.
Progetto Dreyfus
24 dicembre 2022

https://www.facebook.com/progettodreyfu ... 6415445006

Non è uno slogan ma una tremenda realtà. Come dimostrato in alcuni episodi avvenuti nell'anno che sta per concludersi, è capitato che soldati israeliani o semplicemente dei turisti provenienti da Israele siano stati traditi dal navigatore che li ha fatti entrare per errore nei territori controllati dai palestinesi e si siano salvati solo grazie all'intervento della polizia palestinese che collabora a stretto contatto con quella israeliana, evitando il peggio. Come dimenticare infatti quanto accaduto nel 2000 quando due riservisti israeliani entrarono sempre per errore a Ramallah e tornarono fatti a pezzi in una bara dopo essere stati torturati per diverse ore.




Riflessione sul Natale e la verità storica mistificata
Informazione Corretta
Deborah Fait
29 dicembre 2022

https://www.facebook.com/david.damico33 ... gvPF1fywVl

Natale è passato da pochi giorni. Quelli che lo hanno festeggiato cercano ora di digerire le grandi cene e pranzi in famiglia e si godono i regali ricevuti. Altri, come me, cercano invece di digerire, come ogni anno, una quantità di falsità su Gesù, la sua Famiglia e soprattutto i luoghi della sua nascita e della sua intera vita. Ogni anno è la stessa storia, ogni anno le stesse fantasie, a volte comiche, a volte deprimenti nel constatare l’ignoranza della gente o, nella maggior parte dei casi, l’ipocrisia di quel fenomeno che si può chiamare “religiosamente corretto”. Posso sforzarmi di capire il Papa che, per mestiere, deve far passare un messaggio colmo di retorica per far sì che il popolo si commuova. Ma il popolo non è più quello del Medio Evo, oggi il Papa parla a gente che ha studiato, che sa di storia, di scienza, eppure sembra credere a quella figura bianca che, dalla finestra di San Pietro, racconta con voce commossa di un bambinello povero costretto ad emigrare. Ma dove, dove, dove? Basta leggere i Vangeli con un po’ di sale in zucca, per rendersi conto che Gesù non era povero perché suo padre, Josef, era un artigiano ( oggi si chiamerebbe imprenditore) che aveva l’unica falegnameria di Nazareth e sua madre Miriam, era addirittura nipote del Sommo Sacerdote del Gran Tempo di Gerusalemme dove era stata educata fino all’età di 14 anni, lei, una femmina di più di 2000 anni fa! Gesù non era un migrante, Papa Francesco! Era nato a Betlemme, in Giudea, dove i suoi genitori si erano recati per obbedire al decreto dell’imperatore Cesare Augusto che ordinava il censimento di tutto l’impero. Anche Betlemme all’epoca era un villaggio, Miriam e Josef trovarono posto nel caravanserraglio come usava ai tempi. Là Miriam partorì, secondo i testi, con l’aiuto di una donna di nome Salomè. In seguito la Famiglia si recò in Egitto per scappare dalla strage degli innocenti ordinata da re Erode che, sotto dominio romano, governava la Giudea. A pericolo passato, tornò a Nazareth, al suo villaggio in Galilea. Non restò in Egitto, quindi di che migranti parla Francesco? Gesù non era palestinese perché non esisteva un popolo con tale nome come non esisteva una nazione chiamata Palestina. Nazareth era un villaggio abitato solo da ebrei fino al tempo di Costantino (IV secolo, era volgare) quando si popolò anche di ebrei credenti in Cristo che, secondo alcune scritture, si vantavano di essere discendenti di Gesù.
Vuoi che il Papa non conosca la storia?
Vuoi che un gesuita non abbia studiato la storia di Gesù e della sua Famiglia?
Eppure da quella finestra ogni anno piombano su quelli che, col naso all’insù, pendono dalle sue labbra, le solite storielle da catechismo spicciolo. La sera del 24 dicembre, la vigilia, da Gerusalemme hanno trasmesso il concerto del Volo, il trio dei tenorini, come vengono chiamati.
Bene, a parte la noia immensa della trasmissione condita da battute che non facevano ridere nessuno, i tre giovanotti non hanno perso occasione per dire di essere tanto felici di trovarsi in un paese che non è mappato da nessuna parte, che non esiste, che anche loro, come il Papa, chiamano terra santa. Ma non basta! A metà trasmissione è arrivato Pierbattista Pizzaballa, “sua Beatitudine” patriarca di Gerusalemme, che oltre a dirsi felice di ascoltare tanta bella musica in “terra santa” ha anche accennato alla violenza che purtroppo si vive “nel paese” guardandosi bene dallo specificare quale.
Nessuno, il 24 dicembre, durante quella trasmissione , la vigilia della nascita di un Ebreo così importante nella storia del mondo, è riuscito a pronunciare la parola ISRAELE! E dire che avevano avuto l’onore di cantare nella Migdal David, la Torre di Davide, un monumento antico quasi 3000 anni, una cittadella nel cuore di Gerusalemme, capitale di Israele, l’innominabile.
Quest’anno quelli che si impegnano a mistificare la storia si sono superati, non avendo una tradizione di popolo si impossessano di quella di un altro. Vendono magliette con la scritta “Jesus was a Palestinian”. Un ministro di Abu Mazen ha dichiarato “Tutto il mondo sa che Gesù era palestinese”. Peccato che ai tempi di Gesù non ci fosse ombra di Palestina ma soltanto Israele con le sue province di Giudea, Samaria e Galilea.
Per finire, con una risata che dovrebbe seppellirli, cosa che, purtroppo non accade mai, segnalo un settimanale dal nome Film/Tv di critica cinematografica che presenta in questo modo il film trasmesso in Tv “Un bambino di nome Gesù”, regia di Franco Rossi: ”Maria, Giuseppe e Gesù vivono in un villaggio prossimo alla Palestina, quando il sicario mandato da Erode, li raggiunge per uccidere il bambino. Giuseppe viene ferito. Maria e Gesù sono catturati…” trasmesso dal canale 2000 del Vaticano. Naturalmente scrivere “in un villaggio della Galilea” era troppo per chi strombazza al mondo le palle più enormi sulla nascita di Gesù. Sembra esista un ordine mondiale per modificare la realtà storica. Per snaturare la figura di Gesù ebreo, ebreo fino alla morte, crocifisso dai Romani. Per continuare a cancellare la verità inventando un Gesù palestinese mai esistito.
Deborah Fait
"Gerusalemme, capitale unica e indivisibile dello Stato di Israele"
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Dalla parte degli ebrei e di Israele che è la loro terra

Messaggioda Berto » ven feb 17, 2023 10:25 pm

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Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Dalla parte degli ebrei e di Israele che è la loro terra

Messaggioda Berto » ven feb 17, 2023 10:27 pm

17)
Quale soluzione al conflitto israelo palestinese? L'illusione della soluzione a due stati.

Democrazia etnica, apartheid e dhimmitudine
http://www.filarveneto.eu/forum/viewtop ... 141&t=2558



La soluzione dei due Stati progettata per la soluzione del conflitto israelo-palestinese è l'ipotesi di accordo che è in discussione da parte degli attori chiave del conflitto. Secondo tale ipotesi la soluzione dell'ormai storica guerra risiederebbe nella creazione di due Stati separati nella parte occidentale della Palestina storica, uno ebraico e l'altro arabo.
https://it.wikipedia.org/wiki/Soluzione_dei_due_Stati
In tale proposta agli arabi residenti in Cisgiordania o nella Striscia di Gaza verrebbe data la cittadinanza del nuovo Stato palestinese, cosa che verrebbe offerta anche ai rifugiati palestinesi; per quanto riguarda gli arabi residenti in Israele verrebbe loro data l'opportunità di scegliere quale cittadinanza avere: israeliana o palestinese.
Discussa soprattutto durante la conferenza di Annapolis del novembre 2007, è un'idea che, con varianti, ha una storia che risale agli anni '30.




La soluzione a due stati auspicata dalla sinistra, dagli ebrei non israeliani, da quelli israeliani e dai democratici occidentali; con cessione della Giudea e della Samaria (dette Cisgiordania) ai palestinesi.

La proposta di riforma costituzionale che fa discutere Israele spiegata bene
Redazione
IN ESCLUSIVA PER KOLOT – La battaglia sulla “Clausola di Superamento” (Piskàt Hahitgabrùt)
Michael Sierra
19/12/2022

https://morasha.it/la-proposta-di-rifor ... gata-bene/

Prima di capire che cosa sia la “Clausola di Superamento”, è necessario spiegare cosa sono le “Leggi Fondamentali”. In Israele, a causa delle numerose controversie tra le parti, non fu promulgata alcuna Costituzione quando fu fondato lo Stato. La prima Knesset, infatti, stabilì, con una decisione nota come “Il compromesso Harari” (promossa dal membro della Knesset Izhar Harari il 13 giugno 1950, che la Costituzione israeliana sarebbe stata promulgata in capitoli chiamati Leggi Fondamentali. Poiché la Costituzione non è mai stata completata ed il Parlamento israeliano (la Knesset) continua ad esercitare l’autorità costituente e a legiferare di volta in volta capitoli della Costituzione, c’è una disputa sul fatto se queste Leggi Fondamentali abbiano o meno uno status costituzionale, cioè lo status di una Costituzione che stabilisca le linee fondamentali della legislazione nel paese.


La “Rivoluzione Costituzionale” del 1992

Nel 1992 furono approvate due Leggi Fondamentali che regolano lo status costituzionale dei diritti individuali dalla libertà, alla proprietà, alla privacy, alla libertà di occupazione e altro ancora.

Queste leggi sono la Legge Fondamentale sulla dignità e la libertà umana e la Legge fondamentale sulla libertà d’impiego.

Nell’ambito di queste Leggi Fondamentali è stata emanata la “Clausola di Limitazione” (Piskàt Haagbalà ), la quale prevede che i diritti previsti dalle Leggi fondamentali non possono essere violati, a meno che non siano soddisfatte quattro condizioni:

La violazione avviene per legge;
La legge si adatta ai valori dello Stato di Israele come stato ebraico e democratico;
La legge ha uno scopo degno;
La legge è proporzionata e la violazione dei diritti non eccede quanto necessario per il raggiungimento dello scopo della legge.

Nel 1995, La Corte Suprema (allora presieduta dal Giudice Aharon Barak) stabilì nella sentenza Mizrahi che, alla luce della “Clausola di Limitazione”, il legislatore ha dato alla Corte Suprema l’autorità di invalidare le leggi che non soddisfano le quattro condizioni. Barak infatti diede il nome di “Rivoluzione Costituzionale” alla legislazione sulle Leggi Fondamentali, nome che spesso viene usato come termine dispregiativo all’interpretazione della Corte Suprema alle Leggi Fondamentali nella sentenza Mizrahi.

Questa interpretazione della Corte Suprema ha suscitato infatti l’opposizione dei conservatori ma, ciò nonostante, da allora La Corte Suprema israeliana ha invalidato 22 leggi ed è stato stabilito che in casi eccezionali i giudici possano esercitare anche un controllo giuridico sul contenuto delle Leggi Fondamentali.
L’attuale proposta di “Contro-rivoluzione”

La “Clausola di Superamento” è quindi una proposta di modifica che prevede che la Knesset possa confermare una legge bocciata dalla Corte Suprema israeliana, oppure emanare leggi che non potranno essere bocciate dalla Corte Suprema. Bisogna chiarire però che la proposta sulla quale si concentra il dibattito politico attuale in Israele è su una Clausola di Superamento con maggioranza semplice (61 seggi su 120) che sarebbe possibile tramite una modifica alla Legge fondamentale sulla dignità e la libertà umana. Precisiamo che in passato furono proposte anche altre formulazioni di Clausola di Superamento con altri tipi di maggioranze ed in altre forme.

Non tutti sanno che la proposta dell’uso giuridico di una Clausola di Superamento proviene proprio dallo stesso giudice Aharon Barak. Infatti, nel 1993, la Corte Suprema israeliana decise che la proibizione sull’importazione di carne non kasher, non è Costituzionale perché contraddice la Legge fondamentale sulla libertà d’impiego. La sentenza suscitò varie proteste politiche – in particolare dal partito ultra-ortodosso Shas. Perciò Barak suggerì alla Knesset di modificare quella legge fondamentale e di aggiungere una Clausola di Superamento simile a quella canadese (dove però esiste una Costituzione).

La Knesset accettò la proposta di Barak e fino ad oggi l’articolo 8(a) della Legge fondamentale sulla libertà d’impiego prevede una clausola secondo la quale la Knesset può emanare una legge in maggioranza semplice (61 seggi su 120) scrivendo nella legge stessa che è valida “nonostante la Legge fondamentale sulla libertà d’impiego”. Tale legge sarà valida secondo la clausola per 4 anni dalla sua legislazione o prima ancora se stabilito diversamente nella legge.

Allo stesso modo, nel 1994, fu promulgata la Legge sulla carne che proibisce l’importazione di carne che non abbia un certificato di kashrut. Nell’articolo 5 di questa legge infatti è scritto che è valida nonostante la Legge fondamentale di libertà di occupazione e ogni 4 anni la validità della legge viene prorogata dalla Knesset.


Come mai si riparla ora della Clausola di superamento?

Al momento, alcuni possibili partner politici del Likud chiedono che la Clausola di superamento venga approvata come primo passo nella coalizione che si formerà.

Il Likud ha parlato di riforme del sistema giudiziario durante la campagna elettorale, ma nel discorso di vittoria di Netanyahu, questi non è ritornato sull’argomento – il che ha acceso una lampadina rossa per i partner del blocco di destra. Netanyahu era sicuro che, dopo il governo Bennett e Lapid, i partiti del blocco avrebbero voluto prima di tutto costituire un altro governo. Tuttavia, i partiti ultra-ortodossi e quelli sionisti religiosi hanno chiesto di discutere delle linee guida di base prima ancora che il governo prestasse giuramento.

Bezalel Smotrich, del partito ‘Yemina’, ha dichiarato: “Il test di Netanyahu, del Likud e degli ultraortodossi non sarà sulle infondate denunce di condanna alla Corte Suprema per aver respinto la legge regolamentare, ma nell’immediata approvazione della Causola di Superamento alla Knesset“.

Parlando con il Times of Israel, uno dei parlamentari del Sionismo religioso, Amichay Eliyahu ha affermato che questa modifica serve a “ripristinare la democrazia”. Secondo Elyahu, quest’ultima sarebbe stata “sequestrata da un piccolo gruppo di persone” del sistema giudiziario, cioè dai giudici della Corte Suprema.

I critici della riforma, invece, fra cui 126 professori di giurisprudenza che hanno firmato una lettera contro la proposta della Clausola di Superamento nella sua attuale forma sostengono che una modifica di questo tipo minerebbe la democrazia, eliminando la capacità della Corte di agire come bilanciamento del potere legislativo e come protezione per le minoranze da eventuali abusi di potere.
Riassumiamo i pro e i contro
Cosa dicono i sostenitori della Clausola di Superamento?

1. L’ultima parola spetta al popolo

Il popolo dovrebbe poter scegliere attraverso i propri rappresentanti (membri eletti della Knesset) il modo in cui sarà gestito lo Stato. Secondo questa teoria che viene spesso citata dal prof. Gideon Sapir della Bar Ilan University, se i politici agiscono contro la volontà del pubblico che li ha eletti, il pubblico può rimandarli a casa.

I sostenitori ritengono che poiché il potere delle forze dell’ordine in una democrazia deriva dal potere di autorizzazione del popolo, è opportuno che l’ultima parola in una democrazia spetti a chi è eletto dal popolo e che gode del riconferma del potere che gli viene affidato ad ogni tornata elettorale.

2. Il potere eccessivo della Corte Suprema

Un altro argomento riguarda la forza della Corte Suprema in Israele ed il cosiddetto “attivismo della Corte Suprema”. Secondo questa teoria, la Corte Suprema, guidata dal Presidente della Corte allora Aharon Barak, si è attribuita dei poteri che non le competevano.

Questo argomento viene spesso ricordato assieme al sistema di nomina dei giudici in Israele, un sistema unico in cui i giudici sono selezionati dal Comitato per la selezione dei giudici, che comprende tre rappresentanti della Corte Suprema, due Ministri, due Membri della Knesset e due rappresentanti dell’Ordine degli avvocati. I giudici della Corte Suprema hanno la maggioranza ed i sostenitori della Clausola di superamento sostengono quindi che i giudici vengano selezionati in una maniera che non è perfettamente democratica.

3. Il modello inglese e l’assenza di una Costituzione

Altro argomento dei sostenitori della clausola di superamento riguarda l’assenza in Israele di una Costituzione. Secondo loro, perdurando questa assenza (alcuni di loro non riconoscono neanche il valore costituzionale delle Leggi fondamentali), la Corte Suprema non ha il potere di una Corte Costituzionale e non può invalidare leggi emanate dal parlamento. Tutte le abrogazioni delle leggi da parte della Corte Suprema dopo la cosiddetta “rivolta Costituzionale” sarebbero quindi, secondo loro, atti ultra-vires.

A questo punto, ci si chiede cosa dovrebbe fare la Corte Suprema in uno Stato senza una Costituzione? I sostenitori della Clausola di Superamento sostengono che in Inghilterra (paese che non ha una Costituzione e che ha influenzato in maniera determinante il sistema legislativo israeliano), la Corte dovrebbe astenersi dall’interferire.

In Inghilterra, la Corte Suprema non è autorizzata a invalidare le leggi, ma solo a sottoporle a ulteriore discussione in parlamento, ricordano i sostenitori della Clausola di superamento.
Cosa dicono gli oppositori?

1. L’ultima parola spetta alla Corte e una Knesset onnipotente è un pericolo

Secondo gli oppositori invece, nel formato proposto, in cui è richiesta la maggioranza di 61 membri della Knesset, qualsiasi coalizione potrà annullare le sentenze della Corte Suprema. Ciò significa l’annullamento della capacità della Corte di proteggere efficacemente i diritti individuali dei cittadini israeliani. In altre parole, la Knesset diverrebbe onnipotente, senza che la magistratura possa limitare il potere della Knesset nei casi di violazione dei diritti degli individui o dei diritti delle minoranze in Israele.

2. Il ruolo della Corte Suprema in Israele

Gli oppositori sostengono che la Corte Suprema in Israele rivesta un ruolo fondamentale per la difesa dei diritti delle minoranze. Ricordano che, fra le 21 leggi che la Corte Suprema ha invalidato, una grande parte riguarda i diritti delle minoranze e che la loro protezione è un principio importante della democrazia israeliana. Il giurista Alan Dershowiz infatti ha affermato che: “La magistratura in Israele è il gioiello della democrazia israeliana. Sarebbe una tragedia terribile se l’indipendenza della Corte Suprema fosse ridotta in qualsiasi misura dalle azioni della Knesset”.

Ricordano anche che Israele non ha una Costituzione formalmente radicata, un assetto parlamentare bicamerale o un Presidente eletto da un voto popolare separato che esercita il potere esecutivo. Né esiste alcun decentramento, sotto forma di un sistema federale o di elezioni elettorali, o altri meccanismi che potrebbero fornire controlli ed equilibri, come, per esempio, l’accettazione dell’autorità dei tribunali internazionali.

Inoltre, sostengono che, siccome la maggior parte delle Leggi Fondamentali può essere modificata dalla Knesset con maggioranza semplice di 61 membri, la futura Costituzione già debole e l’unico garante della democrazia israeliana rimanga quindi la Corte Suprema. “La Clausola di superamento renderebbe quindi la futura Costituzione irrilevante” spiega Amir Fuchs dell’Istituto Israeliano per la Democrazia.

3. Il modello inglese e l’assenza di una Costituzione

Gli oppositori sostengono che in assenza di una Costituzione bisogna rispettare quanto fu deciso dalla Corte suprema nella sentenza Mizrahi e nelle parole del Giudice Shamgar contenute nella sentenza: “La legislazione in Israele è strutturata secondo una scala normativa. In cima alla scala c’è la Legislazione Costituzionale. La nostra legislazione costituzionale è attualmente espressa in Leggi Fondamentali. Questi si uniranno un giorno in una Costituzione completa e integrata… Il supremo legislatore sovrano è la Knesset: questa è autorizzata a promulgare una legislazione costituzionale ed è autorizzata ad emanare la legislazione ordinaria. È inoltre autorizzata a stabilire regolamenti se lo prevede la legge… L’autorità di controllo legale della costituzionalità della legislazione è nelle mani della Corte” (traduzione dall’ebraico del sottoscritto).

Inoltre, sostengono che il confronto con l’Inghilterra non dovrebbe essere fatto perché Israele è uno Stato autonomo e perché vi sono differenze dal punto di vista del diritto comparato . Fra queste:

Il fatto che in Inghilterra, a differenza che in Israele, vi siano due Camere del Parlamento e che la Camera superiore (la casa dei Lord) possa mettere a discussione le leggi emanate dalla Camera bassa.
Il fatto che l’Inghilterra sia firmataria della Convenzione europea la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali o CEDU (da notare che, anche dopo la Brexit, ci si possa appellare alla Corte europea per i diritti dell’uomo)
Il fatto che in Inghilterra non vi siano Leggi fondamentali.
Il fatto che il Parlamento inglese ha approvato un totale di 450 leggi nel primo decennio degli anni 2000 mentre la Knesset ha promulgato 1927 leggi all’ incirca nello stesso periodo (dalla quindicesima alla diciottesima Knesset).

In conclusione

In fin dei conti, la battaglia sulla Clausola di superamento non è che un problema di filosofia politica sull’antica questione della separazione dei poteri. In una realtà complessa come quella israeliana, questo vivace dibattito di per sé rappresenta una ulteriore conferma del buono stato di salute della democrazia israeliana.

*Michael Sierra – Laureato in giurisprudenza e relazioni internazionali (LLB +LLM) con lode alla Hebrew university, praticante nello studio legale Agmon & Co., Rosenberg Hacohen & Co. e research & teaching assistant di alcuni professori alla Hebrew University. È inoltre, fondatore del movimento giovanile della Comunità italiana in Israele (Giovane Kehila) e Consigliere della Comunità italiana in Israele (Hevrat Yehudei Italia be Israel). In passato ha lavorato nel dipartimento di ricerca della Corte Suprema

Grazie a R. Turiel e R. e F. Ventura per la collaborazione



La soluzione a due stati auspicata dalla sinistra, dagli ebrei non israeliani, da quelli israeliani e dai democratici occidentali; con cessione della Giudea e della Samaria (dette Cisgiordania) ai palestinesi.

NUOVO APPELLO DI JCALL : SALVARE LA DEMOCRAZIA IN ISRAELE
David Chemla
Dicembre 2022

https://it.jcall.eu/attualita/articles/ ... in-israele

Abbiamo lanciato l’Appello alla ragione fondativo di JCall nel 2010 profondamente preoccupati per l’esistenza di Israele. Scrivevamo allora che “senza sottovalutare la minaccia esterna, il pericolo giaceva anche nell’occupazione e nell’espansione ininterrotta degli insediamenti in Cisgiordania e a Gerusalemme est. Solo la fine dell’occupazione e la creazione di uno stato palestinese al lato di Israele possono garantire ad esso un futuro di stato democratico con maggioranza ebraica. Il persistere dell’occupazione condurrà invece ad una scelta illusoria fra due assetti perversi : uno stato binazionale fonte di una permanente guerra civile o uno stato esclusivamente ebraico che condurrebbe ad un regime di apartheid verso i palestinesi. Dodici anni dopo la situazione si è aggravata. A ciò si aggiunge oggi una minaccia immediata che incombe sulla democrazia. Le elezioni del 1 novembre svoltesi nel rispetto delle regole democratiche e della libertà di voto hanno prodotto una maggioranza pur debole ad una coalizione nella quale alcune componenti mettono in questione le fondamenta stessa della democrazia nel paese. Fin dalla sua creazione e malgrado lo stato di guerra e le continue minacce esterne lo stato di Israele ha saputo rispettare sino ad oggi lettera e spirito dei valori sui quali poggia la Dichiarazione di indipendenza. Oggi se il governo in formazione decidesse di dare attuazione alle misure previste dagli accordi fra i partiti della coalizione Israele rischia di violare le sue stesse fondamenta.

Una democrazia non è definita soltanto in virtu’ del potere della maggioranza eletta in libere elezioni, ma anche dell’esistenza di contrappesi – una costituzione e un parlamento composta di una o due camere. In Israele dove il parlamento è composto di una unica camera 8la Knesset), non vi è una costituzione ma vi sono leggi fondamentali alle quali devono conformarsi i testi di legge approvati dalla Knesset.. Il solo organo deputato a giudicare tale conformità è la Corte suprema : essa può deliberare che una legge approvata dalla Knesset è contraria ad una delle leggi fondamentali e quindi annullarla. Oggi alcuni esponenti della coalizione di maggioranza dichiarano la loro intenzione di modificare il potere di controllo della corte consentendo ad una semplice maggioranza di deputati (metà piu’ uno) di ripristinare una legge che la Corte abbia respinto.

Una democrazia si definisce non solo per il potere della maggioranza, ma anche per il rispetto dei diritti delle minoranze. I padri fondatori di Israele lo avevano previsto avendo stabilito nella Dichiarazione di indipendenza che il nuovo stato avrebbe assicurato “la piena eguaglianza di diritti sociali e politici a tutti i cittadini, senza distinzione di credo, razza o sesso”. Oggi nella nuova maggioranza vi sono individui autori di affermazioni razziste contro gli arabi nonché di posizioni omofobe.

I padri fondatori avevano inoltre affermato nella stessa Dichiarazione che il futuro stato sarebbe stato “aperto all’immigrazione di ebrei da tutti paesi in cui essi sono dispersi” evitando di definire “chi è ebreo”. Questo principio ha condotto alla Legge del ritorno che ha permesso dopo 74 anni a milioni di ebrei di immigrare in Israele. Ora alcuni esponenti della coalizione esigono una modifica della legge al fine di privare nuovi immigrati (e ad immigrati già insediatisi nel paese) lo status di ebrei. Vogliono altresì adottare misure che prevedano la separazione fra donne e uomini in eventi pubblici finanziati con fondi dello stato . Se questi piani fossero approvati, ne conseguirebbe una frattura profonda fra Israele e l’ebraismo della Diaspora che rimetterebbe in questione le stesse fondamenta del progetto sionista all’origine del paese.

Inoltre il progetto di modificare lo status quo vigente dal 1967 sul Monte del tempio a Gerusalemme permettendo ad ebrei di pregare in quel luogo – così come proposto dal nuovo ministro della sicurezza nazionale – rischia di infiammare la Cisgiordania e forse l’intera regione del Medio Oriente.

Per tutte queste ragioni abbiamo deciso di rilanciare oggi il nostro appello alla ragione indirizzato ai governanti israeliani perché non dimentichino le fondamenta del paese di cui esercitano oggi la responsabilità politica. Israele appartiene a coloro che vi abitano. Ma gli ebrei della Diaspora, legati come sono indissolubilmente alla sua esistenza in sicurezza, possono e devono, in nome di tale legame e del sostegno che ad esso offrono allorchè necessario, esprimere la loro preoccupazione circa tali derive antidemocratiche. Esse costituirebbero il vero pericolo per il futuro del paese. Per questo motivo siamo al fianco di cittadini e movimenti della società civile in Israele che si stanno mobilitando a difesa della democrazia e chiediamo a coloro che si riconoscono nei principi di questo appello di firmarlo e diffonderlo raccogliendo ulteriori adesioni.




L'amministrazione Biden e l'illusione della soluzione dei due Stati
Bassam Tawil
28 dicembre 2022
https://it.gatestoneinstitute.org/19270 ... -due-stati
I risultati di diversi sondaggi di opinione pubblica, incluso il più recente, dimostrano ciò che la maggior parte dei palestinesi vuole: uccidere più ebrei e annientare Israele. La crescente popolarità di Hamas fra i palestinesi è un chiaro segno che la maggior parte di loro si identifica con l'obiettivo del gruppo islamista di distruggere Israele. Nella foto: uomini armati di Hamas sfilano su camion con a bordo razzi, in una strada a Khan Yunis, nel sud della Striscia di Gaza, il 27 maggio 2021. (Foto di Thomas Coex/AFP via Getty Images)

Alcuni giorni dopo che il segretario di Stato americano Antony Blinken ha riaffermato l'impegno dell'amministrazione Biden per la "soluzione dei due Stati", i palestinesi hanno risposto reiterando il loro rigetto dell'idea e il sostegno a intensificare le azioni terroristiche contro Israele.

La risposta palestinese è arrivata attraverso un sondaggio di opinione pubblicato il 13 dicembre dal Centro Palestinese per la Ricerca Politica e d'Indagine (PCPSR) e le dichiarazioni di Hamas, il gruppo islamista palestinese che controlla la Striscia di Gaza.

Il sondaggio ha rilevato che il 69 per cento dei palestinesi ritiene che la "soluzione dei due Stati" non sia più funzionale né fattibile. Un altro 72 per cento è convinto che nei prossimi cinque anni le opportunità di creare uno Stato palestinese a fianco di Israele sono scarse o inesistenti.

In breve, i palestinesi dicono a Blinken e all'amministrazione Biden che entrambi possono continuare a fantasticare sulla soluzione dei due Stati per tutto il tempo che desiderano, ma il popolo palestinese preferisce "la lotta armata" e il terrorismo ai negoziati di pace con Israele.

Alla domanda sui mezzi più efficaci per costruire uno Stato indipendente, il 51 per cento dei palestinesi intervistati ha risposto: la "lotta armata". Un altro 55 per cento si è detto favorevole a una recrudescenza degli scontri armati e a un'intifada (una rivolta) contro Israele.

Ancora più preoccupante è che il 72 per cento dell'opinione pubblica palestinese è a favore della formazione di gruppi terroristici come Lions' Den, i cui membri negli ultimi mesi hanno condotto nel nord della Cisgiordania attacchi con armi da fuoco contro soldati e civili israeliani.

All'inizio di questo mese, Blinken ha dichiarato in un discorso alla J Street National Conference che l'amministrazione Biden continuerà a lottare per "realizzare l'obiettivo duraturo di avere due Stati". E ha aggiunto:

"Appoggiamo questa visione perché è pragmatica. Continuiamo a credere, come ha detto il Presidente durante il suo viaggio in Terra Santa della scorsa estate, che i due Stati, creati entro i confini del 1967, con scambi mutualmente concordati, rimangono il modo migliore per raggiungere il nostro obiettivo di israeliani e palestinesi che vivono fianco a fianco in pace e in sicurezza".

Il mese scorso, nel corso di una telefonata al presidente dell'Autorità Palestinese Mahmoud Abbas, il segretario di Stato americano ha ribadito il sogno dell'amministrazione Biden di dare un riscontro concreto alla soluzione dei due Stati, soprattutto lungo i confini notoriamente indifendibili stabiliti con l'armistizio del 1949, dove i combattimenti all'epoca finirono per fermarsi.

I risultati di diversi sondaggi, incluso il più recente, dimostrano che Blinken e il suo team s'illudono o semplicemente non riescono a comprendere né a vedere ciò che la maggior parte dei palestinesi vuole: uccidere più ebrei e annientare Israele.

Questo non è il primo sondaggio che mostra che la maggioranza dei palestinesi si oppone alla "soluzione dei due Stati". Ciò è dovuto al fatto che essi chiedono a gran voce uno Stato palestinese non al fianco di Israele, ma al posto di Israele.

Inoltre, questo non è il primo sondaggio che mostra che la maggior parte dei palestinesi continua a sostenere Hamas, il gruppo terroristico il cui statuto invoca apertamente il jihad (la guerra santa) e l'eliminazione di Israele.

Lo statuto di Hamas cita quanto asserito dal fondatore spirituale dei Fratelli Musulmani Hassan al-Banna: "Israele esisterà e rimarrà in esistenza finché l'Islam non lo annienterà, così come ha annientato altri prima di lui".

La crescente popolarità di Hamas tra i palestinesi è un chiaro segno che la maggior parte di loro si identifica con l'obiettivo del gruppo islamista di distruggere Israele.

Come Hamas, questi palestinesi vogliono rimpiazzare Israele con uno stato islamista i cui confini si estendono dal fiume Giordano al Mar Mediterraneo.

Secondo l'ultimo sondaggio, se oggi si tenessero nuove elezioni presidenziali dell'Autorità Palestinese, l'interlocutore palestinese preferito dall'amministrazione Biden, Mahmoud Abbas, otterrebbe il 36 per cento dei consensi e il leader di Hamas Ismail Haniyeh riceverebbe il 54 per cento delle preferenze. Inoltre, il 75 per cento ha dichiarato di volere le dimissioni dell'87enne Abbas.

Sarebbe stata una buona idea se Blinken avesse ascoltato quanto chiaramente affermato dai leader di Hamas nei giorni scorsi durante i comizi per celebrare il 35° anniversario della fondazione della loro organizzazione. I dirigenti di Hamas hanno reiterato le loro minacce di "sradicare il nemico sionista" da Israele attraverso il terrorismo. Hanno anche elogiato i gruppi terroristici in azione nelle aree della Cisgiordania che stanno compiendo attacchi contro gli israeliani.

In occasione dell'anniversario, il 14 dicembre, Hamas ha rilasciato una dichiarazione che sostanzialmente confuta le affermazioni di alcuni occidentali secondo cui è diventato un gruppo "moderato" pronto ad accettare "la soluzione dei due Stati":

"Nel 35° anniversario della sua fondazione, il Movimento di resistenza islamica [Hamas] conferma quanto segue: la Palestina, dal suo fiume [Giordano] al suo Mare [Mediterraneo], è la terra del popolo palestinese. Continueremo ad aggrapparci assolutamente, e ad appigliarci al nostro diritto legittimo di difenderla e liberarla con tutti i mezzi possibili, soprattutto la resistenza armata".

Se i palestinesi avessero voluto davvero avere il proprio Stato a fianco di Israele, avrebbero potuto farlo molti anni fa. Invece, Mahmoud Abbas e il suo predecessore, Yasser Arafat, hanno rifiutato tutte le offerte di pace ricevute dai leader israeliani negli ultimi 22 anni, senza nemmeno avanzare una controfferta.

"Il rifiuto palestinese ha vinto ogni volta che una partizione concreta era all'ordine del giorno, come quella proposta dall'ex primo ministro Ehud Barak nel 2000 o quella ventilata dal premier Ehud Olmert nel 2007", ha affermato Efraim Inbar, presidente del Jerusalem Institute for Strategy and Security. "Qualsiasi Stato palestinese sarà insoddisfatto dei suoi confini e intenzionato a usare la forza per raggiungere i propri obiettivi".

La proposta fatta da Barak a Yasser Arafat comprendeva la creazione di uno Stato palestinese su circa il 92 per cento della Cisgiordania e sul 100 per cento della Striscia di Gaza, nonché l'istituzione di una capitale palestinese a Gerusalemme Est. Arafat rifiutò.

Blinken e i suoi consiglieri potrebbero imparare molto dall'ex presidente degli Stati Uniti Bill Clinton, che ospitò il vertice per la pace del 2000 a Camp David. In quell'occasione, Arafat respinse la generosa offerta ricevuta da Barak. Al suo rifiuto, Clinton perse le staffe e disse: "Stai portando il tuo popolo e la regione alla catastrofe".

Da allora, i palestinesi hanno fatto del loro meglio per adempiere la profezia di Clinton. Continuano a ricorrere al terrorismo, glorificano i terroristi, sostengono finanziariamente le loro famiglie e appoggiano Hamas nel suo jihad volto a distruggere Israele.

Chiunque sostenga la creazione di uno Stato palestinese spianerebbe la strada ai palestinesi per utilizzare la Cisgiordania e la Striscia di Gaza come trampolino di lancio per attaccare e distruggere Israele.

L'ultima cosa di cui Israele e i suoi vicini arabi hanno bisogno è uno Stato terroristico controllato dall'Iran in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza che verrebbe usato per lanciare attacchi sia contro gli israeliani sia contro gli arabi. Un tale Stato sarebbe una ricetta per la guerra, e non per la pace in Medio Oriente.

Oggi, è evidente che per molti palestinesi il desiderio di uccidere gli ebrei e di eliminare Israele resta immutato, più importante della costruzione di uno Stato che vivrebbe in pace e in sicurezza al fianco di Israele. È giunto il momento che l'amministrazione Biden si renda conto del fatto che Clinton aveva capito più di venti anni fa che il rifiuto dei leader palestinesi sta trascinando il popolo palestinese e l'intero Medio Oriente verso un futuro sanguinoso e senza prospettive.

Per capovolgere il problema, la comunità internazionale, a cominciare dagli Stati Uniti, deve insistere sul fatto che qualsiasi aiuto sia strettamente condizionato all'abbandono da parte dei palestinesi dei loro appelli al terrorismo, che ora infestano l'intera società palestinese, anche nei cruciverba. In caso di mancanza di ottemperanza alle norme, i pagamenti devono essere bloccati. Se una persona va in banca a chiedere un prestito, ci sono delle condizioni connesse, e allora perché questo non vale per gli aiuti finanziari? Diversamente, tutti i sostegni finanziari che non "scompaiono" verranno apertamente utilizzati per finanziare il terrorismo, il jihad e l'uccisione degli ebrei.

Bassam Tawil è un musulmano che vive e lavora in Medio Oriente.


Il 65% dei palestinesi non vuole soluzione a due stati, il 53% preferisce lotta armata
Riccardo Ghezzi
1 Gennaio 2017

http://www.linformale.eu/il-65-dei-pale ... ta-armata/

Il giornalista arabo israeliano Khaled Abu Toameh sabato scorso ha twittato una serie di dati riguardanti l’opinione pubblica araba e la situazione in Giudea, Samaria e Gaza, tra cui una dichiarazione del presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese, Mahmoud Abbas, che ha fatto sapere di essere pronto a lavorare con l’amministrazione Trump per raggiungere un accordo di pace sulla base di una soluzione a due stati e la disponibilità di riconoscere ad Israele il diritto di esistere. Questo significherebbe che Israele dovrebbe restituire interamente i cosiddetti “territori liberati” del 1967 in cambio del riconoscimento da parte degli stati arabi.
Allo stesso tempo, secondo Abu Toameh, il 64% dei palestinesi vorrebbe le dimissioni di Abbas. Anche se i tweet del giornalista che riportano i risultati del sondaggio risultano senza fonte, Abu Toameh è considerato un professionista affidabile ed imparziale.
Sempre secondo il giornalista, lo stesso sondaggio ha rilevato che il 65% degli arabi che vivono nei territori dell’Autorità Nazionale Palestinesi ritiene che la soluzione a due stati non sia più praticabile e il 62% sarebbe favorevole ad abbandonare gli accordi di Oslo. Addirittura il 53% di loro sarebbe disposto a sostenere una intifada armata contro Israele.
Infine, secondo Abu Toameh, il 37% degli arabi che vivono nei territori dell’Autorità Nazionale Palestinese ritiene che un’azione armata contro Israele possa risultare la soluzione più efficace per ottenere risultati, mentre i negoziati finalizzati a riconoscere uno stato palestinese sarebbero una buona idea solo per il 33% di loro.
Cola a picco quindi la popolarità di Mahmoud Abbas detto Abu Mazen, anche nei territori della cosiddetta West Bank. L’attuale presidente dell’ANP sarebbe considerato troppo moderato dalla maggioranza della popolazione araba palestinese. La maggior parte degli arabi che popolano i territori della Cisgiordania ora rinnega gli accordi di Oslo e soprattutto preferirebbe una lotta armata ad un qualsiasi tentativo di negoziato per giungere alla soluzione a due stati.

Pipes: "Perché Bibi non crede nella carta dei due Stati"
Benjamin Netanyahu ha detto che Israele non lascerà le colonie dela Cisgiordania
«È una soluzione superata, i palestinesi sono divisi»
MAURIZIO MOLINARI
DAL CORRISPONDENTE A NEW YORK
1/2/2010 (7:19) - INTERVISTA

http://www1.lastampa.it/redazione/cmsSe ... girata.asp

La soluzione dei due Stati è morta e sepolta, bisogna immaginare soluzioni alternative». Così Daniel Pipes, direttore del «Middle East Forum» molto ferrato sul clima politico in Israele, descrive «che cosa c’è nella mente di Benjamin Netanyahu» in merito al negoziato con l’Autorità palestinese.

Perché le trattative fra Israele e palestinesi non riprendono?
«In maggio il segretario di Stato Hillary Clinton propose come base per la trattativa il congelamento totale degli insediamenti israeliani in Cisgiordania, trovando il totale consenso di Abu Mazen, ma poi in settembre Washington ha cambiato idea, accettando la proposta di Netanyahu di un congelamento limitato a 10 mesi mentre Abu Mazen l’ha rifiutata. Il rovesciamento di posizione degli Usa è all’origine del corto circuito fra Israele e Anp. Al momento Usa e Israele hanno la stessa posizione mentre l’Anp ne ha una differente».

Quale idea ha Netanyahu di una composizione del conflitto?
«L’ultima proposta che ha fatto è stata quella di far permanere l’esercito israeliano in Cisgiordania dopo l’eventuale nascita dello Stato palestinese. È da qui che bisogna partire per comprendere Netanyahu».

Perché è così importante?
«Il motivo per cui Netanyahu vuole lasciare contingenti di truppe è evitare il ripetersi del precedente della Striscia di Gaza, dove il completo ritiro israeliano ha consentito ai gruppi terroristici di trasformare quel territorio in una base per lanciare attacchi contro Israele. C’è forte consenso fra gli israeliani su questa richiesta, nessuno vuole una nuova Gaza in Cisgiordania, ma i palestinesi non ne vogliono sapere e questo ha messo la pietra tombale su un negoziato neanche iniziato».

Nelle ultime settimane Netanyahu è andato a piantare alberi in diversi insediamenti affermando che non saranno mai restituiti. Che cosa sta tentando di ottenere con tali iniziative?
«Punta a rassicurare la destra della sua coalizione di governo che si oppone radicalmente al piano di congelamento totale per dieci mesi. Netanyahu sa che il suo governo sopravvive grazie al sostegno del Likud e dei partiti di destra e vuole provare loro con i fatti che non intende restituire gli insediamenti che hanno una posizione strategica per la sicurezza nazionale, che sono poi i più popolosi».

Insomma, la soluzione dei due Stati non appare vicina...
«Direi che è morta e sepolta. I palestinesi sono divisi fra Gaza nelle mani di Hamas e la West Bank gestita da un debole Abu Mazen e sono in disaccordo sulla scelta di negoziare perché Hamas persegue ancora l’opzione militare, mentre in Israele Netanyahu non ha mai fatto mistero di non considerare una priorità la nascita dello Stato di Palestina. Soprattutto dopo le conseguenze molto negative del ritiro da Gaza».

Vi sono opzioni alternative per sancire una convivenza stabile fra israeliani e palestinesi?
«Di certo c’è solo che la soluzione dei due Stati non si regge in piedi. In assenza di ricette alternative, l’unica soluzione per guardare al futuro è nell’ispirarsi al passato, ovvero nell’ipotizzare un coinvolgimento dell’Egitto nella gestione di Gaza e della Giordania per la West Bank. Magari con il sostegno di altri Stati arabi, come l’Arabia Saudita o la Tunisia. Chi ha idee alternative è invitato a farsi avanti».

Sul fronte del negoziato Israele-Siria ci sono più spiragli?
«Nel 1998-1999 Netanyahu era pronto all’accordo di pace con Hafez Assad. Fu solo l’opposizione di Ariel Sharon a fermarlo. Dunque è lecito supporre che quel compromesso di pace con la Siria potrebbe essere ritentato adesso. C’è però l’incognita di Bashar, figlio di Hafez, che oggi guida la Siria con meno autorità e più incertezze del padre».




Due Palestine, una qualsiasi?
Daniel Pipes
New York Sun
19 giugno 2007

https://it.danielpipes.org/4649/due-pal ... -qualsiasi

La vittoria riportata il 14 giugno a Gaza da Hamas su Fatah, riveste una grossa importanza per i palestinesi, per il movimento islamista e per gli Stati Uniti. Invece, per Israele è meno rilevante.

Le tensioni esistenti tra Hamas e Fatah probabilmente perdureranno e con esse la spaccatura tra la Cisgiordania e Gaza. La comparsa di due entità rivali, dette "Hamastan" e "Fatahland", culmina in una tensione a lungo sommersa; nell'osservare nel 2001 le fissipare tendenze delle due province, Jonathan Schanzer preconizzò che la divisione geografica dell'Autorità palestinese (AP) "non avrebbe dovuto destare sorprese". Ma i successivi eventi vanificarono simili tendenze:

L'anarchia palestinese, che ebbe origine agli inizi del 2004, ha sfornato capi-clan e delinquenziali signori della guerra.
La morte di Yasser Arafat, sopravvenuta nel novembre 2004, ha eliminato la sua figura straordinariamente malvagia, l'unica in grado di poter ridurre le distanze tra le due province.
Il ritiro israeliano da Gaza, avvenuto a metà del 2005, ha privato Gaza del suo unico elemento stabilizzante.
La vittoria riportata da Hamas alle elezioni indette dall'AP nel gennaio 2006 ha fornito una solida base dalla quale sfidare Fatah.

Presumendo che Fatah rimanga al potere in Cisgiordania (dove sta provvedendo all'arresto di 1.500 operativi di Hamas), due fazioni rivali rimpiazzeranno la monocratica AP. Vista l'opportunistica natura del nazionalismo palestinese e le sue recenti origini (che risalgono per l'esattezza agli anni Venti), questa biforcazione riveste potenzialmente una grossa importanza. Come da me osservato, avendo la supremazia del termine "Palestina" delle radici superficiali, essa sarebbe potuta "giungere a una fine rapida, così come rapido è stato il suo sorgere". Alternative affiliazioni includono il pan-Islamismo, il nazionalismo pan-arabo, l'Egitto, la Giordania oppure tribù e clan.

A livello internazionale, Fatah e Hamas, commettendo dei crimini di guerra gli uni contro gli altri, demoliscono un supremo mito della politica moderna: la vittimizzazione palestinese. Inoltre, dal momento che due "Palestine" si disputano il controllo (vale a dire del seggio delle Nazioni Unite assegnato all'OLP), essi danneggiano un secondo mito: quello di uno Stato palestinese. "I palestinesi sono prossimi ad auto-conficcarsi l'ultimo chiodo della bara della causa palestinese", osserva il ministro degli Esteri saudita Saud al-Faisal. Un giornalista palestinese commenta in modo sarcastico: "Finalmente funziona la soluzione a due Stati".

Di contro, il movimento islamista ci guadagna. Erigere un bastione nella Striscia di Gaza offre ad esso una testa di ponte nel cuore del Medio Oriente, dalla quale infiltrarsi in Egitto, Israele e in Cisgiordania. Il trionfo di Hamas offre altresì un incoraggiamento psicologico per gli islamisti a livello globale. Per la stessa ragione, ciò rappresenta un segnale della sconfitta occidentale nella "guerra al terrore", che rivela in modo brutale la poco lungimirante e irresponsabile politica del ritiro unilaterale da Gaza attuata da Ariel Sharon, come pure l'incurante rush elettorale dell'amministrazione Bush.

Un miliziano di Hamas, ripreso in un momento di relax all'interno di una struttura di Fatah.

Quanto a Israele, esso affronta la medesima minaccia esistenziale di prima. Lo Stato ebraico ci guadagna dal pressoché isolamento di Hamas attuato da parte dell'Occidente, dalla frammentazione del movimento palestinese e dal fatto che a Gaza esista un univoco indirizzo politico. Inoltre, Israele beneficia del fatto di avere un nemico il cui obiettivo palese è quello di distruggere lo Stato ebraico, e non ne fa segreto, come invece fa Fatah. (Fatah parla con Gerusalemme mentre uccide gli israeliani, Hamas invece uccide gli israeliani, senza negoziati; Fatah non è moderato, piuttosto è astuto. Hamas è puramente ideologico.) Ma Israele ne farà le spese quando il fervore, la disciplina e l'intransigente coerenza dell'Islam totalitario rimpiazzeranno l'incoerente guazzabuglio arafatiano di Fatah.

Tra Fatah e Hamas sussistono delle differenze di approccio, di tattiche adottate e di organico. Essi condividono alleati e obiettivi. Teheran rifornisce di armi tanto Hamas quanto Fatah. I terroristi "moderati" di Fatah e i cattivi terroristi di Hamas inculcano entrambi nei bambini il barbarico credo del "martirio". Entrambi concordano nell'obiettivo di eliminare lo Stato ebraico. Nessuno dei due mostra una carta geografica dove è raffigurata Israele e neppure Tel Aviv.

La disponibilità mostrata da Fatah a giocare una pseudo-partita diplomatica induce i creduloni occidentali e dalle idee confuse, inclusi gli israeliani, ad investire in ciò. La follia più recente è stata la decisione di Washington di dare ascolto al coordinatore della sicurezza nella regione, il tenente generale Keith Dayton, e inviare a Fatah 59 milioni di dollari in aiuti militari per combattere Hamas – una linea politica che è risultata essere ancora più stupida quando Hamas ha prontamente sequestrato quei carichi di armi a suo uso e consumo.

Magari, uno di questi giorni, gli "operatori di pace" caratterizzati da un'ingenuità tale da rasentare l'idiozia si accorgeranno della scia di disastri da loro compiuti. Piuttosto che lavorare alacremente per far sì che Fatah e Gerusalemme tornino al tavolo delle trattative, costoro potrebbero cercare di focalizzare la loro attenzione sui sentimenti nutriti da circa l'80 percento dei palestinesi, che stanno ancora cercando di vanificare l'esito della guerra del 1948-49, sconfiggendo il sionismo ed edificando un 22° Stato arabo sulle ceneri di Israele.

Il neo-ministro della Difesa, Ehud Barak, stando a quel che si dice, pianifica di attaccare Hamas nel giro di qualche settimana; ma se Gerusalemme continua a tenere a galla un corrotto e irredentista Fatah (che il premier Ehud Olmert ha di recente definito suo "partner"), non farà altro che aumentare le probabilità che Hamastan finisca per incorporare la Cisgiordania.
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Dalla parte degli ebrei e di Israele che è la loro terra

Messaggioda Berto » ven feb 17, 2023 10:28 pm

Perché gli israeliani evitano la vittoria, di Daniel Pipes
19 ottobre 2018

http://www.linformale.eu/perche-gli-isr ... iel-pipes/

Immaginate che un bel giorno un presidente americano dica a un primo ministro israeliano; “L’estremismo palestinese danneggia la sicurezza americana. Abbiamo bisogno che tu vi ponga fine conseguendo la vittoria sui palestinesi. Fare ciò che serve entro i limiti legali, morali e pratici”. E il presidente continua: “Imponi la tua volontà su di loro, inducili a pensare di essere stati sconfitti in modo che rinuncino al loro sogno settantennale di eliminare Israele. Vinci la tua guerra”.

Come potrebbe rispondere il primo ministro? Coglierà l’attimo e punirà l’incitamento e la violenza sponsorizzati dall’Autorità palestinese (Ap)? Informerebbe Hamas che ogni aggressione porrebbe temporaneamente fine a tutti i rifornimenti di acqua, cibo, medicine ed elettricità?

O declinerebbe l’offerta?

La mia previsione a riguardo è la seguente: dopo intense consultazioni con i servizi di sicurezza israeliani e le accese riunioni di governo, il primo ministro risponderebbe al presidente dicendo: “No grazie, preferiamo lasciare le cose come stanno”.

Davvero? Non è quello che ci si aspetterebbe, visto come l’Ap e Hamas cercano di eliminare lo Stato ebraico, vista la violenza persistente contro gli israeliani e visto come la propaganda palestinese danneggia la posizione internazionale di Israele. Sì. E per quattro ragioni: una diffusa convinzione israeliana che la prosperità mini l’ideologia, la soggezione della determinazione palestinese, il senso di colpa ebraico e la riluttanza dei servizi di sicurezza. Ognuna di queste argomentazioni può essere facilmente confutata.

La prosperità non pone fine all’odio

Molti israeliani ritengono che se i palestinesi traessero sufficienti benefici economici, medici e legali e di altro genere che il sionismo apporta loro, cederanno e accetteranno la presenza ebraica. Fondata sull’assunto marxista secondo cui il denaro è più importante delle idee, questa visione sostiene che le scuole eccellenti, i nuovi modelli di automobili, appartamenti confortevoli siano l’antidoto ai sogni nazionalisti islamisti o palestinesi. Come gli abitanti di Atlanta, i ricchi palestinesi saranno troppo occupati per odiare.

Questa idea ebbe origine oltre un secolo fa, raggiunse il culmine all’epoca degli accordi di Oslo del 1993 ed è strettamente associata all’ex ministro degli Esteri Shimon Peres, autore del libro Il Nuovo Medio Oriente. Peres mirava a trasformare Israele, la Giordania e i palestinesi in una versione mediorientale del Benelux. Ancora più grandiosa, la sua visione sperava di emulare l’accordo franco-tedesco siglato dopo la Seconda guerra mondiale, quando i legami economici servirono a porre fine a una inimicizia storica e a formare alleanze politiche positive.

In questo spirito, i leader israeliani hanno lavorato a lungo per costruire le economie della Cisgiordania e di Gaza. Hanno esercitato pressioni sui governi stranieri per finanziare l’Ap. Hanno aiutato Gaza finanziando l’approvvigionamento di acqua ed elettricità, promuovendo altresì gli impianti di desalinizzazione dell’acqua. Hanno proposto un sostegno internazionale alla creazione di un’isola artificiale al largo delle coste di Gaza con tanto di porto, aeroporto e strutture alberghiere. Hanno persino concesso a Gaza un giacimento di gas.

Ma questi tentativi sono falliti in modo spettacolare. La furia palestinese contro Israele rimane immutata. Inoltre, i gesti di buona volontà non sono stati accolti con gratitudine, ma con rifiuto. Ad esempio, dopo il ritiro unilaterale di tutti gli israeliani da Gaza nel 2005, le serre di questi ultimi sono state consegnate ai palestinesi come un gesto di buona volontà, per poi essere immediatamente saccheggiate e distrutte.

Forse quelli più eclatanti sono i casi dei palestinesi ricoverati negli ospedali israeliani che mostrano la loro gratitudine tentando di uccidere i loro benefattori. Nel 2005, una donna di Gaza di 21 anni fu curata con successo dopo aver riportato delle ustioni in seguito all’esplosione di un serbatoio di benzina, per poi restituire il favore tentando di attaccare l’ospedale con un attentato suicida. Nel 2011, una madre di Gaza il cui figlio aveva una malattia del sistema immunitario ed era stato salvato in un ospedale israeliano disse davanti a una telecamera che voleva che il bambino crescendo diventasse un attentatore suicida. Nel 2017, due sorelle entrate in Israele da Gaza affinché una delle due si sottoponesse a delle cure contro il cancro hanno tentato di contrabbandare esplosivi per conto di Hamas.

Perché questi tentativi sono falliti? Il modello franco-tedesco includeva un fattore non presente nella scena israelo-palestinese: la disfatta dei nazisti. La conciliazione non avvenne con Hitler ancora al potere, ma dopo che lui e i suoi obiettivi erano stati polverizzati. Al contrario, la grande maggioranza dei palestinesi crede ancora di potere vincere (ossia di eliminare lo Stato ebraico). Questi palestinesi vedono anche con sospetto gli sforzi volti a costruire la loro economia, mentre Israele ottiene in modo subdolo il controllo egemonico.

Già nel 1923, il leader sionista Vladimir Jabotinsky previde questo fallimento, definendo infantile “pensare che gli arabi acconsentiranno volontariamente alla realizzazione del sionismo in cambio dei vantaggi culturali e economici che potremo accordare loro”.

Più in generale, l’aver incrementato i finanziamenti ai palestinesi non ha creato consumismo e individualismo, ma rabbia. Come ci si potrebbe aspettare, aiutare un nemico a sviluppare la sua economia mentre la guerra è ancora in corso, significa fornirgli le risorse necessarie per continuare a combattere. Il denaro è stato utilizzato per incitare, indottrinare al “martirio”, acquistare armi e costruire tunnel per compiere attacchi terroristici. Una decina di anni fa, Steve Stotsky dimostrò la stretta correlazione esistente tra i finanziamenti per l’Autorità palestinese e gli attacchi contro gli israeliani; ogni 1,25 milioni di euro in aiuti, come da Stotsky riportato sul grafico, si sono tradotti nell’uccisione di un israeliano l’anno.

Nonostante la perenne delusione,, persiste la convinzione israeliana legata all’idea che la prosperità palestinese conduca alla conciliazione. Ovviamente, la vittoria non desta alcun interesse negli israeliani che sognano, per quanto tristemente, la magia dei nuovi modelli di automobili.

Le guerre finiscono, come mostra l’esperienza storica, non arricchendo il nemico, ma privandolo delle risorse, riducendo le sue capacità militari, demoralizzando i suoi sostenitori e incoraggiando le rivolte popolari. A tal fine, gli eserciti, nel corso degli anni, hanno tagliato le strade per i rifornimenti, costretto le città alla fame, stabilito blocchi e applicato embarghi. In questo spirito, se Israele avesse intrapreso una guerra economica trattenendo alla fonte il denaro dei contribuenti, negando l’accesso ai lavoratori e interrompendo le vendite di acqua, cibo, medicine ed elettricità, le sue azioni avrebbero portato alla vittoria.

Quanto all’argomento secondo cui la rovina economica palestinese porta a più violenza, beh, è una fandonia. Solo le persone che sperano ancora di vincere continuano con la violenza; coloro che hanno perso si arrendono, si leccano le ferite e cominciano a ricostruire intorno ai loro fallimenti. Si pensi all’America del Sud nel 1865, al Giappone nel 1945 e agli Stati Uniti nel 1975.

La determinazione palestinese

Alcuni osservatori sostengono che la resilienza (sumud) palestinese sia troppo vivace per una vittoria israeliana. In una lettera dell’aprile 2017 indirizzata al sottoscritto, lo storico Martin Kramer spiegava così questa visione:

Nel 1948, metà della popolazione palestinese (700 mila) fuggì. Ogni centimetro della Palestina fu perso nel 1967, quando altri 250mila palestinesi fuggirono. Il loro movimento di “liberazione” fu successivamente guidato da una forza schiacciante dalla Giordania e dal Libano. Secondo i palestinesi, gli israeliani uccisero il loro leader-eroe, Arafat. Tuttavia, nulla di tutto questo li ha persuasi del fatto che loro sconfitta fosse definitiva. In questa luce, non so come le misure relativamente modeste che Israele può prendere in tempo di pace potrebbero convincerli che hanno perso.

Se i palestinesi hanno sopportato un secolo di batoste, come afferma questa linea di pensiero, sono in grado di assorbire tutto ciò che ora Israele offre loro. Qualunque sia la ragione – la fede islamica; l’influenza duratura di Amin al-Husseini; l’unica rete di sostegno globale – questa straordinaria forza d’animo indica che la determinazione palestinese non si spezzerà.

La risposta a questo? Israele era sulla buona strada per la vittoria fra il 1948 e il 1993, ma poi i disastrosi accordi di Oslo lo fecero deragliare. La determinazione palestinese fu distrutta nel 1993, in seguito al crollo sovietico e alla sconfitta di Saddam Hussein, quando Arafat strinse la mano del primo ministro israeliano e riconobbe Israele.

Poi, anziché basarsi su questa vittoria, gli israeliani procedettero al ritiro unilaterale dal territorio (Gaza-Gerico nel 1994, Aree A e B della Cisgiordania nel 1995, Libano nel 2000 e Gaza nel 2005), e questo fece credere ai palestinesi di aver vinto. Dopo questi ritiri, nel 2007, Gerusalemme abbandonò qualsiasi piano a lungo termine e affrontò i problemi più impellenti. Qual è, dunque, l’attuale obiettivo di Israele per Gaza? Non ne ha nessuno.

Pertanto, la storia israeliana si divide in 45 anni volti a puntare alla vittoria e 25 anni di confusione. Ritornare all’obiettivo della vittoria rimedierà a quegli errori.

Il senso di colpa ebraico

Essendo i più perseguitati della storia – vittime di persecuzioni religiose, razzismo, pogrom e dell’Olocausto – gli ebrei hanno sviluppato un forte senso della moralità. La prospettiva di costringere i palestinesi a sopportare l’amaro crogiolo della sconfitta è un’idea che la maggior parte degli ebrei israeliani e dei loro sostenitori nella Diaspora sono restii a mettere in atto. Prevalentemente, gli ebrei preferirebbero usare la carota anziché il bastone, la ragione e non la coercizione.

Questo aiuta a spiegare perché, durante la guerra tra Hamas e Israele del 2014, la società elettrica israeliana inviò dei tecnici per riparare i cavi elettrici che furono distrutti a Gaza da un razzo lanciato da Hamas, mettendo a rischio la vita dei propri dipendenti.

Allo stesso modo, quando la situazione economica di Gaza è peggiorata all’inizio del 2018, ci si immaginava che gli ebrei israeliani, oggetto delle intenzioni omicide di Hamas, fossero indifferenti o persino compiaciuti dei problemi dei loro nemici. Ma non è stato così. Come recita un titolo: “Mentre Gaza è prossima alla ‘carestia’, Israele, e non il mondo intero, sembra più preoccupato”. In parte, ciò è dovuto a motivi pratici – perché Israele si preoccupa del prezzo che pagherebbe per un collasso economico a Gaza – ma questo ha anche una dimensione morale: i prosperi ebrei di Israele non possono stare a guardare mentre i loro vicini, per quanto ostili, affondano nella melma.

Anche mesi dopo, quando Hamas ha messo a punto il lancio degli aquiloni incendiari e l’esercito israeliano non ha fermato questo attacco, Gadi Eizenkot, capo di stato maggiore dell’Idf, le Forze di difesa israeliane, ha spiegato per quale motivo ciò non sia accaduto, in uno scambio di opinioni con il ministro dell’Istruzione Naftali Bennett, nel corso di una riunione di gabinetto a porte chiuse.

Bennett: Perché non sparare a chi maneggia armi utilizzate per via aerea [palloncini e aquiloni incendiari inclusi] contro le nostre comunità? Non ci sono vincoli legali. Perché non sparargli invece di sparare colpi di avvertimento? Stiamo parlando di terroristi da ogni punto di vista.

Eizenkot: Non penso che sparare a bambini e ragazzi che a volte fanno volare i palloncini e gli aquiloni sia la cosa giusta da fare.

Bennett: E che dire di quelli chiaramente identificati come adulti?

Eizenkot: Proponi da sganciare una bomba su persone che fanno volare palloncini e aquiloni?

Bennett: Sì.

Eizenkot: Questo è contrario alla mia posizione operativa e morale.

Tale “posizione morale” ovviamente ostacola la vittoria.

Tuttavia, mentre le tendenze di voto e i dati dei sondaggi elettorali indicano che questa posizione rimane ferma come sempre tra gli ebrei della Diaspora, soprattutto negli Stati Uniti, gli ebrei israeliani sono diventati più forti e resistenti. Quando le dolorose concessioni fatte ai palestinesi non hanno portato benefici, ma violenza, molti ebrei israeliani hanno perso le speranze nell’approccio delicato ed erano pronti a imporre la loro volontà ai palestinesi attraverso misure approssimative. L’osservazione di Eizenkot ha destato furore. Un recente sondaggio ha mostrato che il 58 per cento degli ebrei israeliani concorda sul fatto che “sarà possibile raggiungere un accordo di pace con i palestinesi, quando questi ultimi riconosceranno di aver perso la loro guerra contro Israele”.

La riluttanza dei servizi di sicurezza

Coesistono due apparati di sicurezza israeliani: uno che combatte per ottenere la vittoria sull’Iran e altri nemici lontani; e uno difensivo, in stile polizia, che si occupa dei palestinesi. Il primo punta alla vittoria, il secondo a mantenere la calma. È Entebbe contro Jenin. È sottrarre l’archivio nucleare dell’Iran contro il lasciare che coloro che lanciano aquiloni incendiari esercitino il loro mestiere.

L’apparato di sicurezza di tipo difensivo conta enormemente perché spesso ha l’ultima parola sulla politica palestinese, come mostrato dall’episodio avvenuto sul Monte del Tempio del luglio 2017. Dopo che i jihadisti palestinesi avevano ucciso due poliziotti israeliani con le armi nascoste nella sacra spianata, il governo israeliano installò dei metal detector all’ingresso del Monte del Tempio, una decisione apparentemente indiscutibile. Ma Fatah chiese la loro rimozione e nonostante la popolazione e i politici israeliani desiderassero nella stragrande maggioranza che questi dispositivi rimanessero posizionati, essi scomparvero rapidamente perché l’apparato di sicurezza – compresi la polizia, la polizia di frontiera, lo Shabak, il Mossad e l’Idf – avvertì che lasciarli in loco avrebbe irritato i palestinesi e provocato violenze, caos e persino un collasso.

I servizi vogliono evitare accoltellamenti, attentati suicidi, una raffica di missili da Gaza e una intifada; ma soprattutto temono il collasso dell’Autorità palestinese o di Hamas, chiedendo un governo diretto israeliano sulla Cisgiordania e Gaza. Come afferma l’ex parlamentare Einat Wilf,

Se l’apparato di difesa pensa che (…) i finanziamenti a Gaza comprino la calma, si farà tutto il possibile per assicurare che i fondi continuino a fluire, anche se ciò significa che la calma viene acquistata al costo di una guerra che andrà avanti per decenni.

Nel privilegiare la calma, i servizi di sicurezza respingono le misure severe e considerano la vittoria come irraggiungibile.

Questa riluttanza spiega molte altre circostanze, peraltro sorprendenti, riguardanti il governo israeliano, in particolare perché quest’ultimo:

Consente le illegali attività edilizie.
Chiude un occhio sul furto di acqua ed elettricità.
Evita di prendere misure che potrebbero provocare la rabbia della leadership palestinese, come bloccare gli introiti in nero, applicare la legge, diminuire le loro prerogative o punirli.
Si oppone alla de
Non ferma la distruzione dei tesori archeologici del Monte del Tempio.
cisione del governo statunitense di tagliare gli aiuti ai palestinesi.
Rilascia gli assassini condannati e consegna le salme degli assassini.
Consente a Hezbollah di acquisire oltre 100 mila razzi e missili, e poi elabora piani per evacuare 250mila israeliani.
Da decenni incoraggia i finanziamenti all’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei profughi palestinesi (UNRWA).

Queste precauzioni hanno diverse cause.

Innanzitutto, i governi israeliani fondati su coalizioni con molti partner tendono, come afferma Jonathan Spyer, “a evitare di concentrarsi su questioni strategiche a lungo termine, preferendo far fronte alle minacce immediate”. Perché farsi carico di un problema quando si può rimandarne la soluzione?

In secondo luogo, i servizi di sicurezza israeliani sono orgogliosi del dover occuparsi del presente, e non delle astrazioni. Leah Rabin, moglie di Yitzhak Rabin, una volta spiegò così la mentalità del marito: “Era molto pragmatico, odiava occuparsi di una cosa che sarebbe accaduta nel futuro. Pensava solo a cosa sarebbe successo nel presente, in un futuro molto prossimo”. O, come esplicato dall’ordine imperituro di un tenente alle sue truppe: “Proteggete questa zona sino alla fine del vostro turno”.

In terzo luogo, così come la polizia ritiene che i criminali siano degli incorreggibili piantagrane, allo stesso modo i responsabili dei servizi di sicurezza israeliani vedono i palestinesi come nemici simili ad animali. Incapaci di immaginare che i palestinesi possano fare altro che attaccare gli israeliani, essi rifiutano l’obiettivo della vittoria, un po’ come dire: i leoni possono ottenere una vittoria duratura sulle iene? Gli schemi di sicurezza spesso sembrano di sinistra, ma non lo sono. Per questo motivo Commanders for Israel’s Security, un movimento costituito da circa 300 ex generali dell’Idf, che rappresentano l’80 per cento dei responsabili delle forze di sicurezza israeliane, propugna una soluzione dei due stati, quasi il doppio rispetto alla popolazione ebraica israeliana favorevole a tale soluzione.

In quarto luogo, gli schemi di sicurezza in genere ritengono che le attuali circostanze siano accettabili e non vogliono modificarle. L’Autorità palestinese sotto Mahmoud Abbas, nonostante tutte le sue carenze (e contrariamente all’era di Arafat), è un partner. Sì, è vero, l’Ap incita all’uccisione degli israeliani e delegittima lo Stato di Israele, ma meglio tali aggressioni che rischiare di punire Abbas, ridurre la sua autorità e fomentare una intifada. Questo atteggiamento induce a essere diffidenti nei confronti dei cambiamenti, scettici verso un approccio più ambizioso e riluttanti riguardo alle iniziative che potrebbero provocare l’ira palestinese.

In quinto luogo, poiché i palestinesi non dispongono del potere militare, sono visti come criminali e non come soldati; di conseguenza l’Idf da forza militare si è trasformato in una forza di polizia, con tanto di mentalità difensiva. I generali puntano alla vittoria, ma i capi della polizia mirano a tutelare la vita umana. Salvare vite umane si traduce nel considerare la stabilità come un obiettivo in sé. I generali non combattono con l’obiettivo di salvare la vita dei loro soldati, ma è così che un capo della polizia vede uno scontro con i criminali.

In sesto luogo, il Movimento delle Quattro Madri tra il 1997 e il 2000 traumatizzò l’Idf riuscendo a scatenare una forte reazione emotiva contro l’occupazione del sud del Libano, portando a un ignominioso ritiro. Questa enfasi sull’obiettivo di salvare le vite dei soldati anziché sul perseguimento di obiettivi strategici continua a essere una preoccupazione costante per la leadership dell’Idf.

Complessivamente, la principale opposizione alla vittoria di Israele non arriva dalla sinistra, ma dai servizi di sicurezza. Fortunatamente, l’establishment della difesa ha dissidenti che ambiscono alla leadership politica e alla vittoria di Israele. Gershon Hacohen, il quale chiede che i leader politici esprimano giudizi indipendenti, è un buon esempio; Yossi Kuperwasser ne è un altro.

Conclusioni

Tutti coloro che sperano in una soluzione del problema palestinese dovrebbero esortare il governo israeliano a esercitare pressioni sull’Autorità palestinese e su Hamas. Ciò favorisce gli interessi palestinesi, liberando questi ultimi dalla loro ossessione per Israele in modo da poter costruire il loro stato, la loro economia, la società e la cultura. Tutti trarrebbero vantaggio da una vittoria di Israele e da una sconfitta palestinese.

Quando un presidente degli Stati Uniti dà il via libera, il primo ministro israeliano deve agire di conseguenza.

Aggiornamento del 30 agosto 2018: Caroline Glick conferma la mia argomentazione al punto 4 in una mordace analisi su due dei quattro candidati in lizza per ricoprire il ruolo di capo di stato maggiore delle Forze di Difesa israeliane. Yair Golan ritiene che Israele si sia nazificato e Nitzan Alon giustifica i crimini palestinesi, addossando la responsabilità alle provocazioni israeliane.

Aggiornamento del 14 ottobre 2018: Il ministro della Difesa Avigdor Liberman e l’establishment di sicurezza continuano la loro lotta in merito ai rifornimenti a Gaza. Si osservino due titoli del Times of Israel:

Liberman: No fuel or gas will enter Gaza until all violence stops – Liberman: Nessun gas o carburante entrerà a Gaza fino a quando non cesseranno tutte le violenze.
Defense establishment opposed cutting off Gaza fuel – report – L’establishment della Difesa sarebbe contrario a tagliare il carburante a Gaza.

Il sommario del secondo articolo recita così: “Funzionari avrebbero affermato di essere stati colti di sorpresa dalla decisione di Liberman di subordinare tutte le consegne alla cessazione delle violenze, dopo gli scontri di venerdì e gli attacchi alla barriera difensiva”.

Commenti: Sembrerebbe, finalmente, che ci sia una reazione negativa da parte dei fautori dell’Israel Victory Project contro i timidi burocrati.




Israele e Medio Oriente
Un accordo imperfetto
David Elber
19 Agosto 2020

http://www.linformale.eu/un-accordo-imperfetto/

Martedì 18 agosto è apparso sulle pagine del l’Informale un articolo a firma di Daniel Pipes, Sentirsi ottimista nei confronti di Israele e degli Emirati, relativo all’accordo tra Israele e Emirati Arabi Uniti con il patrocinio dell’Amministrazione Trump.

A differenza di altre analisi di Pipes su Israele e il Medio Oriente, questa appare debole nel suo entusiasmo e nel suo ottimismo. Vero è che siamo ancora in una fase preliminare, dove solo alcuni principi generali sono concreti e tutto rimane ancora da costruire tra le delegazioni diplomatiche dei due paesi. Ma alcuni punti si possono già sottolineare prendendo spunto dalla parole di Pipes.

In apertura del suo scritto lo studioso americano afferma: “La dichiarazione si riduce all’impegno di Israele di “sospendere la dichiarazione di sovranità su [parti della Cisgiordania] e concentrare i suoi sforzi sull’espansione dei legami con altri Paesi del mondo arabo e musulmano”. In cambio, gli Emirati Arabi Uniti “hanno concordato la piena normalizzazione delle relazioni” con Israele”.

Sospendere, da parte di Israele, la dichiarazione di sovranità in parti della Cisgiordania, non pare francamente una cosa da poco o come dice Pipes “si riduce all’impegno di…”. Si tratta, a tutti gli effetti, di riconsiderare una posizione di politica interna che può e deve essere presa (o non presa), unicamente dal governo di Israele, dopo un’attenta analisi da parte di tutte le forze politiche israeliane e del suo apparato di sicurezza esercito compreso. Far si che un trattato internazionale sia subordinato alla “sospensione” (che potrebbe essere anche una vera e propria rinuncia) di una decisione, esclusivamente di politica interna crea un precedente pericoloso che in futuro poterebbe condizionare altre importanti decisioni di Israele. Come ad esempio quella su Gerusalemme. E a fronte di che cosa? La piena normalizzazione delle relazioni. Ma se due soggetti sono paritari perché uno dei due deve subire un’ingerenza interna da parte di un soggetto esterno? Se per assurdo fosse Israele a chiedere agli Emirati di riconsiderare una decisione legata al suo territorio per normalizzare le relazioni, che reazione ci sarebbe? Ci sono seri dubbi che si siederebbero attorno ad un tavolo solo per parlarne. La “pace” si contraccambia con la “pace” e non con la “pace” più qualcos’altro da parte di uno dei due soggetti.

Pipes scrive: “Innanzitutto, gli accordi con l’Egitto, con il Libano e con la Giordania hanno sostanzialmente ignorato i palestinesi, ma i leader degli EAU possono puntare a strappare un impegno a Gerusalemme di sospendere i suoi piani di annessione della Cisgiordania”. Di questa affermazione sfugge completamente il vantaggio di Israele che Pipes gli attribuisce. Se nei passati accordi con altri paesi arabi la questione palestinese non ha influenzato il corso delle trattative (vedi accordo con l’Egitto e con la Giordania), oggi per la prima volta gli emiratini hanno “strappato un impegno” a Israele che esula completamente dagli accordi stessi e si inserisce nelle trattative in corso tra Israele e ANP. Si lega, in altre parole, a un trattato bilaterale ad un altro tavolo di trattative con le relative conseguenze. Se questo è stato fin da subito il vero scopo di Benjamin Netanyahu, come sospetta Matt Mainen, la cosa è ancora più grave: avrebbe utilizzato un elemento di sicurezza nazionale (la strategica valle del Giordano) solo come merce di scambio a scopo politico.

Pipes prosegue nella sua analisi riferendosi alla minore opposizione dell’opinione pubblica araba all’accordo: “Inoltre, la vox populi conta poco negli Stati arabi del Golfo Persico come gli Emirati Arabi Uniti, dove la popolazione tende a rimettersi ai loro leader. Come mi ha detto un emiratino, proprio come i pazienti si rimettono al parere dei loro medici, così gli abitanti del Golfo Persico accolgono con favore le decisioni dei loro governanti”. Il principio contenuto in questa frase è in se ineccepibile, ma è fragile: cosa ne sarebbe dell’accordo se negli Emirati ci fosse un cambiamento di regime? Se un’altra famiglia regnante non d’accordo con l’apertura nei confronti di Israele prendesse il controllo del paese? La possibilità che si possa ripetere l’esperienza con l’Egitto di Morsi non può essere esclusa. E’ bene ricordare che se Al-Sissi non avesse rovesciato Morsi con un colpo di stato le cose per Israele sarebbero cambiate radicalmente. Morsi e gran parte degli egiziani (come tutta la fratellanza Musulmana) erano favorevoli al disconoscimento degli Accordi di Camp David. La stessa cosa vale per la Giordania di Abdallah. Ragione per cui la valle del Giordano per nessun motivo deve essere merce di scambio per promesse di aperture diplomatiche.

“Pertanto, i cittadini degli EAU probabilmente accetteranno il riconoscimento dello Stato ebraico in un modo che ad esempio i libanesi non farebbero. Se i precedenti governanti che hanno firmato accordi con Israele non sono riusciti a determinare un più ampio ripensamento, questo non ha importanza negli Emirati Arabi Uniti”. Questo assunto rimane solo una mera ipotesi tutta da dimostrare nei fatti. Tanto è vero che Pipes stesso in precedenza aveva scritto che la vox populi conta poco negli Emirati (come del testo in tutti i paesi arabi). Neanche una volta Pipes prende in considerazione la possibilità di un cambio di regime negli Emirati, e questo significherebbe che l’impegno concreto di Israele (la rinuncia di sovranità) verrebbe vanificato.

Infine: “In terzo luogo, una malsana combinazione di cessioni di terre israeliane e di sussidi statunitensi ha guidato la diplomazia degli accordi precedenti (non considerando l’accordo con il Libano, che non è stato attuato). In un modo o nell’altro, gli accordi equivalevano a grosse tangenti”. Siamo sicuri che non sia così anche oggi? Ovviamente gli Emirati, a differenza di Egitto e Giordania, non hanno bisogno dei soldi americani. Ma se le tangenti di oggi fossero pagabili sotto forma di forniture di armi strategiche come gli F35 o altre dotazioni altrettanto sofisticate? Il rinnovato e forte impegno anti iraniano e anti turco, una volta conclusa la minaccia, cosa lascerà dell’accordo?

“Al contrario, la dichiarazione congiunta di Stati Uniti, Emirati Arabi Uniti e Israele ha una base legittima, senza alcun accenno di subornazione: non contempla alcun ritiro di forze israeliane da un territorio e i contribuenti americani non sborsano soldi. La dichiarazione ha una solida premessa: Gerusalemme rinuncia a un passo simbolico ampiamente condannato e controproducente in cambio dell’accettazione da parte di una potenza regionale emergente”.

Che l’estensione di sovranità sia solo un passo simbolico è difficile da credere che sia un analista preparato come Daniel Pipes ad affermarlo. Se lo fosse non si capisce perché tutto il mondo arabo, l’ONU la UE siano, accanitamente, contrari. E’ invece un passo concreto con il quale si dichiara, da parte di Israele, una volta per tutte la piena titolarità ad un territorio che il diritto internazionale gli ha assegnato con il Mandato di Palestina a partire dal 1920, e messo in discussione dopo l’invasione giordana. Inoltre, che sia “controproducente” è tutto da dimostrare soprattutto ora che anche la Turchia sta diventando un attore primario nell’area (ingerenza su Gerusalemme e finanziamento all’ANP e altri “favori” cose di cui si è trattato qui in un articolo dedicato al tema il 26 gennaio).

In conclusione, tutte le tesi proposte a favore di un accordo che porterà, e tutti ce lo auguriamo, grandi prospettive per Israele e gli Emirati, si scontrano con un fatto concreto: una rinuncia reale: la piena sovranità su parti di Giudea e Samaria (Cisgiordania), che molto probabilmente non troverà più il sostegno americano, a fronte di grandi e future prospettive. Una rinuncia di questo peso a fronte di un accordo che dovrebbe condurre a una cooperazione economica, di intelligence e forse militare. Siamo davvero alla viglia di una reale accettazione di Israele da parte araba? O passata la paura dell’Iran e della Turchia, anche questa diventerà un’altra “pace fredda” come è accaduto con Egitto e Giordania?

Questa è la vera scommessa: puntare sul cambiamento di paradigma arabo nei confronti di Israele – con la sua piena accettazione di legittimità esistenziale – oppure ritrovarsi nei prossimi anni a lottare diplomaticamente in tutte le sedi mondiali per conservare il libero accesso al Kotel per tutti gli ebrei.


Un accordo problematico
David Elber
11 Dicembre 2020

http://www.linformale.eu/un-accordo-problematico/

La notizia dell’ormai prossima apertura delle relazioni diplomatiche ufficiali tra Marocco e Israele è stata salutata da vari commentatori come un autentico miracolo di Hannukà, altri come l’ennesimo prodigio dell’alleanza Trump-Netanyhau prima che l’amministrazione USA cambi casacca in favore del blu democratico dal 20 gennaio 2021.

Ovviamente ci vorrà del tempo per vedere se questo accordo, al pari degli analoghi stipulati con Emirati, Bahrein e Sudan, darà i frutti sperati. Soprattutto se tutti questi accordi sapranno resistere ai cambiamenti politici locali, alle tensioni e ai nuovi assetti che inevitabilmente si presenteranno in Medio Oriente nei prossimi anni. La lezione avuta negli anni novanta dopo il grande entusiasmo seguito agli Accordi di Oslo del 1993-1995 è ancora viva: tutto è naufragato con lo scoppio della Seconda intifada e l’orologio della storia è tornato subito indietro per riprendere la sua corsa solo 20 anni dopo.

Da un lato vogliamo essere ottimisti e pensare che questo sia l’ennesimo passo di un percorso che porterà ad una pace lunga, sentita e duratura. Dall’altro non riusciamo a non rilevare delle forti perplessità.

Sono esattamente le stesse perplessità che avevamo rilevato, in merito agli “Accordi di Abramo”, in vari articoli apparsi in questa sede tra agosto e settembre.

Sembra che il copione sia lo stesso: al mero riconoscimento di Israele da parte di un paese arabo, la contro parte araba ottiene qualcosa di concreto e tangibile: questa volta addirittura la sovranità su tutto il territorio dell’ex colonia spagnola del Sahara Occidentale. La stessa logica si ripete senza sosta: Israele e il suo interlocutore sono su piani diversi, tuttavia, per trovare la quadra uno dei due (immancabilmente la parte araba) ottiene qualcosa di tangibile a fronte di un mero riconoscimento. Manca sempre una reale reciprocità. In questo caso c’è una novità assoluta – nonché un pericoloso precedente – “pace in cambio di terra di terzi”. Cioè il Marocco è disposto a firmare una accordo di pace con Israele solo in cambio del riconoscimento americano della sovranità territoriale del Marocco sull’intero Sahara Occidentale.

Ora, qui non si entrerà nel merito della quarantennale disputa tra la popolazione Sahrawi e il Marocco per ragioni di spazio, ma legalizzare, retroattivamente, il principio di aggressione militare e cambiamento etnico (quello attuato dal Marocco ai danni della popolazione Sahrawi nell’area del Sahara Occidentale che sarebbe dovuto diventare indipendente ma impossibilitato a farlo a causa dell’invasione marocchina) è davvero un precedente che non promette nulla di buono. E’ superfluo dire che contrasta tutti i principi del diritto internazionale.

C’è anche da rilevare che la UE, in modo ufficioso, questo principio l’ha già accettato da tempo: non ha mai condannato l’invasione, non ha mai “etichettato” i prodotti marocchini del Sahara; ha anzi, favorito tale pratica con tariffe doganali agevolate e stabilendo canali commerciali privilegiati.

C’è anche un’altra questione che sarebbe interessante conoscere. Se questo accordo di pace in qualche modo affronta la questione della spoliazione dei beni della popolazione ebraica marocchina (oltre 250.000 persone dovettero abbandonare il paese tra il 1948 e il 1967 lasciando tutti i loro averi). E’ prevista qualche clausola negli accordi? O non se ne fa menzione, e mai se ne farà in futuro per non compromettere le relazioni diplomatiche appena suggellate?



Israele e Medio Oriente
Un accordo imperfetto parte seconda
David Elber
12 Gennaio 2023

http://www.linformale.eu/un-accordo-imp ... e-seconda/

Dopo oltre due anni dalla stipula degli Accordi di Abramo, si può tentare di tirare un primo provvisorio bilancio di questa “storica iniziativa”, come da più parti è stata dipinta con eccessivo entusiasmo. Noi all’ Informale avevamo avuto modo di essere un po’ più dubbiosi sulla reale portata di tali accordi (http://www.linformale.eu/un-accordo-imperfetto/ ).

L’analisi fatta nell’agosto del 2020 si chiudeva così: “…Questa è la vera scommessa: puntare sul cambiamento di paradigma arabo nei confronti di Israele – con la sua piena accettazione di legittimità esistenziale – oppure ritrovarsi nei prossimi anni a lottare diplomaticamente in tutte le sedi mondiali per conservare il libero accesso al Kotel per tutti gli ebrei.”

Ora, la cronaca politica di questo primissimo scorcio di inizio 2023, ci ha fornito già degli spunti degni di riflessione che si ricollegano con le parole sopracitate e ci forniscono degli elementi per riprendere l’analisi fatta due anni orsono.

Il primo episodio è relativo alla votazione tenuta all’Assemblea Generale dell’ONU del 30 dicembre 2022, relativa alla richiesta formulata da questa Assemblea, e votata compattamente da tutti gli Stati arabi, compresi i firmatari degli Accordi di Abramo, alla Corte Internazionale di Giustizia in merito alla legalità dell’”occupazione israeliana dei territori palestinesi compresa Gerusalemme est”. Questo significa che per tutti i paesi arabi indistintamente il Kotel è “territorio palestinese occupato”. Se a questo aggiungiamo che per quanto si è visto fino ad ora, dalla stipula degli accordi di Oslo trenta anni fa, agli ebrei è interdetto il recarsi nei territori “palestinesi liberati” è facilmente desumibile che qualora venisse “liberata” anche quella parte di Gerusalemme, agli ebrei sarà vietato il potersi recare al Kotel con il pieno consenso di tutti i paesi arabi compresi quelli “amici”.

Il secondo punto di riflessione è l’annunciato viaggio del neo premier Netanyahu negli Emirati Uniti, sarebbe stato il primo all’estero del neo premier, ma subito rimandato a tempo da destinarsi per imprecisati problemi logistici. La reale causa del rinvio è stata la “profanazione della Spianata delle moschee” operata dal neo ministro Ben Gvir. Che una semplice visita di un ministro del governo di Israele in un luogo, che per quanto sacro all’Islam, lo è altrettanto per gli ebrei, della capitale del paese di cui egli è un rappresentante governativo sia visto nella migliore delle ipotesi come una “provocazione” e nella peggiore come una “profanazione”, la dice lunga sulla percezione che gli Stati arabi “amici” hanno di Israele. E’ da sottolineare che Ben Gvir si è attenuto alle regole di condotta concordate tra Israele e il Wakf giordano nel corso dei decenni scorsi. Nulla di offensivo o provocatorio è stato compiuto ma è la semplice presenza di un ministro, che si è sempre distinto nel voler affermare la piena sovranità israeliana su Gerusalemme, vista come un crimine. Questi episodi ci confermano tutti i dubbi che avevamo espresso due anni orsono.

Ora proveremo a vedere un po’ più nel dettaglio come si sono sviluppati concretamente i rapporti tra Israele e i firmatari degli Accordi di Abramo: EAU, Bahrein, Marocco e Sudan. Con quest’ultimo paese il rapporto è presto detto: non ci sono scambi commerciali, né culturali o turistici né di altro tipo. Si ha la netta e ragionevole sensazione che il Sudan abbia firmato l’accordo di pace con Israele unicamente perché il Presidente Trump ha promesso, a fronte della firma del trattato, di togliere il Sudan dalla lista dei paesi “canaglia” cioè sponsor del terrorismo. La cosa è ufficialmente avvenuta il 14 dicembre 2020 e da allora non si è mosso più nulla.

EAU

Le relazioni tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti sono senza dubbio le migliori e le più prospere rispetto sia a tutti gli altri paesi firmatari degli Accordi di Abramo, sia rispetto anche a “storici” partner di pace come Egitto e Giordania. Questo come vedremo vale solo dal punto di vista commerciale mentre per il resto il rapporto è similare a quello con altri paesi arabi che hanno relazioni diplomatiche con Israele: scarsa amicizia e alcuni interessi comuni.

Dal punto di vista commerciale, l’interscambio è cresciuto moltissimo dalla firma degli accordi: si è passati, infatti, da circa 200 milioni di dollari fino al 2020, a oltre 1 miliardo e 200 milioni del 2021 e per il 2022 si prevede il superamento dei 2 miliardi di dollari di interscambio. Ad una più attenta analisi dei dati relativi al 2021 si scopre che Israele ha esportato negli Emirati merci e servizi per circa 384 milioni di dollari mentre gli Emirati hanno esportato in Israele per circa 837 milioni di dollari, quindi molto più del doppio (fonte: Abraham Accords Peace Institute e United Nations COMTRADE). Quindi l’accordo è stato senz’altro un buon affare per l’EAU. Si vedranno in futuro i dati relativi al 2022.

Dal punta di vista culturale e turistico, in questi due anni, la relazione tra i due paesi è del tutto asimmetrica: da una parte si registra la presenza di alcune centinaia di migliaia di turisti israeliani nelle maggiori città degli Emirati, mentre la presenza di turisti emiratini in Israele si è limitata a circa 1.600 persone. Due sembrano le cause principali per questa disparità relazionale: la prima e più importante è la percezione ancora molto negativa e ostile della popolazione emiratina nei confronti di Israele. Questo è confermato da uno studio condotto dal Washington Institute polling, dal quale si evince che nel 2020 il 49% della popolazione degli Emirati era contraria agli accordi, mentre alla fine del 2022 la percentuale è aumentata al 67%. Per un altro istituto, il Washington Institute for Near East Policy, le percentuali sono addirittura peggiori: si è passati dal 53% dei contrari del 2020 al 75% del 2022. La seconda causa è l’aperta ostilità dimostra dalla popolazione arabo-israeliana nei confronti dei pochi turisti provenienti dagli Emirati: diversi sono stati i casi registrati di aggressione verbale e fisica a Gerusalemme, oltre a questo c’è stata anche l’aperta condanna da parte del Gran muftì di Gerusalemme, Muhammad Ahmad Hussein per la loro presenza, che li ha accusati di “tradimento”. L’asimmetria dei turisti è confermata anche dall’asimmetria delle visite ufficiali dei ministri dei due paesi nel paese “amico”: rarissimi i ministri dell’Emirato giunti in Israele, numerosi invece quelli israeliani recatisi negli Emirati. Senza dubbio la politica è lo specchio del sentimento della popolazione.

Bahrain

Del tutto analogo a quello con gli Emirati è il rapporto commerciale, politico e culturale tra Israele e il Bahrein con la sola differenza delle cifre: l’interscambio commerciale tra i due paesi è insignificante (nel 2021 ammontava complessivamente a meno di 10 milioni di dollari). Pochissimi i turisti tra i due paesi, con la netta prevalenza di quelli israeliani nel paese del golfo (quelli dal Bahrein sono stati così pochi che non esiste un dato ufficiale), e scarse le relazioni politiche. In Bahrein gioca anche il fatto che la popolazione è meno legata alla casa regnante rispetto agli Emirati (è presente una grande comunità sciita che si oppone ai regnanti). Una ricerca condotta dal Washington Institute polling sul gradimento degli Accordi di Abramo ha indicato una visione positiva nel 45% della popolazione nel 2020, percentuale scesa al 20% nel 2022. In pratica se questa decisione fosse dipesa dalla popolazione non si sarebbe mai raggiunto nessun accordo.

Anche per il Bahrein, come per gli Emirati, si ha la netta sensazione che gli Accordi di Abramo siano soprattutto funzionali in ottica difensiva anti iraniana: c’è l’esigenza da parte delle monarchie del golfo di trovare un alleato che si dimostri più affidabile degli USA in caso di minaccia iraniana. In questa ottica bisogna anche segnalare un riavvicinamento dei paesi del golfo anche alla Turchia e al Qatar con il quale avevano chiuso i rapporti diplomatici.

Passata la paura iraniana rimarrà spazio per l’amicizia con Israele?

Marocco

Forti dubbi furono da noi espressi, all’indomani dell’annuncio dell’accordo di pace tra Israele e il Marocco, sulla premessa stessa alla base dell’accordo (http://www.linformale.eu/un-accordo-problematico/). A distanza di due anni questi dubbi permangono e i dati delle relazioni tra i due paesi li confermano.

Da un punto di vista politico nulla è cambiato: il Marocco, al pari di tutti gli altri paesi arabi, si schiera sempre e incondizionatamente contro Israele in tutti i forum internazionali. Dal punto di vista commerciale, l’interscambio è aumentato nel corso di questi due anni. Nel 2021 Israele ha esportato in Marocco per circa 110 milioni di dollari e il Marocco ha esportato per 113 milioni. Le cifre sono ancora modeste ma in aumento rispetto al periodo pre accordo. L’asimmetria riscontrata con gli Emirati è ancora più marcata con il Marocco (viste le dimensioni del paese e il numero dei suoi abitanti): oltre 40.000 gli israeliani che si sono recati nel paese nordafricano, solamente 500 i turisti marocchini in Israele. Questo vale anche per le visite ufficiali dei ministri. Mentre per quel che concerne il sentimento della popolazione, secondo un sondaggio effettuato dall’istituto Arab Barometer, solo il 31% dei marocchini si è dichiarato favorevole alla sigla dell’accordo di pace.

Per adesso rimaniamo della convinzione che gli Accordi di Abramo si siano sviluppati nella falsariga degli accordi di pace con l’Egitto e la Giordania: accordi volti ad accontentare il grande finanziatore degli stessi, gli USA; ma ben poco amichevoli e di rispetto da parte di Egitto e Giordania. Vedremo cosa porterà il futuro quando Emirati e Bahrein percepiranno l’Iran come una minaccia non più pericolosa. Per adesso si registra solo molta più ingerenza da parte loro nelle questioni interne di Israele ben poco compensata da vantaggi economici, politici e culturali di cui usufruiscono.

Crescenzo Persico
certo che non va bene , anzi per niente bene . perche ??? ma perche come da 70 ANNI A QUESTA PARTE lascia il NODO DI GORDIO sempre li dove è sempre stato , ovvero legittima i palestinesi come nazione e come popolo . ed è proprio questo l'errore storico di israele commesso iterato e reiterato una infinita di volte . sempre lo stessso . un esempio per tutti ; gli accordi di pace con l'egitto in cui si lasciava intatto il problema palestinista , certo pensavano i presuntuosi dirigenti di israele , eliminato l'egitto dalla lista dei nemici avrebbero risolto i loro problemi . che idioti . quel problema è sempre li e si ingigantisce sempre di piu ; eliminato lo sceicci jassin evviva abbiamo vinto la guerra , ed invece no , abbiano il mondo intero che arde di passione per i palestinesi . ma quale sarebbe questa soluzione ??? una volta e per tutte LA TOTALE DECOSTRUZIONE DELL'ARTEFATTO PALESTINISTA , ovvero il riconoscimento da parte del mondo arabo che quella palestinese fu un artefatto messo li come arma per la distruzione di israele . le nazioni arabe a partire dagli arabi che contano , ovvero i sauditi devono dichiarare che QUELLA GUERRA NON C'è PIU , è FINITA . solo in questo modo la guerra finisce , altrimenti si avranno solo delle tregue, in attesa di tempi peggiori : una occasio cortes alla casa bianca ed una ilan omar alla segreteria di stato, ovviamente con il fervente appoggio pieno ed incondizionato della comunita ebraica americana , OVVIAMENTE . attenzione la cosidetta causa palestinese è una minaccia anche per i paesi arabi . questa tesi è da sbattere in faccia ai paesi arabi , perche in un eventuale conflitto tra israele e gaza si potrebbero accendere le piazze arabe destabilizzando quei regimi , storia docet . RIATTENZIONE senza l'appoggio usa israele è niente . allora???? vi è una convergenza di interessi , vediamoli un interesse degli usa a tenere il fronte dei paesi arabi tranquilli e lontano da quelle rivolte che ciclicamente lo atteaversano , un interesse dei paesi arabi a cominciare da quelli che contano per gli stessi motivi , ed infine un interesse di israele che dovrebbe vedere riconosciuto i suoi inconfutabili diritti su tutti suoi territori a cominciare da judea , samaria e gerusalemme . P.S. la mosche di al aqsa appartiene ai sauditi , la smontino e se la riportino a jedda o dove meglio credono . se i sauditi non possono andare ad al aqsa , allora al aqsa va dai sauditi .
Prima l'uomo poi caso mai anche gli idoli e solo quelli che favoriscono la vita e non la morte; Dio invece è un'altra cosa sia dall'uomo che dai suoi idoli.
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Re: Dalla parte degli ebrei e di Israele che è la loro terra

Messaggioda Berto » ven feb 17, 2023 10:30 pm

Daniel Pipes illustra in che modo Israele può vincere il conflitto palestinese
Daniel Pipes
17 Gennaio 2023

http://www.linformale.eu/daniel-pipes-i ... lestinese/


Questa intervista di Seth J. Frantzman con Daniel Pipes è apparsa originariamente sul Jerusalem Post e quindi sul Middle East Forum. Pubblichiamo qui la seconda versione.
(N.d.R)
Traduzione di Angelita La Spada

Con l’insediamento del nuovo governo israeliano, il Paese si trova di fronte a un bivio. Dopo un anno e mezzo di governo radicato nel centro-Sinistra, è salita al potere una coalizione di Destra guidata da Benjamin Netanyahu.
Netanyahu ha guidato Israele in passato, pertanto, il Paese potrebbe finire per perseguire le stesse politiche adottate in passato. Tuttavia, c’è anche la possibilità per Israele di compiere nuovi passi che cambierebbero la sua traiettoria a lungo termine e anche quella dei palestinesi.
A tal fine, lo storico americano Daniel Pipes, presidente del Middle East Forum sin dalla sua fondazione nel 1994, sta lavorando a un libro sul conflitto israelo-palestinese. Di recente, Pipes si è recato in Israele per incontrare figure chiave e anche per discutere la sua visione della vittoria di Israele nell’attuale conflitto.

Per quale motivo si trova a Gerusalemme?
Sei mesi fa ho incontrato un editore che mi ha suggerito di scrivere un libro sulla fine del conflitto israelo-palestinese. Come avrei potuto rifiutare? Ho iniziato a scriverlo a fine settembre e spero di ultimarlo entro l’anno. Attualmente, sono in Israele per chiedere a una serie di persone quali sono i punti di vista israeliani su questo argomento.

Qual è il suo punto di vista?
Penso che una giusta risoluzione del conflitto comporti che i palestinesi perdano la speranza. Solo quando essi rinunceranno al loro obiettivo bellico di eliminare Israele, il conflitto avrà fine. Israele deve vincere e i palestinesi devono perdere. Questa tesi può sorprendere perché contraddice puntualmente il presupposto degli Accordi di Oslo che promuove non la vittoria, ma un’idea di speranza e di compromesso palestinese che teorizza che i bei appartamenti, le auto di ultimo modello, le scuole prestigiose e un’eccellente assistenza medica conferirebbero prosperità ai palestinesi, de-radicalizzandoli e rendendoli veri partner per la pace. Ma, quasi trent’anni dopo, tutti i sondaggi e le innumerevoli prove aneddotiche indicano che la maggior parte dei palestinesi continua ad accarezzare l’idea di eliminare lo Stato ebraico. Questo obiettivo va contrastato facendoglielo abbandonare, e non infondendo speranza. Ciò calza uno schema generale, secondo cui le guerre cercano di togliere ogni speranza al nemico.

Ma il processo di Oslo non è defunto da tempo?
Sì, gli Accordi di Oslo sono stati screditati e quasi dimenticati, esecrati tanto dai palestinesi quanto dagli israeliani. Nonostante ciò, il loro obiettivo principale di arricchire i palestinesi rimane molto vivo. Ad esempio, il piano Trump intitolato “Dalla pace alla prosperità” offre ai palestinesi 50 miliardi di dollari in cambio del fatto che lascino in pace Israele. Ho appena incontrato Avigdor Liberman e anche lui ha detto di voler “rimpiazzare il jihad con la prosperità” e trasformare Gaza nella “Singapore del Medio Oriente”. Lo stesso approccio si estende anche agli Stati arabi, come dimostrato dalla recente firma da parte di Israele di un generoso accordo sulla definizione dei confini marittimi con il Libano.

Cosa c’è di sbagliato?
La generosità verso i nemici è contraria alla storia e al buon senso. Storicamente, i nemici si sono assediati e si sono fatti morire di fame a vicenda, impedendo i rifornimenti di cibo, di acqua e di beni materiali: questa tattica prosegue ancor oggi con la rottura dei rapporti economici con la Corea del Nord, la Russia e con altri Stati canaglia. Il buon senso lo conferma, perché una rissa a scuola continua fino a quando una parte non si arrende. L’approccio tradizionale alla guerra cerca ragionevolmente di sconfiggere il nemico, e non di coccolarlo.

Ma Israele non aveva già sconfitto i suoi nemici nella Guerra dei Sei Giorni del 1967?
Alcuni di loro, sì. Quella straordinaria vittoria sul campo di battaglia, forse la più grande mai registrata nella storia umana, mozzò il fiato ai Paesi arabi, che subito dopo deposero in gran parte le armi contro Israele. Ma mentre gli Stati arabi si ritiravano, i palestinesi presero il loro posto. Sebbene i palestinesi siano oggettivamente molto più deboli di quegli Stati, privi di forza militare o economica, si sono dimostrati molto più decisi nel raggiungere i propri scopi; per loro, eliminare Israele è una questione di identità.

In cosa consiste la guerra palestinese contro Israele?
Questa guerra inizia con la politica del rifiuto, il rifiuto palestinese di accettare tutto ciò che riguarda l’Ebraismo, gli ebrei, il sionismo o Israele in Eretz Israel. Questa ideologia è nata un secolo fa con il leader palestinese Amin al-Husseini. Sebbene la politica del rifiuto si sia evoluta ed in qualche modo si sia frammentata, permane il consenso palestinese e la tensione dominante della politica palestinese. L’Autorità Palestinese e Hamas hanno tattiche e risorse umane differenti, ma condividono il loro obiettivo, che è quello di eliminare lo Stato ebraico. Questo spiega l’inefficacia delle numerose concessioni israeliane. Attualmente, la politica del rifiuto ha due fronti: il violento campo di battaglia fatto di attentati condotti con veicoli lanciati sulla folla, di accoltellamenti, di sparatorie e di attentati dinamitardi, e il campo di battaglia politico costituito dalla delegittimazione attraverso l’istruzione, il lobbismo e il Movimento per il Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS). L’analista strategico israeliano Efraim Inbar, il quale si è esclusivamente focalizzato sulla violenza, definisce i palestinesi un “fastidio strategico”. Ma questa definizione ignora l’ampio sostegno nei loro confronti, soprattutto fra i musulmani e la Sinistra. Si pensi all’Iran, alla Turchia, a Jeremy Corbyn, a Bernie Sanders e all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. La delegittimazione è pericolosa e crescente ed è di questo problema che cercherò di parlare.

Quali sono le differenze tra l’ostilità musulmana e quella della Sinistra?
Mentre l’ostilità musulmana verso Israele si oppone prettamente all’esistenza stessa di uno Stato ebraico, l’ostilità della Sinistra è basata in modo molto più restrittivo sulla Cisgiordania, su Gaza e su Gerusalemme. Ciò che conta di più per la Sinistra sono le condizioni degli abitanti di queste tre regioni geografiche e non questioni come la corsa al nucleare dell’Iran, i rapporti fra askenaziti e sefarditi, il prezzo del formaggio fresco o lo status dei cittadini musulmani di Israele. Puntualmente, sono più importanti la Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme. La grande macchina pubblicitaria palestinese ha trasformato un problema globalmente minore in una questione estremamente importante. Israele fa fronte a una serie esclusiva di minacce che possono essere suddivise in sei tipi: armi di distruzione di massa, guerra convenzionale, conflitto a bassa intensità (o terrorismo), demografia, economia e delegittimazione. Sorprendentemente, Israele ha eliminato efficacemente le quattro minacce intermedie che ho menzionato, ma deve ancora affrontare il pericolo delle armi di distruzione di massa e della delegittimazione. La delegittimazione – e pertanto, i palestinesi – minaccia Israele non meno della proliferazione nucleare iraniana.

Come dovrebbe rispondere Israele alla delegittimazione?
Rendendola prioritaria quanto lo è violenza, riconoscendo che la politica del rifiuto non svanirà da sola, ma deve essere superata. Negli ultimi trent’anni, i governi israeliani hanno clamorosamente fallito. Dal 1993 al 2000 hanno attuato una politica di appeasement all’insegna del “vi daremo ciò che volete e voi ve ne starete tranquilli”. Poi è seguita, dal 2000 al 2007, una politica ancora più rovinosa dei ritiri unilaterali. Dopo di che, e fino ai giorni nostri, è arrivata la politica della non-politica, che consiste nel limitarsi a spegnere gli incendi. Attualmente, non c’è altro obiettivo che “falciare l’erba” o sperare di rimandare il combattimento per qualche anno. Questo, ovviamente, non basta. La politica corretta è quella di convincere gli abitanti della Cisgiordania, di Gaza e i residenti musulmani di Gerusalemme che Israele è forte e permanente, che hanno perso e dovrebbero rinunciare alla guerra contro Israele. L’obiettivo è sempre quello di costringerli ad abbandonare l’idea di eliminare lo Stato ebraico di Israele.Una volta che i palestinesi accetteranno questa realtà, anche loro ne guadagneranno, forse anche più degli israeliani. Liberatisi dalla loro ossessione irredentista, possono sfuggire alla situazione di povertà e oppressione in cui versano per costruire il loro sistema politico, la loro economia, la società e la cultura.

Le due parti non possono prosperare senza essere sconfitte, come nel caso dell’Irlanda del Nord?
È completamente diverso, perché in Irlanda del Nord tutti sono cittadini britannici. Un governo democratico non può sconfiggere la propria popolazione. Parallelamente, Israele non può sconfiggere i suoi cittadini musulmani.

I palestinesi non sono stati in gran parte sconfitti nella Seconda Intifada?
Sì, è vero, Israele ha tenuto sotto controllo quell’ondata di violenza. Ma farlo non ha portato a una sensazione di sconfitta, ma soltanto a un cambio di tattica. Yasser Arafat fece affidamento sulla violenza per abbattere il morale degli israeliani, per indurli a emigrare e a porre fine agli investimenti stranieri; Mahmoud Abbas non ha posto fine alla violenza quando è salito al potere nel 2004, ma ha focalizzato l’attenzione sulla delegittimazione internazionale di Israele, si rammenti la sua riprovevole affermazione fatta in Germania sul fatto che i palestinesi abbiano subito “50 olocausti”. Questa campagna sta andando bene, diffondendo l’antisionismo.

Tutti i palestinesi condividono la politica del rifiuto di Amin al-Husseini?
No. Sebbene tale politica abbia dominato per un secolo, circa un quinto dei palestinesi in tutto quel periodo si è opposto e ha fornito a Israele una serie di servizi. In Army of Shadows: Palestinian Collaboration with Zionism, 1917–1948, Hillel Cohen mostra l’importanza cruciale dell’aiuto offerto dai palestinesi all’Yishuv (la comunità ebraica in Eretz Israel prima della fondazione dello Stato di Israele): fornivano manodopera, commerciavano, vendevano terra, vendevano armi, consegnavano beni statali, fornivano informazioni sulle forze nemiche, diffondevano voci e dissensi, convincevano altri palestinesi ad arrendersi, combattevano i nemici dell’Yishuv e operavano persino dietro le linee nemiche. Cohen non lo dice, ma io sì: Israele non sarebbe nato senza l’aiuto dei palestinesi collaborativi. Ma erano e sono tuttora una minoranza, sono sempre stati e sono tuttora minacciati.

Che ne pensa del nuovo governo: il primo ministro entrante Netanyahu non crede nella forza?
Sì, ci crede, ma la forza non è sinonimo di vittoria. Gli ho parlato della vittoria di Israele e si è detto favorevole, senza però adottare l’idea. Lo capisco: Israele è oggetto di critiche costanti; se si ottenesse la vittoria di Israele sorgerebbero più problemi a breve termine. Pertanto, è più facile temporeggiare e continuare con lo status quo impiegando le forze di sicurezza per mantenere la calma, dispiegandole più come una forza di polizia che come una forza militare. La polizia non aspira alla vittoria, ma alla calma, non mira a distruggere proprietà né a causare danni alle persone.

E gli altri membri del nuovo governo?
Sto imparando a conoscere i nuovi uomini di potere. A mio avviso, il loro obiettivo non è vincere, ma la loro attenzione è rivolta a due idee pessime: Bezalel Smotrich vuole annettere l’intera Cisgiordania e Itamar Ben-Gvir vuole espellerne la popolazione palestinese. L’annessione significa aggiungere un paio di milioni di cittadini palestinesi di Israele o mantenerli in una posizione subordinata, due ricette per il disastro. L’impulso kahanista di espellere i palestinesi non solo non risolve nulla, ma crea molti nuovi problemi. Gli espulsi sono maggiormente dediti alla distruzione di Israele. La rabbia infuria in seno a Israele, fra gli ebrei della diaspora e nel mondo esterno in generale. Non si vince una guerra annettendo o spostando i nemici. Si vince imponendo loro la propria volontà.

Lei accetta la soluzione dei due Stati?
Sì, questa è la soluzione meno cattiva a lungo termine. Ma sottolineo a lungo termine. Può accadere soltanto dopo che i palestinesi avranno rinunciato alla loro guerra contro Israele, dopo un lungo periodo in cui gli ebrei che vivono a Hebron non affronteranno più pericoli di quelli che devono affrontare i musulmani che vivono a Nazareth; e quando Israele è solo un altro membro delle Nazioni Unite. Finché non arriverà quel giorno fausto ma lontano, preferirei che la Giordania governasse la Cisgiordania e l’Egitto Gaza.

Gli Accordi di Abramo e l’attenzione sull’Ucraina e sulla Cina cambiano le cose?
Non proprio. Gli Accordi di Abramo sono formidabili, sia di per sé sia perché hanno indotto Netanyahu nel 2020 ad abbandonare il suo piano di annettere parti della Cisgiordania. L’Ucraina e la Cina abbassano i riflettori sul conflitto israelo-palestinese, il che è comunque una buona cosa. Ma le fiorenti relazioni di Israele con gli Emirati Arabi Uniti e altri Stati difficilmente sminuiscono la campagna palestinese di delegittimazione. Ed ogni volta che l’Autorità Palestinese o Hamas vogliono tornare sotto i riflettori, lo faranno immediatamente.

Israele in che modo dovrebbe gestire l’attenzione internazionale?
Riconoscendola come un dato di fatto e trovando il modo per affrontarla. Quando Hamas decide di lanciare missili su Israele, sa che verrà colpito militarmente, ma che otterrà il sostegno politico internazionale. Allo stesso modo, Israele sa che verrà colpito a livello internazionale, quindi dovrebbe approfittare della crisi per inviare un messaggio molto forte alla popolazione di Gaza che ha perso la guerra. In definitiva, la copertura mediatica conta meno della vittoria sul campo.

In pratica, come vince Israele?
Preferisco porre la vittoria di Israele come obiettivo politico, senza entrare nei dettagli strategici e tattici. Innanzitutto, è prematuro entrare nello specifico. In secondo luogo, approfondire questi argomenti distoglie l’attenzione dall’intento di stabilire l’obiettivo politico. Detto questo, Israele ha una straordinaria serie di leve grazie alla sua forza di gran lunga superiore a quella palestinese, e non solo militare ed economica. Un esempio creativo: il principe ereditario saudita Mohammad bin Salman probabilmente vorrebbe aggiungere al-Aqsa alla sua collezione di luoghi sacri dell’Islam, specialmente in un momento in cui Teheran sfida il controllo saudita della Mecca e di Medina. Perché Israele non avvia negoziati con Riad su questo argomento, offrendo il fiore all’occhiello dell’Autorità Palestinese in cambio di piene relazioni diplomatiche e di un cambiamento nello status quo sul Monte del Tempio?

Israele può sconfiggere Hamas senza rioccupare Gaza?
Torno a ripetere che preferisco non discutere di strategie e tattiche ma, come mi si chiede, eccone una: Israele dichiara che un solo attacco missilistico da Gaza comporta la chiusura del confine di un giorno; pertanto, acqua, cibo, farmaci o carburante non possono arrivare a Gaza. Il lancio di due missili comporterà la chiusura di due giorni e così via. Garantisco che questo migliorerebbe rapidamente il comportamento di Hamas.

Israele deve sconfiggere anche i sostenitori di Sinistra dei palestinesi?
Ovviamente, no. Inoltre, sarebbe impossibile. Ma non è nemmeno necessario, perché sono semplici seguaci. Immagini che i palestinesi riconoscano la loro sconfitta e accettino davvero lo Stato ebraico: questo toglierebbe il terreno da sotto i piedi all’antisionismo di Sinistra. È difficile mantenere una posizione più cattolica di quella del Papa. Israele è fortunato che il suo principale nemico sia così piccolo e così debole.

Con il passare del tempo l’accettazione di Israele da parte dei palestinesi crescerà?
L’ex ministro Yuval Steinitz mi ha appena detto che il 75 per cento dei palestinesi è arrivato ad accettare l’esistenza dello Stato di Israele e vive una vita normale, ma io ne dubito. Un recente sondaggio condotto dal Palestinian Center for Policy and Survey Research ha rilevato che il “72 per cento dell’opinione pubblica (l’84 per cento nella Striscia di Gaza e il 65 per cento in Cisgiordania) afferma di essere favorevole alla formazione di gruppi armati come “Lion’s Den” che non prendono ordini dall’AP e non fanno parte dei servizi di sicurezza dell’Autorità Palestinese; il 22 per cento è contrario”. Sì, c’è una calma generale. Nell’albergo dove ci incontriamo, il Dan Jerusalem Hotel, sul Monte Scopus, il personale palestinese svolge tranquillamente il proprio lavoro e non accoltella nessuno. Ma in tempo di crisi, ad esempio, nel caso di un attacco missilistico di Hamas, eviterei di soggiornare in questo albergo o nella maggior parte degli altri hotel di Gerusalemme.

La precedente leadership israeliana sembra accettare l’idea di Micah Goodman di “ridurre il conflitto”, anche lei?
No. Lo vedo solo come uno dei tanti tentativi fatti finora per perfezionare il difficile lavoro di ottenere la vittoria. Tra le idee precedenti figuravano l’espulsione dei palestinesi con la forza o di loro volontà, lo schema secondo il quale la Giordania è la Palestina, la costruzione di nuovi muri di recinzione, la creazione di una nuova leadership palestinese, la richiesta di una buona governance, l’attuazione della Road Map, il finanziamento di un Piano Marshall, l’imposizione di un’amministrazione fiduciaria, l’istituzione di forze di sicurezza congiunte, la divisione del Monte del Tempio [in spazi separati per ebrei e musulmani, N.d.T.], la locazione di terreni, il ritiro unilaterale e così via. Niente di tutto questo ha funzionato e niente funzionerà. La sconfitta e la vittoria rimangono imperative.

La caduta della Repubblica islamica dell’Iran aiuterebbe?
Sì, il cambio di regime in Iran avrebbe ampie implicazioni per il Medio Oriente, ma non tanto per la guerra palestinese contro Israele. Il crollo politico dei mullah non porrà fine alla convinzione dei palestinesi che la politica del rifiuto funziona, che prevarrà la “rivoluzione fino alla vittoria”, che possono eliminare lo Stato ebraico. Israele non può delegare la vittoria.
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Messaggioda Berto » ven feb 17, 2023 10:30 pm

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